Il lavoro intellettuale. Cos’è, come si fa, a cosa serve @UtetLibri #presentazione #4giugno #Desenzano #lagodilibri
RASSEGNA EDITORIALE LAGO DI LIBRI
domenica 4 giugno 2023, ore 20.30
PALAZZO TODESCHINI – DESENZANO
GIANFRANCO PASQUINO
IL LAVORO INTELLETTUALE
Cos’è, come si fa, a cosa serve
UTET


Le prediche di Mattarella? Sono rivolte agli ignoranti @DomaniGiornale


Interpretare e valutare i discorsi del Presidente Mattarella come se intendessero essere e fossero un controcanto alle affermazioni e alle azioni dei governanti e degli esponenti del centro-destra è tanto riduttivo quanto sbagliato. Significa anche fare un torto al Presidente quasi che quei suoi discorsi, le parole da lui specificamente utilizzate, le sue indicazioni avessero bisogno di stimoli esterni, fossero la conseguenza di dissenso politico, se non addirittura di irritazione congiunturale. Anche se è certamente immaginabile che siano molte le occasioni in cui il Presidente della Repubblica ha provato fastidio ascoltando quello che il centro-destra, ma non solo, si fa scappare dalle viscere, magari asserendo di avere ricevuto un mandato popolare, per lo più il Presidente ha fin qui fatto leva su e riferimento a fenomeni storici importanti da commemorare e ricordare, da celebrare per trarne insegnamenti.
Che gli italiani abbiano scarsa e selettiva memoria della storia e del loro passato è sufficientemente noto. Che la conoscenza della Costituzione non sia propriamente il forte dei suoi concittadini, comici, giornalisti, scienziati, parlamentari e ministri, è altrettanto risaputo. Consapevole del ruolo assegnatogli dalla Costituzione, il Presidente ha inteso fin dal suo primo mandato porvi rimedio nella misura del possibile. Ogniqualvolta possibile, e finora le occasioni sono state molte, presumibilmente ve ne saranno ancora, il Presidente ha declinato i suoi interventi, da un lato, come pedagogo, dall’altro, come predicatore. Dal Colle più alto sono venute e verranno lezioni in materia di Costituzione in tutta la sua profondità e ricchezza, di europeismo, acquisizioni, problemi, opportunità, di pace e di guerra. Le prediche sono incoraggiamenti a evitare egoismi e brutalità, a aiutare i più deboli, a lavorare per una convivenza civile, per la costruzione di una società giusta.
Talvolta la pedagogia si incrocia con la predicazione. Si alimentano reciprocamente. Talvolta, inevitabilmente e felicemente, entrambe contengono critiche, anche volute e necessitate, a chi poco sa e molto sbaglia. Le attività di pedagogia e di predicazione sono tanto più efficaci quanto più il Presidente è colto, politicamente preparato, capace di rappresentare l’unità nazionale (non le autonomie differenziate). Ciascuno dei presidenti eletti dal “popolo” negli USA, in Francia, nelle repubbliche latino-americane si affretta a dichiarare che sarà il Presidente di tutti, non solo di chi l’ha eletto. Tuttavia, in quei sistemi istituzionali non è mai difficile ricordare al Presidente quale è la base politica che lo legittima e lo sostiene. Difficilissimo, invece, è che la predicazione presidenziale, quando l’eletto ne ha le capacità, non sia di parte. Mattarella non ha bisogno di dirlo.
