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L’ossessione per la scelta diretta dei presidenti @DomaniGiornale

Ancora una volta dalle pagine del “Corriere” giunge una lezione di politica e di democrazia che non ha nessun fondamento nella teoria e nella pratica proprio delle democrazie. Paolo Mieli ci aveva già raccontato, senza nessun riscontro empirico, che l’alternanza è la norma nelle democrazie occidentali e che, in assenza di alternanza, l’Italia è destinata a restare nel caos.

Per lo più, invece, nelle democrazie europee assistiamo, con l’eccezione della Gran Bretagna, non alla sostituzione in toto di un governo ad opera di una opposizione, ma alla ridefinizione, uno o due partiti escono, uno entra, della coalizione di governo. Così sta avvenendo in Germania.

Adesso Mieli sostiene, forse addirittura invoca, ispirato, ma non so quanto sostenuto, dal vescovo Ambrogio, l’elezione popolare diretta dei capi di governo e dei capi di Stato.

Nelle democrazie parlamentari, tali sono tutti i sistemi politici dell’Europa occidentale, nessun Primo ministro/Cancelliere è mai stato eletto dal “popolo”, per molte buone ragioni a cominciare dal consentire cambi di persone e cariche in caso di necessità senza tornare alle urne. Quanto ai capi di Stato, mi limito a ricordare che in Europa occidentale esistono otto monarchie (Belgio, Danimarca, Gran Bretagna, Lussemburgo, Olanda , Norvegia, Spagna e Svezia) nelle quali, naturalmente, non c’è nessun bisogno di nessuna elezione.

Nulla osta a proporre il cambiamento della forma di governo italiana da parlamentare a presidenziale o semipresidenziale, sapendo che esistono differenze profonde fra questi due modelli. Sapendo anche che l’elezione popolare diretta apre la strada a outsider che, da Trump a, ipoteticamente, Zemmour, non sembrano costruttori di buona politica.

Secondo Mieli, dare la parola al popolo nel silenzio dei “presidenziabili” italiani ri-avvicinerebbe gli italiani alla politica. Dalle pagine del Corriere qualsiasi lettore può notare che da qualche mese i “presidenziabili” parlano, eccome. Alcuni di loro sono frequenti ospiti di programmi televisivi nei quali presentano libri e raccontano storie. Insomma, le informazioni circolano e, comunque, nessuno di coloro che ha raggiunto la più alta carica della Repubblica italiana era uno sconosciuto, privo di carriera politica e biografia professionali.

Il “direttismo”, come lo definì Giovanni Sartori, a lungo editorialista del Corriere, non migliora necessariamente la politica. A riportare gli italiani alle urne e a riavvicinarli alla politica, dalla quale espressioni come “casta” e “razza poltrona” contribuiscono a demotivarli e a confermarli nei loro pregiudizi, debbono essere i partiti, magari con una legge elettorale, ne esistono diverse, che garantisca competizione e elimini la cooptazione. Nel frattempo, sono molto fiducioso che per riavvicinare i cattolici alla politica e per fuoruscire dalle “vie tortuose e imperscrutabili” dei Conclavi, ma anche dalla tutt’altro che democratica acclamazione, Papa Francesco stia formulando le regole affinché il suo successore sia eletto direttamente dal popolo cattolico.

Pubblicato il 21 novembre 2021 su Domani

Perché la democrazia italiana funziona così male @DomaniGiornale

Non so di chi sia il merito/la responsabilità del titolo di enorme successo del libro di Giorgio Galli, Il bipartitismo imperfetto. Comunisti e democristiani in Italia (Bologna, il Mulino, 1967). Potrebbe anche essere stato il prodotto di un brainstorming al quale quasi certamente parteciparono Giovanni Evangelisti, Federico Mancini e Luigi Pedrazzi. So che quel libro era il prodotto collaterale di una ricerca sulla partecipazione politica in Italia che portò alla pubblicazione fra il 1965 e il 1970 ad opera della Società editrice il Mulino di quattro corposi volumi collettanei: L’attivista di partito a cura di Francesco Alberoni; Il comportamento elettorale a cura di Giorgio Galli; La presenza sociale del Pci e della Dc a cura di Agopik Manoukian; e L’organizzazione del Pci e della Dc a cura di Gianfranco Poggi. Non essendo pensabile che, oltre agli studiosi e alle biblioteche, forse anche agli uffici studi di qualche associazione e dei partiti, quei volumi raggiungessero un pubblico più ampio, si pensò opportunamente di trarne una versione di più facile lettura. La sintesi italiana, affidata a Giorgio Galli, la penna di gran lunga più veloce e più incisiva del gruppo di ricerca, fu per l’appunto Il bipartitismo imperfetto. In inglese, grazie ai buoni uffici di Joseph LaPalombara, apparve un testo più denso e più accademico: Giorgio Galli e Alfonso Prandi, Patterns of Political Participation in Italy (New Haven, Yale University Press, 1970). 

Pure autore del Mulino, che nel 1957 aveva pubblicato il suo importante libro Democrazia e definizioni, meritevole, in questi tempi di affannate critiche alle democrazie, di una ristampa a dimostrazione della sua insuperata profondità analitica, Giovanni Sartori non aveva fatto parte del gruppo di ricerca presso l’Istituto Carlo Cattaneo di Bologna. In quegli anni la sua attenzione si era concentrata sullo studio del Parlamento, della rappresentanza e, infine, dei partiti e dei sistemi di partiti, classificazioni e funzionamento ovvero nelle sue parole: formato e meccanica. Nel 1966 pubblicò un capitolo che conteneva la tesi centrale del libro Parties and party systems (Cambridge, Cambridge University Press 1976), ristampato nel 2005 dallo European Consortium for Political Research, ma che, per suo volere, non fu mai tradotto in italiano. Nel suo capitolo: European Political Parties: The Case of Polarized Pluralism (pubblicato nel volume Political Parties and Political Development, a cura di Joseph LaPalombara e Myron Weiner, Princeton, Princeton University Press, 1966, pp. 137-176), Sartori collocava il sistema partitico italiano nella stessa categoria dei sistemi di partito della Germania di Weimar, della Repubblica spagnola 1931-1936, della Quarta Repubblica francese (in seguito vi ricomprese il Cile). In quei sistemi politici la esistenza simultanea di due opposizioni anti-sistema che miravano a svuotare il centro, ma che non potevano allearsi per dare vita ad un governo, aveva prodotto il crollo delle rispettive democrazie. Era una visione molto diversa e molto distante da quella di Giorgio Galli per il quale la democrazia italiana non era in pericolo di vita, ma, in quanto impossibilitata a godere dell’alternanza, funzionava inevitabilmente piuttosto male.

   La formula “bipartitismo imperfetto” ottenne grande visibilità. Sartori tentò di contrastarla in quanto inadeguata a spiegare la meccanica del sistema dei partiti italiani, mai riducibile ad una competizione bipartitica (Bipartitismo imperfetto o pluralismo polarizzato?, in “Tempi Moderni”, autunno 1967, pp. 1-34). Con suo grande disappunto, il pluralismo polarizzato, molto più difficile da fare circolare e da spiegare, rimase confinato al mondo degli studiosi i quali possono trovare il meglio raccolto in Teoria dei partiti e caso italiano (Milano, SugarCo, 1982) che offre una importante prospettiva comparata. Peraltro, in più occasioni ho avuto l’impressione che non siano pochi gli studiosi di ieri e di oggi che non hanno capito fino in fondo le radici e le implicazioni del pluralismo polarizzato. Senza nessuna particolare esultanza Galli si godeva il successo e continuava ad analizzare la dinamica del sistema politico italiano in alcuni articoli pubblicati nella rivista “il Mulino” fra i quali nel n. 288 del 1983 Un bipartitismo ancora imperfetto ma soprattutto in due libri: Il difficile governo. Un’analisi del sistema partitico italiano (Bologna, il Mulino, 1972) e Dal bipartitismo imperfetto all’alternativa possibile (Bologna, il Mulino, 1975).

    Senza in nessun modo sottovalutare tutte le complicazioni per la formazione, il funzionamento, l’efficacia del governo, per l’appunto, “difficile” a causa della pluralità e frammentazione dei partiti italiani, Galli rimase fedele alla sua tesi iniziale. Non furono soltanto la non ottima qualità della DC e le carenze riformiste del PCI a produrre cattivi, instabili, inefficienti governi. Era soprattutto la mancanza di alternanza che, al tempo stesso, consentiva alla DC di non riformarsi e al PCI di non aggiornarsi, di continuare a godere di quella che personalmente ho definito “rendita di opposizione”. Coerentemente, dando voce anche ai molti insoddisfatti di quel bipartitismo/bipolarismo che teneva bloccata la situazione italiana, Galli auspicava e tentò di delineare le modalità utili all’emergere delle condizioni che portassero appunto all’alternativa, da tenersi distinta dall’alternanza. Solo il prodursi di un governo in blocco sostitutivo di quelli ricomprendenti la Democrazia cristiana sarebbe stato in grado di innescare la pratica virtuosa dell’alternanza.

Dal canto suo, Sartori argomentò in più sedi che l’alternanza non è una caratteristica decisiva per valutare la democraticità di un sistema politico. Naturalmente, è indispensabile che vi siano elezioni libere, eque e competitive, ma quello che conta non è il prodursi più (come avviene in Italia dalla seconda metà degli anni Novanta) o meno frequente di cambi di governi, quanto, piuttosto, che esista nell’elettorato, nei politici, negli osservatori (nei sondaggisti, aggiunta mia) una credibile aspettativa di alternanza che, dunque, si traduce in limpida competizione elettorale e politica. Un sistema partitico polarizzato non offre l’opportunità dell’alternanza poiché gli sfidanti sono, per definizione, “anti-sistema”: se vincessero cambierebbero il sistema politico distruggendone la democraticità. Inoltre, sottolineò Sartori, inevitabilmente, logicamente e politicamente, quando l’alternanza è impossibile il sistema si blocca al centro e vengono incentivati due tipi di comportamenti perniciosi. Primo le opposizioni anti-sistema possono permettersi di offrire di più (overbidding) dei governi nella consapevolezza che non saranno chiamati a rispondere delle loro esagerate promesse. Secondo, i governanti possono sostenere che le loro inadeguatezze dipendono essenzialmente sia dalle opposizioni che intralciano le attività di governo sia, di volta in volta, tema dopo tema, dagli stessi alleati di governo (pratica detta buckpassing, scaricabarile). Inoltre, nei compositi governi di coalizione qualche partito(ino), ogniqualvolta risulta numericamente indispensabile, dispone di un potere di ricatto (blackmail è il termine utilizzato da Sartori già nel 1966) per spregiudicatamente accrescere le sue risorse.

Contrariamente alle previsioni di Sartori, tra il 1992 e il 1994 il sistema partitico italiano è certamente crollato, ma senza travolgere la democrazia (anche se molto probabilmente restringendone la qualità). Contrariamente agli auspici di Galli, l’alternanza che è arrivata non ha riguardato i due grandi partiti concorrenti: né la DC né il PCI. Le diverse alternanze che si sono succedute in Italia dal 1994 ad oggi hanno creato confusione piuttosto che miglioramenti secondo il modello anglosassone allora da Galli apparentemente preferito. Alla fine della ballata, il problema è che il sistema di partiti che Galli e Sartori hanno analizzato e la cui riforma non hanno mai affidato ad una taumaturgica riforma elettorale, si è inabissato senza nessuna possibilità di recupero. In un sistema di partiti sostanzialmente destrutturato (partiti che nascono, muoiono, si scindono, elettori volubili un terzo dei quali cambia l’opzione di voto da un’elezione all’altra), come quello italiano, tutto o niente è possibile: polarizzazione, comportamenti anti-sistemici, alternanza, semi rotazione, tranne buona competizione e funzionamento soddisfacente.

