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Solo un campo largo può far vincere la sinistra @DomaniGiornale

Scrutare nelle viscere di elezioni amministrative che riguardano forse un quinto dell’elettorato, in comuni molto diversi fra loro e diversamente governati, con sindaci uscenti, sindaci alla ricerca del secondo mandato, tabula rasa con new entries, è un esercizio difficile per osservatori raffinati. Tuttavia, è cosa buona e giusta esercitarvisi poiché i voti rivelano sempre qualcosa di interessante. La prima osservazione è che a livello nazionale non ha fatto la sua comparsa nessuna tematica nuova di tale importanza da influenzare gli esiti locali. In secondo luogo, nessuno dei contendenti ha saputo suggerire qualche novità/innovazione. Al contrario, molto si è giocato sulla continuità/continuazione e l’effetto inerzia abitualmente va a favore di chi governa senza dare grattacapi alla cittadinanza Infine, non si sono visti errori clamorosi. In buona sostanza, dunque, nel voto al primo turno la differenza l’hanno fatta le candidature e le alleanze. Ai ballottaggi, in particolare laddove i distacchi sono contenuti, oltre alle candidature, decisive saranno le alleanze.

   Baloccarsi con la democrazia compiuta che per molti significa non soltanto la possibilità, ma la realtà dell’alternanza pensando che sia prodotta o quantomeno facilitata dalla legge elettorale è semplicistico benché non essenzialmente sbagliato. A far vincere il centro-destra, ieri (e forse anche domani) a livello nazionale è stata la capacità di costruire, mettendo a tacere i riluttanti, una coalizione. Sbeffeggiare Enrico Letta che voleva, con una modica dose di velleitarismo, un “campo largo”, è certamente un errore sgradevole. Se coloro che ritengono inadeguato in termini di politiche e nocivo in termini di valori il governo di centro-destra, non sanno/non vogliono offrire una coalizione alternativa, ma preferiscono geometrie variabili opportunistiche, sarà il caso che mettano in conto molte sconfitte future.

   Poiché i numeri contano, nel centro-sinistra talvolta possono essere (quasi) determinanti i dirigenti del sedicente Terzo Polo. Però, peso maggiore e conseguentemente responsabilità maggiore la porta Giuseppe Conte. A livello locale, il Movimento 5 Stelle, ancorché non marginale, spesso non ha abbastanza radicamento. Ai ballottaggi i suoi elettori andranno in ordine sparso, per lo più votando il candidato di “area”, spesso PD, altrimenti rifluendo nell’astensione. A livello nazionale quel 15 per cento potrebbe essere, probabilmente sarà (scommetto sul futuro) decisivo. Ne sapremo molto di più quando disporremo dei dati delle elezioni per il Parlamento europeo. Prima di allora, qualche elemento utile verrà dai ballottaggi poiché saranno gli elettori stessi a mostrare le loro preferenze, seguendo oppure no le eventuali indicazioni di Conte (temo che impersonerà Ponzio Pilato, come lui sbagliando). Ottimisticamente, Il proverbio dice “sbagliando s’impara”.

Pubblicato il 17 maggio 2023 su Domani

Chi non vota danneggia la politica e i suoi concittadini elettori

La crescita dell’astensionismo, cioè del numero degli elettori che, per una varietà di motivi, non si recano alle urne, non è una “emergenza democratica”. Nessuna democrazia è mai “crollata” per astensionismo. Al contrario, un’impennata di partecipazione elettorale con milioni di elettori che seguano adoranti un demagogo che ne ha catturato l’immaginazione e ne vuole il sostegno elettorale, è spesso produttiva di conseguenze destabilizzanti. America latina e Filippine ne sono una prova. Tuttavia, quando gli elettori decidono che non vale la pena andare a votare mandano un messaggio che riguarda un po’ tutti a cominciare dai partiti. Infatti, i partiti sono il tramite essenziale fra gli elettori e il (loro) voto. Partiti male organizzati e/o personalistici non riescono a raggiungere gli elettori. Partiti inaffidabili, che indicano le cose da fare e ne fanno altre, provocano delusione nell’elettorato, loro e complessivo. Partiti che presentano candidature di uomini e donne mediocri che hanno il solo pregio di essere popolari oppure di venire dall’apparato non possono essere entusiasmanti. Partiti che cambiano alleanze e preferenze sconcertano gli elettori. Partiti che scrivono leggi elettorali astruse perseguendo il loro interesse particolaristico creano non poca confusione in chi dovrebbe votarli. In Italia, da almeno trent’anni si producono tutti questi fenomeni. Sarebbe, però, sbagliato pensare che gli elettori stessi non portino una buona dose di responsabilità per il loro astensionismo.