Pubblicato il 24 maggio 2023 su Domani
Presentazione @RadioRadicale del libro di Gianfranco Pasquino “Il lavoro intellettuale. Cos’è, come si fa, a cosa serve” @UtetLibri con @KarlMunch
19 maggio 2023
Gianfranco Pasquino (professore emerito di Scienza politica all’Università di Bologna)
Carlo Crosato (Università degli Studi di Bergamo).
discutono
Il lavoro intellettuale. Cos’è, come si fa, a cosa serve
UTET


Solo un campo largo può far vincere la sinistra @DomaniGiornale


Scrutare nelle viscere di elezioni amministrative che riguardano forse un quinto dell’elettorato, in comuni molto diversi fra loro e diversamente governati, con sindaci uscenti, sindaci alla ricerca del secondo mandato, tabula rasa con new entries, è un esercizio difficile per osservatori raffinati. Tuttavia, è cosa buona e giusta esercitarvisi poiché i voti rivelano sempre qualcosa di interessante. La prima osservazione è che a livello nazionale non ha fatto la sua comparsa nessuna tematica nuova di tale importanza da influenzare gli esiti locali. In secondo luogo, nessuno dei contendenti ha saputo suggerire qualche novità/innovazione. Al contrario, molto si è giocato sulla continuità/continuazione e l’effetto inerzia abitualmente va a favore di chi governa senza dare grattacapi alla cittadinanza Infine, non si sono visti errori clamorosi. In buona sostanza, dunque, nel voto al primo turno la differenza l’hanno fatta le candidature e le alleanze. Ai ballottaggi, in particolare laddove i distacchi sono contenuti, oltre alle candidature, decisive saranno le alleanze.
Baloccarsi con la democrazia compiuta che per molti significa non soltanto la possibilità, ma la realtà dell’alternanza pensando che sia prodotta o quantomeno facilitata dalla legge elettorale è semplicistico benché non essenzialmente sbagliato. A far vincere il centro-destra, ieri (e forse anche domani) a livello nazionale è stata la capacità di costruire, mettendo a tacere i riluttanti, una coalizione. Sbeffeggiare Enrico Letta che voleva, con una modica dose di velleitarismo, un “campo largo”, è certamente un errore sgradevole. Se coloro che ritengono inadeguato in termini di politiche e nocivo in termini di valori il governo di centro-destra, non sanno/non vogliono offrire una coalizione alternativa, ma preferiscono geometrie variabili opportunistiche, sarà il caso che mettano in conto molte sconfitte future.
Poiché i numeri contano, nel centro-sinistra talvolta possono essere (quasi) determinanti i dirigenti del sedicente Terzo Polo. Però, peso maggiore e conseguentemente responsabilità maggiore la porta Giuseppe Conte. A livello locale, il Movimento 5 Stelle, ancorché non marginale, spesso non ha abbastanza radicamento. Ai ballottaggi i suoi elettori andranno in ordine sparso, per lo più votando il candidato di “area”, spesso PD, altrimenti rifluendo nell’astensione. A livello nazionale quel 15 per cento potrebbe essere, probabilmente sarà (scommetto sul futuro) decisivo. Ne sapremo molto di più quando disporremo dei dati delle elezioni per il Parlamento europeo. Prima di allora, qualche elemento utile verrà dai ballottaggi poiché saranno gli elettori stessi a mostrare le loro preferenze, seguendo oppure no le eventuali indicazioni di Conte (temo che impersonerà Ponzio Pilato, come lui sbagliando). Ottimisticamente, Il proverbio dice “sbagliando s’impara”.
Pubblicato il 17 maggio 2023 su Domani
Critica delle riforme impure #DemocraziaFutura @Key4biz

Perché raddrizzare una discussione appena incominciata, abbastanza male indirizzata. Il punto di Gianfranco Pasquino, Professore Emerito di Scienza politica e Socio dell’Accademia dei Lincei.

A meno di una settimana dall’avvio delle consultazioni del governo con i rappresentanti delle opposizioni, Gianfranco Pasquino, in un articolo per Democrazia futura ” Critica delle riforme impure”, spiega – come recita l’occhiello – “Perché [occorra raddrizzare una discussione appena incominciata, abbastanza male indirizzata”. Il noto scienziato politico, dopo aver denunciato “la confusione fra premierato e sindaco d’Italia”, descrivendo i principali casi di premierato ovvero “Il modello Westminster di cabinet government del Regno Unito”, nonché “Il caso del Cancellierato tedesco e della Presidenza del governo spagnola”, chiarisce “Perché va[da] respinta drasticamente la proposta del Sindaco d’Italia, di un (quasi) presidenzialismo”, prima di soffermarsi su “Le differenze importanti fra presidenzialismo USA e semi presidenzialismo alla francese” e di motivare la sua predilezione verso “l semipresidenzialismo alla francese dotato – a suo parere – di elasticità istituzionale e politica”, sottolineando in conclusione la necessità, qualunque sia il modello prescelto, di “Associare al modello costituzionale una legge elettorale decente”.