Pubblicato il 31 dicembre 2020 su Domani

Riforme, leggi elettorali e Pd. Così il prof. Pasquino ribatte ad Arturo Parisi @formichenews

Ieri, ma soprattutto oggi, ritengo che chiamare maggioritarie le leggi elettorali proporzionali sulle quali viene innestato un premio di maggioranza è sbagliato e manipolatorio. Il commento del prof. Pasquino

Formiche.net mi ha invitato a esplicitare e chiarire le mie critiche variamente espresse (anche con pungenti tweet) ai pensieri politici e istituzionali che il mio amico Arturo Parisi pronuncia di frequente (qui l’intervista). Lo faccio volentieri, non per una resa dei conti personale, ma con l’obiettivo di dare un contributo alla comprensione del sistema politico italiano e alla costruzione di un suo migliore futuro.

Nella stagione referendaria fui presente, eccome, in quanto convinto promotore. Scrissi anche un editoriale per Repubblica: 1 aprile 1990, nel quale lodavo e appoggiavo la proposta della FUCI di un referendum sulla legge elettorale. Ritenevo necessario cambiarla, non perché le leggi elettorali proporzionali sono brutte e cattive (qualche commentatore continua, stupidamente, a ritenerle la causa della tragedia di Weimar), ma perché in Italia quel tipo di PR era uno degli ostacoli più difficili da superare per rendere praticabile il meccanismo all’alternanza al governo fra coalizioni diverse. Fin da allora, però, sostengo che il sistema elettorale preferibile per l’Italia è il maggioritario a doppio turno nei collegi uninominali di tipo francese (a richiesta argomenterei più a fondo).

Ieri, ma soprattutto oggi, ritengo che chiamare maggioritarie le leggi elettorali proporzionali sulle quali viene innestato un premio di maggioranza: Legge del Porcellum Calderoli e Legge dell’Italicum Renzi (con zio D’Alimonte) è sbagliato e manipolatorio. Se Prodi e Parisi sono “maggioritari” perché vogliono un premio di maggioranza, comunque attribuito, sbagliano. Ad ogni buon conto, quel tipo di legge elettorale non deve essere definita “maggioritaria”. Non c’è nessun ritorno alla PR che abbiamo conosciuto. Comunque, se congegnata in maniera tale da dare potere agli elettori, qualsiasi legge PR sarebbe molto meglio della pessima legge Rosato. Fatemi sentire alte e forti le voci di Prodi, di Veltroni e, naturalmente, di Parisi che chiedono che si metta fine all’obbrobrio delle pluricandidature e delle liste bloccate. O la qualità del ceto parlamentare è una variabile irrilevante?

A suo tempo, ho molto apprezzato l’Ulivo la cui definizione, incidentalmente, non può essere affidata in esclusiva a qualche parlamentare prodiana miracolata, senza arte né parte. L’Ulivo fu il benemerito tentativo di rinnovare il ceto politico aprendosi alla società (sì, civile). Riuscì solo parzialmente. È ancora quasi tutto da realizzare. Con il doppio turno francese non è difficile pensare a candidature nei collegi uninominali capaci di vincere e di rappresentare quelle società in modo e misura di gran lunga migliori di quelli dei politici di professione/di cooptazione. Sto aspettando Prodi, Veltroni, Parisi e anche, se lo vorrà, Enrico Letta, sulla sponda del fiume doppio turno. Sono certo che lì non arriverà mai Matteo Renzi, le cui riforme istituzionali, pasticciate, confuse, inadeguate, Prodi e Parisi hanno sostenuto con il loro “sì”. Portavano ad una democrazia maggioritaria, bipolare, dell’alternanza? Ad una tanto vantata (ma inesistente negli studi degli specialisti) democrazia “decidente”? O del decisore unico? Aprivano spazi veri alla società? Contenevano e realizzavano il modello del “Sindaco d’Italia”? Non chiedo a nessuno di esultare per lo scampato pericolo. L’ho fatto io, per molti, mentre Parisi se ne doleva, quella sera del 4 dicembre 2016.

Ma l’Ulivo, poi, è stato il padre del Partito democratico? Proprio no. Eppure né Prodi né Veltroni né Parisi espressero riserve e critiche su quella fusione gelida del 2007 che salvava le poltrone (eh, sì, lo scrivo proprio così) dei dirigenti, ma escludeva quasi programmaticamente e in maniera brutale tutte le associazioni che si erano mobilitate per l’Ulivo d’antan. Il Pd suscitò, raccolse, valorizzò le migliori culture riformiste dell’Italia? E quale cultura politica e istituzionale ha oggi il Pd? Qualcosa di elaborato da Parisi e Prodi? da Veltroni? Da altri, e chi? Quale democrazia hanno voluto i collaboratori di Prodi? Quella che sarebbe sbucata dalla vittoria del sì al referendum? Per usare le parole di Parisi: da chi venne l’ispirazione di una democrazia diversa e verso quale modello si orienta oggi la sua aspirazione?

Da Parisi ho imparato molto nei quasi trent’anni trascorsi insieme fra Mulino e Istituto Cattaneo. Ho imparato soprattutto che è un dovere scientifico, ma anche etico, mettere in discussione le spiegazioni date per acquisite, spesso pappagallescamente ripetute, e le proposte non argomentate. Rovesciare. Oggi mi sembra che Parisi e con lui molti altri commentatori e politici (con me stanno pochi followers, ex-studenti…) si nutrano di luoghi comuni e rinuncino alla critica dell’esistente in nome di qualcosa che non è mai esistito. Dunque e comunque, non finisce qui.

Il libro più recente di Gianfranco Pasquino, non politologo, ma professore emerito di Scienza politica, è Minima Politica (UTET 2020). A qualcuno potrebbe interessare anche Italian Democracy. How It Works (Routledge 2020)

Pubblicato su Formiche.net il 20 febbraio 2020

Le promesse e le scommesse @Mondoperaio #Craxi

 

Per Bettino Craxi

Giunto improvvisamente a guidare un partito chiaramente sconfitto nelle elezioni del 1976 (precipitato al punto più basso del suo consenso elettorale nel dopoguerra e diviso in correnti “ideologiche” che si spartivano malamente le poche risorse disponibili), Bettino Craxi si trovò ad affrontare la sfida delle sfide: sopravvivere e crescere in un contesto bipolarizzato dominato da due rivali agguerriti e che sembravano in ottima salute politica. Le due “chiese” – come il sociologo Francesco Alberoni, allora socialista, bollò la Democrazia cristiana e il Partito comunista), erano in condizione di schiacciare un partito i cui dirigenti e militanti avevano forse perso la fede: vale a dire che non riuscivano ad attrarre iscritti, simpatizzanti e elettori in chiave fideistica, ovvero sulla fiducia in un domani migliore. Soprattutto, non erano riusciti a formulare una posizione e un’offerta politica nettamente distinta da quella comunista e non subalterna a quella democristiana (e viceversa). Dove portassero e dove potessero effettivamente arrivare gli “equilibri più avanzati” indicati dal segretario sconfitto Francesco De Martino non era possibile dire: ma certamente quegli equilibri non erano risultati una prospettiva stimolante e realistica agli elettori.

Mondoperaio s’interrogava con una molteplicità di articoli anche pregevoli su come riuscire a capire e a imitare l’esperienza di Mitterrand, il cui Parti socialiste mieteva successi elettorali ed era addirittura sulla strada che lo avrebbe condotto all’Eliseo nel 1981. In verità molto di quello che scrivemmo allora è rimasto lì a testimoniare del pensare di ciascuno dei collaboratori, non della loro/nostra capacità complessiva di influenzare la politica della leadership del Psi. In maniera certamente non sistematica, nello spazio di un paio d’anni il segretario Craxi sembrò promettere tre importanti cambiamenti: nel partito, un nuovo Psi; nella strategia politica, l’alternativa socialista; nel sistema istituzionale, la “Grande Riforma”. Queste tre promesse potevano e dovevano essere perseguite congiuntamente. Stavano insieme: il conseguimento di una promessa avrebbe avuto effetti positivi sulla possibilità di conseguire anche le altre; e di converso, nella sequenza, un Psi debole non sarebbe arrivato da nessuna parte.

Per quanto riguarda il partito, in pochi anni, Craxi sgominò tutte le opposizioni interne, emarginò i concorrenti, conquistò una posizione dominante. Il Partito socialista divenne il partito di Craxi, e in quanto tale fu apprezzato e attaccato (tema che merita approfondimenti qui impossibili). Credo di potere legittimamente sostenere che la sua rielezione per acclamazione (voluta o no, ma non ricusata) alla segreteria del Psi nel Congresso di Verona (maggio 1984) costituisca il punto di non ritorno. Naturalmente, non mancarono le critiche sia alla procedura sia ad alcune conseguenze. In un durissimo commento sulla Stampa Norberto Bobbio stigmatizzò l’acclamazione come un esempio criticabilissimo di “democrazia dell’applauso”. Craxi replicò evocando “filosofi che hanno perso il senno”, ma repliche altrettanto sferzanti furono da lui indirizzate a critiche simili formulate dal sociologo Francesco Alberoni e dallo storico del pensiero politico Luigi Firpo.

Per acquisire ancora maggiore controllo sul partito, Craxi aprì le porte dell’Assemblea nazionale ad una pluralità di figure di varia provenienza, praticamente nessuna con precedenti esperienze di impegno politico-partitico o dotate di conoscenze politiche. Memorabilmente, Rino Formica parlò di “nani e ballerine”, espressione che è rimasta nel linguaggio politico. Senza entrare nei particolari, è facile constatare che la promessa di Craxi di costruire un partito socialista effettivamente nuovo non fu da lui mantenuta. Sicuramente una novità rilevantissima fu data dalla sua leadership e dalle sue modalità “decisioniste” di esercizio del potere politico e di governo. In quanto a distribuzione del potere nel partito, Craxi si accontentò del sostegno che gli portavano coloro che controllavano il potere nelle loro rispettive aree di influenza: La Ganga in Piemonte; De Michelis in Veneto; Lagorio in Toscana; Di Donato in Campania; Marzo (e per qualche tempo Signorile) in Puglia; Andò in Sicilia.

 Negli anni ottanta il Psi di Craxi fu una struttura che, al vertice e nella politica nazionale, dipendeva dalla personalità del suo leader

Il Psi divenne un partito dalla doppia immagine: quella nazionale espressa da Craxi e quelle locali dei rispettivi baroni regionali. Chi aveva suggerito di seguire, almeno in parte, il percorso che aveva portato al Parti socialiste di Mitterrand, stabilendo rapporti flessibili ma costanti con una varietà di gruppi e associazioni di tipo riformista attive nella società italiana, fu inevitabilmente deluso. Quello che poteva essere un modo di drenare sostegno ed energie dalle associazioni vicine al Pci, e quindi di riequilibrare i rapporti di forza, non fu mai tentato con convinzione. Né Craxi né gli altri dirigenti socialisti vollero (o seppero) apprendere un’altra grande lezione che aveva portato all’esito felice del Parti socialiste: suscitare luoghi di aggregazione e di confronti sotto forma di club, di circoli, di sedi. Il punto più alto di elaborazione culturale (non seguito dalla declinazione di politiche sociali adeguate e coerenti) fu opera, non di una sintesi di quanto fosse stato pensato e prodotto in una molteplicità di luoghi, ma della riflessione che Claudio Martelli affidò al suo intervento sui meriti e sui bisogni alla conferenza programmatica di Rimini del 1982.

