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Il disordine politico nei regimi e nelle democrazie #Disordine @AgenziaAREL 1/2022


Gianfranco Pasquino è Professore emerito di Scienza politica e Socio dell’Accademia dei Lincei. Ha scritto numerosi libri fra i quali Libertà inutile. Profilo ideologico dell’Italia repubblicana (UTET 2021) e Tra scienza e politica. Una autobiografia (UTET 2022).
Il disordine politico nei regimi e nelle democrazie
“Bellum omnium contra omnes”
(Thomas Hobbes, Leviatano, 1651).
“The wealthy bribe; students riot; workers strike; mobs demonstrate; and the military coup.”
(Samuel P. Huntington, Political Order in Changing Societies, New Haven and London,
Yale University Press, 1968, p. 196).
Quello che apprezzo maggiormente in queste due definizioni di disordine politico è la loro icasticità. Entrambe colgono la sostanza in maniera fulminea, esemplare. In una guerra civile, quella sotto gli occhi di Hobbes, tutti combattono contro tutti. Nel corso di un processo di modernizzazione socio-economica e di sviluppo politico che non riesce a dare frutti, che delude le aspettative crescenti, che si inabissa in frustrazioni, tutti fanno ricorso alle risorse di cui dispongono. Il disordine politico non è solo insostenibile; diventa insuperabile. Per Hobbes sarà lo Stato nelle sembianze del Leviatano, grande mostro marino dotato di forza spaventosa, a porre fine alla guerra civile e a imporre l’ordine politico. Per Huntington, quell’ordine politico potrebbe nel lungo periodo riuscire ad affermarsi attraverso alcuni complessi processi di istituzionalizzazione di regole, procedure, organizzazioni. Nel breve periodo può essere imposto da un partito unico di stampo leninista oppure, come è evidente nella citazione, da un governo militare esito di un colpo di stato. Tuttavia, che i militari golpisti riescano poi a trasformarsi in costruttori di istituzioni e di ordine politico, rimane/è rimasto tutto da vedere. Troppi casi latino-americani smentiscono le aspettative ottimiste. Altrove, la democrazia seguita al lungo dominio dei militari in Indonesia (1965-1998), per quanto resa possibile dai loro comportamenti, non è stata da loro costruita. I regimi militari pluridecennali in Egitto e in Birmania hanno prodotto un ordine politico talvolta sfidato, basato su repressione e oppressione.
Che gli uomini (e le donne) abbiano cercato nel corso del tempo di ridurre i rischi e di dominare le incertezze della vita nella polis (e fra le città diventate sistemi politici: il bellum omnium contra omnes nel sistema internazionale) è accertabile e accertato. Rimando ai due notevoli libri scritti sulla scia di Huntington da Francis Fukuyama: The Origins of Political Order From prehumnan times to the French Revolution e Political Order and Political Decay. From the industrial revolution to the globalization of democracy (entrambi New York-London, Farrar, Straus and Giroux, rispettivamente 2011 e 2014). Che siano sempre esistite situazioni di più o meno grande disordine politico è facile constatarlo. Mi ci cimenterò fra breve. Per iniziare ritengo sia indispensabile procedere ad alcune distinzioni analitiche cruciali. Prima distinzione: il dissenso, comunque espresso, a meno che si manifesti con la violenza, non deve essere considerato disordine. Seconda distinzione: repressione e oppressione, che abitualmente comportano l’uso della violenza, non configurano ordine (politico). Anzi, spesso sono addirittura intese a mantenere il disordine politico creando angoscia e terrore nella popolazione. Terza distinzione: oltre al disordine politico cattivo, distruttivo, hobbesiano, può esistere un disordine politico buono, ovvero creativo, quello che sprigiona energie e spinge al cambiamento. Ovviamente, deve sapere conseguire quel cambiamento inserendo quelle energie in regole e istituzioni che diano sicurezza e si traducano in prevedibilità e ordine. Infine, quarta e ultima distinzione: molti disordini politici nazionali co-esistono insieme al disordine politico internazionale. Esplorarne le connessioni e comprenderne le condizioni è un compito tanto difficile quanto necessario (e viceversa).
Non sono in grado di risolvere il dilemma se in principio sia stato il verbo oppure il caos. Però, tutti sappiamo che Babele fu uno straordinario crogiolo di disordine, non soltanto per la pluralità delle lingue. Colgo l’occasione per segnalare che il pluralismo, soprattutto quello competitivo sul quale si reggono le democrazie, anche quelle che non funzionano in maniera eccellente, sempre comporta una modica dose di disordine politico. Per temperare, mai distruggere questa dose di disordine politico, mi pare imperativo guardare alle fonti. Un sistema politico (A Systems Analysis of Political Life, New York, John Wiley & Sons, 1965), scrisse e argomentò più di cinquant’anni fa David Easton, professore di Scienza politica nell’Università di Chicago, ha tre componenti fondamentali: le autorità, il regime, la comunità. Ciascuna è soggetta a cambiamenti più o meno frequenti e profondi che possono causare squilibri e quindi produrre disordine politico.