   Chi non si interessa di politica, non s’informa e non partecipa alle elezioni automaticamente avvantaggia i votanti e non può poi lamentarsi e gli eletti non si curano dei suoi interessi, delle sue necessità, delle sue preoccupazioni. Non votando, gli astensionisti non trasmettono le loro richieste né a chi ha vinto le elezioni e le cariche né a chi va a formare l’opposizione e avrebbe grande vantaggio dall’ottenere informazioni e sostegno, a futura memoria, dagli astensionisti. Proprio qui sta il problema, se si vuole l’emergenza. I governanti e, di volta in volta, gli oppositori non sanno che cosa desidera “la gente”, per lo più presumono e spesso sbagliano attribuendo preferenze inesistenti. In un certo senso, poi, tanto i governanti quanto gli oppositori diventano e rimangono irresponsabili. Non debbono rispondere ad un elettorato che non li ha votati oppure a elettori casuali e fluttuanti, ma soltanto a quei settori loro già noti, talvolta definiti zoccolo(ino) duro. Per fortuna, fino a quando non farà la sua comparsa un demagogo, non si configura nessuna emergenza. C’è, invece, cospicuo e persistente un problema di scollamento fra una società, che non sempre merita la qualifica “civile”, e partiti disorganizzati, male educati, opportunisti. Poiché questo scollamento riduce e limita il potere del popolo (democrazia) è giusto (pre)occuparsene, non con frasi da coccodrillo, ma riconoscendo e affermando l’importanza del voto e della politica.

Pubblicato AGL il 29 giugno 2022

Alleanza organica Pd-M5S? Anche no. La versione di Pasquino @formichenews

Discutere di alleanza organica mi sembra una fuga, non in avanti, ma dalle responsabilità di governo e di buona manutenzione del sistema politico. Il commento di Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza Politica

In nessuna democrazia (tranne, forse, in Australia), i partiti formano alleanze organiche, a futura memoria, indissolubili. Contraddicendo sonoramente i sedicenti commentatori liberali italiani i quali, inopinatamente vorrebbero legare loro le mani prima delle elezioni, tutti i partiti se le tengono libere, a maggior ragione quando la legge elettorale è proporzionale. Qualcosa, in termini programmatici e di preferenze coalizionali, i partiti dicono sempre in campagna elettorale. Poi, si contano i voti, si valutano costi e benefici degli accordi possibili e si procede alla formazione del governo. Inoltre, in presenza di una situazione mutata, per numeri, preferenze e persone, si potrà anche cambiare il governo in Parlamento.

Chiunque abbia fatto una gita a Chiasso, come memorabilmente, ma, ahinoi, non ascoltato, suggeriva Alberto Arbasino, avrebbe imparato che succede proprio così. Gli elettori votano essendosi già fatti un’idea delle alleanze praticabili dal loro partito preferito e rivoteranno anche sulla base di quanto quelle alleanze di governo hanno fatto, non fatto, fatto male. Si chiama voto retrospettivo. Ho richiamato tutto questo, che per qualcuno sembrerà una clamorosa novità, ad usum di quelli che discutono della necessità/opportunità di un’alleanza organica fra Movimento 5 Stelle e Partito Democratico. La mia risposta “scientifica” è: anche no.