In sostanza e nella pratica, negli anni ottanta il Psi di Craxi fu una struttura che, al vertice e nella politica nazionale, dipendeva dalla personalità del suo leader: e che nelle aree locali di una qualche importanza, ad eccezione della Lombardia, era nelle mani di uno specifico dirigente, con suo personale radicamento, il quale, fatto salvo il “dovuto” omaggio al leader, perseguiva anche sue politiche personali. Noterò en passant che il Psi di Craxi non fu comunque mai un partito personalista del tipo di quelli che abbiamo visto in Italia nell’ultimo decennio: ma non riuscì neppure a diventare un partito effettivamente rinnovato, coeso e effervescente.

Soltanto un partito profondamente rinnovato avrebbe potuto perseguire con qualche ragionevole aspettativa di successo quella che allora su Mondoperaio molti, compreso chi scrive, definivano “alternativa”. L’uso di questo termine offrì a molti raffinati interpreti il destro per esibirsi in sottili, ma inadeguate, distinzioni fra alternativa e alternanza, non tenendo conto delle premesse, dei processi e delle implicazioni dell’espressione “alternativa”[1]. Mi pare opportuno sottolineare che si trattava proprio di costruire una alternativa alle coalizioni imperniate sulla Democrazia cristiana: in assenza di quella possibile alternativa in nessun modo si sarebbe giunti all’alternanza. Non so se “dalla forza delle cose” sarebbe scaturita “l’alternativa socialista”, tema del Congresso Psi di Torino (fine marzo-aprile 1978). Sono tuttora convinto che quell’alternativa andava costruita, ed era possibile farlo, a sinistra, con il Pci. Naturalmente, quel Pci che perseguiva la politica del compromesso storico al tempo stesso negava la possibilità di un’alternativa di sinistra, e contraddiceva uno dei cardini della politica democratica: vale a dire che la alternanza al governo di un paese deve essere sempre considerata un esito incombente e praticabile della competizione politico-elettorale.

Senza tentennamenti criticai per tempo tanto il compromesso storico, che poco aveva a che vedere con un accordo effettivamente consociativo che avrebbe dovuto di necessità includere anche il Psi, quanto la prospettiva che un eventuale governo di compromesso storico avrebbe dovuto durare per un periodo di tempo indefinito. Sarebbe inevitabilmente diventato una cappa di piombo su una società che doveva cambiare liberando energie e non comprimendole. Non fui affatto il solo a avanzare forti riserve e formulare serie critiche. Rispetto alla maggioranza dei critici, la mia posizione si caratterizzava per porre avanti a tutto una certa idea di sistema politico nel quale nessuna maggioranza potesse mai considerarsi sicura e insostituibile, e tutte le maggioranze fossero costrette a comportarsi come se la possibilità di una loro sconfitta stesse costantemente dietro l’angolo.

 Sarebbe di grande utilità un approfondimento sulle modalità con le quali operavano i socialisti nelle varie organizzazioni economiche, sociali e culturali condivise con i comunisti

Nel corso degli anni Ottanta dello scorso secolo Craxi semplicemente abbandonò qualsiasi prospettiva di alternativa socialista. I fischi del Congresso di Verona a Berlinguer, almeno in parte giustificabili come disapprovazione della incerta e malferma politica del Pci, furono la premessa di un altro percorso che all’alternativa non avrebbe potuto mai portare e approdare. Il solco nella sinistra si approfondì non soltanto con la decisione di “tagliare” la scala mobile, ma soprattutto di accettare di andare al voto sul referendum chiesto dal Pci. Lascio da parte qualsiasi discorso sulla necessità – per la costruzione di un’alternativa alla Dc – di avere il pieno, esplicito, convinto sostegno dei sindacati (anche e soprattutto, della Cgil), perché mi pare da sottolineare con apprezzamento la dichiarazione di sfida di Craxi. “Un minuto dopo la vittoria degli abrogazionisti il capo del governo si dimetterà”. Dopo avere esitato fino ad intrattenere l’idea – di provenienza radicale – di invitare all’astensione, Craxi rivendicò la sua responsabilità e ottenne una significativa vittoria.

Purtroppo non ne seguì una indispensabile politica di concertazione con i sindacati, dimenticando anche in questo caso l’esperienza del Parti socialiste di Mitterrand e il rapporto strettissimo intessuto con la CFDT di Jacques Delors. Qui sarebbe di grande utilità un approfondimento, del quale non sono capace, sulle modalità con le quali operavano i socialisti nelle varie organizzazioni economiche, sociali e culturali condivise con i comunisti. Certamente, ancora oggi capire dove e come situarsi fra la deleteria disintermediazione e la deplorevole “cinghia di trasmissione” che, lo sottolineo, va avanti e indietro fra sindacati e partiti, appare problematico. Tuttavia nessuna alternativa politica può essere costruita con successo e tradotta efficacemente in pratica senza porsi il compito di offrire rappresentanza, confronto e interlocuzione alle associazioni.

Il successo quarantennale della Democrazia cristiana è spiegabile quasi esclusivamente con riferimento alla capacità delle sue correnti di stabilire, mantenere, fare funzionare le relazioni stabilite con numerosi interlocutori sociali dei più vari tipi. Non vorrei ridurre tutto questo a qualche slogan, ma la politique d’abord fa poca strada senza il sostegno sociale: anche se mi affretto ad aggiungere che nessun sistema politico è o sarebbe in grado di funzionare all’insegna della société d’abord. Oggi, a trent’anni dalla caduta del Muro di Berlino, m’interrogherei piuttosto sulla culture d’abord: vale a dire quali principi e quali valori, sentendomi di sottolineare la quasi assoluta inadeguatezza della cultura politica con la quale i comunisti giunsero a quell’imprevisto appuntamento, ma anche l’incapacità di Craxi e dei socialisti di trarne insegnamenti per i rapporti da intrattenere con i comunisti italiani e per formulare a loro volta una cultura politica che tenesse conto della nuova situazione. Quali bisogni, quali meriti? Quale riflessione sul richiamo di Bobbio, immediatamente criticato da molti e dai socialisti certamente non difeso, per il quale “caduto il comunismo rimangono i problemi che ne hanno costituito il fondamento, la motivazione”? Invece mi parve che Craxi pensasse che il Psi sarebbe quasi automaticamente riuscito ad attrarre/ereditare i voti, molti, in uscita dal Pci, entrato nel tunnel della sua forzata trasformazione: fino a svuotarlo e assorbirlo quasi completamente anche senza procedere a nessun cambiamento nella cultura politica socialista.

Rimanendo nella linea interpretativa che mi sono dato con riferimento alla notevole esperienza del Parti Socialiste di Mitterrand, concludo la mia analisi e valutazione dell’opera di Craxi con la sua proposta di Grande Riforma sorprendentemente annunciata nell’autunno 1979[2]. Chiunque dimentichi che Mitterrand si trovò ad operare in un sistema istituzionale drasticamente diverso da quello italiano – vale a dire in una Repubblica semipresidenziale con sistema elettorale maggioritario a doppio turno in collegi uninominali per l’elezione del Parlamento – non può capire quanto le regole istituzionali e elettorali abbiano influenzato la strategia del Parti socialiste, che seppe sfruttarne tutte le opportunità. Anche se quelle istituzioni “non erano state fatte per lui”, avrebbe dichiarato il neo-eletto Presidente, “se ne sarebbe servito”: in maniera, mi permetto di aggiungere, che fu eccellente. In una pluralità di articoli pubblicati da Mondoperaio non mancarono i riferimenti positivi alla struttura istituzionale della Quinta Repubblica francese (ma vi furono anche non poche riserve e critiche). La tematizzazione più completa e più brillante della necessità di una riforma costituzionale arrivò con il volume di Giuliano Amato, Una Repubblica da riformare (Bologna, Il Mulino, 1980).

Se la legge elettorale proporzionale era da ritenersi responsabile del mantenimento del bipolarismo Dc-Pci e della limitata e lenta crescita del Psi, allora la sua riforma e il suo superamento avrebbero di conseguenza dovuto costituire una priorità dei socialisti

Senza nessuna concessione a coloro che pensano che la Costituzione italiana fosse già allora datata e persino di ostacolo a cambiamenti politici significativi (non lo era e non lo è tuttora), certamente le democrazie parlamentari con leggi elettorali proporzionali e quindi con sistemi multipartitici sono più flessibili e maggiormente in grado di accogliere e smussare le preferenze degli elettori: mentre i semipresidenzialismi di tipo francese sono più sensibili ai mutamenti di quelle preferenze e le leggi elettorali maggioritarie, oltre a spingere verso un’effettiva competizione bipolare (già facilitata dall’elezione popolare diretta del Presidente della Repubblica) ne potenziano l’impatto. In estrema sintesi, il “bipolarismo” Dc/Pci era favorito dagli assetti istituzionali e elettorali italiani. Spaccarlo richiedeva un intervento mirato e di grande respiro. Peraltro, quasi inesorabilmente, una legge elettorale a doppio turno come quella francese (l’ho ripetutamente argomentato) da un lato svantaggia i partiti, dall’altro favorisce la formazione di coalizioni che gli elettori scelgono di votare nella prospettiva di conferire un mandato di governo.

Né l’impianto complessivo della Grande Riforma né i suoi cruciali dettagli furono mai elaborati soddisfacentemente da Craxi. Neppure ad opera dei parlamentari socialisti fecero seguito proposte precise e significative. Al contrario, nelle sedi ufficiali – a partire dalla Commissione Bozzi, istituita nel novembre 1983 e giunta al termine dei suoi lavori il 1 febbraio 1985 – i socialisti operarono sostanzialmente per impedire il conseguimento di qualsiasi accordo. Per tutto quel periodo Craxi fu Presidente del Consiglio. La sua comprensibile priorità era la permanenza in carica. Il suo “interesse” istituzionale consisteva nel rafforzamento dei poteri del capo del governo, ma le modalità con le quali pervenire a questo esito non furono mai delineate. Non è questo il luogo dove procedere a puntigliose esplicazioni: ma, ad esempio, il voto di sfiducia costruttivo alla tedesca è una di quelle modalità fra le più apprezzabili e in pratica fra le più efficaci per chi desideri la stabilità di governo. Germania docet. La battaglia istituzionale più incisiva Craxi la condusse contro il ricorso al voto segreto in Parlamento, strumento sul quale i parlamentari, ma soprattutto le correnti democristiane, facevano frequente affidamento. Fu una battaglia sostanzialmente vittoriosa, ma che rimase confinata in quell’ambito: mentre avrebbe potuto estendersi alle modalità di funzionamento interno dei partiti e di elezione dei candidati. Proprio a questo proposito la parabola non riformatrice di Craxi si concluse con un errore strategico e con una grande decisiva sconfitta.

Se la legge elettorale proporzionale era da ritenersi responsabile del mantenimento del bipolarismo Dc-Pci e della limitata e lenta crescita del Psi, allora la sua riforma e il suo superamento avrebbero di conseguenza dovuto costituire una priorità dei socialisti, poiché andava anche nel senso di rispondere ad un’opinione pubblica inquieta e irritata dai comportamenti parlamentari dei franchi tiratori. Invece Craxi schierò il Psi contro qualsiasi riforma elettorale (tralascio la sua idea di soglia di sbarramento in tutte le circoscrizioni per la Camera, pensata palesemente contro l’avanzata della Lega). Fatidico fu l’invito ai cittadini elettori ad “andare al mare” per fare fallire per mancanza di quorum il primo referendum elettorale, quello sulla preferenza unica. Il 9 giugno 1991 fu certo in una qualche misura, se non una vera e propria sconfitta della partitocrazia italiana, quantomeno il segnale forte della crescente insofferenza nei suoi confronti della maggioranza degli italiani.

