25 aprile, la festa della patria repubblicana e democratica. Scrive Pasquino @formichenews

II riconoscimento che il 25 aprile continua a meritarsi è duplice: avere fatto rinascere la patria (quella alla quale aveva dato vita il Risorgimento, ampliandola) e avere introdotto la libertà per tutti, anche per gli oppositori. Prendiamo atto che i nemici del 25 aprile combattono più o meno consapevolmente contro la patria repubblicana, libera e democratica. Il commento di Gianfranco Pasquino, accademico dei Lincei

Non mi importa niente delle memorie condivise. A ciascuno la sua, più o meno distorta, memoria, a tutti la lettura di qualche libro di storia, italiana e, per saperne di più, europea. Il 25 aprile fu una doppia liberazione: dai nazisti che furono cacciati dall’Italia e dai fascisti della Repubblica di Salò. Se, come ha scritto un raffinatissimo storico, la patria era morta l’8 settembre, sicuramente risorse il 25 aprile. Tanto è vero che alcuni fascisti si dichiararono “esuli in patria” indirettamente e involontariamente dando un degno riconoscimento all’Italia repubblicana. Non rinunciarono neanche a fare gli esuli nel Parlamento della democrazia italiana!

Ciascuno celebri il 25 aprile come desidera, come gli ditta dentro. La Repubblica democratica glielo consente, ma le divisioni nel “popolo” italiano non sono il prodotto della Resistenza, ma del fascismo. Fu il regime che nacque, si consolidò, produsse e allargò le divisioni, comprese le infami leggi razziali, come instrumentum regni. La Repubblica è stata, direi fin troppo, inclusiva e generosa. Democrazia vuole dire possibilità per tutti di partecipare e questo la Repubblica ha offerto e garantito. Vuol dire anche libertà di pensiero e di espressione, ugualmente sancita dalla Costituzione. Antifascista la Costituzione lo è da molti punti di vista. Non esisterebbe senza la sconfitta del fascismo. Nessuno dei diritti costituzionalmente sanciti e garantiti fu mai tale durante il fascismo. I fascisti non la votarono, non l’accettarono, la volevano (vogliono) cambiare.

Celebrare il 25 aprile può significare molto per il tipo di Paese, patria, che l’Italia è diventata e rimasta. Comunque, è la Repubblica democratica che ha promosso e ha, in misura ampia, ancorché, forse troppo, diseguale, facilitato lo sviluppo economico. Ha offerto opportunità. Ha voluto e saputo scegliere l’Europa, enorme spazio democratico libertà e diritti andando contro quel patriottismo fascista, di ieri e di oggi, che scivola sempre nel nazionalismo, inevitabilmente egoista quando non anche aggressivo.

Rimuovere, cancellare, degradare il 25 aprile è, anzitutto, uno sbrego alla storia italiana che nessun patriota dovrebbe mai permettersi. Non darò nessun colpo al cerchio e alla botte, nessuno dei fascisti potrà mai essere messo sullo stesso piano degli antifascisti, ma certo la riflessione e l’uso politico del 25 aprile continuano a essere controversi anche poiché troppi nei dintorni dell’antifascismo lo hanno ammantato di retorica invece di coglierne e evidenziarne le complessità spesso virtuose. Certamente ci furono vincitori e vinti. Lo spargimento di sangue dei vinti fu, in una comparazione comunque sgradevole, di gran lunga inferiore a quello che il regime aveva impunemente fatto dei suoi oppositori. Poi, nel quadro democratico-repubblicano ognuno ha potuto tessere la sua tela purché rispettasse regole e procedure.

Il riconoscimento che il 25 aprile continua a meritarsi è duplice: avere fatto rinascere la patria (quella alla quale aveva dato vita il Risorgimento, ampliandola) e avere introdotto la libertà per tutti, anche per gli oppositori. Prendiamo atto che i nemici del 25 aprile combattono più o meno consapevolmente contro la patria repubblicana, libera e democratica.

Pubblicato il 25 aprile 2024 su Formiche.net

Non è fascismo, ma si respira un’aria pesante di autoritarismo @DomaniGiornale

La strada dell’erosione delle democrazie liberali ha già visto alcuni zelanti precorritori. In Europa, ci hanno provato i governanti polacchi del centro-destra e, soprattutto, l’ungherese Viktor Orbán. I primi hanno lasciato qualche non indelebile traccia nella legislazione della Polonia, ma hanno perso le elezioni e non potranno proseguire. Il leader ungherese tiene alta la sua arroganza, procede a qualche ricatto in sede europea, definisce illiberale la sua “democrazia”, la puntella con repressioni, ma la sua carica è oramai diventata contendibile. Più in generale, assistiamo non a crisi della/e democrazia/e, ma a problemi, anche seri, di funzionamento che potrebbero condurre all’erosione degli assi portanti della democrazia, ma vediamo alcune risposte che ristabilirebbero il quadro democratico. Allora, piuttosto che gridare al ritorno del fascismo in Italia, grida che mi paiono segno di non apprezzabili esagerazioni polemiche, ma soprattutto di grave ignoranza storica, ritengo preferibile segnalare e stigmatizzare con precisione alcune brutte violazioni dei principi democratici e le loro tracimazioni sulla vita delle persone.

Coloro che sono al governo, in primis, la Presidente del Consiglio, non possono essere obbligati a definirsi antifascisti, ma debbono rispettare la Costituzione che, oggettivamente, è antifascista. Al proposito, è imperativo esigere che il fascismo non sia mai messo sullo stesso piano dell’anti fascismo. Non ci sta. Quanto all’antifascismo, è giusto celebrarlo, magari cercando di ricordarne i sacrifici e valorizzarne i meriti, attualizzandoli, e senza inutili e controproducenti esagerazioni di retorica. Sono anni, forse decenni, che l’antifascismo, nelle modalità con le quali viene fatto rivivere, è un argomento logoro che risulta indifferente alla maggioranza degli italiani. Al tempo stesso, la grande maggioranza degli italiani non sa cosa farsene delle sceneggiate fasciste, ma, evidentemente, condivide alcune, forse molte, politiche conservatrici, anche di destra dura (non necessariamente pura) e le mentalità che le sorreggono. Non credo che l’attuale governo abbia una strategia accuratamente delineata di erosione dei diritti, ma in non pochi suoi esponenti si manifestano spesso pulsioni autoritarie, violente. Le si può e le si deve denunciare senza gridare al fascismo, ma facendo riferimento alla Costituzione italiana e a quanto, come Stato-membro dell’Unione Europea, l’Italia si è impegnata a rispettare.

Sull’attuale clima politico destrorso e sul contesto sociale non proprio favorevole alla libera competizione delle idee, non si può che intervenire puntualmente, continuativamente, pazientemente con le parole e con le opere, che significa anche senza sconti ai propri esponenti e sostenitori, in maniera assolutamente pedagogica. Le pietre debbono essere lanciate da chi è davvero senza peccato. Sulle violazioni dei diritti dei cittadini e delle cittadine bisogna essere intransigenti. Il richiamo non va fatto all’antifascismo, ma alla democrazia che il fascismo distrusse, l’antifascismo innestò nella Costituzione e i partiti hanno fatto crescere, per quanto non ancora abbastanza, nel secondo dopoguerra, nella prima lunga fase della Repubblica.