Primo, la legge elettorale, con la sua logica sostanzialmente proporzionale, non incentiva e non premierebbe nessuna coalizione pre-elettorale. Anzi, sappiamo che spesso ci sono elettori in partenza disposti a votare un partito che cambierebbero idea e opzione se quel partito fa un’alleanza pre-elettorale che non gradiscono. Facile immaginare che alcuni elettori delle Cinque Stelle non gradiscono il PD e non pochi elettori democratici soffrono l’alleanza con le Cinque Stelle. Secondo, un’alleanza pre-elettorale finisce per diventare una gabbia di ferro che rischia di impedire campagne elettorali a tutto campo proprio quando è noto che almeno un terzo di elettori cambiano voto da un’elezione all’altra. Infine, se quel duetto di partiti non raggiungesse la maggioranza assoluta di seggi in Parlamento i due contraenti si troverebbero subito con un problema significativo da risolvere. Faccio notare che con una legge elettorale maggioritaria sul modello francese a doppio turno in collegi uninominali sarebbero gli elettori ad affrontare e risolvere il problema nel passaggio tra il primo e il secondo turno.

Movimento 5 Stelle e Partito Democratico potrebbero anche riuscire a trovare accordi sulle candidature alla Presidenza delle regioni che voteranno a settembre. Ne trarranno forse qualche indicazione utile. Dalle elezioni comunali, grazie al ballottaggio per il sindaco, le indicazioni risulteranno/rebbero ancora più interessanti. Tuttavia, non mi faranno cambiare idea. L’alleanza “organica” non è necessaria e potrebbe essere controproducente. Al momento la priorità è lanciare una ripresa socio-economica che inizi prima dell’autunno. Poi accompagnarla e accelerarla in tutto il 2021, almeno fino all’inizio del semestre bianco quando il Presidente non avrà più il potere di sciogliere il Parlamento. Infine, trovare un accordo per scegliere tra i molti che già si considerano presidenziabili il candidato/a e farlo/a eleggere rapidamente e senza sconquassi. Discutere di alleanza organica mi sembra una fuga, non in avanti, ma dalle responsabilità di governo e di buona manutenzione del sistema politico.

Pubblicato il 15 giugno su formiche.net

INTERVISTA Più circoli e nuove alleanze. I consigli di Pasquino a Zingaretti @formichenews

Intervista raccolta da Francesco De Palo

Il noto politologo punta sulla gestione autonoma di circoli e federazioni, in antitesi al piglio renziano. E sul futuro prossimo crede che la prospettiva di alleanze piddine sarà sì a sinistra, ma saldandosi con il sindacato. E su Calenda, Sala e Letta dice che…

Meglio andare a vedere le carte dei grillini oppure quelle della Lega? È il quesito che il prof. Gianfranco Pasquino, politologo di fama internazionale e professore emerito di Scienze Politiche all’Università di Bologna, porrà nel prossimo futuro al neo segretario del Pd.

Perché, all’indomani delle primarie, a Nicola Zingaretti non basterà tornare all’antico di circoli e federazioni, ma “farsi moderno mostrandosi aperto a rilievi e critiche”. E condurre il partito a saldarsi con il sindacato e con il popolo della piazza milanese, che ha manifestato contro il razzismo. E su Calenda, Sala eLettadice che…

Il Pd con Nicola Zingaretti segretario torna all’antico di circoli e federazioni, dopo la parentesi renziana?

Sarebbe antico se tornasse a circoli e federazioni come sono stati trattati da Renzi, se invece li lasciasse autonomi, facendoli lavorare ed esprimere allora no. Se li frequenterà e al tempo stesso si mostrerà aperto a rilievi e critiche allora compierà un grande passo, che prende il nome di modernità.

Zingaretti ha chiuso ad un accordo col M5S: ma per essere alternativa al governo gialloverde basterà solo dialogare a sinistra?

Difficile rispondere ora, perché non ci troviamo in una fase dove si presentano prospettive del genere. Ma non c’è dubbio che, quando si giungerà alla composizione del prossimo Parlamento, il Pd dovrà porsi il problema dei numeri e quando vedrà che i numeri non saranno sufficienti dovrà decidere: negoziare con la Lega o con il M5s? Stando così le cose il sistema è, come minimo, tripolare, per cui con qualcuno bisognerà confrontarsi. A quel punto chiederò a Zingaretti e agli altri se meglio andare a vedere le carte dei grillini oppure quelle della Lega che le squaderna quotidianamente.