Date le condizioni di partenza, Craxi fu obbligato a comportarsi come un giocatore d’azzardo

Fu anche il segnale che il Psi di Craxi non aveva capito quei sentimenti e non riusciva a rappresentarli modernamente. Qualsiasi Grande Riforma avrebbe potuto giovarsi di una iniziale “riformetta” che toccava in radice il rapporto dei parlamentari con l’elettorato. Quel giorno del giugno 1991 nel quale Craxi privilegiò quello che considerava l’interesse (di cortissimo respiro) del suo partito alla sfida di un mutamento positivo per il sistema politico italiano segna una svolta negativa alla quale nessuno nel Psi si oppose e seppe, in seguito, porre rimedio.

È tempo di concludere. Lo farò ricorrendo all’analisi effettuata da Bobbio sulle “promesse non mantenute della democrazia” (Il futuro della democrazia, Torino, Einaudi) pubblicata proprio nell’anno, 1984, in cui il presidente Pertini lo nominò senatore a vita e aderì come indipendente al gruppo dei senatori socialisti. A proposito della traiettoria politica di Craxi sono giunto alla convinzione che si possa e si debba parlare di “scommesse perdute”. Date le condizioni di partenza, Craxi fu obbligato a comportarsi come un giocatore d’azzardo. Dovette tenere alta la posta del rinnovamento del Psi: ma anche se ebbe qualche buona carta da giocare non riuscì davvero a dare al suo partito una strutturazione solida a sostegno del suo leader e di una politica limpidamente definita. Sconfitte le correnti interne, parte non piccola del potere politico confluì nelle mani di baroni locali la cui politica e la cui immagine non furono di giovamento al partito nazionale. Craxi scommise sulla sua capacità di obbligare i comunisti a incamminarsi sulla strada dell’alternativa alla Democrazia cristiana, ma lui stesso, preferì “giocare” con la Dc piuttosto di andare a vedere la carte del Pci e dei suoi dirigenti. Quelle carte non volle vederle neppure quando, trattandosi della possibilità di una Grande Riforma che avrebbe rimescolato tutto, a veri e convinti riformatori istituzionali si sarebbero aperte notevoli opportunità. Contrariamente alle promesse non mantenute della democrazia (che secondo Bobbio non si potevano mantenere), le scommesse di Craxi, se avesse voluto rischiare fino in fondo, avrebbero potuto risultare vincenti. Invece, a triste conclusione della sua parabola durata più di quindici anni, il segretario del Partito socialista lasciò il suo partito in condizioni di grande debolezza e il sistema politico scalfito, irriformato ed esposto agli avventurieri istituzionali che non tardarono ad arrivare e stanno tuttora qui fra e con gli italiani.

note

[1] Per ampi chiarimenti e opportuni esempi mi fa piacere rimandare alle analisi contenute nel volume da me curato insieme a Marco Valbruzzi, Il potere dell’alternanza. Teorie e ricerche sui cambi di governo, Bologna, Bononia University Press, 2011).

[2] Il testo intitolato La grande riforma si trova nell’utilissimo volume curato da G. Acquaviva e L. Covatta, La “grande riforma” di Craxi, Venezia, Marsilio, 2010, pp. 185-189. Per ragioni di spazio, ma soprattutto di contenuti, ciascuno dei quali richiederebbe riflessioni puntuali e estese, non posso confrontarmi, e me ne dispiaccio, con quanto scritto dagli autori dei singoli capitoli. Mi limito a sottolineare che le due opzioni di riforma del modello italiano di governo, vale a dire, il neo-parlamentarismo e il presidenzialismo, alle quali dedica la sua attenzione Giuliano Amato, non possono essere messe sullo stesso piano. La prima approderebbe nel migliore dei casi (cioè se accuratamente elaborata nei dettagli), ad una razionalizzazione del parlamentarismo: ma è solo la seconda (nelle sue varianti: Repubblica presidenziale/Repubblica semi-presidenziale, tutt’altro che assimilabili) che meriterebbe la qualifica di Grande Riforma. Aggiungo che, preso atto delle difficoltà in cui versano i partiti politici italiani, a chiunque intenda prospettare riforme istituzionali più o meno “grandi” è oggi indispensabile chiedere anche su quali strutture politiche si reggerebbero quelle riforme.

Pubblicato su Mondoperaio gennaio 1/2020

 

La fragilità dei partiti danneggia le democrazie @La_Lettura #vivalaLettura

Nelle democrazie si vota. Liberamente. Per eleggere assemblee, parlamenti, Presidenti. Tutte le cariche elettive hanno limiti temporali entro i quali debbono essere periodicamente rinnovate. Chi ha vinto sa che entro un certo numero di anni dovrà ripresentarsi agli elettori. Chi ha perso sa entro quando potrebbe ottenere la rivincita. Tutti i rappresentanti e i governanti sono consapevoli di avere un certo periodo di tempo per mettere all’opera le loro capacità e attuare quello che hanno promesso agli elettori. Cercheranno di giungere alle nuove elezioni nelle migliori condizioni possibili. Alcuni tenteranno di mascherare la loro inadeguatezza politica e personale ingaggiando una campagna elettorale permanente a colpi di slogan ad effetto. Altri mireranno a sopravvivere galleggiando fino al tempo del voto. Da qualche tempo, però, in alcune democrazie rappresentanti e governanti sono costretti con inusitata frequenza a tornare di fronte agli elettori. Le assemblee elettive non riescono a produrre maggioranze in grado di formare un governo. Come conseguenza, quelle assemblee vengono sciolte prima della loro scadenza naturale e gli elettori sono ripetutamente chiamati a votare. La soluzione che politici e parlamentari non riescono a trovare viene affidata agli elettori, al popolo sovrano, persino più spesso di quanto quel popolo desidererebbe.

Da qualsiasi prospettiva lo si guardi, il fenomeno di elezioni frequentemente ripetute perché non risolutive costituisce un problema politico. Di tanto in tanto qualcuno ricorda allarmato che nella Repubblica di Weimar le frequenti elezioni anticipate furono la premessa del collasso, ma il riferimento è superficiale, male impostato, non tiene conto di condizioni nazionali e internazionali drasticamente differenti. Tuttavia, le tornate elettorali democratiche che si susseguono a poca distanza di tempo meritano attenzione. Anzitutto, bisogna evitare le esagerazioni. Delle ventotto democrazie dell’Unione Europea (nella quale ancora mantengo a fini analitici la Gran Bretagna) soltanto quattro, Austria, Grecia, Spagna e, appunto, Gran Bretagna hanno avuto in anni recenti legislature troncate e elezioni ripetute a distanza di poco tempo. Guardando fuori d’Europa, possiamo aggiungere il caso di Israele nel quale fra l’aprile 2019 e il marzo 2020 gli elettori finiranno per avere votato tre volte in meno di un anno. Dal canto loro, in meno di dieci anni i greci hanno votato ben cinque volte, ma in un arco temporale più lungo dal maggio 2012 al luglio 2019, per due volte nello stesso anno: maggio e giugno 2012 e gennaio e settembre 2015. È stato Tsipras l’unico a guidare il governo per quasi tutta una legislatura dal settembre 2015 al luglio 2019.

In Austria l’instabilità è risultata contenuta: due elezioni fra l’ottobre 2017 e il settembre 2019. La Gran Bretagna, che molti giustamente considerano la madre di tutte le democrazie parlamentari lodandone la stabilità e l’efficacia dei governi, è precipitata in un vortice che ha visto dal maggio 2015 al dicembre 2019 tre elezioni generali più il fatidico referendum del giugno 2016, il padre di tutti i pasticci successivi. Evidentemente, non è il sistema elettorale maggioritario a produrre e garantire la stabilità dei governi. Come sosteneva e più volte scrisse Giovanni Sartori, è la solidità dei partiti che conta in maniera decisiva per la formazione di governi stabili e operativi. Infine, la Spagna, nel corso di più di trent’anni esemplare democrazia con governi stabili, competizione bipolare e alternanza, ha votato quattro volte fra il dicembre 2015 e il novembre 2019. A fronte di questo ritratto, la tanto vituperata Italia, con i suoi conflitti, le sue tensioni, le sue persistenti difficoltà, dimostra che, se non tutto, molto può essere ricomposto in Parlamento (sì, anche con i cosiddetti “ribaltoni” ovvero i legittimi cambi di maggioranze) senza ricorrere a ripetute elezioni che “logorano” le istituzioni oltre che la pazienza politica degli elettori.

Per ciascuno dei paesi che hanno sperimentato numerose e ravvicinate consultazioni elettorali è possibile individuare motivazioni specifiche non generalizzabili. La più evidente delle motivazioni specifiche la offre Israele: è la sconfinata ambizione di Netanyahu che ha bloccato qualsiasi alternativa nella Knesset e condotto alla sequenza di elezioni anticipate. È altresì possibile sostenere che quanto il Regno Unito ha sperimentato è la conseguenza di clamorosi errori del Premier Conservatore David Cameron. Preferisco, però, andare alla ricerca di fattori che servano non solo a spiegare quanto è già accaduto, ma anche a fornire elementi utili per prevedere quanto potrebbe accadere sia in Italia sia in altre democrazie occidentali. La chiave di volta delle difficoltà di formare i governi, mai automaticamente risolte da rinnovate elezioni, è costituita dalla frammentazione dei partiti e dei sistemi di partito. La conseguenza immediata di questa frammentazione è che, per formare il governo, diventa necessario includere più partiti e che il partito maggiore, il coalition-maker, raramente è molto più grande dei potenziali alleati. Quindi, non può e non riesce a imporre le sue condizioni. Deve negoziare a lungo, in paesi nei quali, come in Grecia e in Spagna, manca quella che Roberto Ruffilli auspicò si affermasse e affinasse anche in Italia: una cultura della coalizione. e quando ritiene di non potere più (con)cedere preferisce il ritorno in tempi brevi alle elezioni.

In Israele il declino dei partiti maggiori ha una storia molto lunga che ha prima condotto alla scomparsa dei laburisti, poi, di recente, alla diminuzione dei consensi per il partito ufficiale della destra, il Likud. Altrove, Grecia e Spagna, gli sviluppi sono stati drammatici. In entrambi i casi, i due partiti maggiori emersi con la transizione alla democrazia e positivamente responsabili per la sua affermazione, sono entrati in un declino elettorale che, in Grecia, ha prodotto la quasi scomparsa dei socialisti del Pasok e, in Spagna, ha notevolmente ridimensionato sia i Popolari sia i Socialisti. Da sistemi politici nei quali la dinamica era bipolare imperniata su un partito molto grande per voti e per seggi, Grecia e Spagna sono diventati sistemi partitici multipartitici nei quali per dare vita a un governo è imperativo formare coalizioni anche larghe. Naturalmente, i partiti che organizzano il loro consenso e danno rappresentanza sono espressione delle mutate preferenze politiche e sociali. Israele quasi da sempre, Grecia e Spagna di recente sono società frammentate per governare le quali sono largamente preferibili, spesso assolutamente necessari governi di coalizioni multipartitiche. In queste coalizioni, talvolta c’è un partito piccolo, ma numericamente decisivo che, ha scritto Sartori, ha “potere di ricatto”. Alcuni partiti piccoli, ma indispensabili, tentano di ampliare il loro consenso attraverso nuove elezioni che, però, raramente, producono esiti risolutivi. Costruire coalizioni coese in molte democrazie parlamentari, ricorderò che l’attuale Grande Coalizione tedesca nacque nel marzo 2018 dopo un negoziato durato all’incirca tre mesi, è diventata una fatica di Sisifo. Ma, chi ha mai sostenuto che governare le democrazie è facile?