La comunità, ovvero tutti coloro sottoposti al principio essenziale dell’osservanza delle decisioni formulate dalle autorità, è raramente soggetta a cambiamenti sostanziali. Tuttavia, proprio perché i cambiamenti nella comunità sono infrequenti è probabile che, se e quando avvengono, rivelino di essere tanto l’esito quanto il prodromo di disordine politico. Tralascerò di riferirmi a tutti i casi nei quali la comunità è fin dall’inizio “in disordine” poiché composta, come in molti casi africani, dalla Nigeria al Kenya, dal Congo al Sudan, nel Rwanda Burundi, dimostrano, da gruppi etnici in contrasto fra loro. Prendo come esempio assolutamente significativo quello della (cosiddetta!) Repubblica Democratica Tedesca (DDR). Il suo stato di evidente disordine politico, mai posto sotto controllo nonostante l’alto livello di irreggimentazione e repressione, simboleggiato dalla costruzione del Muro, sfociò nella emigrazione di massa. I tedeschi orientali votarono, avrebbe detto Lenin, con i piedi abbandonando il paese. Exit secondo l’interpretazione formulata molti anni prima dal grande studioso ebreo antinazista emigrato negli USA Albert O. Hirschman (Exit, Voice, and Loyalty, Cambridge, MA, Harvard University Press 1970, trad. it. Lealtà, defezione, protesta, Milano, Bompiani, 1982). Quel disordine venne ricomposto nella praticamente fulminea riunificazione tedesca (ottobre 1990) a dimostrazione tanto della capacità delle autorità della Repubblica federale tedesca, a cominciare dal cancelliere Helmut Kohl, che merita di essere ricordato, quanto della solidità del regime della Repubblica federale tedesca (v. infra).
Appena, ma in maniera più che interessante, diverso è il discorso sulla nascita della Quinta Repubblica francese. Classico esempio di democrazia parlamentare, la Quarta Repubblica francese (1946-1958) ebbe fin dall’inizio un serio problema di legittimità delle autorità e del regime. Approvata, come subito dichiarò ruvidamente il Gen. De Gaulle, à la minorité des faveurs (contrari e astenuti furono ben più dei favorevoli nel referendum popolare del 1946), la sua Costituzione divenne preda del régime des partis (cito ancora de Gaulle) e si rivelò ampiamente inadeguata. Per quanto non (ri)compresa nei termini che vado a evidenziare, la drammatica questione algerina toccava in pieno la comunità politica francese. Infatti, l’Algeria non era una colonia, ma faceva parte della Francia Metropolitana. Nella Quarta Repubblica, quindi, il disordine politico riguardò tutt’e tre le componenti del sistema politico, in un ordine di importanza mutevole e mutato nel corso del tempo: regime, autorità, comunità con quest’ultima che dal 1956 andò ad occupare il primo posto come produttiva e responsabile del disordine politico che finì per travolgere la Quarta Repubblica. Concessa l’indipendenza all’Algeria, non potevano essere le autorità della Quarta Repubblica a produrre un nuovo ordine politico per il quale il regime esistente era palesemente inadeguato. Il gravoso compito toccò a de Gaulle che seppe svolgerlo in maniera egregia dando vita a una Repubblica, la Quinta, chiaramente migliore, più funzionale, capace di produrre e mantenere ordine politico. In questa chiave è anche opportuno ricordare che la sfida del Sessantotto, più o meno festoso esempio di disordine politico, venne risolta da de Gaulle con il ricorso anticipato alle urne che nel giugno 1968 consegnarono alla coalizione fra i gollisti e i Repubblicani Indipendenti una tanto rara quanto ampia maggioranza parlamentare assoluta.
Mi sono deliberatamente soffermato su due casi europei, a mio parere di straordinaria importanza, che hanno riguardato il disordine politico a partire dalla comunità e il ristabilimento dell’ordine politico anche, Francia, con un fondamentale cambio di regime. Pertanto è giusto e opportuno che l’attenzione vada ora indirizzata al regime. A formare un regime concorrono le regole, le procedure, le istituzioni, tutto quanto può anche essere definito la Costituzione. Non è, naturalmente, vero che qualsiasi dibattito e qualsiasi critica e neppure qualsiasi violazione delle regole, delle procedure, delle modalità di funzionamento delle istituzioni configuri automaticamente una situazione di disordine politico. Per aversi disordine politico è necessario che quelle violazioni siano frequenti, che vengano attuate deliberatamente e rivendicate orgogliosamente, ad opera di una pluralità di gruppi/attori che affermano di ritenere il regime inadeguato e intendano sfidarlo con l’obiettivo di sostituirlo. Si caratterizzerebbero, nel lessico di Giovanni Sartori, come attori anti-sistema i quali, se fosse loro possibile, per l’appunto cambierebbero il sistema. Sono l’intensità e l’insistenza delle critiche e delle violazioni, ampiamente pubblicizzate a produrre difficoltà nel funzionamento del regime e quindi ad aprire la strada all’avvento e al prolungamento del disordine politico. Alla individuazione di casi di effettivo disordine politico non sono sufficienti votazioni parlamentari numerose e inconcludenti, scontri fra sostenitori delle parti contrapposte, critiche al limite del vilipendio delle istituzioni e dei detentori delle cariche istituzionali, tutto deprecabile, ma controllabile e riconducibile nei binari della, ancorché brutta, politica.