Un milione e seicentomila votanti, che sono molto meno di quelli del 2007, 2009, 2013 e 2017, crede siano un segno di vera testimonianza oppure solo un residuo di apparato?

Intanto direi che sono un buon segno per il Pd, lo dimostra il fatto che inizialmente l’asticella era stata posizionata attorno al milione. Significa che esiste ancora una spinta alla partecipazione, nonostante la delusione e la rassegnazione di molti dem al cattivissimo andamento del partito. Se, come io penso, il Pd dovrà essere fulcro di un’alleanza più ampia, allora bisognerebbe aggiungere a quei numeri i cittadini che sono scesi in piazza a Milano contro il razzismo, e anche quelli a sostegno dei sindacati lo scorso 9 febbraio. Non sono tutti ovviamente del Pd, li definirei culturalmente di sinistra, se cultura significa rapportarsi ad altre persone anche se straniere, ma tutti sono in opposizione al governo. Questo lo peso come un segnale di vivacità.

Ha citato i sindacati: come farà Zingaretti a sanare la ferita del jobs act?

La posizione renziana era di disintermediazione, se quella di Zingaretti sarà di aggregazione allora i sindacati saranno della partita. Se il Pd è divenuto il partito delle zone a traffico limitato e intende ritrovare i lavoratori, allora dovrà spostarsi in periferia. Nessuna sinistra sarà mai forte se non avrà un rapporto vero e non organico con il sindacato: nel senso di confronto e di contrasto, ma finalizzato a stare nella stessa barca e adoperarsi affinché si muova.

In questo senso l’elezione di Maurizio Landini al vertice della Cgil può essere elemento di trade union?

Direi di sì. Nonostante le sue asprezze e le sue impuntature, Landini è un utile soggetto nella sinistra.

I renziani adesso restano senza una prospettiva?

Sono andati molto male e particolarmente il renzianissimo Giachetti. Non credo sia interessante sapere dove andranno ora, ma in teoria Zingaretti dovrebbe fare il possibile per tenere tutti uniti ed evitare che escano, incentivandoli a partecipare attivamente e non a ostacolare in modo sgradevole il funzionamento del partito.

Come farà il Pd a dialogare con quegli elettori, anche di centro, che il 4 marzo 2018 hanno scelto il M5S ma che ad esempio in Abruzzo e Sardegna hanno fatto marcia indietro?

Bisognerà fare un’offerta a quel 30% di elettorato che nel 2018 ha votato M5S e che, presumibilmente, nel 2023 potrebbe cambiare idea. Gli elettori grillini insoddisfatti si trovano alle prese con dei rappresentanti che non sanno che pesci prendere e, quando li pescano, non sanno come cucinarlo. Inoltre il Pd dovrà sperare che il sistema italiano si ristrutturi in maniera bipolare, perché a quel punto tutti coloro che non vogliono la destra si coaguleranno in un unico interlocutore.

Quale il ruolo dell’operazione civica di Calenda?

Se Calenda sceglierà di farsi una sua lista per le europee, gli farò i miei auguri. Così come la leggo io, quella è un’operazione molto confusa, perché in realtà non rafforza il centrosinistra e neanche gli europeisti. Credo occorra altro, come ad esempio dei capilista che siano uomini e donne della politica che possano vantare competenze europee, non giornalisti, scrittori o attrici.

Le faccio due nomi, Beppe Sala ed Enrico Letta: come potranno intrecciarsi con il lavoro di Zingaretti? Consigli, sussurri o con ruoli di primo piano?

Secondo me Sala dovrebbe continuare a fare il sindaco di Milano, anche perché il consenso del capoluogo lombardo è di primaria importanza. Una volta terminato il suo mandato, poi, deciderà come proseguire. Mi auguro che Zingaretti stabilisca un buon rapporto di collaborazione con lui. Su Letta non scelgo la strada del politichese, che mi porterebbe a dire che è una riserva dello Stato e una risorsa. Per cui mi limito a osservare che si tratta di una persona di grande competenza, che parla splendidamente sia inglese che francese, dotato di una cultura europea. Se qualcuno sta cercando un capolista per una circoscrizione, allora è il nome giusto. Aggiungo che ha un suo prestigio personale a livello europeo, il nome giusto se Zingaretti vorrà cercare profili all’altezza.