Pubblicato il 12 gennaio 2020 su la Lettura – Corriere della Sera

L’ombra di Craxi #Italia89 #mondoperaio

da mondoperaio 9 – settembre 2019

Italia ’89

L’ombra di Craxi

Prima di cominciare questo lungo commento al testo di Petruccioli (n.d.r. C. Petruccioli, Il tabù dell’alternanza, mondoperaio 9 – settembre 2019), mi sono chiesto a che cosa può servire riflettere sul passaggio cruciale che portò dal PCI al PDS. Dopo non poche esitazioni e contorsioni mi sono risposto che, dato il ruolo svolto dal PCI nel sistema politico italiano dal 1946 al 1989 e poi dal PDS e i suoi successori nella fase successiva, qualche notazione, qualche approfondimento e molte critiche hanno senso. D’altronde, seppure in maniera tutt’altro che lineare, il Partito Democratico di oggi (domani non so) porta sulle spalle un fardello di eredità comunista, ex-comunista, post-comunista nient’affatto lieve. Provare a fare chiarezza sulle modalità della svolta dell’89-91, sulle sue inadeguatezze, su quello che non avrebbe mai potuto essere serve in qualche modo per indicare la necessità di una svolta contemporanea il prima possibile e, forse, a non rifare errori simili, molti dei quali già ampiamente commessi, addirittura ripetuti più volte.

Dal resoconto di Petruccioli, dalla mia condizione di allora (ero Senatore della Sinistra Indipendente), da quanto avevo letto e studiato, da quello che sapevo, direi, senza falsa modestia, molto e, comparativamente, moltissimo (!), sui partiti e sulle loro trasformazioni, credo di potere sostenere che quel Partito Comunista Italiano era sostanzialmente non riformabile. Vale a dire che non sarebbero bastati aggiustamenti nelle modalità di comportamento del gruppo dirigente, cambiamenti cosmetici nel pensiero politico, riforme nella struttura organizzativa. Ci voleva di tutto e di più. Non ho nessuna difficoltà a concordare con Petruccioli che critica coloro che hanno concepito e trattato la “svolta come evento improvviso, indotto nel Pci dall’esterno, sostanzialmente avulso dalla vicenda originale [qui qual è il significato di “originale”? GP] di quel partito”. Tutto questo, però, è un’aggravante essendosi poi rivelata enorme l’impreparazione ad affrontare una svolta ritenuta insita nella storia “originale” del partito.

L’occasione per cominciare era andata perduta nel giugno del 1984 subito dopo la morte di Enrico Berlinguer. Scegliere come segretario Alessandro Natta aveva significato rimandare sine die, ma il giorno fatidico arrivò presto, la trasformazione di un grande partito, di massa, popolare, rappresentativo che aveva iniziato il suo declino elettorale e culturale (più precisamente, di perdita dell’egemonia di tipo gramsciano). Potremmo anche fare dell’ironia sull’affollarsi di molti bene intenzionati medici al capezzale del PCI, troppi dei quali neppure lo ritenevano “sufficientemente” ammalato. Proliferavano Le lettere al Partito comunista e suggerimenti sotto forma di altri generi letterari. Probabilmente, il gruppo dirigente si sentiva lusingato da cotanta attenzione. Certamente, alla base giungevano scarsi echi di un dibattito che mi pareva spesso ovattato e occasionale, cioè dettato da qualche occasione (terremoto, scala mobile, etc.). Molta della base, però, pur attraversata da una pluralità di linee divisorie, manifestava notevole interesse per tutte quelle idee che suggerissero come andare oltre le caute posizioni ufficiali. Anche se è vero che, spesso, in non pochi partecipanti, affiorava un grumo di emozioni, sentimenti e risentimenti, che rendeva alcuni incapaci di guardare indietro e di fare i conti con il passato al tempo stesso che li impossibilitava a guardare a vanti, a progettare il futuro. In quelle occasioni ho imparato che, comunque, in politica bisogna tenere conto anche delle emozioni, non semplicemente scansarle.

Mi limiterò a due esempi personali, non per narcisismo, ma perché ne ho conoscenza diretta. Primo, all’invito del segretario del PCI di San Giovanni Valdarno, fra la fine del 1984 e la primavera del 1985, ad andare a discutere della riforma elettorale e. specificamente, della proposta che avevo presentato in Commissione Bozzi (4 luglio 1984), risposi chiedendo quali erano le posizioni degli iscritti. Risposta: metà favorevoli a quanto sostenevo, metà contrari. Mi precipitai. Ne scaturì un dibattito di rara intensità e qualità con le preferenze personali e politiche che si intrecciavano con il desiderio di acquisire il massimo di informazioni possibili sui sistemi elettorali e sulle loro conseguenze sui partiti, sulle coalizioni e, naturalmente, sul PCI. Nella primavera del 1986, in preparazione del Congresso del PCI di Firenze, fui invitato a Reggio Emilia, dall’allora segretario della sezione alla quale erano stati iscritti alcuni che negli anni settanta erano diventati brigatisti. I dirigenti desideravano una mia conferenza di respiro che, certo, consentisse di riflettere sulle tematiche dell’imminente congresso, ma anche di guardare avanti, molto avanti. Convenimmo sul titolo “Sopravviverà il PCI fino al 2000?”. A fronte di un centinaio di compagni, la mia risposta, non respinta pregiudizialmente, ma ampiamente, direi, appassionatamente, discussa, fu: “probabilmente, no”. Non sono un indovino, ma mi vanto di sapere applicare le conoscenze della scienza politica a tutti fenomeni politici (Giovanni Sartori sarebbe orgoglioso di me).

Dalle mie numerose escursioni sul territorio, che scherzosamente definivo turismo politico, frequentando non poche Federazioni e sezioni del PCI, dove non ero mai andato in precedenza, con la sola preclusione del PCB (Partito Comunista di Bologna) pervicacemente per nulla interessato a discutere con me (non lo fece mai), traevo regolarmente quella che era molto più che una impressione, vale a dire, la preoccupazione degli iscritti, dei simpatizzanti e dei militanti nel vedere che al cambiamento, in Italia, nell’Europa centro-orientale, nel mondo, il gruppo dirigente del partito non sapesse/non volesse/ non riuscisse a rispondere. Sembrava che, ad eccezione di Pietro Ingrao, nessuno di quel gruppo dirigente si interrogasse. Naturalmente, non solo sarebbe stupido negarlo, ma anche controproducente per qualsiasi comprensione di quanto stava succedendo, sui cambiamenti possibili e auspicabili, forse indispensabili, su tutto si stagliava l’ombra lunga e minacciosa di Bettino Craxi.

Un punto va chiarito subito, in maniera definitiva. La da molti temutissima socialdemocratizzazione del PCI (da anni chiamato a fare la sua Bad Godesberg in seguito alla quale i socialdemocratici tedeschi arrivarono rapidamente al governo), dopo il crollo del PCUS e del suo sistema, non era resa impraticabile dal socialdemocratico Craxi. A determinate condizioni, con una adeguata elaborazione, non sarebbe stata interpretabile come una improponibile resa a Craxi, un cedimento totale. La socialdemocratizzazione non era praticabile perché, nonostante qualche neppure troppo timido tentativo effettuato da alcuni studiosi comunisti di approfondire le esperienze, al plurale, socialdemocratiche, nel PCI la loro liquidazione politica e culturale era già avvenuta da tempo. La convinzione che le socialdemocrazie erano “in crisi”, “logore”, “superate”, non in grado di sconfiggere il capitalismo, quindi non erano una prospettiva da perseguire, era diffusissima nel partito, molto più che maggioritaria. Non vi erano dubbi che la terza via si trovava o doveva comunque essere cercata nella spazio fra i comunismi realizzati e le socialdemocrazie a loro volta realizzate. I lettori e gli interlocutori si faranno una o molte ragioni del mio silenzio su quegli studiosi e commentatori comunisti che, nello stesso periodo, per superare quel loro comunismo (sic), oppure forse solo per farsi pubblicità sulla stampa “borghese”, recuperavano il decisionismo attribuendolo al pensiero di Carl Schmitt, loro giurista, già nazista, di riferimento. Quella storia, però, la lascio scrivere a loro, anche a quelli poi diventati in maniera rivelatrice renziani. Il fatto è che per andare oltre le esperienze socialdemocratiche bisogna non soltanto averle studiate e conoscerle, ma avere la capacità di scegliere quello che è imperativo conservare e quello che bisogna valorizzare per costruire una situazione più avanzata. Nel frattempo, abbiamo capito, trent’anni dopo, che anche le conquiste socialdemocratiche sono reversibili. Peccato che molti pensino che la ripresa di un pensiero di sinistra debba passare attraverso il neo-liberalismo.

Da quanto leggo nel molto (fin troppo?) lungo documento di Petruccioli, quasi nulla di quello che ritenevo allora importante per trasformare un Partito comunista, con tutte le sue peculiarità italiane, fu davvero oggetto del dibattito. Cito “si sarebbe dovuta sviluppare una critica chiara e argomentata delle posizioni tradizionali del PCI che si volevano superare, delle radici ideologiche che ne erano all’origine e che motivavano, a ben vedere [si vedevano benissimo, GP], anche i residui [sic, !] ma tenaci legami con ‘il socialismo reale’.” Sarei alquanto più drastico su quello che i comunisti avrebbero dovuto chiedersi. Che cosa era fallito? L’Unione Sovietica aveva perso la Guerra Fredda sostanzialmente dal punto di vista economico? Dunque, era il modello di pianificazione, se non più precisamente il rapporto fra apparato politico-statale e società, che non aveva funzionato mentre il neo-liberismo investiva le maggiori democrazie anglosassoni,guidate da Reagan e da Thatcher, con uno tsunami liberatorio di potenzialità, risorse, energie?

In una società, inesorabilmente diventata “plurale”, –non scrivo “pluralista” poiché questo aggettivo chiama in causa non solo il numero dei soggetti, ma la realtà della competizione fra loro–, era già diventato evidente che il partito unico non era in grado di suscitare trasformazioni, di accogliere i trasformatori, di dare loro anche fette di potere politico. Quindici anni prima Norberto Bobbio (Quale socialismo. Discussione di un’alternativa, Torino, Einaudi, 1976) aveva sfidato i comunisti, ma non solo loro, chiedendo se esistesse una “dottrina marxistica dello Stato”, ricevendone verbose e inconcludenti risposte. La domanda mantiene tutta la sua attualità. Tuttavia, la risposta non è affatto scontatamente negativa. In qualche modo i cinesi stanno facendo i conti relativamente ai rapporti fra il Partito e lo Stato e il modo come li risolveranno avrà comprensibilmente un impatto enorme.