L’obiettivo dichiarato delle riforme costituzionali di Giorgia Meloni è garantire la stabilità del capo del governo per tutta la durata del mandato. Strumento, ma al tempo stesso anche obiettivo di rivendicazione radicata nella storia della destra italiana, è il presidenzialismo (questo sta scritto nel programma elettorale di Fratelli d’Italia), oggi variamente definito come elezione popolare diretta della più alta carica dello Stato e di governo.
Una immediata nota di cautela, quasi un impossibile veto, è stata introdotta, in special modo, ma non solo, da Giuseppe Conte, dalla sinistra, dal PD: la Presidenza italiana dovrebbe comunque mantenere il suo ruolo e i suoi poteri di garanzia.
Prima di qualsiasi discussione e approfondimento, due precisazioni generali (quelle particolari seguiranno) sono assolutamente necessarie.
Prima precisazione: la stabilità nella carica ha valore positivo se intesa come premessa per la produzione di decisioni, ovvero se accompagnata dall’efficienza e efficacia decisionale.
Seconda precisazione: è imperativo chiarire quale modello di elezione popolare diretta viene prescelto per essere in grado di valutare quanta stabilità offra, a quale prezzo e con quali conseguenze.
Aggiungo subito che una valutazione più convincente discenderebbe dalla comparazione fra una pluralità di modelli, includendovi anche alcuni modelli parlamentari nei quali non è contemplata nessuna elezione popolare diretta del capo del governo.
La confusione fra premierato e “sindaco d’Italia”
Nella ridda di dichiarazioni, molti esponenti della maggioranza governativa hanno variamente – giulivamente affermato che è possibile eleggere direttamente il capo dell’esecutivo mettendo sullo stesso piano presidenzialismo, semipresidenzialismo e premierato. Il modello del premierato non è mai stato specificato: dove, quando, come, e la situazione si è ulteriormente complicata quando alcuni esponenti di governo hanno dichiarato che anche il modello del Sindaco d’Italia, proposto da Matteo Renzi di Italia Viva, può essere preso in considerazione.
Tecnicamente, premierato dovrebbe significare governo del Premier, del capo di governo in una democrazia parlamentare. Però, in nessuna democrazia parlamentare il capo del governo viene eletto dai cittadini. Dappertutto, il capo del governo viene scelto dal partito di maggioranza o dai partiti che danno vita ad una coalizione in grado di governare. Ha fatto eccezione a questa regola, quasi, come vuole il proverbio, a sua conferma, Israele eleggendo per tre volte, 1996, 1999, 2001, il Primo ministro, poi non avendone tratto benefici né politici né istituzionali, tornando alle negoziazioni parlamentari.
Il modello Westminster di cabinet government del Regno Unito
L’espressione premierato è ovviamente di origine inglese anche se il cosiddetto “modello Westminster” è meglio definito cabinet government dove il/la Primo Ministro è un primus talvolta primissimus fra i ministri più autorevoli che compongono il governo. Nessuno di loro, né nel Regno Unito né in Australia, Canada, Nuova Zelanda, è mai stato eletto direttamente. Risibile e deplorevole è sostenere, come hanno fatto alcuni cattivi maestri del Diritto Costituzionale, che nel Regno Unito esiste l’elezione “quasi” diretta del Primo ministro.
Non solo la condizione essenziale per diventare Primo ministro è quella di essere il capo della maggioranza parlamentare, ma sono ormai molto numerosi (troppi per citarli) i casi di Primi ministri subentrati a legislatura in corso senza nessun passaggio elettorale.