La politica degli USA aveva già mostrato un volto inquietante con il Watergate (1972-1974) quando il Presidente repubblicano in carica Richard Nixon operò per manipolare l’opinione pubblica e in seguito anche il sistema giudiziario. Quei due anni di pericoloso disordine politico impallidiscono se messi a confronto con la sfida alle regole del gioco elettorale e istituzionale portata dai sostenitori di Donald Trump con il clamoroso, sconvolgente assalto al Campidoglio di Washington, D.C., il 6 gennaio 2021. Tentare di stravolgere con la violenza le regole del gioco elettorale dalle quali deriva la legittimità della carica più alta di Stato e di governo in una Repubblica presidenziale comporta la produzione del massimo livello di disordine politico, in questo caso, al limite del sovvertimento costituzionale. Avrebbe avuto come conseguenza immaginabile una lunga fase di altrettanto disordine politico dalla conclusione quanto mai incerta e imprevedibile nei tempi e nei modi. In generale, il disordine politico scatenato dalle autorità è abbastanza raro poiché le autorità sono spesso in condizione di strumentalizzare in maniera più soft il disordine esistente per determinare i cambiamenti voluti. Molti dei crolli delle democrazie negli anni Venti dello scorso secolo a cominciare dal fascismo furono sostanzialmente e colpevolmente (come argomentano i saggi raccolti commissionati e raccolti da Juan Linz e Alfred Stepan, The Breakdown of Democratic Regimes, Baltimore-London, The Johns Hopkins University Press, 1978) agevolati dalle elites non solo politiche, per l’appunto le autorità, dei rispettivi paesi. La strumentalizzazione del disordine politico, prodotto dai fascisti e dai nazisti, era funzionale al mantenimento del potere sotto mentite spoglie oppure, comunque, ad un suo spostamento il meno rilevante possibile, non duraturo e non irreversibile, con la cooptazione dei violenti. Gravissima illusione.
Talvolta, il disordine politico è il prodotto di una resa dei conti all’interno delle autorità stesse. Il caso più clamoroso è quello della Grande Rivoluzione Culturale Proletaria cinese, 1966-1972 (la data di conclusione è incerta), scatenata da Mao Tse-tung contro lo stesso gruppo dirigente comunista cinese. La sua citatissima frase: “grande è la confusione sotto il cielo. Quindi, la situazione è eccellente”, è giustamente apprezzata da tutti coloro che vedono nel disordine politico un fenomeno necessariamente distruttivo come premessa alla creazione che seguirà. Le Guardie rosse furono incoraggiate a “sparare contro il quartier generale” e lo fecero per diversi anni. Mao, già responsabile dello spaventoso fallimento del Grande Balzo in Avanti (1958-1961), un processo di industrializzazione forzata che provocò milioni di vittime, riuscì a mantenersi al potere fino alla sua morte nel 1976. I regimi comunisti, a partire dall’Unione Sovietica con le purghe staliniane, presentano numerosi esempi di disordine politico voluto, iniziato, sostenuto da alcuni settori delle autorità e brandito contro gli oppositori a tutti i livelli.
I regimi totalitari contemplano una enorme concentrazione di potere nelle mani di un ristretto gruppo di autorità spesso ossequienti ad un leader massimo. Possenti, ma rigidi, i regimi totalitari crollano e non lasciano successori attrezzati, ma macerie di disordine politico. Germania Anno Zero (1948), il bellissimo film di Roberto Rossellini, racconta più e meglio di qualsiasi libro di sociologia e scienza politica il disordine politico, lo squallore della vita nella Germania post-nazista nella quale, però, gli Alleati contribuirono ad una rapida ricostruzione. Ancora più consistente (e richiese più tempo (1945-1955), fu il contributo degli americani alla ristrutturazione del Giappone, alla costruzione di un ordine politico democratico. Invece, nessuno ebbe abbastanza potere per rimediare al disordine politico prodotto dal crollo e dallo smembramento dell’Unione sovietica dopo il 1991. Gli oligarchi non hanno voluto e non sarebbero sicuramente stati in grado di essere costruttori di un qualsivoglia ordine politico. Quanto è riuscito a Vladimir Putin, comunque, è un ordine politico repressivo la cui solidità non è accertabile. Inoltre, è certamente dipendente dalla personalità dello stesso Putin, dalle sue relazioni con gli oligarchi, dalla capacità di sventare sistematicamente le sfide degli oppositori. La guerra contro l’Ucraina per annetterne le regioni russofone è la rivendicazione del suo potere di autocrate dissoluto. Non mi pare il caso di ipotizzare un gesto “disperato” per dissimulare problemi interni. Con il ricorso alla forza e al potere militare tutte le autocrazie si illudono di produrre ordine politico fino al momento del disvelamento. Per lo più, non funziona.
Sono le regole, le procedure e le istituzioni, vale a dire, il regime, che nei sistemi politici democratici fanno sì che il livello di disordine politico si mantenga costantemente basso, che la maggior parte del tempo sia assolutamente fisiologico. Il dissenso non viene considerato disordine tranne che quando, presumibilmente in casi molto infrequenti, si traduce in violenza. Anche i conflitti fra comunità linguistiche e culturali, Scozia verso Inghilterra e, molto più preoccupante, Catalogna verso Spagna, si svolgono nel quadro del regime. Gli scontri fra governo e opposizione hanno il loro luogo privilegiato nel Parlamento cassa di risonanza che serve a diffondere informazioni e conoscenze. Le campagne elettorali sono o possono diventare il momento di massima divaricazione politica nelle quali spesso alcuni attori pensano di trarre profitto dalla produzione di disordine politico. Le modalità di trasferimento del potere politico, altrove, in specie nei regimi autoritari sono momenti/fasi nelle quali il disordine politico procurato trova opportunità di manifestazione concreta. Però, in democrazia tutte le autorità sanno che, vincenti o perdenti, avranno modo di ripresentarsi alla prossima occasione in condizioni migliori se non si saranno rese responsabili di disordine/i politico/i. Pertanto, per lo più, se ne astengono.
