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Francia, Pasquino: “Rivincerà Macron. Boom antipolitico? Fa bene a Fratoianni” #intervista @Affaritaliani

Intervista al professore emerito di Scienza politica: “Se ci saranno scossoni per il governo, non verranno certo dalla Francia” di Paola Alagia

Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza politica: “Nessuna influenza sui partiti di destra in Italia perché Le Pen perderà, Zemmour è andato piuttosto male e Mélenchon, casomai, è antisistema di sinistra. Da noi, quindi, dovrebbe ringalluzzire piuttosto Fratoianni”

I francesi hanno archiviato il primo turno delle presidenziali. L’esito della sfida tra Emmanuel Macron e Marine Le Pen è rimandato ai ballottaggi tra due settimane. E’ vero che l’attuale inquilino dell’Eliseo è in vantaggio, ma è altrettanto evidente che il consenso raccolto dal fronte dei partiti antisistema, da Le Pen all’estrema destra di Eric Zemmour, alla sinistra di Jean-Luc Mélenchon, sommati agli altri meno rappresentativi, ha superato la soglia del 50%. Quanto basta, soprattutto dopo la vittoria di Orban in Ungheria, per ringalluzzire i partiti di destra in Italia, a cominciare dalla Lega di Salvini? Affaritaliani.it lo ha chiesto a Gianfranco Pasquino. Il professore emerito di Scienza politica non ha dubbi al riguardo: “Nessuna influenza perché sostanzialmente Le Pen perderà, Zemmour è andato piuttosto male e Mélenchon, casomai, è antisistema di sinistra. Da noi, quindi, dovrebbe ringalluzzire piuttosto Fratoianni”.

Professore, la partita comunque rimane aperta e il dato dell’elettorato antisistema significherà qualcosa. Che ne pensa?
E invece no. La partita non è aperta. È assolutamente poco aperta, direi quasi chiusa. A favore di Macron.

Spostiamoci in Italia. Lei, dunque, guardando al governo Draghi escluderebbe fibrillazioni come riflesso del voto francese? Mi riferisco alla tentazione del voto per esempio da parte della Lega che potrebbe portare Salvini ad abbandonare la maggioranza.
Non possiamo trascurare un elemento saliente e cioè che l’elettore è sufficientemente intelligente da capire che vota per il Parlamento italiano e quindi guarda i dati francesi con sufficienza. Da noi i cittadini, questo sì, sarebbero molto più preoccupati se Le Pen fosse in testa e Zemmour fosse andato molto bene. Comunque, i voti francesi sono francesi, punto. E quando voteremo a febbraio-marzo del 2023 saranno ampiamenti dimenticati.

Conclusione: nessuno scossone. E’ così?
Gli scossoni non vengono dalla Francia. Se ci saranno è perché ce li daremo noi da soli.

Soffermiamoci un attimo su Giorgia Meloni e Marine Le Pen. E’ vero che la leader di FdI non ha voluto un gruppo unico con quello di Salvini e Le Pen. Tuttavia, c’è qualche similitudine nella parabole di queste due donne?
La prima similitudine è appunto che sono due donne, la seconda è che sono due donne di destra che si sono fatte in qualche modo da sé, anche se Le Pen ha avuto un vantaggio, suo padre, rispetto a Giorgia Meloni. Dopodiché rappresentano due tipi di nazionalismo, ma quello francese è sempre stato molto aggressivo. A eccezione dell’aggressività ai tempi del fascismo, invece, Meloni ha saputo distaccarsene, ha usato anche le parole giuste, patriota invece che nazionalista. E comunque poi a fare la differenza è il sistema elettorale: nella Repubblica semipresidenziale francese, infatti, Le Pen convoglia i consensi su di sé.

Nel campo del centrosinistra italiano, da un lato c’è il segretario del Pd Enrico Letta che ha parlato apertamente di rischio terremoto per l’Europa e impatto sull’Italia, in caso di vittoria di Marine Le Pen. Dall’altro c’è il leader del M5s Giuseppe Conte che, invece, al netto delle differenti visioni ha sottolineato la vicinanza rispetto ad alcuni temi posti. Cosa raccontano queste sfumature?
Conte non conosce abbastanza la politica e quindi quando si esprime su argomenti che non conosce dice cose che sono sbagliate. Tutto qui.