Potremmo dedurne che alla stabilità nella carica viene preferita l’elasticità che consenta il rilancio dell’azione di governo senza “logorare” l’elettorato con frequenti ritorni alle urne e, ovviamente, senza rischiare la sconfitta elettorale.
Il caso del Cancellierato tedesco e della Presidenza del governo spagnola
Le due democrazie parlamentari europee i cui capi di governo sono rimasti solidamente in carica e per lungo tempo sono Germania e Spagna. In nessuna delle due il Cancelliere e il Presidente del governo, come sono rispettivamente chiamati, sono eletti direttamente dal “popolo”.
Il meccanismo nient’affatto segreto che li stabilizza e consente loro di essere, se ne hanno la capacità personale e politica, efficaci, si chiama rispettivamente voto di sfiducia costruttivo e mozione di sfiducia costruttiva.
Sono le rispettive camere basse a votare in carica il capo del governo e, se lo sfiduciano, ad avere la possibilità di cambiarlo eleggendone un altro, il tutto a maggioranza assoluta.
Darei credito al Costituente repubblicano Tommaso Perassi di avere immaginato con il suo giustamente famoso ordine del giorno la formulazione di un meccanismo dello stesso tipo per stabilizzare il governo italiano. Se Elly Schlein propone qualcosa di simile ha scelto la strada giusta, nettamente alternativa ai presidenzialismi finora neppure abbozzati dal destra-centro.
Perché va respinta drasticamente la proposta del Sindaco d’Italia, di un (quasi) presidenzialismo
Dalla spazzatura della cavalcata costituzionale di Renzi sconfitto nel referendum 2016 è riemerso il fantomatico Sindaco d’Italia, il (quasi)presidenzialismo de noantri. Tralascio qualsiasi considerazione sulla necessità di tenere conto che quello che ha funzionato (fui tra gli sponsor di quel tipo di legge) per i comuni non è affatto detto che riesca a funzionare a livello nazionale. Anzi, probabilmente, no. Basterebbero alcune obiezioni per neanche soffermarsi su una proposta che è sbagliata e strumentale, ma anche strumentalmente intrattenuta da alcuni malintenzionati del destra-centro. Il Sindaco d’Italia farebbe strame del ruolo di salvaguardia/garanzia del Presidente della Repubblica.
Un sindaco eletto dai cittadini toglie al Presidente qualsiasi potere di nomina né, ovviamente, del candidato risultato vittorioso alle urne né degli assessori(/ministri) che il Sindaco avrà negoziato con gli alleati che lo hanno fatto vincere i quali, pertanto, hanno diritto a ricompense adeguate.
Il Presidente non potrà sciogliere il Consiglio/Parlamento (ovviamente monocamerale) neppure se paralizzato da veti incrociati e incapace di governare.
Quel Consiglio con il suo sindaco potrà durare anche per tutto il mandato al fine di evitare di confessare le proprie inadeguatezze e di essere costretto dal fallimento a un salto nel vuoto elettorale.
Oppure sarà automaticamente sciolto, e Il Presidente non potrebbe opporvisi, se il sindaco preferirà andarsene per più elevate cariche oppure sarà costretto a dimettersi per malefatte. Alla faccia della stabilità.
Le differenze importanti fra presidenzialismo USA e semi presidenzialismo alla francese
Tornando a presidenzialismo e semipresidenzialismo, le loro logiche di funzionamento e i loro problemi istituzionali presentano differenze tanto chiare quanto importanti.
Per il presidenzialismo negli Stati Uniti d’America (immagino che Giorgia Meloni non abbia come riferimento i presidenzialismi latino-americani, peraltro, non tutti da mettere nello stesso sacco), comincerò con il notare che si accompagna ad un federalismo radicato e vigoroso che, fra l’altro, si esprime nell’elezione popolare diretta di due Senatori per ciascuno Stato dando vita a quella che è unanimemente considerata l’assemblea elettiva più forte al mondo.
Sottolineo che il Presidente non ha il potere di iniziativa legislativa (supplendovi in una varietà, non sempre apprezzabile e commendevole, di modi), che appartiene al Congresso.