Nonostante si sapesse molto su che cosa era il Partito comunista italiano e sulle motivazioni ideologiche, programmatiche, di carriera politica che motivavano milioni di aderenti e migliaia di dirigenti, nella svolta l’unica “motivazione” presa seriamente in considerazione fu quella del nome della cosa (rossa). Petruccioli tenta, invano, per quel che mi riguarda, di convincerci che il problema era governare. Davvero? con il prevedibile 20 per cento circa dei voti? Mi pare, invece, che il problema fosse molto diverso. Se, dopo il crollo del muro di Berlino, comunisti proprio non si poteva più rimanere e socialdemocratici non si voleva diventare, e, probabilmente, neanche si sarebbe riusciti, quale opzione praticabile rimaneva? Democratici di Sinistra, quasi a significare due “cose” egualmente non sostenibili. Da un lato, che c’era una Sinistra evidentemente non democratica (honni soit qui pense à Craxi) e, dall’altro, che fino ad allora il PCI era stato di Sinistra, ma non Democratico. Con il senno di poi è facile notare che, nel corso della trasformazione, molti se ne andarono a sinistra e, più tardi, un numero forse persino maggiore decise che gli bastava l’aggettivo democratico –la cui specificità contenutistica continua a eludermi, non a illudermi.

A lungo ho insegnato ai miei studenti dei corsi di Scienza politica che “un partito è un’organizzazione di uomini e donne che presentano candidati alle elezioni,ottengono voti, conquistano cariche”. Regolarmente un certo, ma piccolo, numero di studenti dichiarava di essere insoddisfatto della mia definizione e mi chiedeva di integrarla facendo riferimento ad una ideologia. La mia replica è sempre stata che l’ideologia è certamente utile, ma non è una componente essenziale della definizione minima di partito. Epperò, nel caso del PCI non era proprio possibile transitare senza nessuna mediazione da un partito fortemente ideologico ad un partito post-ideologico. Incidentalmente, non vedo quasi nulla di tutto queste nelle note di Petruccioli che, quindi, ritiene che il PCI già fosse oppure avrebbe dovuto e potuto facilmente diventare un partito “programmatico”. Lo dirò meglio. Abbandonare, perché non di andare oltre si trattava, l’ideologia comunista (marxista, gramsciana) era, in qualche misura, indispensabile, ma rimanere privi di qualsiasi riferimento culturale era la peggiore delle soluzioni possibili. Una riflessione sui due cardini del pensiero e dell’azione delle socialdemocrazie realizzate avrebbe dovuto essere posta all’ordine del giorno, magari chiamando a riflettervi coloro che a quei due cardini, stato del benessere e keynesismo, e alla loro feconda combinazione, avevano già dedicato attenzione e riflessione scientifica.

Naturalmente, la mia non è in nessun modo una rivendicazione postuma di un contributo che non mi fu mai chiesto. Avevo, fra l’altro, anche scritto della assoluta necessità per un partito di sinistra, anche questa era una lezione socialdemocratica, di tenere rapporti intensi e frequenti, anche dialettici, con i sindacati e non solo con gli intellettuali per intenderci, del tipo Anthony Giddens, il quale andando Oltre la destra e la sinistra, (Il Mulino 1997), si è trovato alla Camera dei Lords! Rimando alla molto interessante analisi storico-comparata di Svezia Germania Stati Uniti svolta da Stephanie L. Mudge, Leftism Reinvented. Western Parties from Socialism to Neoliberalism, Cambridge, Mass-London, Harvard University Press, 2018, anche se non ne condivido alcune rigidità interpretative. Non fu, non dico fatto, ma neppure intrattenuto, nulla di tutto quello che riguardava la cultura politica. Nessuna discussione “culturale” su che cosa poteva cercare di essere un Partito che non poteva/non doveva rimanere comunista. Curiosamente, nell’Europa centro-orientale quasi tutti i partiti comunisti hanno traslocato armi e bagagli sotto l’etichetta socialista, godendo, almeno temporaneamente, di qualche relativo successo. Niente da imitare, ovviamente, tranne, forse, che un partito comunista ha/aveva il dovere di riflettere più a fondo sul suo tasso di socialismo oppure nel PCI proprio non ce n’era?

Comunque, dal 1991 quel che si era faticosamente (non certo per sola responsabilità di D’Alema: Petruccioli davvero esagera finendo anche per omaggiare D’Alema attribuendogli un potere politico enorme), ricomposto nel solco della vecchia organizzazione si è trovato in mare aperto senza bussola. La mia tesi, argomentata nel fascicolo La scomparsa delle culture politiche in Italia (“Paradoxa”, Ottobre/Dicembre 2015, pp. 13-26) è che, per l’appunto, è andato perduto qualsiasi appiglio, qualsiasi riferimento, qualsiasi elemento di cultura politica che abbia attinenza al disegno di un futuro che un partito progressista si impegna a costruire contenendo e riducendo le diseguaglianze sia sociali sia di opportunità. Al proposito, è imperativo (ri)leggere Bobbio, Destra e sinistra (Donzelli 1994).Di questo non parlarono allora coloro che stavano tentando di traghettare un nuovo partito lasciando la sponda del comunismo, ma che non possedevano la bussola del percorso e sembrarono assolutamente non interessati a cercarla. Né fu fatto in seguito.

Tutto questo ha avuto conseguenze pesantissime, userò un aggettivo caro a Pietro Ingrao, il quale, sia chiaro, fu parte del problema, “epocale”. Quelle conseguenze sono ancora qui con noi e da sole non promettono affatto di andarsene. Quelle conseguenze hanno un nome: Partito Democratico. Era inevitabile che, mai intessuto di significati e di contenuti, il termine Sinistra appassisse e fosse destinato a sparire anche grazie al davvero notevole, ma non proprio encomiabile, sforzo di alcuni intellettuali per negare l’utilità stessa della categoria sinistra: What is left? Sono gli stessi che, poi, con rara coerenza hanno sostenuto pancia a terra l’opera, sono molto riluttante a scrivere “riformatrice”, del due volte ex-segretario del Partito Democratico. Quanto al PD, la sua nascita non fu affatto preceduta da una approfondita elaborazione culturale, da uno scontro/incontro/confronto di idee e di prospettive. Al massimo, si arrivò a “narrazioni”, oggi meritatamente dimenticate, e a un catalogo di parole: Partito Democratico. Le parole chiave ( a cura di M. Meacci, Editori Riuniti 2007). Forse già dice qualcosa che la parola Riformismo abbia due trattazione: la prima, mia, la seconda opera di Iginio Ariemma. Non esiste praticamente nessuno disposto a negare che il Partito Democratico sia stato una spregiudicata operazione di addizione di ceti politici già democristiani e già comunisti. Quanto alla raccolta, fusione proprio no, ma neppure ibridazione, delle migliori culture progressiste e riformatrici del paese, fu solo propaganda smentita da due fatti. Avvenne i) quando quelle culture praticamente non esistevano più da una quindicina d’anni; ii) senza che la cultura socialista, sicuramente progressista e provatamente riformatrice, fosse neppure chiamata a dare un qualsiasi contributo.

Rimanendo nella narrazione politico-istituzionale che troppi hanno voluto dare della nascita del PD, non sono riuscito a capire quando sia davvero esistita “la condizione ideale perché i due soggetti [immagino uno conservatore, grande apertura di credito a Forza Italia, e l’altro lo stesso PD, a meno che Petruccioli si riferisca al Popolo delle Libertà e all’Ulivo e allora dovremmo fare un discorso alquanto diverso] incardinassero un bipolarismo politico di tipo europeo, con una alternanza di tipo europeo”. A scanso di equivoci, sottolineo che queste fantomatiche alternanze di tipo europeo, tranne che in Gran Bretagna, di recente con qualche eccezione, non contemplano che molto raramente la sostituzione di un governo con un altro governo del tutto diverso (G. Pasquino e M. Valbruzzi (a cura di), Il potere dell’alternanza. Teorie e ricerche sui cambi di governo ,Bologna, Bononia University Press 2011). Nella maggior parte dei casi si tratta di semialternanze assolutamente in linea con la storia delle coalizioni multipartitiche che caratterizzano tutte le democrazie parlamentari.

Inoltre, anche se, per fortuna, l’idea e la sostanza del partito della nazione sono già tramontate, neppure l’escamotage di Petruccioli tiene: due partiti della nazione in competizione fra di loro al massimo rappresenterebbero un po’ più e un po’ meno della metà della nazione. Fra l’altro, chi siamo noi per decidere che i partiti della nazione debbano essere soltanto due? Infine, sono in totale disaccordo sul contenuto del “programma riformista per un governo della sinistra”: “i cittadini devono poter scegliere il governo. Il governo deve governare. Il Parlamento deve fare le grandi leggi e controllare l’attività del governo”. Sarà anche chiaro, ma è, da un lato, sbagliato: da nessuna parte al mondo i cittadini scelgono il governo. Da nessuna parte al mondo il Parlamento fa le “grandi leggi”. Le fa il governo che dagli elettori ha ricevuto un mandato per tradurre le sue proposte in politiche. Dall’altro, il programma riformista è tanto vago quanto banale: “il governo deve governare”.

Non ricordo che nulla di tutto questo fosse all’ordine del giorno della trasformazione del PCI. So che chi perde di vista la rappresentanza e pretende di limitarla per ottenere governabilità sbaglia alla grande e sacrifica entrambe a suo totale discapito. Petruccioli proietta un passato da lui interpretato in un futuro che, in parte, è già stato sconfitto e superato. Ho scritto molto in materia. Approfondirò soltanto su richiesta esplicita del Direttore di “Mondoperaio”, ma, che sia chiaro, non ripartiremo da zero.

Mi è persin troppo facile concludere, ma è perché la conclusione me la sono costruita molto abilmente, che il compito del Partito Democratico, che al governo non è e il cui programma riformista è sparito, deve essere espresso in questi semplicissimi e esigentissimi termini primum philosophari deinde governare. Nelle condizioni attuali, filosofare richiede prioritariamente smontare in maniera ragionata quello che c’è, un enorme macigno per qualsiasi nuova partenza, e lasciare la porta aperta a tutti coloro che hanno qualcosa da offrire in termini di idee e energie. La storia della trasformazione del PCI, letta non soltanto con gli occhi di Petruccioli, ha molto da dire. Non è ancora troppo tardi.

Una cultura della coalizione: l’eredità di Roberto Ruffilli

Il senatore democristiano Roberto Ruffilli fu ucciso dalle Brigate rosse il 16 aprile 1988 nella sua abitazione di Forlì

Sono passati trent’anni da quel sabato pomeriggio 16 aprile del 1988 quando un commando delle Brigate Rosse assassinò il sen. Democristiano Roberto Ruffilli nella sua abitazione di Forlì. La motivazione, nient’affatto delirante, ma certo frutto di una malsana ossessione, era che attraverso la sua attività di studioso e di riformatore delle istituzioni, Ruffilli cercava di rendere più forte e, quindi, più repressivo lo Stato. In effetti, Ruffilli stava elaborando riforme condivisibili in grado di migliorare il funzionamento dello Stato italiano, dargli più autorevolezza, produrre governi più efficienti grazie ad una legge elettorale che offrisse buona rappresentanza ai cittadini elettori. Oggi, sicuramente, Ruffilli non tratterrebbe il sorriso di fronte a chi volesse valutare le proposte da lui avanzate quale capogruppo della delegazione DC in Commissione Bozzi (novembre 1983-1 febbraio 1985), come se non fossero passati trent’anni di stravolgimenti, interventi deformanti, collasso dei partiti, declino della qualità della classe politica. Di quella Commissione, mi limiterò ai nomi di alcuni democristiani, che vi avevano attribuito grande importanza, fecero parte Nino Andreatta, Pietro Scoppola, Mario Segni. Ciò detto, non posso resistere a quello che non è un puro gioco di immaginazione, ma è una riflessione fondata sulla mia conoscenza di Roberto Ruffilli come studioso e come persona, vale a dire chiedermi se Ruffilli aveva colto l’essenza del problema e se le soluzioni da lui allora prospettate avrebbero senso anche oggi. Subito, Ruffilli mi farebbe notare che, studiando e continuando a imparare, era disponibile a cambiare, se necessario, idee e proposte. Dunque, chi volesse conoscere le sue valutazioni su quanto in seguito è stato fatto, non fatto, malfatto, dovrebbe piuttosto seguire i suoi principi ispiratori.