La libera espressione del pensiero e delle idee e la loro circolazione non debbono mai essere conculcate, ma neppure limitate, ad esempio, intimidendo i giornalisti. Un’opinione pubblica male informata e peggio manipolata non sarà disponibile a accettare, sorreggere e apprezzare il conflitto politico nelle modalità più ampie e più aperte possibile purché senza sopraffazione e senza violenza. I troppo zelanti censori del monologo di un importante scrittore italiano, Antonio Scurati, e gli offensivi commenti del Sen. Gasparri, già MSI, a Radio Anch’io (martedì ore 7.50), non vengono da Marte, ma interpretano i desiderata di qualcuno al governo e stanno cercando con qualche speranza di ingraziarseli. La presenza nei consultori di associazioni Pro-vita, di un feto che vita non è ancora, è stata decisa per rendere difficile e colpevolizzare la scelta delle donne che, esercitando un diritto loro riconosciuto dalla legge, intendono interrompere la gravidanza. Il controllo sul corpo e sulle scelte delle donne ha un indigeribile sapore autoritario. Respinta dal governo la critica europea a questo provvedimento, diventa ancora più comprensibile che cosa farebbe Giorgia Meloni se conquistasse voce in capitolo nella maggioranza che emergerà nel prossimo parlamento europeo. Non “tout se tient”, ma quel tanto che già vediamo non è accettabile.

pubblicato il 24 aprile2024 su Domani

Giustizialisti buoni e garantisti cattivi: a ognuno il suo (e qualcosina di più) #paradoXaforum

“C’è un tempo per essere giustizialista e c’è un tempo per essere garantista”. Sto con l’Ecclesiaste, ma aggiungo: “ci sono casi che richiedono giustizialismo e casi che meritano garantismo”. E, allora, bisogna sapere distinguere e riuscire a convincere gli altri che la mia distinzione ha valore.

    Partirò con la notazione che il garantismo a campo largo è fatto apposta per salvare tutti i propri compagni di merende al prezzo, ritenuto largamente sopportabile, spesso atto pagare ad altri, di lasciare esenti da qualsiasi intrusione della legge anche i compagni delle altrui merende. Da un lato, questo garantismo comunica la possibilità della tolleranza/immunità per comportamenti probabilmente scorretti, spinti in una zona grigia nella quale è meglio non guardare, fino a dare l’idea di un permissivismo/lassismo che si diffonde a permeare la società, l’economia, la cultura giungendo a troppe manifestazioni di religiosità. Dall’altro, inevitabilmente, difficile dire quanto consapevolmente, questo garantismo erode l’autorità dello Stato e delle istituzioni. Le loro procedure e le loro regole possono essere violate senza conseguenze. Sono elastiche. Possono essere interpretate con notevole discrezionalità che talvolta sfiora l’arbitrio.

   Nel giustizialismo si trovano, invece, coloro che danno un’interpretazione inflessibile e immutabile dei principi fondamentali che regolano i rapporti fra le persone e fra quelle persone e le istituzioni. La legge eguale per tutti, “giustizialmente” interpretata, colpisce malamente tutti coloro che sono diseguali per una varietà di elementi sempre esistenti, in particolare, per assenza di risorse economiche, culturali, di visibilità (troppa che potrebbe giustificare il dare loro una lezione; poca che potrebbe consentire un trattamento esagerato senza che vada agli onori/disonori della cronaca), di relazioni sociali. Chi viene lasciato solo è più esposto ai rigori della legge.

   Trattare i diseguali in maniera diseguale richiede un legislatore in grado di individuare almeno le più importanti fattispecie di diseguaglianza disturbante e delineare i trattamenti specifici. Vale la pena tentare tenendo a bada gli sconfinamenti garantisti e le esagerazioni giustizialisti. Tuttavia, nell’ottica di un sistema politico, che può anche essere sovranazionale come l’Unione Europea, ’è un elemento che richiede maggiore attenzione e più approfondita considerazione di altri: il potere, più precisamente il potere politico. Non che il potere economico, il potere sociale, il potere culturale, il potere religioso non si accompagnino anch’essi alla probabilità di elargire favoritismi, ma solo il potere politico è in grado di incidere su tutti i cittadini. Solo il potere politico si estende e si spande su tutto il sistema politico intervenendo anche nei confronti degli altri poteri, assegnando vantaggi e/o sottraendo risorse.

   Chi ha più potere ha, volente o nolente, più responsabilità. Deve accettare più responsabilità, politiche, sociali, giudiziarie. Nessuno dei suoi comportamenti scorretti può essere condonato. Con il potere politico può meglio difendersi dai giudici e dai giustizialisti. Con quel potere politico può anche, a (in)determinate condizioni, continuare nel reato. No, i detentori di potere politico, di governo e di rappresentanza, non sono cittadini come gli altri. Pertanto, non debbono essere trattati come cittadini qualsiasi (i quali, peraltro, sono un insieme molto variegato). Il potere politico non deve essere usato per giustificare l’irresponsabilità, per sfuggire dalle responsabilità. Non è giustizialismo esigere che chi occupa cariche politiche le liberi per difendersi senza sfruttare quel plus che il potere politico inevitabilmente comporta. Si può esigerlo; si può farlo.

Pubblicato il 22 Aprile 2024 su PARADOXAforum

What is Left of the Italian Left? #April24 JHU SAIS Europe – Journal of Modern Italian Studies Special Issue

19:00, Wednesday, April 24, 2024 – PENTHOUSE
Journal of Modern Italian Studies Special Issue – What is Left of the Italian Left?
Patrick McCarthy Memorial Series on Intellectuals and Politics
Supported by the Associazione di cultura e di studio italo-americana Luciano Finelli Friends of the Johns Hopkins University
hosted by Professor Gianfranco Pasquino

John A. Davis
Editor, Journal of Modern Italian Studies; Emiliana Pasca Noether Professor of Modern Italian History, Emeritus, University of Connecticut

Rosa Mulè
Associate Professor of Political Science, University of Bologna

Gianfranco Pasquino
Senior Adjunct Professor, Johns Hopkins University SAIS Europe; Professor Emeritus of Political Science, University of Bologna

Sofia Ventura
Associate Professor of Political Science, University of Bologna

INVITO Evoluzione delle Istituzioni europee: tra funzionalismo, confederazioni e federalismo – Lo dicono i Lincei @Corriere

Martedì 23 aprile ore 15.30
In diretta streaming su video.corriere.it

Evoluzione delle Istituzioni europee: tra funzionalismo, confederazioni e federalismo

Daniele Manca conversa con Gianfranco Pasquino e Alessandro Cavalli

I grandi temi UE cancellati dalle beghe di Bari @DomaniGiornale

A meno di due mesi dalle elezioni per il Parlamento europeo, il dibattito politico e culturale italiano ruota per lo più intorno a alcune logore tematiche di assoluto provincialismo. Riemerge sotto mutate, un po’ farsesche, spoglie la questione morale sulla quale Bari e Torino infliggono/infliggerebbero un colpo decisivo (?) alla superiorità morale della sinistra. Ma la questione morale in politica non è mai stata unicamente pensabile come “non rubare”. Attiene alle modalità di rapporti fra politica e società; al nepotismo (amichettismo?); al controllo vizioso e alla manipolazione delle fonti e dei mezzi di informazione; al maltrattamento in più forme dei cittadini ad opera del potere politico, non solo di governo. Se no, non è questione morale. Semplicemente è questione giudiziaria. Nella misura in cui la questione giudiziaria riguarda la politica e i politici, l’eventuale superiorità sta nella rapidità e nella limpidità della risposta. Nessuna accettazione di comportamenti al limite; nessun rinvio alle calende greche. Passi indietro o di fianco e sospensioni dall’attività istituzionale e politica. Nessun garantismo peloso.