Chiudo per ragioni di tempo e di spazio soffermandomi sull’inconveniente più grave, a partire dagli anni Ottanta del XX secolo diventato molto frequente: il governo diviso.
La formula del presidenzialismo USA fu definita nel 1960 da Richard Neustadt: separate institutions sharing powers. Vent’anni dopo la formula fu precisata: separate institutions competing for power, vale a dire che, comunque, il Presidente non è mai dominante. Deve sempre fare i conti con la Corte Suprema e con il Congresso.
Quando, per 34 anni sui recenti 48 (12 presidenze, ovvero 7 Presidenti), in uno o in entrambi i rami del Congresso, il partito del Presidente non ha la maggioranza, ne consegue la situazione di governo diviso (apparentemente non noto oppure gravemente sottovalutato dai presidenzialisti italiani). Il Presidente vedrà non gradite, non accettate, non votate le proposte di legge introdotte dai suoi parlamentari e il Congresso vedrà il Presidente porre il veto sui suoi disegni di legge.
In un Congresso polarizzato la maggioranza dei due terzi indispensabile a superare il veto presidenziale si manifesterà rarissimamente. Il Congresso accuserà il Presidente di bloccare le riforme, accusa che il Presidente con la potenza di fuoco della Casa Bianca ritorcerà contro i suoi avversari nel Congresso a tutto scapito della possibilità per gli elettori di attribuire limpide responsabilità politiche. L’uomo al comando non tradurrà il suo mandato in politiche promesse e coerenti e si troverà triste, solitario y final (la sua rielezione inevitabilmente in dubbio).
Perché prediligo il semipresidenzialismo alla francese dotato di elasticità istituzionale e politica
Tutt’altra è la storia del semipresidenzialismo alla francese il cui finale non è mai scritto in anticipo poiché è un modello dotato di elasticità istituzionale e politica.
Anzitutto, il Presidente è eletto direttamente dal popolo con un sistema che, se al primo turno nessun candidato ha ottenuto la maggioranza assoluta, obbliga al ballottaggio. Dunque, agli elettori si offre l’opportunità di valutare con cura le alternative in campo e le loro conseguenze. Dopo la riforma costituzionale del 2002, l’elezione dell’Assemblea Nazionale segue quelle presidenziali che vi esercitano un effetto di trascinamento, cioè, gli elettori sono inclini a consegnare al Presidente appena eletto una maggioranza parlamentare operativa.
Qualora non avvenisse così, la coabitazione fra Presidente, capo di una maggioranza, e maggioranza opposta, che esprime il Primo ministro, da un lato, non porrebbe in stallo il sistema poiché il Primo ministro avrebbe i numeri per governare, dall’altro, passato un anno, il Presidente ha il potere di scioglimento dell’Assemblea nel tentativo di ottenere dall’elettorato, che ha seguito gli avvenimenti, una maggioranza a lui favorevole.
Infatti, sarà sufficientemente chiaro chi, Presidente o Primo ministro, è responsabile del fatto, non fatto, fatto male.
Come abbiamo visto di recente, grazie all’articolo 49 comma tre, in casi eccezionali il Presidente può anche imporre l’attuazione di una legge se la sua maggioranza è restia, fermo restando che su richiesta di un decimo dei parlamentari viene attivato il voto di sfiducia nei confronti del/la Primo ministro. Inoltre, sessanta parlamentari hanno la possibilità di fare direttamente ricorso al Conseil Constitutionnel per bloccare leggi ritenute incostituzionali.
Conclusioni. Una discussione male indirizzata assolutamente da raddrizzare
Per rientrare nelle preoccupazioni italiane, è inevitabile che i due Presidenti, espressione delle preferenze politiche dei loro cittadini, a quelle preferenze cerchino di rispondere e non siano classificabili come organismi di garanzia. Entrambi, però, sicuramente intendono e, per lo più, lo dicono alto e forte, rappresentare la loro nazione, il popolo. Che vi riescano o no, lo diranno i risultati elettorali e lo scriveranno gli studiosi.