Senatore eletto come indipendente dalla DC il cui segretario era Ciriaco De Mita, il compito di Ruffilli fu di elaborare riforme nella democrazia parlamentare tali da rafforzare il circuito cittadini-parlamento-governo. Alla fine dei lavori la Commissione votò un ordine del giorno, firmato anche dai capigruppo del PCI e del PSI, che suggeriva come sistema elettorale la rappresentanza proporzionale personalizzata utilizzata allora e tuttora in Germania. Ruffilli attribuiva grande importanza alla formazione di una cultura della coalizione. Allora gli espressi il mio, parziale, ma fermo, dissenso. L’Italia di quegli anni aveva, secondo me, bisogno di una cultura della competizione, premessa di qualsiasi democrazia bipolare, maggioritaria, capace di alternanza. Nei lunghi anni trascorsi ho capito meglio quello che Ruffilli voleva dire e quello che è necessario fare. Cultura della coalizione significa costruire uno schieramento maggioritario intorno a priorità programmatiche con patti chiari da rispettare e da attuare consentendo senza riserve che lo schieramento/ partito che ha ottenuto più voti/seggi esprima il capo della coalizione. La leadership deve sempre rimanere contendibile, ma, per citare Aldo Moro, di cui Ruffilli fu grande e convinto estimatore: “chi ha più filo tesserà più tela”.

Troppo facile concludere che si troverebbe a disagio con il clima, la congiuntura, la mancanza di stile della politica italiana di oggi. Avrebbe, comunque, continuato a studiare, scrivere, partecipare a incontri (numerosi quelli che abbiamo fatto insieme in mezza Italia di fronte a “pubblici” prevalentemente cattolici-democratici) a, per usare un’espressione alla quale ricorreva scherzosamente, “spezzare il pane della scienza”. Caro Roberto, il pan ci manca.

Pubblicato il 16 aprile 2018

Cittadini, partiti, istituzioni e leggi elettorali

Relazione pronunciata al convegno
“La forma di governo tra riformismo elettorale e mutamento politicoistituzionale”
Giornata di studi sulle Riforme istituzionali
Torino, 17 novembre 2017
Campus Luigi Einaudi
Pubblicato in federalismi.it
RIVISTA DI DIRITTO PUBBLICO, COMPARATO, EUROPEO
ISSN 1826-3534  – Numero Speciale 1/2018

 

Cittadini, partiti, istituzioni e leggi elettorali

Questa relazione è, prima di tutto, ma non soprattutto, un esercizio di resistenza alle tentazioni. Per quanto tentato dal replicare alle moltissime ignoranze e alle gravissime scorrettezze manifestate(si) nel dibattito sulle leggi elettorali, le loro riforme e controriforme, mi limiterò, a fatica, ad alcune considerazioni. Procederò a evidenziare gli errori più grossolani alla luce della ingente letteratura politologica in materia, la quale dovrebbe, da un lato, già essere patrimonio dei politologi e, dall’altro, apparire lettura essenziale per riformatori, in special modo, per i giuristi che si avventurino su un terreno ampio, dissodato, politicamente di straordinaria importanza. Purtroppo, non è affatto così. Mi troverò spesso di fronte ad un dilemma classico: criticare gli autori degli errori più grossolani, citandoli per nome e cognome (il pessimo articolo di Passarelli merita davvero la citazione) (1) oppure stendere un fin troppo pietoso velo sul loro sonno più che trentennale (2) di letture mancate e mai recuperate? Procederò molto pragmaticamente. Adesso, back to basics, come direbbe Giuliano Amato.

La più semplice definizione di una legge/sistema elettorale è che costituisce un meccanismo per la traduzione di voti in seggi (3) . Naturalmente, nel corso del tempo abbiamo imparato che è indispensabile guardare a tutto quello che sta a monte del momento elettorale e a tutto quello che sta a valle del voto. Con qualche ritardo, tuttavia molto utilmente, alcuni politologi USA (4) sono anche giunti a teorizzare e in parte a esplorare, cosa che nel loro paese diventa di importanza decisiva a causa delle drammatiche manipolazioni del voto attraverso il gerrymandering (5) – furiosamente praticato dalle assemblee statali dominate dai Repubblicani -, la necessità di analizzare il contesto (6) . Sono pochi, in Italia, ad avere proceduto a questo tipo di analisi prima di proporre, formulare, giudicare e fare approvare le nuove leggi elettorali.

Quando, nel 1953, un relativamente riluttante De Gasperi mosse alla riforma della legge elettorale proporzionale prevedendo un premio di maggioranza (7) la proposta era quella di rendere più solida la coalizione parlamentare (e politica) centrista a fronte della sfida di una riemergente destra neo-fascista e l’auspicio era quello di costringere i comunisti ad abbandonare la loro rendita di opposizione per diventare alleato dei socialisti, essenziale, ma non in posizione dominante.

Dunque, senza sminuire l’elemento partigiano, ovvero il rafforzamento della coalizione già al governo, importanza superiore aveva l’obiettivo sistemico: andare verso una competizione bipolare anche se per qualche prevedibile periodo di tempo sbilanciata a favore dei centristi. Nelle menti e negli intenti dei promotori dei referendum elettorali (1991, 1993) la motivazione sistemica era nettamente prevalente. Per molti di loro (mi colloco fra questi) era sostanzialmente cruciale: costruire le condizioni elettorali di una democrazia, qui sono costretto allo slogan, peraltro vicinissimo alla realtà, maggioritaria, bipolare, dell’alternanza e, aggiungo, che attribuisse all’elettorato il potere decisivo di produrre l’alternanza, non di eleggere il governo (obiettivo impossibile e improponibile nelle democrazie parlamentari), ma di scegliere fra coalizioni che a quel governo si sarebbero candidate. Qui tralascio tutti gli errori storici, politici e di comparazione di coloro che ritengono che l’alternanza, ovvero la sostituzione totale di un partito o di una coalizione al governo ad opera di un partito o di una coalizione all’opposizione caratterizzi la maggioranza delle elezioni nelle democrazie non solo europee (8) , ma occidentali (9) . Non è affatto così. Né, d’altronde, è corretto sostenere che sempre e dovunque il verificarsi dell’alternanza costituisca il fenomeno caratterizzante le democrazie di migliore qualità. Anzi, gli elettori del Regno Unito nonché ovviamente gli studiosi e i commentatori si sono lamentati della “troppa” alternanza negli anni Sessanta e, in seguito, hanno assistito (e cooperato) a lunghi periodi di governi conservatori (dal 1979 al 1997, diciotto anni e quattro elezioni generali), e di governi laburisti (dal 1997 al 2010, tredici anni e tre elezioni generali). Tecnicamente, la molto ben governata Germania, in quasi settant’anni di vita della sua Repubblica, ha avuto una sola alternanza completa nel 1998: dal governo Democristiani-Liberali guidati da Helmut Kohl al governo Sociadelmocratici-Verdi guidato da Gerhard Schröder.

Adesso, possiamo dirlo con maggiore conoscenza di causa, i referendari cercavano una riforma elettorale palingenetica che conferisse agli elettori tanto il potere di scegliere il loro candidato al Parlamento (quindi, di ottenere una rappresentanza migliore) quanto quello di incidere sulla formazione del governo. Nel 1993 la traduzione parlamentare dell’esito del quesito referendario fu fedele e ottima per il Senato: tre quarti di eletti in collegi uninominali, un quarto recuperati con riparto proporzionale fra i migliori, perdenti, sì, ma senza dimenticare né sottovalutare che quei perdenti avevano fatto campagna elettorale, parlato con gli elettori, ascoltato le loro richieste e, soprattutto, ottenuto voti, spesso molti. È la traduzione del quesito referendario alla Camera che lasciò molto a desiderare e fornì molto materiale da criticare. La legge, il cui relatore fu l’allora deputato Popolare Sergio Mattarella, si prestò alla critica e allo sberleffo di Giovanni Sartori che la definì Mattarellum.

Fermarsi qui, al latinorum, considerandolo uno dei contributi intellettuali grazie al quale Sartori merita di essere ricordato e celebrato (com’è improvvidamente stato fatto al Convegno Annuale della Società Italiana di Scienza Politica tenutosi a Urbino dal 14 al 16 settembre 2017) è semplicemente scandaloso. Significa non sapere niente dei sistemi elettorali e quindi non essere in grado di capire le motivazioni dello sberleffo al Mattarellum. La legge elettorale per la Camera era, in effetti, alquanto mattocchia. Congegnata, grazie al recupero proporzionale su scheda a parte (con possibilità di voto disgiunto, risorsa nelle mani degli elettori, ma anche strumento nelle mani dei partiti) ed alla facoltà di candidarsi in un collegio uninominale e in tre schede proporzionali, con l’obiettivo non proprio nascosto di salvare quei capipartito che non avessero conquistato il seggio nei collegi uninominali, la legge dava ai capi dei partiti piccoli notevole potere di ricatto. Il messaggio era ovvio: “se non candidate alcuni dei nostri in collegi uninominali sicuri, i vostri candidati non avranno i nostri voti”. Diversa, invece, fu la tattica della desistenza stipulata nel 1996 fra l’Ulivo di Romano Prodi e Rifondazione Comunista di Fausto Bertinotti. In una ventina o poco più di collegi, Rifondazione si impegnò a non presentare candidature invitando i suoi elettori a votare per i candidati dell’Ulivo. A sua volta, l’Ulivo reciprocava in altrettanti collegi. La desistenza, unitamente alla mancata alleanza fra Lega e Berlusconi, consentì all’Ulivo di vincere fortunosamente le elezioni, ma, in seguito, permise a Bertinotti di porre fine all’esperienza del governo dell’Ulivo nell’ottobre 1998, cambiando in peggio la storia d’Italia. A questo “peggio”, in misura piccola, ma concreta, aveva dato il suo contributo la frammentazione dei partiti, chiedo scusa, dei partitini, agevolata e mantenuta proprio dai meccanismi della legge Mattarella.

Che si potesse fare peggio, anzi, molto peggio, lo dimostrarono nel 2005 i quattro “saggi di Lorenzago”: Roberto Calderoli (Lega), Francesco D’Onofrio (UDC), Domenica Nania (Alleanza Nazionale), Andrea Pastore (Forza Italia). Quella che Calderoli avrebbe poco tempo dopo definito una “porcata”, vale a dire il tentativo di scrivere una legge deliberatamente totalmente “partigiana” che, prima di tutto, andasse a svantaggio del centro-sinistra, poi avvantaggiasse il centro-destra e i capi dei partiti e che, per l’appunto, Sartori bollò spregiativamente con l’epiteto Porcellum, era una legge proporzionale. Aveva lunghe liste bloccate senza voto di preferenza. Consentiva candidature multiple addirittura in tutte le circoscrizioni, opportunità pienamente sfruttata da Berlusconi convinto, in parte probabilmente a ragione, che il suo essere capolista portava voti alla lista, e utilizzata in larga misura anche dagli altri capi dei partiti di centrodestra e di centro-sinistra (la cui opposizione alla legge in Parlamento non può essere considerata né durissima né memorabile). Conteneva un premio di maggioranza che mirava ad attribuire al partito/la coalizione vittoriosi alla Camera almeno 340 seggi, mentre al Senato i premi erano regione per regione, un problema per il centro-sinistra, debole nelle regioni grandi, più popolose, portatrici di un premio in seggi più consistente come la Lombardia, la Sicilia, il Veneto, talvolta anche la Campania.