E’ vero pure che la questione del potere d’acquisto è sentita anche in Italia. Così come è abbastanza conclamata una distanza tra i partiti di sinistra e il loro storico elettorato, non le pare?
La sinistra che non ottiene i consensi a sinistra? Non lo so. Qui il problema è a monte: dovremmo definire bene cosa sia la sinistra. Quali sono i suoi temi? Le classi popolari non hanno solo problemi economici, ma anche culturali, a cominciare dall’accoglienza, che prescinde da quella dei profughi ucraini. Una questione, appunto, che la sinistra ha affrontato malamente. C’è un multiculturalismo inadeguato e questo ha allontanato alcuni elettori.

Pubblicato il 11 aprile 2022 su Affaritaliani.it

Draghi, Pasquino ad Affari:”Il M5S stia nel governo. Al lavoro con i Dem-Leu” #intervista @Affaritaliani

Il celebre politologo sui mal di pancia dei 5S: “Cerchino con intelligenza di influenzare le scelte politiche del governo Draghi. Star fuori è scelta sbagliata”

Intervista raccolta da Carlo Patrignani

Il nuovo governo di Mario Draghi, colui che ha salvato l’euro e l’Europa, ha da usare e gestire i 209 miliardi del Recovery Plan: è questa una grossa opportunità e insieme una speranza per il rilancio del Paese, messo in ginocchio dalla pandemia Covid19. Molto dipenderà dalle capacità non solo di Draghi, ma di Colao e di Cingolani di sfruttare al meglio quest’occasione. E’ l’opinione del politologo Gianfranco Pasquino che si dice “relativamente ottimista” sulla possibilità del nuovo governo di poter centrare l’ambizioso obiettivo. Professore emerito di Scienza Politica all’Università di Bologna ed Accademico dei Lincei, il politologo ha alle spalle anche la preziosa esperienza di senatore della Repubblica che gli consente analisi più approfondite. 

“C’è stata una assordante campagna di stampa, in modo particolare da parte dei giornaloni, nell’invocare Draghi come ‘il salvatore dell’Italia’, appunto dopo aver salvato l’euro e con esso l’Europa, mentre il governo Conte – osserva Pasquino – stava facendo bene, andava nella giusta direzione”. Fatta questa osservazione dovuta, “Draghi – sottolinea il politologo – ha un suo percorso preciso, ma dalla sua ha uno sponsor politico chiaro, autorevole, come il Presidente della Repubblica, Mattarella, che, non v’è dubbio, saprà consigliarlo al meglio in questo passaggio delicatissimo”.

Come dire, pur se Draghi ha sempre operato nel mondo delle banche e della finanza, fino alla presidenza della Bce, “forse potrà essere meno keynesiano del suo maestro Caffe’, forse non avrà sufficiente esperienza politica, però – evidenzia Pasquino – non è un salvatore della Patria, ma è tutt’altro che sprovveduto e saprà essere all’altezza del compito affidatogli dal Presidente della Repubblica“.

Insomma, attorno al neo premier troppi sperticati, eccessivi elogi non richiesti: una enfasi sopra le righe. “Sono relativamente ottimista”, ribadisce Pasquino rispetto all’irripetibile opportunità di rilancio del Paese grazie ai 209 miliardi del Recovery Plan. Eppure dopo il pronunciamento favorevole al nuovo governo di tutte le forze presenti in Parlamento, ad eccezione di Fdl, ci sono fermenti dentro il M5S sul voto di fiducia per la composizione della compagine governativa e sulla distribuzione dei ministeri. 

“Mi pare che il M5S si sia pronunciato, abbia già votato e la maggioranza ha scelto di dare il via alla formazione del governo Draghi di cui farà parte – evidenzia Pasquino – Ora lavori bene e cerchi con intelligenza di influenzarne le scelte politiche, quali politiche fare. Star fuori dal governo è, per me, una scelta sbagliata”. Tanto più che in ballo c’è ancora la possibilità di una alleanza più o meno strutturale con Pd e Leu.

“Certamente l’esperienza accumulata con il governo Conte non va dispersa, anzi va rafforzata dal momento che anche Pd e Leu fanno parte del governo che – nota Pasquino – dovrà metter mano alla legge elettorale: occasione per formulare proposte magari comuni“. Poi in primavera ci sono importanti test amministrativi, in grandi città: occasione per dar vita ad alleanze elettorali.