A porre fine all’egemonia culturale della sinistra stanno cooperando in molti i cui meriti culturali pregressi francamente mi sfuggono e i cui obiettivi culturali mi paiono confusi, anche perché la mia concezione di cultura è assolutamente poco nazional-patriottica (ahi, dovevo forse scrivere “nazional-popolare” e citare quel monumento di egemonia della sinistra che è il Festival della canzone italiana di Sanremo?). Non vedo, peraltro, l’irresistibile ascesa della cultura di destra nonostante la promozione di alcuni dei suoi pochi rappresentanti a ospiti frequenti dei talk show da mane a sera. Sfondamenti culturali di destra non ne sono stati fatti; prestigiosi premi internazionali non ne sono stati vinti. Non ho finora neanche visto un serio confronto culturale fra gli esponenti dell’egemonia tristemente declinante e quelli dell’egemonia ascendente, arrembante. Se con cultura intendiamo, come dovremmo, anche tutto quanto attiene alla vita e alla morte, temo l’ascesa di una cultura che nega qualsiasi libertà di scelta. Deleteria sarebbe qualsiasi egemonia “culturale” religiosa. Preoccupanti sono gli “intellettuali” di sinistra che per mostrarsi superiori lodano parole e scelte dei papi di turno. Talvolta, sembra che sia venuta meno non tanto l’egemonia, ma la fede (oops, fiducia) nella ragione.

Risollevare il dibattito e metterlo su binari culturali e politici produttivi è possibile aprendo gli occhi e le orecchie a quel che si discute e si decide nell’Unione Europea, non derubricando come non vincolante il voto a larga maggioranza per l’inserimento dell’interruzione della gravidanza nella Carta dei diritti dell’UE, ma confrontandovisi. C’è un tempo per le polemichette di parrocchia e un tempo per i dibattiti e le scelte che riguardano più di 400 milioni di abitanti nell’Unione Europea. Il tempo è quello della campagna per l’elezione del Parlamento europeo, l’istituzione che rappresenta con crescente efficacia le nostre preferenze e i nostri interessi, ma anche le nostre aspettative e i nostri valori. Farvisi eleggere con l’obiettivo di limitarne i poteri e ridurne le competenze è operazione sovranista, legittima, ma deliberatamente non “europeista”. Poiché le idee e anche i valori camminano sulle gambe degli uomini e, anche (!), delle donne, è giusto che le candidature, esperienza, competenza, opportunità, siano oggetto di discussione. Non debbono, però, impedire o addirittura cancellare il confronto su quale Europa vorremmo nei prossimi cinque importantissimi anni. La mia sintesi è semplicissima: una Europa luogo di diritti e di democrazia, di diversità e di accoglienza, capace di difendersi. Sono sicuro che gli ex-egemoni e gli aspiranti egemoni declineranno splendide risposte europee, politiche e culturali, alle sfide che incombono. Il tempo è questo.

Pubblicato il 17 aprile 2024 su Domani

Conservatorismo(i) e Progressismo(i): mentalità e pratiche #Progressismo ParadoXa 1/2024

G. Pasquino*, Conservatorismo(i) e Progressismo(i): mentalità e pratiche, in Progressismo. Prospettive criticità attualità, ParadoXa gennaio/marzo 2024 · anno XVIII · numero 1, (pp. 23-35)

The Progressive Era (1896–1917) was a period of widespread social activism and political reform across the United States focused on defeating corruption, monopoly, waste, and inefficiency.

Pongo in testa a questa difficile riflessione su “conservatorismo e progressismo” la sintetica valutazione che Wikipedia esprime su un ventennio molto importante della storia politica degli USA. I progressisti si impegna(ro)no con attivismo sociale e riforme politiche al fine di sconfiggere la corruzione, i monopoli, gli sprechi e l’inefficienza. Noto subito che in nessun modo se ne deve derivare che i conservatori siano disponibili ad accettare l’esistenza, la permanenza e la perpetuazione di quei quattro gravi vizi sistemici. In materia, la linea distintiva fra progressisti e conservatori concerne le modalità con le quali quelle politiche vengono formulate e applicate e da quali coalizioni di interessi e ideali sono sostenute. Troppo facile sarebbe rispondere che, dunque, bisogna contare sulla presenza di uno o più partiti conservatori che si contrappongono a uno o più partiti che si definiscono progressisti per cogliere tutte o quasi le differenze intercorrenti. Nel corso dell’articolo vedremo come meglio procedere a questa distinzione e quale è la sua validità interpretativa.

   In questo mondo del politically correct e della cancel culture, dei fondamentalismi, dei populismi e dei personalismi, andare alla ricerca di idee/ideali politici con fondamenta culturali di una qualche profondità sembra essere un’operazione tanto difficile quanto destinata all’insuccesso. Quando non sono sostanzialmente scomparse (come ho sostenuto a proposito dell’Italia nel fascicolo di “Paradoxa”, Anno IX, n. 4, Ottobre-Dicembre 2015), un po’ dappertutto le culture politiche, in special modo, quelle, classiche, dal liberalismo al socialismo, che hanno segnato i due secoli successivi alla rivoluzione francese, sono diventate tenui, pallide, sostituite da populismi differenziati di molte risme e da fondamentalismi di molte credenze religiose.

Atti di nascita. In questo quadro generale, la dicotomia “conservatorismo/progressismo” ha, per quanto immersa in tempi molto lontani e molto diversi, quelli dell’Illuminismo, una sua specificità degna di nota. Prima di allora, ovvero prima degli illuministi, quella dicotomia era inesistente. Sarebbe, comunque, apparsa priva di senso; era sostanzialmente improponibile. Più in generale, azzardo qui e non riprenderò oltre, la dicotomia conservatorismo/progressismo si sovrappone largamente alla dicotomia “destra/sinistra” non soltanto nella molto nota e importante, peraltro non del tutto esente da critiche, non però distruttive, trattazione che ne ha fatto Norberto Bobbio (Destra e sinistra. Ragioni e significati di una distinzione politica, Roma, Donzelli, 1994, 2023), ma anche, in misura variabile, nelle pratiche politiche e, a richiesta dei sondaggisti, nelle autoconcezioni e autocollocazioni politiche/partitiche della stragrande maggioranza degli intervistati delle democrazie contemporanee.

In buona sostanza, credo che sia plausibile e corretto sostenere che la dicotomia “conservatorismo/progressismo” nasce attorno alla rivoluzione francese del 1789 e con riferimento a quell’evento, alla sua dinamica e alle sue implicazioni. Con tutte le semplificazioni del caso, che farebbero la felicità di ricercatori eruditi, ma ancora curiosi, quella rivoluzione è anche, sottolineo anche, il prodotto di un pensiero, non esclusivamente politico, ricco e articolato come quello degli illuministi e della loro credenza e fiducia in miglioramenti possibili, nel progresso. Molto, ma non troppo, indirettamente, una fiducia non dissimile può essere trovata nella Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati che, fra i diritti inalienabili, oltre alla vita e alla libertà, include “il perseguimento della felicità” ovvero, nella mia ardita interpretazione, la ricerca di miglioramenti, dunque di progresso, nelle condizioni materiali e emozionali di vita delle persone.