D’altronde, quando mai i partiti italiani del centro-destra hanno riconosciuto imparzialità, terzietà, equilibrio, garanzia ai Presidenti Oscar Luigi Scalfaro (1992-1999), Carlo Azeglio Ciampi (1999-2006), Giorgio Napolitano (2006-2013; 2013-2015)? Solo di recente hanno scoperto queste doti in Sergio Mattarella, non certo nei primi anni del suo primo mandato (2015-2022).
Nella democrazia parlamentare spagnola, la garanzia sta, come per tutti i sistemi politici dell’Europa occidentale che sono monarchie, nelle mani del Re.
In Germania, il Presidente della Repubblica è il garante anche grazie al fatto che la sua elezione è stata sostanzialmente sempre concordata fra i partiti.
Associare al modello costituzionale una legge elettorale decente
Nessuna discussione dei modelli di governo può dirsi esaurita e meno che mai esauriente se non è accompagnata da una descrizione e valutazione delle leggi elettorali con le quali vengono formati i rispettivi parlamenti.
Questo non è un altro discorso, poiché le relazioni Presidente/Parlamento sono di cruciale importanza per il funzionamento di qualsiasi (semi)presidenzialismo.
Lampante che la legge Rosato, già pessima per qualsiasi democrazia parlamentare, non potrà essere preservata nel suo impianto neppure ritoccandola con l’eliminazione delle scandalose pluricandidature e con l’inserimento del voto di preferenza.
Al momento, il silenzio sulla legge elettorale non consente di procedere a riflessioni più approfondite, ma fin d’ora va affermato che qualsiasi modello sarà prescelto, dovranno essere formulate leggi elettorali apposite e che nei presidenzialismi non esistono leggi elettorali con premi di maggioranza.
Complessivamente, la discussione appena cominciata appare già abbastanza male indirizzata, chi la raddrizzerà?
Riferimenti bibliografici essenziali
Gianfranco Pasquino, Sistemi politici comparati. Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia, Stati Uniti, Bologna, Bononia University Press, 2007, 173 p.
Gianfranco Pasquino (a cura di), Capi di governo, Bologna, il Mulino, 2005, 373 p.
Pubblicato il 15 maggio 2023 su Key4biz
Le modifiche alla Costituzione si discutono in Parlamento @DomaniGiornale


Le riforme costituzionali bocciate sette anni fa dagli italiani in un referendum rimangono sbagliate anche oggi (e domani). Peggio se vengono presentate come carta di accreditamento e/o di scambio. Il confronto fra le diverse proposte può utilmente essere informale, ma il luogo del confronto formale è e deve rimanere, anche in più modalità, il Parlamento. Incontrarsi e parlarsi è cortesia istituzionale, ma carta parla. I modelli istituzionali sono inevitabilmente complessi e richiedono conoscenze approfondite che non sono mai esclusivamente giuridiche. La storia e la strutturazione di un sistema politico-partitico sono indispensabili per prevedere entro i limiti del possibile, le conseguenze pratiche di ciascun modello. Le motivazioni della proposta di uno o altro modello sono decisive non solo per il loro confronto, ma per quella essenziale opera pedagogica che consiste nel coinvolgere la cittadinanza, come si fece nel 1946-47 e nel 2016. Non è sufficiente dire “siamo sempre stati favorevoli (contrari) all’elezione popolare diretta del Presidente della Repubblica” per legittimare quella scelta né il suo ripudio.
Giova anche ripetere che l’elezione popolare del Presidente della Repubblica, un cardine costituzionale del Presidenzialismo USA e dei sistemi politici latino-americani nonché dei semipresidenzialismi in Francia, Europa centro-orientale (non in Ungheria), alcuni paesi africani francofoni, Taiwan, non è in nessun modo assimilabile all’elezione popolare del Primo ministro, attuata unicamente in Israele per tre volte e poi abbandonata perché disfunzionale. Avere vagamente il semipresidenzialismo nel proprio programma elettorale del quale, in senso molto lato, si può vantare l’approvazione da parte dei propri elettori, non significa affatto essere investititi di un mandato. Nessun mandato a osteggiare qualsiasi riforma può essere contrapposto dalle opposizioni.