“Si tratta di tanti passaggi importanti – conclude Pasquino – sui quali lavorare, non solo il Recovery Plan, ma la legge elettorale, la lotta alla pandemia, il piano vaccinazioni, per proseguire e migliorare l’esperienza realizzata con il governo Conte“. E con un occhio alla prossima tornata elettorale. I voti contano. Contare tanti voti serve.

Pubblicato il 14 febbraio su affaritaliani.it

La crisi si risolverà con un Conte ter. A sinistra sta nascendo un nuovo polo #intervista @Affaritaliani

Intervista raccolta da Carlo Patrignani

“Lo sbocco più realistico alla crisi di governo sulla quale sta lavorando il Presidente della Camera, Roberto Fico, è senz’altro un Conte-ter: e spero con il Ministero dell’Economia ancora nelle mani del ministro Roberto Gualtieri per le sue indubbie qualità e la buona reputazione di cui gode nell’Unione Europea: sarebbe un gravissimo errore sostituirlo”.

A parlare è Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza Politica all’Università di Bologna, Accademico dei Lincei ed ex-senatore della Repubblica, per il quale l’ipotesi di un governo ‘tecnico’ affidato a Mario Draghi “non esiste nei fatti, il suo coinvolgimento è un fatto mai avvenuto”.

Dunque la via d’uscita possibile è un nuovo governo con Giuseppe Conte Premier, con “un nuovo programma in via di definizione e – osserva il politologo – possibilmente con Luigi Di Maio ministro degli Esteri e con Roberto Speranza alla Salute e naturalmente, dopo le tante bugie di Renzi di non tenere alle poltrone, con altri ministeri per Iv così da poter ricompensare i suoi”.

Certo il cammino del nuovo esecutivo, una volta definito il programma e la sua composizione ministeriale, non sarà facile, non sarà tutto rose e fiori: “l’affidabilità di Renzi è tutta da verificare – avverte Pasquino – fermo restando che dei voti di Iv non si può fare a meno. Del resto i governi di coalizione dipendono dalla lealtà dei contraenti”.

L’asse Pd-M5S-Leu tutto sommato pare aver retto bene all’onda d’urto di Renzi e potrebbe, da questa esperienza, anche configurarsi come polo per una alleanza futura. “Lo si vedrà, ma molto dipende dalla legge elettorale”. Ultima considerazione: il Governo Conte non è stato sfiduciato dalle Camere quindi secondo la Costituzione il Premier non era obbligato a dimettersi.

“Certo le dimissioni non erano dovute: purtroppo al Senato aveva una maggioranza semplice assai friabile e precaria nei numeri per cui le dimissioni sono state un atto nobile dal momento che il Presidente della Repubblica voleva una maggioranza significativa, operativa”.

E proprio perché non è sfiduciato potrebbe essere il ‘governo-ponte’ fino al semestre bianco? “Con l’incarico al Presidente della Camera di esploratore siamo andati abbastanza avanti – conclude Pasquino – ed in prossimità, me lo auguro, dello sbocco più realistico: il Conte-ter”.

Pubblicato il 1° febbraio 2021 su affaritaliani.it

Insufficienti i 156 voti del Senato. Legittimo rafforzare la maggioranza #intervista @Affaritaliani

Intervista raccolta da Carlo Patrignani

Se dovesse formarsi un gruppo soprattutto al Senato a sostegno dell’attuale governo giallorosa presieduto da Giuseppe Conte, che ha operato relativamente bene, sarei certamente favorevole.” A questo approda l’analisi del politologo Gianfranco Pasquino, Professore Emerito di Scienza Politica all’Università di Bologna e Accademico dei Lincei, all’indomani del voto sulla fiducia per la crisi provocata da Matteo Renzi e Italia viva, in un momento particolarmente difficile per il Paese dato il combinato pandemia da Covid 19 e crisi economico-sociale.

Dal voto sulla fiducia, non tanto alla Camera dove l’esecutivo ha la maggioranza assoluta (361), quanto al Senato dove l’asticella si è fermata a 156 (maggioranza relativa), il governo Conte, chiosa Pasquino, “è uscito piu’ debole, svigorito, per cui trovo le offerte di rafforzarlo rivolte ad altre forze politiche del tutto legittime“.