Un rapido sguardo comparato rivela che, almeno in Europa, la frequenza e la gravità dei fenomeni di disordine politico sono stati a partire dal secondo dopoguerra chiaramente inferiori a quelli dei precedenti 50 anni. Anzi, le non molte fattispecie di disordine politico europeo dal 1945 ad oggi sono in larga misura attribuibili ai processi di democratizzazione prima in Portogallo, Grecia e Spagna, poi nei paesi ex-comunisti. Quindi, si tratta di disordine politico che si è rivelato creativo anche grazie all’Unione Europea dimostratasi in grado di accogliere e sostenere tutte quelle nuove democrazie, ancorché con problemi sia persistenti sia emergenti.
Nel frattempo, però, stiamo assistendo ad un fenomeno che rischia di provocare conseguenze negative, di disordine politico internazionale. Responsabile non è tanto, ma anche, la globalizzazione, processo al quale appare enormemente difficile imporre e fare rispettare regole condivise. Si tratta, invece, soprattutto del venire meno dell’ordine politico internazionale, spesso definito liberale. Questo indebolimento, causato sia dalla perdita di capacità e forse di leadership degli Stati Uniti come superpotenza “benevola”, disposta a investire risorse e capace di fare rispettare le regole di collaborazione a vari livelli sia dalla crescita della Cina, ovviamente tutt’altro che una superpotenza con inclinazioni liberali, rischia di introdurre nell’ambiente internazionale germi di un disordine politico che nel caso estremo resusciterebbero un bellum omnium contra omnes. I necessari approfondimenti non sono un discorso “altro” dal disordine politico, ma richiederebbero necessariamente un altro discorso. Another time (another place?).
Pubblicato in DISORDINE 1/2022 (pp 101- 106)
LA DEMOCRAZIA NEI PARTITI (DEGLI ALTRI)
da La democrazia nei partiti (degli altri), in “il Mulino”, vol. LXVIII, Novembre/Dicembre 2019, pp. 908-915)
Se non c’è democrazia nel Partito Socialdemocratico tedesco, che cerca di introdurre la democrazia nel sistema politico della Germania imperiale e lotta per ottenerla, la democrazia non potrà mai affermarsi. Al contrario, si imporrà, scrisse memorabilmente Robert Michels, “la legge ferrea dell’oligarchia” (La sociologia del partito politico, ed. originale 1911, trad. it. Il Mulino, 1966. Questa edizione contiene una splendida, illuminante e insuperata introduzione di Juan Linz, Michels e il suo contributo alla sociologia politica, pp.VII-CXIX). L’apparentemente inevitabile concentrazione di potere nelle mani di coloro che controllano le informazioni, le comunicazioni, la distribuzione delle cariche e le fonti di finanziamento delle associazioni impedisce la comparsa della democrazia nel sistema politico a tutto vantaggio delle oligarchie, anche di partito, nei partiti. In sostanza si presenta il dilemma se sia meglio costruire un’arma organizzativa (copyright Philip Selznick 1960) per vincere le elezioni in modo da avere l’opportunità di tradurre i programmi del partito in politiche pubbliche che soddisfino le preferenze e le necessità degli elettori oppure dare voce agli iscritti, agli attivisti, spesso carrieristi, talvolta ideologicamente irrigiditi e lasciarsi guidare dalle loro maggioranze spesso mutevoli qual piume al vento che potrebbero essere poco rappresentative degli elettori e incapaci di conseguire vittorie elettorali. Un po’ dovunque questo dilemma, spesso non così limpidamente visibile, si presenta ai dirigenti dei partiti pressati dal desiderio di vincere le elezioni, ma obbligati a tenere conto delle preferenze e delle opinioni, se non degli iscritti, quantomeno dei militanti ai quali debbono le loro cariche e senza i quali l’organizzazione partitica non potrebbe funzionare.
Che cosa vuole comunicare agli italiani l’inciso “con metodo democratico” dell’art. 49 della Costituzione riferito alla concorrenza fra partiti per “determinare la politica nazionale”? Michels si preoccupava giustamente dell’emergere di una oligarchia di/nel partito che si sarebbe dedicata prevalentemente al perseguimento degli obiettivi di avanzamento personale e di carriera dei dirigenti a scapito delle preferenze degli iscritti. Però, se (anche) così facendo, quell’oligarchia di funzionari avesse condotto il partito a vittoria elettorale dopo vittoria elettorale e conquistato il potere di governare, avrebbe/avremmo comunque dovuto lamentare la mancanza o le limitazioni di democrazia all’interno del partito? Giunto al governo quel partito ha la grande opportunità di produrre politiche pubbliche che migliorano la vita del suo elettorato, forse di tutti gli elettori e, di conseguenza, anche dei suoi iscritti. È accettabile sacrificare un po’/molta/quanta democrazia interna all’efficienza politica? Oppure dovrebbero tutti i partiti considerare la democrazia al loro interno non soltanto un mezzo, ma, a prescindere da qualsiasi altra considerazione, un fine in se stesso?
Leggendo criticamente Michels e andando al cuore della sua tesi, Giovanni Sartori (Democrazia, burocrazia e oligarchia nei partiti, in “Rassegna Italiana di Sociologia”, n. 3, 1960, pp. 119-136) ha sostenuto che i partiti hanno la facoltà di darsi qualsiasi modalità organizzativa preferiscano. È presumibile e auspicabile che coloro che si iscrivono ad un partito ne conoscano almeno in una certa misura le modalità di funzionamento e, con la loro iscrizione, le accettino. Potranno, poi, nel corso del tempo anche cambiare idea passando, come ha acutissimamente messo in rilievo Albert O. Hirschman (Lealtà defezione protesta, Bompiani 1982, ed. originale 1970), dalla lealtà, il sostegno ai dirigenti e alle loro attività, alla protesta (voice), vale a dire la critica dei comportamenti, fino alla defezione (exit), all’abbandono del partito. Protesta e defezione sono i comportamenti più probabili quando il partito perde voti e di conseguenza subisce sconfitte elettorali a presumibile causa della linea politica applicata dai dirigenti e della candidature da loro prescelte. Allora, forse soltanto allora, gli iscritti accuseranno i dirigenti di scarsa democrazia interna, per l’appunto, avendo formulato un brutto programma, selezionato malamente le candidature, avendo condotto una inadeguata campagna elettorale.