Pubblicato il 5 marzo 2019 su formiche.net

 

Sinistra perdente senza un federatore

Intervista raccolta da Pier Francesco Borgia per Il Giornale

Roma – Ciclicamente ritorna di prepotente attualità il dubbio che la sinistra si crogioli con gusto nel masochismo di dividersi. Favorendo così la vittoria degli avversari. A Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza politica, abbiamo chiesto ragione di questo infausto destino che sembra attanagliare la sinistra.

Professor Pasquino pensa anche lei che la sinistra sia masochista? Che preferisce dividersi pur di non far vincere Renzi?
Non credo che la sinistra, come dice lei, preferisca dividersi. Piuttosto è già eternamente divisa e frammentata.

Quindi non è d’accordo sul fatto che molti le diano della masochista.
La sinistra soffre come in tutta Europa di una frammentarietà che la destra non conosce.

E secondo lei perché questa sofferenza?
Perché il centrodestra, anche se formato da partiti con origini lontane fra loro, riesce a difendere interessi comuni. Da quella parte c’è una coscienza di classe che nel centrosinistra manca.

Niente coscienza di classe a sinistra? Questa è dura da digerire.
È così un po’ dovunque. Veda cosa succede in Germania, in Francia e persino in Spagna. Da noi questa frammentarietà è più esasperata perché a sinistra pretendono di difendere troppi interessi.

Crede che una coalizione non sia possibile? Nemmeno adesso che il Senato ha votato il Rosatellum bis? Dicono sia fatto apposta per premiare le alleanze.
Il Rosatellum sarebbe stato adatto solo se avesse consentito il voto disgiunto. Com’è stato licenziato dal Senato serve soltanto per premiare Renzi.

Quindi la sinistra si deve rinnovare partendo dal programma e da una nuova leadership, e soprattutto bevendo l’amaro calice delle alleanze?
Renzi come politico è testardo. Una coalizione, però, la deve accettare e quindi un prezzo lo deve pagare.

Viene prima la leadership o la coalizione?
Senza dubbio serve una persona che unisca le diverse anime della sinistra e che porti a identificare le priorità.

E quel leader cui sta pensando è Renzi?
Renzi è sicuramente un leader. Non è un federatore, ma un divisore. Il centrosinistra ha avuto un solo leader federatore nella sua storia: Romano Prodi. Per far vincere il centrosinistra Renzi dovrebbe fare un passo indietro. Ha anche a provato a fare il Macron italiano ma non gli è riuscito quando aveva preso il 40% dei voti con le Europee, figuriamoci se può riuscirgli adesso.

Anche Mdp e Sinistra italiana dovrebbero fare delle concessioni, non le pare? In fondo una coalizione si fonda sul reciproco venirsi incontro.
Quello che dovrebbero fare è di indicare loro un leader. Le sparse membra della sinistra dovrebbero correre il rischio di imporlo un leader.

Il caso Ostia apre uno spiraglio per chi a sinistra vuole smarcarsi dal Pd e cercare un dialogo coi grillini?
Ostia è un caso a parte. O meglio. Come in tutti i casi di ballottaggio il dialogo lì conta fino a un certo punto. Semmai è importante vedere cosa accadrà dopo il voto politico.

In che senso?
Se, come probabile, ci saranno nel nuovo parlamento tre grandi forze senza i numeri per governare, un dialogo coi grillini avrebbe un senso diverso. E un dialogo con quel movimento riuscirebbe meglio a un leader federatore, aperto al dialogo. Magari uno come lo stesso Gentiloni.

Pubblicato il 10 novembre 2017

Sinistra: mettere paletti a un campo o aggiungere carri a una carovana?

Quando la sinistra è un “campo” ci sarà sempre qualcuno che vuole marcare i confini e mettere paletti. Qualcuno chiederà che ci sia un capo del campo. Si troverà anche qualcuno che spinge fuori i “sinistri” che dissentono perché hanno idee diverse. La sinistra deve essere, sempre, una carovana che accoglie nel suo cammino, lascia scendere, ma incoraggia chi vuole a “salire” sui suoi carri.