Aver raggiunto al Senato solo la maggioranza relativa è del tutto “insufficiente” alla sua prosecuzione minata com’è dalla “non fiducia” di Italia viva.

L’analisi politica di Pasquino, le cui preferenze – rimarca – sono per “una coalizione europeista convinta“, parte anzitutto dalla necessità imprescindibile di “una coalizione sufficientemente coesa e il centro-sinistra potrebbe diventarlo“, mettendosi però al riparo da Iv “attesa alla prova nelle commissioni“.

L’acuto politologo, in passato senatore della Repubblica, non vede quindi “alternative” all’attuale esecutivo: “il centro-destra è diviso tra chi, Forza Italia, è europeista e favorevole al Mes e chi, Lega e Fdl, sono contrarie al Mes e all’Ue“.

Restano sullo sfondo le elezioni anticipate, un rischio che non si può correre per la drammatica situazione sanitaria ed economica.

Spero che si trovi presto una adeguata soluzione alla precaria situazione di stallo – osserva Pasquino – che si passi a contrastare efficacemente da una parte la pandemia e che dall’altra si faccia presto e bene con il Recovery Plan per la ripartenza del Paese“.

Ultima considerazione: molti hanno messo in risalto la crisi dei partiti politici, a volte la loro stessa mancanza.

Si scopre l’acqua calda – conclude Pasquino – la crisi dei partiti politici, per come li abbiamo conosciuti, risale al 1992-1994. Oggi di partito ce ne è solo uno: il Pd fermo al 20% che pur avendo una sua struttura e delle sue regole non genera entusiasmo nelle persone. Tutti gli altri non sono partiti politici ma organizzazioni personalistiche e fluttuanti“.

Pubblicato il 21 gennaio 2021 su affaritaliani.it

“Ma quale nuovo Patto del Nazareno. Avrebbe il sapore della farsa” #intervista @Affaritaliani

Il politologo Gianfranco Pasquino, intervistato da Affari, spiega le mosse di Berlusconi, ma anche del Pd. “La federazione proposta dalla Lega? Non ha senso”

Intervista raccolta da Paola Alagia

La mano tesa di Silvio Berlusconi per il voto sullo scostamento di bilancio, l’apertura al dialogo dell’esecutivo con il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri e dello stesso Partito democratico che, per bocca del suo vicesegretario Andrea Orlando, si è detto possibilista su un confronto, ma solo con Forza Italia. E ancora il leader di Italia viva Matteo Renzi che nelle scorse ore ha gettato un sasso nello stagno azzurro, sostenendo che sarebbe positivo se Berlusconi si staccasse da Meloni e Salvini. Nonostante le rassicurazioni incrociate in merito al rispetto dei ruoli e, quindi, degli attuali equilibri di governo, le sirene sono risuonate talmente forte da spingere la Lega di Salvini a sparigliare le carte, proponendo addirittura una federazione dei gruppi di centrodestra tra Camera e Senato. Insomma, per certi versi, come in un déjà vu, sembra si respiri aria da nuovo patto del Nazareno. Affaritaliani.it lo ha chiesto a Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza politica.

Professore, che ne pensa?
Penso che il Nazareno si fosse già lamentato in occasione del Nazareno uno e avesse chiesto di non essere chiamato in causa. Meno che mai vorrebbe, quindi, il Nazareno due. Sostiene infatti che è passato molto tempo e che la seconda volta si presenterebbe come una farsa e quindi dice no. E, comunque, battute a parte, per fare un Nazareno vero bisognerebbe che i due contraenti fossero al livello elettorale dell’altra volta.

E, invece, le condizioni non ci sono, visto l’attuale peso specifico di Berlusconi?
In realtàmi pare che pure il secondo contraente, se dovesse essere Zingaretti, sarebbe molto riluttante.

Dopo l’ultimo appello di Mattarella, però, qualcosa si sta muovendo, non le pare?
Innanzitutto, bisogna fare chiarezza: Mattarella ha richiamato solo alla responsabilità, non ha mai detto ai partiti di mettersi insieme. Poi che questo appello sia stato sfruttato da Berlusconi è un’altra storia.