Il detonatore di tutte queste accuse e critiche è la sconfitta elettorale nella libera competizione per ottenere voti e seggi cosicché, ha affermato Sartori, quel che conta di più non è la democrazia nei partiti, in quello specifico partito, ma la democrazia fra i partiti, che si esplica nella, per usare la parola che deriva dalla Costituzione italiana, concorrenza fra i partiti. Infatti, gli esiti negativi della concorrenza politica e elettorale per alcuni partiti possono condurre a pratiche da considerarsi democratiche: sostituzione totale o parziale dei gruppi dirigenti (scrisse Michels che la circolazione delle élites “non avviene come un ricambio vero e proprio, quanto piuttosto sotto la forma di un amalgamarsi dei nuovi elementi con i vecchi”, p. 502), più ampio coinvolgimento degli iscritti nella selezione delle candidature e nella formulazione del programma, estensione della partecipazione degli iscritti alle decisioni che riguardano tematiche giorno per giorno, ma anche di lungo periodo. Esiste la possibilità che la concorrenza “con metodo democratico” fra i partiti, comunque elemento imprescindibile della democrazia nel sistema politico, stimoli e produca pratiche democratiche anche all’interno dei singoli partiti. Tuttavia, questo punto è molto importante, ciascuna e tutte queste pratiche non sono imposte per legge, ma dipendono essenzialmente dalla valutazione e dalla volontà dei dirigenti e degli iscritti, delle loro interazioni. Saranno loro a scegliere quali pratiche utilizzare, come e quando. Sottolineo questo punto poiché sento pericolosamente serpeggiare la tentazione di imporre dall’alto ai partiti una regolamentazione che finirebbe per essere omologante e persino oppressiva. Rimango dell’idea che per tutte le associazioni dei più vari generi, ma soprattutto per quelle che esplicano attività politiche in senso lato, allo stesso modo che per i partiti deve valere l’invito-auspicio pronunciato nella sua fase liberaleggiante dal compagno Presidente Mao zedong: “che cento fiori fioriscano, che cento scuole di pensiero gareggino”. A scanso di equivoci, temo di dovere precisare che so che non esisteva ieri e non c’è oggi un elevatissimo tasso di democrazia nel Partito Comunista Cinese.
Nella misura in cui viene posto l’accento sulla concorrenza/competizione fra partiti da effettuarsi con “metodo democratico” per procedere alla determinazione della politica nazionale diventa inevitabile prendere in considerazione le leggi elettorali. Rassicuro subito i lettori. Non intendo riesumare l’infinito, never ending e pessimo dibattito italiano in materia né avventurarmi in qualsiasi nuova e sorprendente proposta. Già da tempo, dovremmo avere acquisito le conoscenze necessarie e avere imparato che i dirigenti di partito intendono quasi esclusivamente manipolare: non una buona legge per il paese, ma una legge che li ponga in condizione di vantaggio, comunque svantaggiando i concorrenti. Mi limito, invece, a sottolineare due punti. Se pensiamo con Sartori che la democrazia fra i partiti sia essenziale per offrire agli iscritti opportunità di partecipazione incisiva, allora abbiamo l’obbligo scientifico e “civico” di segnalare quali sono i criteri più appropriati per valutare i sistemi elettorali che consentano una migliore, più limpida, più trasparente concorrenza, quei sistemi che conferiscono maggiore potere agli elettori. Andiamo per esclusione. A determinate, non facili da attuare, condizioni, i sistemi elettorali proporzionali sono in grado di garantire una rappresentanza fair, equa all’elettorato, ma,se hanno liste chiuse, da un lato, limitano fortemente il potere di scelta degli elettori, dall’altro, la loro formula di traduzione di voti in seggi, soprattutto quando gli spostamenti da un partito all’altro sono contenuti, raramente consente di dire chi fra i (dirigenti dei) partiti ha davvero perso e chi ha davvero vinto. A fronte di variazioni del consenso misurabili in pochi punti percentuali, che è spesso la norma quando si usano leggi proporzionali, tutti o quasi i dirigenti dei partiti riusciranno facilmente a trovare giustificazioni plausibili e accettabili. Invece, nei sistemi maggioritari uninominali sia a turno unico sia a doppio turno, è sempre chiaro chi ha vinto e chi ha perso. Quindi, la responsabilità dei dirigenti di partito è molto più facilmente individuabile, attribuibile, valutabile. Non è certamente casuale che i dirigenti dei partiti in sistemi multipartitici che votano con leggi di rappresentanza proporzionale siano sostituiti con molta minore frequenza di quelli dei partiti laddove si vota con sistemi maggioritari. È un bell’argomento per ricerche comparate.