A riprova delle enormi diversità rispetto alla rivoluzione francese, la rivoluzione americana, forse da intendere meglio come la prima guerra di liberazione nazionale, consentì e facilitò carriere politiche di enorme successo a tutti i suoi figli. Dal canto suo, la rivoluzione francese i suoi figli li divorò tutti in tempi brevi. In un certo senso, seppellì, almeno per qualche tempo, l’idea di progresso e ebbe il merito, assolutamente paradossale, di suscitare l’elaborazione iniziale più compiuta del conservatorismo, quella di Edmund Burke (1730-1797). Da Wikipedia definito “politico, filosofo e scrittore anglo-irlandese”, Burke, severissimo critico della Rivoluzione francese (nel libro Riflessioni sulla Rivoluzione in Francia, 1790) che è possibile considerare come il punto più alto raggiunto da coloro che credevano nel progresso e lo volevano, è il conservatore imprescindibile. Non posso approfondire, ma il bel libro di Yuval Levin, The Great Debate: Edmund Burke, Thomas Paine, and the Birth of Right and Left. New York: Basic Books 2014, offre un’ottima indagine sulle due contrapposte prospettive (Paine,1737-1809, fu illuminista, radicale, combattente nella rivoluzione americana), come furono elaborate, con quante e quali differenze e implicazioni su pensiero e azione.

Segni di vita/lità. Quanto di quella contrapposizione sia rimasta, continui a improntare atteggiamenti e visioni del mondo, faccia parte integrale della politica contemporanea e la influenzi merita di essere esplorato nelle sue ramificazioni e nelle sue manifestazioni contemporanee. Per cominciare, è possibile e utile mettere alcuni punti fermi. Sosterrei, in primo luogo, che il conservatorismo, inteso come pensiero, appare più coerente e più compatto del progressismo. Risulta anche dotato di elementi che poggiano su un terreno di idee e di pratiche più solide del progressismo. Volendo, il conservatorismo è in grado di fare riferimento a un vate dal pensiero forte e a un partito politico, quello inglese, per il quale Burke fu a lungo deputato, partito che dispone di una storia e che ha esercitato significativo potere politico e periodicamente continua a conquistarlo. Mi riferisco, naturalmente, al Partito Conservatore inglese, peraltro noto anche come Tory. Sarebbe facile e probabilmente anche corretto considerare il Partito Conservatore inglese, anche grazie alla sua preminenza e al lungo e frequente controllo e esercizio del potere di governo, come il progenitore di tutti i partiti conservatori, in particolare di quelli che hanno fatto la loro comparsa e che esistono nelle democrazie anglosassoni. In buona misura, è certamente così. Tuttavia, l’osservatore attento non può fare a meno di cogliere, da un lato, accentuazioni molto diverse su alcuni temi portanti; dall’altro, differenze programmatiche non marginali. Approfondimenti convincenti richiederebbero analisi comparate per me improponibili a causa delle difficoltà di individuazione dei più vari tipi di conservatori(smi) a cominciare addirittura dai materiali di base che soltanto gruppi di ricerca ampi e strutturati potrebbero reperire, analizzare, portare a sintesi. 

Non esiste un pensatore del progressismo comparabile a Burke come statura intellettuale tranne se consideriamo gli illuministi francesi, Diderot, Voltaire, D’Alembert, ma non Rousseau, nel loro insieme. In seguito, fu Immanuel Kant a parlare soprattutto di progresso scientifico e delle difficoltà del pure auspicabile e prospettabile progresso morale. Questa distinzione spesso trascurata è cruciale, meritevole di una molteplicità di precisazioni e approfondimenti. Più in generale l’idea di progresso è soggiacente a tutte le teorie della storia formulate come stadi da Charles Darwin, Herbert Spencer e Karl Marx, ciascuno stadio essendo superiore al precedente e quindi rappresentando una evoluzione, termine talvolta preferito a progresso, rispetto al precedente.

   Non intendendo svolgere una ricognizione esaustiva sulle teorie della storia, sicuramente molto al di là delle mie capacità e conoscenze, concludo provvisoriamente sottolineando che la parola progresso non appare nell’indice dei nomi dell’opus magnum di Max Weber, Economia e società. Desidero, però, non soltanto per ragioni disciplinari, fare riferimento ad un conciso libro sullo sviluppo politico, essendo sviluppo a sua volta un termine assimilabile a progresso: A.F.K Organski, The Stages of Political Development (New York, A. Knopf, 1965, trad. it, con il titolo Le forme dello sviluppo politico (Roma-Bari, Laterza, 1970). Purtroppo, il titolo italiano è assolutamente fuorviante e manca clamorosamente il bersaglio. Infatti, prendendo le mosse da un famoso libro di Walt Rostow sugli stadi dello sviluppo economico, offre una efficace analisi del fascismo come “stadio trasformativo” che blocca la democratizzazione, ma al tempo stesso la prelude. Quindi, il fascismo, assolutamente non assimilabile a nessuna variante di conservatorismo, risulta l’inconsapevole e involontario artefice del progresso politico.  

Sopra ho fatto cenno al Partito Conservatore inglese come il padre di tutti i conservatori. Adesso, spostando il tiro sui progressisti mi rendo immediatamente conto che non sono in grado di identificarne un padre. Questa assenza è spiegabile, forse spiegata, dalla esistenza e presenza dei partiti socialisti/socialdemocratici che fanno del miglioramento delle condizioni di vita, del progresso sociale, economico, culturale la ragione stessa della loro esistenza e azione. Queste idee che sono anche obiettivi hanno permeato tutto il secolo XX tanto da farne, come scrisse il grande sociologo Ralf Dahrendorf, il “secolo socialdemocratico”. La fiducia dei socialdemocratici nella scienza si traduce per molti di loro anche nella convinzione che le scoperte scientifiche, la crescita economica, le trasformazioni materiali porteranno a positivi mutamenti culturali, al progresso nell’ambito morale, nelle credenze relative all’eguaglianza e alla giustizia sociale. Per i partiti comunisti, il progresso, in special modo se graduale, era non soltanto insufficiente, ma andando a scapito di una trasformazione più rapida e più profonda, più coinvolgente, forse anche irreversibile, vale a dire la rivoluzione (come presupposto per la comparsa e affermazione dell’homo novus), era da criticare, condannare, contrastare. Nessun “progresso” avrebbe portato prima o poi alla rivoluzione. È la nota contrapposizione “riforme contro rivoluzione” per la quale rimando al piccolo denso saggio del socialista Antonio Giolitti (Torino, Einaudi, 1957). Qualsiasi progresso sociale, economico, politico rischiava di rendere più improbabile e più difficile la rivoluzione, la rimandava sine die. Tuttavia, sta al cuore del marxismo stesso l’idea che gli stadi della trasformazione storica condurranno al punto più elevato, il comunismo, il massimo di progresso concepibile e realizzabile.