Raccontiamola.
E’ molto semplice: Berlusconi si sente un po’ schiacciato da Matteo Salvini, che è forte, e da Giorgia Meloni, che sta crescendo. Cerca, dunque, uno spazio di visibilità e anche di influenza politica, tentando un accordo col governo su questioni che poi riguardano anche le sue aziende. Mediaset, per l’esattezza.

E’ vero pure, però, che qualche sponda nella maggioranza la trova, a cominciare dal numero due del Pd Andrea Orlando. 
Il Pd sta cercando da un lato di fare valere il fatto che ci sarebbe qualcun altro disposto ad appoggiare il governo e, particolare non da poco, per di più anche favorevole al Mes. In secondo luogo, Orlando pensa di riuscire a dividere le opposizioni, separando quel che resta di FI da Salvini e Meloni, in modo da rendere meno rischiosa la sfida del centrodestra. E poi c’è un altro aspetto non proprio secondario.

Quale?
Il fatto che al Senato i voti sono un po’ ballerini. Il governo ha una maggioranza risicatissima e, quindi, se si aggiungessero i voti di FI sarebbe tanto di guadagnato.

Ed è in questo quadro, a fare da contraltare, che  si innesta la proposta federativa della Lega. Che ne pensa?
La mossa di Salvini non ha nessun senso. Serve solo per guadagnare più visibilità. Con la legge elettorale proporzionale, come sarà probabilmente il nuovo sistema di voto, una federazione non ha ragion d’essere perché i tre partiti andrebbero alle urne separati. La verità è che il leader della Lega crede di avere la capacità di individuare prospettive future, ma non è più così, e cerca di rimanere al di sopra della Meloni che con le sue posizioni ferme sta piano piano arrivando alle percentuali di Salvini.

Insomma, è tutto un girare a vuoto? Che immagine ci restituisce il quadro politico attuale?
Siamo in una situazione di sospensione perché nel frattempo quasi tutti si sono resi conto che questa seconda ondata è stata molto pesante, hanno qualche preoccupazione per le posizioni di Orban e Morawiecki, che difficilmente rinunceranno al veto. Le uniche certezze al momento sono che il governo è al sicuro – nessuno, infatti, cambia esecutivo quando c’è una situazione così catastrofica come quella che stiamo vivendo – e che il premier Conte è persino ritornato un po’ su nei sondaggi. Mentre il Pd per lo più traccheggia, anche il M5s ha superato, sembra senza troppi inconvenienti, gli Stati generali e si avvia ad arrivare almeno fino a gennaio. Insomma, in questa fase tocca solo farsi vedere e trovare un tema per conquistare le pagine dei giornali.

In quest’ottica c’è da temere per il voto sul nuovo scostamento di bilancio?
Certamente lo voteranno, non si è mai visto un voto contrario su uno scostamento di bilancio così essenziale. Le opposizioni non creeranno nessun problema.  

Non vede dunque pericoli all’orizzonte.
Non ci sono grosse minacce. La proposta insensata della Federazione, per esempio, cosa vuole che sposti? L’unica cosa che si muove un po’ è appunto la disponibilità al dialogo di Berlusconi.

Ma solo se decidesse di spezzare l’asse con Salvini e Meloni. E’ così?
Berlusconi non deve decidere di staccarsi, deve solo far pensare che può farlo. Poi non lo farà perché senza di lui il centrodestra non vince e lui senza il centrodestra non vince.

Né più e né meno di un gioco delle parti, insomma.
Io parlerei più di un gioco dei partitini…

Pubblicato il 23 novembre 2020 su affaritaliani.it

“Il Pd? A volte è un po’ banderuola. Elezioni Regionali: andrà a finire così” #intervista #Affaritaliani @affariroma

Parla con Affari il politologo Gianfranco Pasquino: “Alle Regionali? Do per probabile un 3 -3 e possibile un 4-2 per il centrosinistra”

Intervista raccolta da Paola Alagia

Bolla il pronostico del sette a zero del leader della Lega come “la solita sparata dello sbruffone Salvini” e lo definisce un risultato “improbabile”. Non solo, ma il professore emerito di Scienza politica, Gianfranco Pasquino, intervistato da Affaritaliani.it, si proietta già alla sera del 21 settembre e azzarda: “Do per scontato che il centrosinistra vinca in Campania e in Toscana, li considero risultati quasi sicuri. E non do affatto per perse né le Marche e né la Puglia. Sono contendibili. Almeno questo è ciò che mi dice la mia personale sfera di cristallo”.