Comunque, in democrazia, nessuno può esercitare veti. In una democrazia parlamentare il Parlamento è sovrano. I riformatori costituzionali hanno la possibilità di procedere osservando le regole che presiedono alla formulazione, discussione, approvazione dei loro testi senza forzature. Variamente, qualche volta riprovevolmente, strattonati da una parte o dall’altra, i Costituenti erano pienamente consapevoli dell’eventualità di revisioni. A cominciare, mi piace sottolineare dalla stabilizzazione del governo, ordine del giorno Perassi, il quale, certo, sarebbe favorevole al voto di sfiducia costruttivo. Una maggioranza assoluta può fare tutte le riforme che desidera tranne quella della “forma repubblicana” dello Stato. Qualsiasi maggioranza parlamentare riformatrice sa che la saggezza dei Costituenti si estese a garantire all’elettorato la possibilità di esprimersi contro quelle riforme in un referendum (costituzionale, quindi non “confermativo”, ma oppositivo). Tanto basti. Il resto si vedrà.
Pubblicato il 10 maggio 2023 su Domani
Sedici marzo 1978: dintorni e lasciti #AldoMoro
in Ivo Mej, Rapimento Moro. Il giorno in cui finì ‘informazione in Italia, Historica/Giubilei Regnani, 2023,pp. 126-30
Quel giovedì 16 marzo verso le 9.20 stavo camminando a Bologna dalla sede della casa editrice il Mulino, Strada Maggiore 35, verso l’Istituto di Studi e Ricerche “Carlo Cattaneo”, Via Santo Stefano 11. Era un percorso abbastanza frequente, abituale. Nel centro della piccola città che può essere visitata tutta a piedi. Quasi all’altezza di Via Gerusalemme, dove si trova l’abitazione di Romano Prodi, incontrai sia Arturo Parisi, anche lui ricercatore all’Istituto Cattaneo, sia Luigi Pedrazzi, uno dei cinque fondatori del Mulino. Di solito tranquillo e sorridente, Pedrazzi era agitato, allarmatissimo. Nessun inutile saluto, soltanto la frase: “Hanno rapito Moro. Le Brigate Rosse hanno rapito Moro”. Parisi ed io rimanemmo di sasso, fermi, senza proferire una parola. Poi entrambi chiedemmo a Pedrazzi dove e come. Gigi aveva da pochissimo appreso la notizia dalla radio. Poche, scarne, preoccupate parole, poi ci lasciammo mestamente consapevoli della gravità del fatto, ma, parlo per me, assolutamente non in grado di immaginarne il seguito, le conseguenze.
Pedrazzi, professore nei Licei, aveva avuto occasione di conoscere di persona Aldo Moro, Ministro dell’Istruzione, e di parlargli. Ne aveva grande ammirazione anche politica. Nella, lo devo proprio scrivere, prestigiosa, Associazione di cultura e politica “il Mulino”, allora composta da una quarantina di soci, si trovavano alcuni dei più autorevoli intellettuali morotei, suoi ascoltati consiglieri. Me ne resi conto riflettendo sull’avvenimento e ripensando alle molte riunioni e occasioni nelle quali avevamo variamente discusso. Il Professore di Economia Beniamino detto Nino Andreatta era appena stato eletto Senatore nel 1976, ma continuava con la sua pipa e i suoi calzini spaiati e abbassati a frequentare le nostre riunioni. Memorabile quando, mentre ci affannavamo a definire il tema specifico di un intervento di riforma sulla scuola, annunciò che preferiva scrivere un disegno di legge. Proprio in quegli anni, il grande storico cattolico Pietro Scoppola era stato eletto (sì, al Mulino, allora, c’erano libere e competitive votazioni per la rivista, il Comitato Direttivo, il Consiglio editoriale) direttore della rivista bimestrale “il Mulino” sulle cui pagine ci eravamo già variamente espressi sul compromesso storico di Berlinguer, sulla “terza fase” di Moro, sulle prospettive del sistema politico italiano: consociativismo o democrazia dell’alternanza. In una tavola rotonda Scoppola mi aveva rimproverato di voler resuscitare l’azionismo, grave peccato elitario, a scapito dei grandi partiti popolari di massa.