Esemplificazioni random. Per saperne di più mi pare utile rincorrere e mettere in evidenza senza nessuna pretesa di sistematicità alcune manifestazioni di progressismo e di conservatorismo. Negli USA, qualsiasi riferimento al socialismo, persino prima della rivoluzione bolscevica, suscitava reazioni molto negative (continua a farlo). Peraltro, nel 1901 fece la sua comparsa il Partito Socialista d’America (sciolto nel 1973) dal quale nel 1919 nacque il Partito Comunista d’America. Non si deve sottacere l’esistenza di un partito progressista portatore dell’ottimismo delle possibilità nel futuro spesso attribuito più in generale alla cultura politica USA. La storia del Progressive Party negli Stati Uniti si colloca all’interno della Progressive Era (1896-1917) un periodo, ripeto la citazione da Wikipedia messa in testa a questo articolo, di “diffuso attivismo sociale e riformismo politico” inteso a sconfiggere “la corruzione, i monopoli, lo spreco, l’inefficienza”. Su quest’onda di proteste e di obiettivi mobilitanti, mirando a trarne profitto politico nacque nel 1912 il Progressive Party, prodotto di una scissione del Partito Repubblicano. Subito presentò un suo candidato alle elezioni presidenziali nello stesso 1912. Lo fece ancora nel 1916 e nel 1920. La personalità più nota, più duratura e influente ne è stato il governatore del Wisconsin, poi anche Senatore, Robert M. La Follette. Qui trovo opportuno rilevare e sottolineare che, in un certo senso, negli Stati Uniti il pragmatismo di John Dewey (1859-1952) può essere interpretato come la filosofia politica del progressismo. In forma diversa, sarà un altro Progressive Party a costituire il veicolo politico-organizzativo di Henry A. Wallace, già Vice-Presidente del democratico Franklin D. Roosevelt, nelle elezioni presidenziali dl 1948 con una prestazione molto mediocre.

   Nello stesso periodo, il conservatorismo caratterizza pensiero e azione dei Presidenti Repubblicani Warren Harding (1921-1923), Calvin Coolidge (1923-1929) e Herbert Hoover (1929-1933). Anche in questo caso non ho lo spazio per approfondire, ma negli ultimi vent’anni il forte spostamento a destra dei Repubblicani ha fatto del loro partito il veicolo di politiche tecnicamente reazionarie: non solo conservare, ma tornare indietro. La filosofia giuridica prima che politica che sottende questo spostamento è definita originalismo, utilizzato come principio dominante, se non esclusivo, per l’interpretazione della Costituzione USA. Furbescamente, il Presidente George W. Bush (2000-2008) cercò di ridefinire le sue politiche attribuendole ad una visione di “conservatorismo compassionevole”. Immagino che il contrario sia il conservatorismo punitivo, forse crudele, dal quale Bush intendeva prendere le distanze. Non è questo il luogo per stabilire se vi sia riuscito, ma certo “compassionevole” non è aggettivo che si possa usare per la visione conservatrice di Donald Trump, prima, durante e dopo la sua Presidenza.

Per contrastare questa visione la propaganda democratica enfatizza che il Presidente Biden e la Vicepresidente Harris stanno lavorando sodo spingendo per il progresso (Newsletter digitale Team Joe, 21 ottobre 2023). Come esponenti di un partito mai noto per la sua compattezza, se non nell’era rooseveltiana (1932-1948), i Democratici continuano nella loro politica, diventata sempre più complicata, di costruzione di alleanze, ma al loro interno hanno fatto comparsa, da un lato, il Sen. Bernie Sanders con la sua convinzione della necessità di una “rivoluzione politica”, dall’altro, donne e uomini giovani eletti alla Camera dei Rappresentanti che si fanno vanto dell’etichetta di Progressisti. Anche da questo sviluppo ben si comprende come la politica USA si sia fortemente polarizzata. Progresso è andare oltre le politiche esistenti, più avanti, mentre lo slogan trumpiano di grande successo Make America Great Again (MAGA) fa riferimento ad un passato di (quasi sicuramente esagerato) splendore politico, economico e militare, come obiettivo da recuperare. Attorno a questo slogan si raccolgono tutti i conservatori, prevalentemente bianchi di mezz’età e più che quel passato hanno sperimentato, lo rimpiangono, pensano possa essere ricostruito e vedono in Trump il ricostruttore.  

   Per quanto nient’affatto esaustive e necessariamente aneddotiche, ma non prive di rilevanza e capacità suggestiva, le indicazioni e considerazioni contenute nella panoramica condotta fin qui dovrebbero avere il pregio di segnalare la difficoltà di contrapporre limpidamente conservatorismo a progressismo, con il primo che sembra mostrare maggiore coerenza e profondità. In tempi recenti le dinamiche politiche hanno aggiunto specificazioni che comportano maggiore confusione, talvolta vere e proprie manipolazioni intese a conseguire qualche vantaggio politico-elettorale. Mi limito a poche esemplificazioni che ritengo probanti. In Danimarca del 1972 e in Norvegia dal 1973 è attivo un Partito del Progresso il cui nucleo programmatico è costituito dalla riduzione delle tasse. Altrove, ad esempio in Italia, la riduzione delle tasse è, abitualmente, uno degli obiettivi più spesso dichiarati, ancorché raramente conseguiti, dei parti di destra, conservatori.

Su un piano diverso, nel contesto italiano, il segretario del Partito Comunista Enrico Berlinguer fece scandalo quando nel 1978 dichiarò di essere al tempo stesso conservatore e rivoluzionario. Pochi notarono che anni prima, nel 1943, era stato il grande filosofo liberale Benedetto Croce a definirsi politicamente facendo ricorso agli stessi aggettivi che, a parere di molti, sono inconciliabili.

   Dal canto suo, l’attuale Presidente del Consiglio italiano, Giorgia Meloni è anche orgogliosamente presidente del Gruppo Conservatori e Riformisti Europei il cui asse portante è la difesa, forse anche il recupero, della sovranità nazionale. Lo dirò meglio: “conservare” la sovranità nazionale contro il progressivo scivolamento sovranazionale e federalista dell’Unione Europea.

Una concettualizzazione accettabile. A questo punto, dopo avere indicato en passant, in maniera mai sistematica, ricorrendo al non-metodo che in inglese si chiama cherry picking, non posso più eludere l’approfondimento concettuale. Piuttosto che procedere a dotte disquisizioni relative alle motivazioni di Croce e di Berlinguer, credo che sia giunto il momento di definire conservatorismo e progressismo con riferimento al loro rispettivo pensiero (politico, sociale, economico, culturale, istituzionale). La procedura corretta mi pare debba consistere nel delineare quelle che chiamerò le sindromi di conservatorismo e di progressismo. La fonte essenziale per il conservatorismo non può, come ho già scritto, che essere il pensiero e l’elaborazione di Burke. Per lui, il conservatorismo si caratterizza come un insieme di tradizione, autorità, gerarchia, ordine e prudenza. In un certo senso, si tratta di credenze e atteggiamenti che furono travolti dalla e nella rivoluzione francese. La tentazione di definire il progressismo come tutto il contrario deve essere contrastata e respinta. Però, prima di essere più precisi nella chiarificazione della sindrome propria del progressismo che dalla rivoluzione francese in poi ha continuato a cambiare, è opportuno chiarire i contenuti dei principi del conservatorismo.