Professore, quindi dando i numeri, è possibile un quattro a due per il centrosinistra?
Può benissimo finire 3 a 3, escludendo la Val d’Aosta che è sempre stata una realtà diversa dal resto del Paese. Diciamo che do per probabile un 3 a 3 e per possibile un 4 a 2 per il centrosinistra. Scenario, quest’ultimo, che si realizzerebbe in caso di vittoria, appunto, anche in Puglia e Marche.

In Liguria, dopo l’esperimento fallimentare in Umbria, riparte il laboratorio delle alleanze tra Pd ed M5s. Una sconfitta qui potrebbe causare una battuta d’arresto sul camino delle intese?

Ritengo che nessuna Regione sia un laboratorio perché ciascuna risponde a fattori personali e locali. Detto questo, la Liguria è una sfida difficilissima per il centrosinistra perché qui c’è un presidente, Toti, che è molto popolare e sostanzialmente ha fatto bene. Ecco perché considero l’intesa raggiunta un tentativo apprezzabile, ma non più di un tentativo. Quindi, se il centrosinistra perde, come è probabile, non significa affatto che non debbano più farsi accordi locali tra Pd e Movimento cinque stelle. Dovrebbero, questo sì, partire un po’ prima. Sempre con la consapevolezza che le intese non sono garanzia di vittoria, ma sono garanzia di competitività.

Fa bene quindi Luigi Di Maio che è già proiettato alle comunali del 2021?
Di Maio finalmente agisce in maniera razionale. Peccato però che il M5s abbia già deciso di ricandidare Virginia Raggi a Roma. Questa operazione andava fatta dopo avere raggiunto in qualche modo un accordo con il Pd e non ponendosi subito in posizione antagonista. Comunque, questa è la linea giusta, secondo me, ma senza esagerazioni: sono contrario alle alleanze organiche, bisogna raggiungere intese programmatiche sulle candidature a livello locale.

La Toscana, invece, vede insieme Pd e Italia viva. Una vittoria del centrosinistra potrebbe ringalluzzire Renzi e spingerlo ad alzare la posta di richieste sul governo?
Bisognerà innanzitutto contare i voti di Italia viva e vedere intanto se risulteranno decisivi per la vittoria del candidato di centrosinistra. La Toscana, poi, è la Regione di Renzi, ma anche di Maria Elena Boschi. Dunque, lì devono dimostrare di essere forti. Casomai una lezione arriverebbe se risultassero deboli e si attestassero su percentuali tristi, ad esempio al di sotto del 5 per cento.

Nella prima ipotesi cosa accadrebbe?
Non credo che ci sia da ringalluzzirsi. Magari ci sarà da deprimersi, dipenderà dal risultato. Dopodiché Iv è imprevedibile, come il suo leader. Credo che ci sarà una continuazione della guerriglia. Renzi è in questo momento un guerrigliero che cerca di operare all’interno delle linee amiche, ma non può portare la guerra fino alla sconfitta perché la sconfitta sarebbe anche la sua.

Ma l’esito del voto può minare la stabilità del governo?
Le ripercussioni sul governo si potrebbero avere, ovviamente, se il centrodestra vincesse nelle sette Regioni. Significherebbe che l’esecutivo non è più in sintonia con il Paese. Il governo, allora, dovrebbe elaborare il risultato, ammettere che un problema esiste, ma sottolineare anche che si tratta di elezioni comunque regionali e che in Parlamento ci sono numeri per andare avanti.

Si affaccerebbe con maggiore forza l’ipotesi di un rimpasto?
Forse il governo potrebbe prendere in considerazione l’ipotesi. Ma attenzione, rimpastare Azzolina mi pare una lezione che il ministro non merita. Rimpastare dovrebbe significare scegliere persone più brave di quelle che già ci sono. Una cosa è sicura.

Quale?
Discuterei di tutto meno che di Mario Draghi che mi pare una specie di briscola chiamata in causa probabilmente anche contro il suo volere e le sue aspettative.

Non sarà che il governo rischia di più proprio con la prova scuola?
La gestione della scuola è una cosa complicatissima. Parliamo di 8 milione di studenti, quasi 2 milioni tra personale scolastico e professori, più i genitori, insomma un esercito di oltre 10 milioni di persone che si muovono. Si tratta di una mobilitazione di massa per cui gli inconvenienti possono sempre presentarsi.