L’altro autorevolissimo socio cattolico democratico era Leopoldo (Leo per i suoi coetanei del Mulino) Elia, eletto nel 1976 giudice della Corte Costituzionale, di cui fu in seguito Presidente per quattro lunghi anni. Elia era stato mio Professore di Diritto Costituzionale Italiano e comparato all’Università di Torino nel 1963-1964. Da tempo era il giurista più ascoltato e più influente di Aldo Moro.
No, Moro non era l’uomo politico da me maggiormente apprezzato anche se, naturalmente, lo avrei visto molto volentieri alla Presidenza della Repubblica nel 1971 invece di Giovanni Leone. Non mi piacevano né i suoi tempi lenti né il suo eloquio complesso, ad arte oppure “naturale” che fosse, né la sua visione di democrazia. Avevo trovato molto sgradevole la sua dichiarazione urlata: “Non ci faremo processare nelle piazze”. No, neppure il compromesso storico formulato da Enrico Berlinguer era la strategia politica da me preferita. Al contrario. Cozzava contro tutto il mio pensiero politologico e contro le mie conoscenze su come deve essere idealmente il funzionamento delle democrazie contemporanee e come è effettivamente. Degli aggettivi che circolavano sulla democrazia, “compiuta”, “matura”, “bloccata” e così via, non ne usavo nessuno. Mi ero, però, impegnato a delineare le caratteristiche della democrazia dell’alternanza. Andando a votare in quello che poteva essere un fatidico 20 giugno 1976, avevo promesso a mio figlio, nato neanche un mese prima, che non sarebbe vissuto in un regime democristiano.
Votai per il Psi con le mie quattro preferenze date ai candidati giolittiani e lombardiani. Scrissi molti articoli su “Mondoperaio” diretto da Leonardo Coen. Contribuii con un breve (ma succoso!) testo alla formulazione di che tipo di partito dovesse essere il PSI, scritto su invito di Gigi Covatta per il Congresso socialista di Torino, aprile 1978, per l’alternativa. Non divenni mai craxiano, ma rimasi molto amico di Federico Mancini, grande giurista del lavoro, anche lui socio del Mulino, forse fin troppo stretto collaboratore del segretario socialista Bettino Craxi (bestia nera di tutti i cattolici democratici).
L’assassinio di Moro, mi ero associato al Partito della Fermezza preoccupato che qualsiasi cedimento avrebbe travolto la politica e spaccato la debole società italiana, avevo trovato del tutto riprovevole lo slogan “né con le Brigate Rosse né con lo Stato”, mi ero tristemente convinto che fin dall’inizio le BR avrebbero solo strumentalizzato, usato e poi ucciso il Presidente della DC, concluse un’epoca. Ho sempre pensato che, comunque, Moro non avrebbe mai avuto abbastanza potere da imporre qualsivoglia apertura al Partito comunista, e neanche avrebbe voluto associarlo al governo. D’altronde, non vedevo nelle posizioni di Berlinguer modalità che significassero la revisione necessaria per diventare alternativa di governo. Se il loro obiettivo era quello di rendere impossibile l’incontro/accordo DC-PCI, le Brigate Rosse lo hanno conseguito. Confusamente nei lunghi mesi della drammatica prigionia di Aldo Moro, sentivo tutta la problematicità della situazione. Soprattutto, però, ricordo il sincero dolore dei morotei al Mulino e il nostro condiviso senso di impotenza. Incancellabile.
*Gianfranco Pasquino, Professore Emerito di Scienza politica e Socio dell’Accademia dei Lincei, è autore di Tra scienza e politica. Una autobiografia (UTET 2022).