Non credo possano esserci dubbi e contestazioni su due premesse che considero essenziali, fondanti. Prima premessa: il conservatorismo tiene in grande conto il passato e cerca di preservarne e di trasmetterne gli aspetti migliori. Nel progressismo si trovano opinioni diverse che, tuttavia, convergono su un punto importante: il passato deve essere superato affinché si possa perseguire e costruire il futuro. Fra i progressisti c’è anche la convinzione che quel futuro sarà migliore. Nello spesso citato titolo dell’autobiografia pubblicata postuma di un antifascista comunista francese Gabriel Péri,: Les lendemains qui chantent, si trova la forte convinzione di un futuro radioso che, nel tempo, ha ispirato molti progressisti. Mentre scrivevo quest’articolo mi sono imbattuto nella frase “dobbiamo essere acerrimi avversari della paura di futuro” pronunciate dalla segretaria del PD Elly Schlein al Congresso dei Popolari, il 2 dicembre 2023. In effetti, è oramai da qualche tempo che i progressisti manifestano qualche perplessità sul futuro, anche/proprio quello che dovrebbero offrire e illuminare per i loro concittadini.

In un certo senso, il conservatorismo, in special modo nelle società democratiche in trasformazione, sembra avere buon gioco. Può farsi forte della necessità di preservare valori e stili di vita che larga parte della popolazione conosce, con i quali è cresciuta e, grazie ai quali, ha probabilmente già almeno un po’ migliorato la sua vita. Rispetto delle tradizioni, ossequio alle autorità, preferenza per l’ordine costituito, accettazione delle regole, delle procedure e delle istituzioni esistenti. Per quanto necessariamente schematico il trittico Dio, Patria e Famiglia, sintetizza il blocco di credenze che innerva il conservatorismo. Bisognerà, poi, vederne la manifestazione e l’impatto, certamente differenziati, nei vari sistemi politici e anche le rivisitazioni e gli aggiornamenti. In alcuni casi, gli sviluppi dipendono dalle sfide provenienti dai fatti nuovi e dalle reazioni, più o meno forti, a seconda dell’esistenza di partiti e di personalità politiche, intellettuali, religiose che difendano e argomentino il conservatorismo.

   Le sfide, alcuni studiosi le raggruppano e le etichettano come secolarizzazione e modernità, colpiscono al cuore la religione, la nazione, la famiglia tradizionale. I più abili dei conservatori si adeguano flessibilmente senza cedere il punto e approntano risposte, finora, almeno in parte, non prive di successo. Definirò questo successo con riferimento a due parametri: primo, riaffermare la validità del trittico “Dio, Patria, Famiglia” con opportune declinazioni; secondo, opporre ostacoli e rallentare i cambiamenti pure inevitabili. Al proposito, sento che per illuminare le differenze fra conservatorismo e progressismo vi sarebbe l’esigenza di riflettere da una pluralità di prospettive sul multiculturalismo, come è stato definito, come è stato applicato, come è stato valutato, quale è la sua condizione attuale (non proprio brillante).

Sarebbe un errore pensare che il progressismo non sia consapevole della forza, trainante o frenante, della triade “Dio, Patria, Famiglia”. Non è sbagliato, invece, sottolineare che i i valori del progressismo non sono stati delineati in antitesi alla triade che attribuisco al conservatorismo. Si può sostenere, però, che nel confronto si sono palesati comportamenti diversi, non definibili come una strategia elaborata. In estrema sintesi: molto raramente combattere a viso aperto quei valori; spesso consegnarli all’oblio e alla (illusoria) irrilevanza; semplicemente andare oltre senza riferimenti espliciti di nessun tipo o quasi. D’altronde, il progressismo è ovvero intende presentarsi e dipanarsi all’insegna di un obiettivo sovrastante: la costruzione del futuro, costitutivamente di un futuro migliore. Al proposito, intraprendo un’operazione dalla quale i progressisti si tengono lontani: spiegarne l’atteggiamento nei confronti di ciascuno degli elementi della triade.

“A ciascuno il suo Dio” non è soltanto il riconoscimento da parte dei progressisti dell’irrinunciabile pluralismo religioso, ma anche la manifestazione di una loro indifferenza, che i conservatori non mancano di criticare, nei confronti di importanti valori religiosi. Separazione Stato/Chiesa che è anche separazione fra politica e religione, fondamento dei regimi teocratici (Iran), ma anche religione instrumentum regni nelle mani di autocrati fra i quali spicca il Presidente turco Erdogan, ma il cui paradigma è rappresentato dall’Arabia Saudita. Per quanto non sia in nessun modo possibile affermare che, di per sé, i progressisti non abbiano amor di patria (in Italia, il progressista Maurizio Viroli ha scritto pagine importanti in materia), il loro internazionalismo (“proletari di tutto il mondo unitevi”) e la loro preferenza, in particolare in Europa, per la cessione di parte della sovranità nazionale e di condivisione della sovranità a livello quasi federale, offrono il fianco ai sovranisti che fanno appello ad affetti primordiali (di cui non si possono negare derive nazionaliste). La famiglia tradizionale è oramai minoritaria non esclusivamente in tutti regimi democratici, ma, mentre i conservatori cercano in ogni modo di sostenerla e di salvarla, molto (troppo?) spesso il messaggio dei progressisti sembra essere duplice: i) mettere sullo stesso piano della famiglia tradizionale tutte le più variegate forme di convivenza, ii) incoraggiare qualsiasi modalità di convivenza non tradizionale e, implicitamente criticare coloro che manifestano preoccupazioni e perplessità, vantarsene e vantarle, quasi prefigurassero un futuro migliore.

Non finisce qui. Giunto è il momento di tirare le somme di un discorso, di una comparazione, di un confronto/scontro che sono tutti destinati a fluttuare e rimanere aperti e controversi poiché la vittoria definitiva degli uni o degli altri sfocerebbe nel totalitarismo. Non sono convinto che il conservatorismo sia, come ha scritto Antonio Polito nel suo articolo Dare voce all’Italia conservatrice. Tre ricette per una svolta politica (“Corriere della Sera”, 2 novembre 2023, p. 37: un “consapevole moto volto a governare il processo della modernità, che non ne discute le premesse e i paradigmi, ma cerca di ricondurlo in un alveo sostenibile”; Dirò che il conservatorismo parte avvantaggiato: conservare risulta molto spesso più facile che innovare. Mantenere quello che abbiamo, a cominciare dai valori e dagli stili di vita, costa meno sforzi e implica meno rischi di impegnarsi in trasformazioni mai prima tentate. Convincere i propri concittadini della bontà di un futuro sconosciuto tutto da costruire è operazione che dovrebbe fare tremare le vene ai polsi, non importa quante vene né quanti polsi, anche se i progressisti sanno che l’unione fa la forza, ma il futuro si costruisce non con la forza, ma con l’egemonia culturale, anche transeunte. I progressisti sanno anche, o dovrebbero imparare che il progresso che propongono richiede una definizione chiara e convincente degli obiettivi da perseguire, che bisogna volere e riuscire a distinguere cambiamento da miglioramento, che non esiste un solo futuro possibile, che le riforme che non costruiscono il futuro preferibile debbono essere rapidamente riformate.

Conservatorismo e progressismo non sono più, ma forse non lo sono mai state, vere e proprie ideologie. Certamente, Burke avrebbe sdegnosamente, con ragione, respinto il termine ideologia per caratterizzare il suo pensiero conservatore. A loro volta, anche i socialdemocratici scandinavi, a mio parere esemplificativi del punto più alto di elaborazione culturale e pratica politica del progressismo, non hanno proceduto a elaborazioni di natura ideologica.