Riprendiamo il discorso da una semplice, ma cruciale affermazione: democrazia nei partiti non è solo possibilità e effettività di sostituzione dei gruppi dirigenti. Possiamo estendere il raggio d’azione dell’inciso “con metodo democratico” dalle attività e competizioni elettorali, che debbono essere combattute senza ricorso a forme che implichino violenza, manipolazioni, ricatti e altre modalità improprie, che oggi comprenderebbero anche la diffusione delle fake news e le interferenze elettroniche, l’hackeraggio, a quanto succede dentro le organizzazioni di partito. Infatti, sappiamo, che nella discussione sulla stesura di quell’articolo, una parte dei Costituenti, in particolare, liberali, moderati e democristiani, avevano di mira proprio le modalità di organizzazione interna dei partiti, il loro statuto, il loro funzionamento, e che socialisti (in particolare, Lelio Basso, il segretario del partito) e comunisti proprio non ne volevano sapere temendo, aggiungerei giustamente, intromissioni di ogni tipo, anche poliziesche, nella vita interna dei loro partiti, da parte di chi avrebbe ottenuto il potere di governare. Poi, ciascuno di quei partiti si diede il proprio statuto e l’organizzazione che riteneva più funzionale ai suoi obiettivi e forse anche per raggiungere quelle parti di elettorato che intendeva rappresentare. Nel bene e nel male, questo punto è da fermare.
In estrema sintesi, i democristiani diventarono un partito di oligarchie competitive nel quale le correnti rappresentavano effettivamente pezzi di società e si aggregavano variamente all’interno del partito. La corrente che occupava il centro poteva praticare la politica di più forni, e lo faceva. In un certo senso, le modalità di competizione e aggregazione della DC furono sempre relativamente democratiche, ma “gestite” da un ristretto gruppo di dirigenti. Ugualmente partito di correnti, il PSI ebbe un funzionamento che più si avvicinava alla democrazia intesa come competizione fra le correnti, ma certamente questa qualità non fu affatto di giovamento per il suo consenso elettorale. Quelle correnti socialiste ad alto tasso di ideologia non pescavano a sufficienza nella società e talvolta, invece, di battersi per attrarre elettori entravano in conflitto interno per conquistare le cariche dirigenziali –nessuna delle quali veniva definita “poltrona”. Quando nel 1968 telefonai alla Federazione del PSI di Torino chiedendo quali fossero i candidati giolittiani e lombardiani, poiché intendevo dare loro le mie quattro preferenze,mi risposero negando l’esistenza di simili appartenenze.
Molto è stato scritto sul centralismo democratico, il principio organizzativo interno del Partito comunista italiano, ma anche di tutti i partiti comunisti, occidentali e no. Sappiamo che nella grande maggioranza dei casi le decisioni erano prese dal gruppo dirigente al vertice, che, certo, aveva previamente raccolto e conosceva gli umori della base, e venivano poi trasmesse agli iscritti che le ratificavano per convinzione e per conformismo (sarebbe bello potere misurare la quantità di entrambi). Le candidature alle cariche elettive erano talvolta espresse dalla base, talvolta paracadutate dal vertice, talvolta emerse da processi sociali che avevano individuato leadership “naturali”, vale a dire, dotate delle qualità desiderate. A lungo e prevalentemente, i due principi del modello organizzativo: centralismo e democrazia interagirono in maniera virtuosa, ma in quello che avrebbe potuto essere un momento di straordinaria svolta: “i fatti di Ungheria”, il centralismo, consapevole delle preferenze di quella che chiamerò la Piattaforma Stalin, prevalse e i dissenzienti, soprattutto del mondo intellettuale, dopo avere espresso la loro protesta (voice), si sentirono obbligati ad andarsene (exit). Mi sono spesso chiesto quanto la impossibile alternanza abbia contribuito al mantenimento del centralismo democratico che consentiva al vertice di evitare qualsiasi “punizione” per le sconfitte elettorali, ad esempio, nel 1948 e nel 1979 e poi 1983. Eppure, a lungo il centralismo democratico servì anche alla politica comunista della rappresentanza: reclutare e candidare persone che avessero radicamento in taluni ambienti e fossero portatrici di istanze di alcune associazioni, già fiancheggiatrici oppure da raggiungere.
Nulla di tutto questo esiste più oggi. Chi si preoccupa, più o meno ipocritamente, della mancanza di democrazia all’interno dei partiti italiani, sa che dovrebbe cominciare da Forza Italia, sempre dominata et pour cause da Silvio Berlusconi. Quanto alle procedure decisionali su qualsiasi argomento, possiamo soltanto dire che portano a esiti che riflettono le preferenze di volta in volta espresse da Silvio Berlusconi. Sappiamo che non esiste nessun luogo dove si procede alla scelta delle candidature alle cariche elettive tranne Arcore e la modalità è appropriatamente definita casting, quello che fanno i registi teatrali e cinematografici. Non conosciamo, considero questo il test decisivo, nessuna situazione nella quale le preferenze di Berlusconi siano state sconfitte in una qualsivoglia votazione. Ricordo che nel corso del tempo, Forza Italia e Berlusconi sono stati solo saltuariamente raramente criticati per la mancanza di democrazia interna all’organizzazione, e mai dagli aderenti, dai dirigenti, dai parlamentari, dagli eletti nelle varie assemblee. Al polo, per così dire, opposto stanno LiberieUguali per i quali la scelta delle candidature è stata l’esito di una complessa negoziazione fra piccoli oligarchi, che non ha nulla a che vedere con qualsivoglia modalità democratica.