Apriamo il capitolo referendum. Lei si è schierato per il no al taglio dei parlamentari, è così?
Ritengo che il meno non sia sinonimo di meglio. Penso inoltre che non basti tagliare. Bisogna sapere dove poter cucire. Il problema nel nostro Paese risiede nel rapporto tra governo e Parlamento, ma ridurre il numero di parlamentari non lo migliora affatto. Anzi, rischia di rafforzare indebitamente il governo: meno parlamentari significa meno persone in grado di controllare quello che il governo fa, non fa o fa male.

Il 21 settembre si scopriranno le carte. Sapremo se avrà vinto il sì o il no al referendum. Che accadrà l’indomani?
Se vince sì i Cinque stelle esulteranno, mi auguro che eviteranno di ballare sui balconi. Avranno ragione di esultare. Non so, invece, se il Pd potrà permetterselo.

Per quale ragione visto che Zingaretti ha portato il partito sulla linea del sì al taglio?
Perché il sì del Pd si mi pare abbastanza sofferto e opportunistico.

Cosa intende per opportunistico?
Che alcuni nel Partito democratico si comportano in maniera opportunistica. Un opportunismo e un’opportunità che comprendo perché i democratici devono tenere in piedi questo governo, anche alla luce delle sfide che attendono il Paese, con i 209 miliardi da investire. Concordo che non sarebbe il momento più opportuno per una campagna elettorale.

E se vincesse il no?
Sarebbe la sconfitta di una deriva populista del M5s. I Cinque stelle dovranno interrogarsi su questo. Allo stesso modo il Pd dovrà chiedersi cosa non ha funzionato e quanta attenzione ha prestato ai suoi elettori e al dibattito pubblico in generale.

Al di là delle ripercussioni in casa Pd e in casa M5s, il governo Conte potrebbe subirne i contraccolpi?
Non ritengo una eventuale vittoria del no al referendum una delegittimazione del governo. Sarebbe una sconfitta dei parlamentari che hanno votato questa riforma costituzionale. Terrei molto distinto il destino dell’esecutivo dal no e dal sì al taglio del numero dei parlamentari.

Forse l’esecutivo no, ma Zingaretti rischierebbe di salire sul banco degli imputati.
Zingaretti dovrebbe certamente interrogarsi sulla sua capacità di convincere non solo i suoi iscritti, ma anche i suoi elettori, chiedersi se davvero il Pd ha fatto una campagna elettorale seria – non vedo i manifesti del partito per il sì – e con quanto impegno ha sostenuto davvero questa riforma.

E’ probabile un assalto alla sua segreteria?
Aprire questa partita sarebbe fuori luogo. Zingaretti è stato scelto con primarie e deve andare avanti fino alla fine del mandato. E, poi, gli sfidanti sarebbero esponenti come Bonaccini perché ha vinto le elezioni in Emilia Romagna? Ricordiamo che era presidente uscente e poi anche che l’Emilia Romagna è la Regione rossa per eccellenza. Insomma, non mi sembra un titolo sufficiente per aspirare alla segreteria. Quanto agli altri eventuali aspiranti, aspettino il loro turno e chiedano le primarie.

Da Roberto Saviano sono arrivate parole pesanti contro il Pd. Secondo lo scrittore è privo di identità politica, è “vapore acqueo”. Lei cosa ne pensa?
Su alcune tematiche il Pd sembra una banderuola. Detto questo, un po’ Saviano esagera sempre, ma io lo capisco. La sua è una questione di stile e forse anche una scelta e cioè quella di voler acutizzare le situazioni. Una cosa però va detta.

Quale?
Il Pd, dal 2007 a oggi, non ha elaborato una cultura politica di riferimento degna di questo nome. E quindi è vagamente democratico, vagamente progressista e vagamente riformista. Un male generale nel contesto italiano. L’unica che può dire di avere una cultura politica, infatti, è Giorgia Meloni. Persino i leghisti hanno attenuato la loro visione della Padania. Trenta anni fa c’era Gianfranco Miglio che aveva idee forti, oggi chi sono gli intellettuali di riferimento? Borghi e Bagnai?

Pubblicato 11 settembre su affaritaliani.it