   Per entrambi faremmo meglio a ricorrere al concetto di mentalità, al plurale, intese come insiemi di idee non in contraddizione che si mescolano liberamente con alcune altre idee, raramente le stesse, che di tanto in tanto acquisiscono la preminenza. Queste considerazioni valgono anche per i rapporti di quelle mentalità con il mercato e con la scienza, tematiche importantissime, ciascuna delle quali meritevole di affascinanti ricognizioni, qui non possibili.

Per entrambi, il nucleo è sufficientemente chiaro e distinto. Non cambia. Il contorno aggiungerà di volta in volta gli elementi più appropriati, mai tali da scalfire il nucleo, per lo più in condizione di aggiornarlo e di arricchirlo. Questa relativa, sottolineo relativa, flessibilità dei concetti di conservatorismo e progressismo ne spiega la durata nel corso del tempo e, nonostante cambiamenti epocali nell’ambiente, il loro appello (appeal) contemporaneo, quello del conservatorismo superiore al progressismo, in situazioni molto diverse.       

Coda Quando mi ero convinto di avere trattato conservatorismo e progressismo con la dovuta cautela, con le necessarie distinzioni, con opportuni esempi e selezionati riferimenti, mi è tornata in mente un frase che lessi una trentina/quarantina d’anni del grande intellettuale al tempo molto famoso e citato Daniel Bell, docente di sociologia a Harvard per decenni a partire dal 1970, autore di molti libri due dei quali particolarmente importanti: La fine delle ideologie (1959) e L’avvento della società post-industriale (1973), entrambi rilevanti tanto per i progressisti quanto per i conservatori. Non sono riuscito a trovare la fonte che neppure la Treccani indica. Probabilmente in una delle numerose interviste che era quasi obbligato a concedere, prezzo della sua fama, nel 1983, Bell si autodefinì: “socialista in economia, progressista in politicaconservatore in cultura“.

Non ritengo che questa definizione che fa riferimento sia al progressismo sia al conservatorismo come componenti capaci di convivere negli atteggiamenti e nelle convinzioni di una persona(lità) ponga una pietra tombale sull’utilità di distinguere principi e valori, luoghi e sedi. Non preclude il lavoro di chiarificazione concettuale. Anzi, lo spacchettamento “economia, politica, cultura” vi prelude ingegnosamente. Vi colgo un richiamo alto e esplicito alla complessità di entrambi i concetti e delle loro manifestazioni. In sostanza, non finisce qui.

*Gianfranco PASQUINO (1942) torinese, è Professore Emerito di Scienza Politica nell’Università di Bologna e Socio dell’Accademia dei Lincei. Nella legislatura 1994-1996 è stato un inquieto Senatore del Gruppo Progressisti. I suoi libri più recenti sono Libertà inutile. Profilo ideologico dell’Italia repubblicana (UTET 2021); Tra scienza e politica. Una autobiografia (UTET 2022) e Il lavoro intellettuale. Cos’è, come si fa, a cosa serve, (UTET 2023). Ha altresì curato il volume Fascismo. Quel che è stato. Quel che rimane (Treccani 2022).

Le accuse dell’epoca? Il Pd non seppe reagire ma il M5S ora si scusi #Bibbiano #Intervista @ildubbionews

Intervista raccolta da Giacomo Puletti

Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza Politica a Bologna, descrive il “caso Bibbiano”

«Una delle vicende peggiori di mala informazione dell’Italia nella seconda parte della seconda Repubblica». Così Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza Politica a Bologna, descrive il “caso Bibbiano”, sul quale deve essere «il M5S a riconoscere gli errori e a chiedere scusa».

Professor Pasquino, dopo che il caso Bibbiano è stato smontato, crede che il Pd dovrebbe avere uno scatto d’orgoglio e ricordare le terribili accuse del M5S dell’epoca?

Credo che il cosiddetto “caso Bibbiano” sia stata una delle vicende peggiori di mala informazione dell’Italia nella seconda parte della seconda Repubblica. Le scuole in Emilia Romagna sono buone, spesso ottime, c’è impegno, partecipazione, istruzione. Il Pd all’epoca si è fatto cogliere di sorpresa e non ha saputo reagire in maniera efficace a quelle accuse. Sono contento che si sia arrivati a una rettifica della situazione ma capisco anche la ritrosia del Pd nel tornare su quelle vicende. Dovrebbe invece essere il M5S a riconoscere gli errori e a chiedere scusa.

Pensa che la ritrosia del Pd sia dovuta anche al cambiamento dei rapporti intercorso nel frattempo con il M5S?

Diciamo che allora sembrava che fosse il M5S a dettare le carte, visto che era in ascesa. Oggi non è più così, anche se sta cercando di aggrapparsi a quel 15- 17% di voti che ha. Ma ormai sono tutti arrivati alla conclusione che se vogliono tornare a governare il Paese è inevitabile accordarsi con il Pd. Conte pensa che questo accordo si troverà nel momento in cui i rapporti di forza saranno riequilibrati e il Pd riconoscerà che è lui il candidato alla presidenza del Consiglio. Riconoscimento che non arriverà mai, visto che il Pd ha più voti e soprattutto più classe dirigente, mentre sulla capacità di governo del M5S è d’obbligo avere molte riserve.

Eppure Conte sta mettendo all’angolo Schlein, chiedendole in sostanza di abbandonare i cosiddetti cacicchi e capibastone. Ci riuscirà?

Chiariamo subito un fatto. Nel Pd non ci sono né capibastone né cacicchi. Ci sono casomai capicorrente che forse sono lì da troppo tempo e forse sono troppo immobilisti. Qualche volta poi ci sono dei signori delle tessere ma ereditati da una precedente situazione, visto che a Torino quel tale Gallo sembra essere un erede della tradizione socialista, non certo comunista. Nel Pci non c’erano signori delle tessere semplicemente perché non ce n’era bisogno. Contava insomma il partito.

Cosa sta succedendo al Pd di Bari e Torino?

È successo che sia a Torino che a Bari, quindi in realtà molto distanti sia geograficamente che politicamente, il partito non ha avuto la capacità di controllare adeguatamente chi entrava e si accasava, o ancora con quali gruppi esterni stabilire relazioni durature e concrete. E quando questo accade è un grosso problema, perché il partito si sfalda. E non si tratta di rimuovere o declassare quattro o cinque persone, ma di ricostruire il partito. Ho l’impressione che Schlein non abbia ancora colto il punto rilevante, cioè che è bene rifare il partito, non andare avanti a colpi di movimentismo. Se un movimento non si struttura, evapora.

Il M5S ha perso milioni di voti proprio perché inesistente o quasi sui territori?

Il M5S non ha mai capito l’importanza della presenza sul territorio perché voleva fare politica online e basta. E questo è un errore grave perché non consente stabilità e produce situazioni altalenanti e di grande debolezza. Non penso che oggi Conte stia pensando di strutturarsi ma deve imparare alcune lezioni. Alessandra Todde, ad esempio, ha vinto in Sardegna perché esiste, ha una sua accountability, ha radicamento sul territorio. Altrove il M5S perde perché i candidati non sono presenti sul territorio.

Eppure quello zoccolo duro attorno al 15% resiste. Crede che sfruttando i guai giudiziari del Pd Conte possa incrementare i consensi?