Nel Partito Democratico, quelle che sono pudicamente definite le varie sensibilità (o anime) del partito sono, fuori dai denti, vere e proprie correnti con gli affiliati che votano secondo le indicazioni sostanzialmente vincolanti del capo corrente e, da quel che sappiamo, con le candidature imposte dal segretario del partito a prescindere da qualsiasi considerazione che esuli dalla fedeltà delle prescelte/i. La novità del PD è che le candidature alle cariche elettive monocratiche, ad esempio, sindaco e presidente della regione, e l’elezione del segretario del partito sono affidate ad un “selettorato” che non è fatto dagli iscritti al partito, ma, senza nessuna garanzia, da tutti coloro che si autocertifichino come simpatizzanti del partito, passati, e probabilmente futuri, elettori del partito. Possiamo attribuire una valutazione positiva alla pratica delle primarie e all’elezione popolare del segretario, ma certo hanno poco o nulla a che vedere con la democrazia all’interno del partito. Anzi, com’è noto, non sono pochi gli iscritti al Partito Democratico che lamentano la perdita di potere a favore dei partecipanti alle primarie e all’elezione del segretario.
Diverso è il discorso che deve essere fatto per le procedure affidate alla Piattaforma Rousseau dal Movimento Cinque Stelle, utilizzate per la scelta delle candidature a varie cariche, nel 2018 quelle parlamentari, e di recente messe in atto per decidere come i parlamentari dovessero comportarsi/votare se consentire oppure no ai magistrati di porre sotto processo l’allora Ministro Matteo Salvini e, infine, se dare vita o no ad una coalizione di govern o con il Partito Democratico. Tralascio qualsiasi considerazione, peraltro, del tutto legittima, sulla opacità della piattaforma, quella meno legittima sulla tempistica della consultazione e quella, a mio parere sbagliata, sull’esito che avrebbe vincolato i parlamentari. Credo che il quesito di fondo riguardi, piuttosto, se queste consultazioni degli iscritti alla Piattaforma si configurino oppure no come una modalità di esercizio del metodo democratico. Per rispondere correttamente e convincentemente al quesito, è tanto opportuno quanto indispensabile tentare di definire il metodo democratico e stabilire come concretamente dovrebbe estrinsecarsi, vale a dire quali sono le sue componenti minime e imprescindibili.
Ipotizzo e argomento che, da un lato, debbano essere gli iscritti stessi a formulare e approvare le regole riguardanti i loro diritti, i loro doveri e i loro poteri fino a scrivere un vero e proprio Statuto (e non mi importa se verrà definito non-Statuto o con qualsiasi altra denominazione); dall’altro, pur con qualche perplessità, credo che fra i poteri degli iscritti sia indispensabile collocare in bella evidenza quello di fare ricorso ai tribunali della Repubblica per dirimere i conflitti interni riguardanti le eventuali violazioni degli Statuti. Rimango, però, fermo nella mia convinzione che non è affatto auspicabile ricorrere alla stesura e all’imposizione di uno Statuto tipo a tutte le organizzazioni, politiche e no, che, qui sta il discrimine, intendano presentare candidature alle elezioni. Questo non significa affatto che le procedure prescelte dalle varie organizzazioni. Movimento 5 Stelle compreso, non possano essere criticate una volta che siano chiaramente esplicitati i criteri in base ai quali sono formulate le critiche.
Non è questo il luogo nel quale formulare proposte dettagliate relativamente al se e al come incardinare il “metodo democratico”nel funzionamento dei partiti italiani. Preferisco suggerire di guardare, poiché lo ritengo di gran lunga più importante, alle condizioni nelle quali si trova la società italiana nei suoi rapporti complessivi con la politica. Ci sarà anche stata un’esplosione di interesse per i talk show dell’agosto 2019 subito dopo e durante la crisi di governo. A proposito, attraverso quali procedure decisionali Matteo Salvini giunse alla stesura della mozione di sfiducia del governo di cui faceva parte come Ministro degli Interni? Chi ratificò e come, con una votazione fra gli iscritti?, quanto da lui deciso? La transizione degli italiani da spettatori a attori rimane tutta da valutare. Quello che sappiamo, però, è che è tuttora molto elevata la percentuale di coloro che dichiarano di non interessarsi alla politica, che rivelano di avere conoscenze molto limitate sulla politica, che partecipano poco ad attività politiche diverse dal voto, ad esempio, iscrivendosi ai partiti e contribuendo personalmente alla loro vita(lità), al loro funzionamento. Sappiamo anche che la qualità della conversazione politica e democratica è notevolmente peggiorata a cominciare dal lessico: inciucio, poltrone, casta, accordicchi, ribaltoni etc. Che di questo peggioramento portano grandi responsabilità non soltanto gli uomini (e le donne) in politica, ma i comunicatori stessi a cominciare dai giornalisti che commentano gli avvenimenti politici e molti di coloro che usano i social network. In queste condizioni generali, andare alla ricerca di modalità che consentano di applicare il metodo democratico alla vita dei partiti è un obiettivo forse nobile, ma che ha pochissime chance di essere conseguito.
Sono giunto alla conclusione, che esprimo come congettura, che il meglio che è possibile ottenere in Italia oggi e domani è la creazione di condizioni che consentano alla competizione fra i partiti di essere massima, senza rete, nella speranza che le conseguenze sui partiti consistano nell’accrescimento del potere degli iscritti sia nella valutazione dei dirigenti e degli eletti sia nel comminare sanzioni. Alla fine, la circolazione delle elite e la trasparenza delle procedure decisionali, sono quasi certo che Michels concorderebbe, è un risultato tutt’altro che disprezzabile.
Gianfranco Pasquino è Professore Emerito di Scienza politica nell’Università di Bologna. Dal 2005 è socio dell’Accademia dei Lincei.
La leggenda della crisi della democrazia
Articolo pubblicato sul n. 118 del mensile “Formiche”, con il titolo Democrazia contro crisi delle democrazie (pp. 62-63).
Quando si parla di “crisi” con riferimento alle democrazie bisogna effettuare e mantenere fermissima una distinzione preliminare, che è cruciale, fra crisi della democrazia e crisi nelle democrazie. Sarò perentorio: non c’è nessuna crisi della democrazia in quanto regime che offre ai cittadini elezioni libere, eque, competitive con le quali scegliere e sconfiggere rappresentanti e governanti e che protegge, promuove e garantisce i diritti delle persone, da quelli dei bambini a quelli delle donne, da quelli degli anziani a quelli dei disabili, a quelli dei migranti. Certo, queste democrazie, che chiamiamo liberal-costituzionali rappresentano una netta minoranza dei regimi politici esistenti, non più di trentacinque, al massimo, generosamente, quaranta. Però, dappertutto nel mondo, dal Venezuela allo Zimbabwe, ci sono uomini e donne che lottano, vengono malmenati, messi in prigione, rischiano la vita e spesso la perdono proprio in nome di quella democrazia delle regole e dei diritti. Nessuno di loro può permettersi il lusso fra un vernissage e un concerto, fra una sfilata di moda e una gita in barca, di sostenere che la democrazia è in crisi. Il modello democratico di rapporti fra cittadini e autorità, di partecipazione nelle istituzioni e contro di loro, di conquista, di esercizio e di distribuzione del potere, costruito in un paio di secoli e faticosamente perfezionato, è vivo, valido, imitabile. Nessuna crisi della democrazia, anzi, a giudicare dalla sua espansione negli ultimi trent’anni, grande capacità attrattiva.
Invece, esistono, eccome, difficoltà, problemi, inconvenienti, sfide che, volendo, possiamo anche chiamare “crisi”, all’interno delle democrazie realmente esistenti. Non sarò così altezzoso, così professorone da lasciare le lancinanti preoccupazioni sul futuro delle nostre democrazie agli attempati nouveaux philosophes, ai tardissimi francofortesi, agli accigliati editorialisti del “Corriere della Sera” e de “la Repubblica, tutti maestri delle aggettivazioni, e neppure agli scettici intellettuali latino-americani, sempre parte del problema, mai disposti a cercare le soluzioni. Indico, qui, quelle che mi paiono le difficoltà più visibili nel funzionamento delle democrazie contemporanee.
La prima mi pare chiarissima. Avendo avuto successo nella loro vita professionale, molti cittadini non pensano di dovere contribuire alla vita pubblica poiché sono convinti che le decisioni politiche incideranno poco sul loro lavoro, sul loro prestigio, sul loro denaro. Sì, l’individualismo egoista è un problema di non poche democrazie contemporanee. Si accompagna al e accompagna il declino, con tutte le differenze dei vari casi e contesti, dei partiti politici e, più in generale, delle associazioni che, come dovremmo tutti ricordare, sono considerate, da Tocqueville in poi, la spina dorsale delle democrazie. Chi va a giocare a bowling da solo difficilmente andrà ad un dibattito politico, svolgerà azione sindacale, parteciperà alla vita di associazioni di volontariato. Calmiererà la sua coscienza facendo donazioni con il sistema PayPal e via con il suo lavoro. Non riuscirà mai ad essere “felice”, come ha notato con grande acume Albert O. Hirschman, ma se non conosce il lato positivo dell’impegno democratico, non sarà neppure troppo infelice, pur nella sua inutilità “democratica”. È in queste persone, cresciute di numero e di influenza sociale in tutte le democrazie consolidate che, più o meno dormienti, si annidano i batteri dell’antipolitica. Anche, ma non solo, de Italia fabula narratur.
So che il lettore mi sta aspettando al varco, vale a dire alle forche caudine del populismo. È la sfida populista la minaccia più grande e più grave alle democrazie realmente esistenti? Sono i populisti che sotterreranno i regimi democratici (a cominciare da una, peraltro sempre più improbabile vittoria di Trump negli USA), ma anche l’Unione Europea? Tutto al futuro poiché il populismo, tranne due o tre eccezioni latino-americane, non ha vinto da nessuna parte. Con Yves Mény e Yves Surel, autori di un bel libro (ndr Par le peuple, pour le peuple. Le populisme et les démocraties), dirò che il populismo non può essere espunto da nessuna democrazia. Se dalle democrazie si toglie il popolo, il demos rimane il kratos che non ha mai propensioni democratiche. Una striscia di populismo sta in tutti i regimi democratici, a cominciare dal governo di Lincoln “dal popolo, del popolo, per il popolo”. Può pericolosamente ingrossarsi laddove, in assenza di associazioni intermedie o per loro debolezza, qualcuno riesca a fare appello ad un popolo disorganizzato, indifferenziato, desideroso di una rappresentanza facile e non esigente.
Non manderò nessun messaggio di redenzione e di salvezza. Chi non ha ancora capito che i populisti offrono soltanto promesse di sollievo temporaneo, che giovano al leader e ai suoi collaboratori/collaboratrici, è politicamente malmesso. Costruendo con pazienza e competenza associazioni e istituzioni, diventa possibile tenere a bada qualsiasi insorgenza populistica. Forse, oggi, l’insorgenza deve trovare una risposta europea anche se i populisti sono sempre leader molto provinciali. Chi non vuole costruire una democrazia europea, a partire dall’Unione, lascia ampi spazi ai populismi nazionali. Per tornare al punto di partenza, la crisi non è, comunque, della democrazia, ma nelle democrazie, nei loro cittadini incolti, pigri, egoisti.