Per alimentare consenso servono buone politiche, in questo caso una buona opposizione, che si fa con buoni parlamentari. Il M5S ne ha alcuni, ma la regola dei due mandati finisce per indebolire il partito e impedire la crescita di tali elementi. E così rimane solo Conte, che ha dei pregi ma non tali da poter aspirare a prendersi l’elettorato Pd, che è distante da quello grillino. L’unica cosa che Conte può fare è tentare di riguadagnare l’elettorato del 2018, che oggi si astiene. A quell’elettorato dovrebbe fare un’offerta vicina a quella del M5S della prima fase.

A leggere i dati anche l’elettorato M5S è molto distante da quello dem, anzi, fosse per la base grillina forse neanche si costituirebbe il cosiddetto “campo largo”…

È vero che l’elettorato M5S è più disponibile a cercare alternative diverse a quella del Pd e questo lo rende pertanto abbastanza inaffidabile. Ma la verità è che basta ragionare per rendersi conto che il M5S può tornare al governo soltanto attraverso il Pd. E solo Conte può prendere l’iniziativa di sposare in toto l’alleanza con i dem, con tanto di strutture adeguate e un’idea comune di Paese.

Al momento l’unica cosa che sembra fare Conte è mettere in difficoltà Schlein, basta pensare al caso Bari.

Sul caso Bari, mettere in difficoltà il Pd significa consegnare la città alla destra. Poi certo, io non sono giustizialista ma sono molto severo e penso che quando si verificano situazioni di questo genere occorra epurare. Non si può aspettare l’esito di un processo che dura sette o otto anni. Bisogna prendere atto che qualcosa non ha funzionato e cambiare. Il che significa parlare con l’alleato e trovare soluzioni gradite a entrambi..

Talvolta aspettare l’esito di un processo significa abbattere la carriera politica e la vita di una persona, che magari poi viene assolta: i partiti non dovrebbero avere più coraggio nel difendere la presunzione d’innocenza dei loro esponenti?

Le dimissioni di un politico dipendono molto spesso dalla propria sensibilità. Un tale assessore può essere assolutamente convinto della propria innocenza ma in quel preciso momento magari le dimissioni giovano di più al partito. In questo caso l’interesse del partito deve essere superiore agli interessi personali di breve periodo. Poi è chiaro che i partiti dovrebbero sapere molto di più delle attività lecite o non lecite svolte da qualcuno che ha cariche locali.

Pubblicata il 12 aprile 2024 su Il Dubbio

INVITO Lezione sulla democrazia #13aprile #Lugo (RA) @pandorarivista – Fratture: conversazioni sul presente

 Sabato 13 aprile ore 11.45
Chiostro del Carmine di Lugo (RA), ingresso da Piazza Fabrizio Trisi

Lezione sulla democrazia

con GIANFRANCO PASQUINO – Professore emerito di Scienza politica Università di Bologna

Qui il link per prenotare un posto all’evento

Gianfranco Pasquino: allievo di Norberto Bobbio e Giovanni Sartori, è professore emerito di Scienza politica all’Università di Bologna e Socio dell’Accademia dei Lincei. È stato direttore della rivista il Mulino e Presidente della Società Italiana di Scienza Politica. Si è a lungo occupato dello studio dei sistemi politici, delle questioni legate alla cittadinanza e alla democrazia e dell’analisi del sistema politico italiano. Tra le sue pubblicazioni: Il lavoro intellettuale. Cos’è, come si fa, a cosa serveLibertà inutile. Profilo ideologico dell’Italia repubblicana e Bobbio e Sartori. Capire e cambiare la politica.

Evento a ingresso libero con possibilità di prenotazione da questa pagina  

Il voto di scambio infetta l’essenza della politica. La questione morale è politica. @Domanigiornale

La buona notizia è che gli italiani, forse, non si sono ancora assuefatti alle questioni immorali e non sono rassegnati al non accertamento delle cause e alla non ricerca di soluzioni. Da sempre credo che bisogna stare con i moralisti, coloro che, come Norberto Bobbio e con lui, ritengono che nessun comportamento politico debba mai essere svincolato dall’etica. In politica, lo sanno tutti, anche coloro che violano il principio, esistono molte attività che semplicemente non si debbono fare. Non sono soltanto attività che vanno contro le leggi e le regole, ma attività poco lecite che corrompono la competizione, che coinvolgono i cittadini-elettori in reti di malaffare, che danno indebiti vantaggi a quei politici che vi ricorrono. In politica, forse più che in altre attività tranne che nel mercato, la moneta cattiva scaccia quella buona.

   Chi usa la corruzione nelle sue più varie e fantasiose forme produce vantaggi per se stesso e per i suoi sostenitori inquinando tutto il sistema. Tempo fa, ma credo che le convinzioni siano poco cambiate, veniva effettuata un distinzione fra chi con i suoi comportamenti scorretti e corrotti mirava a avvantaggiare il suo partito e chi procurava vantaggi solo per se stesso, per i suoi amici/collaboratori, per la sua corrente. Ai primi si condonava molto; i secondi erano da condannare (insomma, senza esagerare …). Al contrario. Ritengo che la corruzione orientata a favorire il proprio partito, senza contare che chi la pratica saprà come farsi ricompensare in termini di ruoli e cariche, sia peggiore degli arricchimenti personali, perché corrompe l’intero sistema politico.

Fatta la premessa necessaria e non ipocrita che le responsabilità civili e penali vanno rigorosamente accertate, quello che si sa di Bari e di Torino, che coinvolge il Partito Democratico appare non particolarmente originale, ma piuttosto grave. Poiché le elezioni sono lo snodo attraverso il quale in democrazia si attribuisce e distribuisce il potere politico, comprare voti e preferenze sfregia e sbrega la democrazia. Poiché, gli eletti e le elette in maniera truffaldina si sentiranno obbligati/e a reciprocare in qualche modo, ne risentirà l’intero processo decisionale condizionato da reti di relazioni corrotte. Anche i vari gruppi e le diverse associazioni interessate alle decisioni politiche saranno costrette a fare i conti con un contesto corrotto e a posizionarsi contribuendo al mantenimento di una situazione chiaramente malata, da molti conosciuta, non adeguatamente rigettata.

Nonostante le molte (sì, lo so che debbo immediatamente aggiungere “purtroppo, anche non positive”) trasformazioni della politica, quel che rimane dei partiti continua a svolgere compiti cruciali: reclutamento e promozione di candidati/e, nomine a una pluralità di cariche, non solo politiche, rapporti con la società, più o meno civile. Dove e quando le strutture partitiche sono deboli e, quindi, permeabili, risulta più facile per alcuni gruppi conquistare spazi e ottenere compiti di rilievo. Quasi sicuramente, il Partito Democratico deve interrogarsi su come è stato possibile che le sue strutture siano state penetrate da persone e gruppi spregiudicati in grado di utilizzare mezzi e strumenti deplorevoli, esecrabili, senza nessuna moralità. La cosiddetta “questione morale” è, non solo, ma nei due casi clamorosi sopra citati, soprattutto per il Partito Democratico, una questione propriamente politica. Un partito che, per qualche ansia di ingrandimento, di potere, forse di sopravvivenza, rinuncia a mettere in atto controlli rigorosi su coloro che ne fanno parte e lo utilizzano, è il primo responsabile della questione morale, della immoralità nell’azione politica. La risposta è: controllare, imporre regole, sfoltire, epurare. Da subito. 

Pubblicato il 10 aprile 2024 su Domani