Che la Corte costituzionale abbia lasciato passare tre elezioni politiche (2006, 2008, 2013) prima di dichiarare incostituzionali diversi punti della legge Calderoli attesta due punti. Il primo è sicuro, poi confermato dalla sentenza successiva sull’Italicum: la giurisprudenza della Corte Costituzionale in materia elettorale è, come mi ha detto un giudice costituzionale, “incerta” (sic!). Il secondo punto è che ai giuristi mancano le indispensabili competenze politologiche per valutare le conseguenze politiche delle leggi elettorali (10). Ancora oggi mi vanto di essere stato scelto più di trent’anni fa da due autorevoli Professori di Diritto Costituzionale (poi entrambi, Giuliano Amato e Augusto Barbera diventati giudici costituzionali, attualmente in carica) per scrivere il capitolo I sistemi elettorali nel loro Manuale di Diritto Pubblico (11) , aggiornato e ripubblicato per più di un decennio. Quanto all’Italicum, in pratica fu un Porcellinum. Qui ci metto del mio, sottolineando come fossero presenti tutte le componenti deprecabili del Porcellum in misura appena attenuata: le liste non erano più, dopo una lunga battaglia parlamentare, bloccate, ma i capilista sì con l’aggiunta successiva, a furor di popolo, del contentino di due preferenze purché per candidature di genere diverso. Le candidature multiple erano ancora possibili, ma “soltanto” in dieci circoscrizioni, non in tutte. Il premio di maggioranza rimaneva tale numericamente (non previsto per il Senato che Renzi e Boschi avevano reso non più elettivo salvo vederselo resuscitare sonoramente dal referendum costituzionale del 4 dicembre che bocciò tutte le loro malfatte riforme), ma poteva essere conseguito soltanto dal partito (divieto di formazione di coalizioni pre-elettorali) che avesse ottenuto il 40 per cento dei voti al primo turno (curiosamente proprio la percentuale raggiunta dal Partito Democratico nelle elezioni europee del maggio 2014) oppure dal partito (non le coalizioni poiché erano impediti gli apparentamenti, come pure è possibile nella legge per l’elezione dei sindaci) che vincesse il ballottaggio (12) fra i due più votati al primo turno.

Il ballottaggio è stato bocciato dalla Corte Costituzionale in mancanza della statuizione di una percentuale minima di voti per accedervi con il rischio di una gravissima distorsione della rappresentanza parlamentare. Infatti, nel frammentato sistema partitico italiano, non si può escludere che il partito vittorioso al ballottaggio avesse ottenuto fra il 20 e il 25 per cento dei voti e risultasse premiato con più del raddoppio dei suoi seggi pervenendo fino al 54 per cento. Qui è opportuno evidenziare che sia il Porcellum sia l’Italicum erano leggi elettorali proporzionali con premio di maggioranza. Quindi tutte le lamentele giornalistiche e politiche sul “ritorno alla proporzionale”, che, per Paolo Mieli e per alcuni politologi commentatori, costituirebbe il prodromo alla tragedia di Weimar in salsa italiana, mai contrastate dagli studiosi di scienza politica, erano assolutamente fuori luogo (senza contare che Weimar non crollò primariamente a causa della legge elettorale proporzionale). Vittoriosa con uno scarto minimo nel febbraio 2013, la coalizione Italia Bene Comune fra il Partito Democratico, Sinistra Ecologia e Libertà e i Socialisti Italiani con meno del 26 per cento dei voti, ottenne il 54 per cento dei seggi. Il premio fu, dunque, 28 per cento di seggi; il rimanente 72 per cento fu assegnato con ripartizione proporzionale. La legge che, nella più volta ripetuta frase di Renzi e Boschi, tutta l’Europa ci avrebbe invidiato e metà Europa avrebbe imitato, frase avallata dai costituzionalisti di riferimento del governo e del PD e nella sostanza in un numero imprecisato di articoli sul “Sole 24 Ore” dal politologo Roberto D’Alimonte della LUISS di Roma, non ha avuto modo di essere applicata. Dal punto di vista politico, meglio così. Il sistema politico italiano si è risparmiato non pochi inconvenienti di funzionamento del sistema e non pochi rischi di torsione autoritaria del partito vittorioso e del suo leader. Dal punto di vista politologico, invece, esprimo un rammarico. Infatti, il suo utilizzo, almeno una volta, avrebbe confermato in modo palese l’esistenza di gravi inadeguatezze sia per la rappresentanza politica sia per la governabilità (anche su questo, di più infra).

La cronaca dei tentativi furbeschi di elaborare e di fare approvare una legge che consentisse sia all’indolenzito (dalla batosta referendaria) Renzi sia al ringalluzzito Berlusconi di scegliere i loro parlamentari e, al tempo stesso, di svantaggiare il Movimento Cinque Stelle e di posizionarsi in maniera tale da pervenire, eventualmente, ad una coalizione governativa quasi centrista, non apporta elementi conoscitivi di nessun interesse tranne quello di ribadire che l’orizzonte dei sedicenti riformatori continuava ad essere ostinatamente “partigiano”. Né il potere degli elettori né il miglioramento del sistema politico trovavano posto nelle loro motivazioni anche se la parola governabilità era enfaticamente e ripetutamente pronunciata dai Democratici. In nessuno dei testi a me noti la governabilità si consegue attraverso l’elezione popolare diretta del governo (13). In nessun paese l’ingovernabilità è attribuibile/attribuita ai sistemi elettorali, neppure a quelli proporzionali, quanto, piuttosto a dinamiche sociali e culturali nonché, ovviamente, politiche, alle quali si possono dare risposte anche istituzionali che solo in minima parte passano attraverso le riforme elettorali (14). Nessun politologo ha mai sostenuto che la governabilità (15) crescerà riducendo la rappresentanza che è, invece, la tesi prevalente fra i politici italiani e i loro commentatori di riferimento. È una tesi sbagliata come, indirettamente, ma molto convincentemente, ha dimostrato Powell (16). Oserei affermare che quanto migliore è la rappresentanza elettorale, politica, parlamentare dei cittadini-elettori tanto più probabile è che si pervenga ad un buon governo, vale a dire ad un governo che voglia e riesca a tradurre le preferenze, gli interessi, le domande degli elettori in politiche pubbliche (17) .

Se la rappresentanza politica, che può essere tale esclusivamente se è elettiva (18), si esprime attraverso sistemi elettorali pessimi, le conseguenze negative su parlamento e governo saranno automatiche (19) . Coloro che, nominati e paracadutati in posizioni di vertice nelle liste bloccate e in collegi sicuri, sanno di potere contare sulla ricandidatura non si cureranno affatto di rispondere al loro elettorato (che, peraltro, molto raramente conoscono o possono identificare) e neppure, meno che mai, alla Nazione alla quale, secondo l’art. 67 della Costituzione dovrebbero offrire rappresentanza “senza vincolo di mandato” (su molti di questi aspetti si veda quanto affermato da Calamandrei in due pregevoli saggi degli anni Quaranta e Cinquanta del secolo scorso) (20). In questo modo si spezza il cruciale circuito dell’accountability. Viene meno l’insieme di comportamenti democratici virtuosi che mettono in relazione cittadini, rappresentanti e governanti (21). Nella legge elettorale a firma del deputato Ettore Rosato, capogruppo del Partito Democratico alla Camera dei deputati, non si trova nessuna preoccupazione per l’accountability, per la responsabilizzazione degli eletti in Parlamento a tutto scapito degli elettori e del loro potere ridotto ai minimissimi termini. Detto alto e forte che la legge Rosato non è affatto un ritorno alla proporzionale poiché duecentotrentadue deputati e centosedici senatori saranno eletti in collegi uninominali e trecentottantasei deputati e centonovantatre senatori nelle circoscrizioni proporzionali, piccole per i deputati, da due a quattro eletti per circoscrizione, e in circoscrizioni regionali, come impone la Costituzione, per il Senato, va subito aggiunto che combina in peggio l’elemento maggioritario con l’elemento proporzionale.

Per coloro che amano questi paragoni, la legge Rosato capovolge la legge Mattarella, ne sminuisce la competitività e la svirilizza a favore delle segreterie dei partiti. Poiché oltre alla candidatura nel collegio uninominale sono ammesse fino a cinque candidature nelle circoscrizioni proporzionali fin d’ora possiamo essere certi (assured), anche se in verità non ne sentivamo il bisogno, che nessuno dei dirigenti dei partiti e dei loro collaboratori più stretti perderà il seggio. Gravissimo è che, a fini puramente partigiani, vale a dire, per vincolare il voto al partito, la legge Rosato neghi la possibilità del voto disgiunto. Chi sceglie un candidato nel collegio uninominale automaticamente vota la coalizione che lo sostiene nella quale può trovarsi un partito sgradito a quello stesso elettore. Chi apprezza una coalizione e la vota, automaticamente e inevitabilmente dà sostegno al candidato uninominale che, forse, avrebbe preferito non sostenere. Il voto disgiunto insieme alle liste bloccate fa della legge elettorale Rosato un esemplare fra i più riprovevoli della riaffermazione di quel che rimane della partitocrazia/partitinocrazia italiana. È una legge che nessuno in Europa ci invidierà e nessuno penserà di imitare.

La legge Rosato è anche una legge poco promettente per la governabilità come, malamente, intesa dai loro fautori. Non può in nessun modo promettere la maggioranza assoluta di seggi per uno schieramento. Anzi, suggerisce che sarà difficile per tutti andare a comporre una coalizione di governo decente, in grado di durare. Qui, però, prendendo atto che, seppure molto obtorto collo, qualcuno si è finalmente accorto che le democrazie parlamentari nell’Unione Europea hanno governi di coalizione, mi affretto ad aggiungere che qualsiasi governo di coalizione composto da due/tre partiti (persino quattro e più raramente cinque, remember il pentapartito?) è più e meglio rappresentativo di un governo composto da un solo partito. Da non sottovalutare che i cittadini il cui partito si trova nella coalizione di governo si sentiranno logicamente più e meglio rappresentati dei cittadini i cui partiti sono esclusi dal governo.
Dopodiché molto dipenderà dalla qualità dei governanti, sperabilmente scelti anche fra i parlamentari più esperti e più capaci.

Una delle tentazioni, peraltro non impellente, alla quale non voglio cedere, è quella di procedere alla simulazione della distribuzione dei seggi nel Parlamento da eleggere nel 2018. Anzi, intendo mettere in guardia tutti dalle simulazioni per di più condotte dagli orfani di un padre malevolo come fu l’Italicum. Chi prevede un futuro politico-parlamentare oscuro e pericoloso sta facendo, non del tutto inconsapevolmente, affermazioni dal contenuto poco democratico. Quattro mesi di campagna elettorale passerebbero come acqua sul volto e sulle opinioni degli elettori. I candidati (questo può essere vero) e i leader dei partiti non sapranno trovare gli argomenti giusti e le parole appropriate per fare cambiare opzione di voto a percentuali significative di elettori. Non soltanto costoro avrebbero già deciso, ma non cambieranno idea neppure se i leader e i loro esperti/collaboratori commettessero errori clamorosi (22) . Sappiamo, invece, che una percentuale notevole di elettori decide, anche guardando alle coalizioni in lizza, nell’ultima settimana della campagna se non, addirittura, un giorno prima o il giorno stesso del voto. Certo, la legge Rosato offre pochissime opportunità agli elettori che chiamerò, in ossequio ad una classificazione che ha avuto qualche successo, “d’opinione” (23), a coloro che, per l’appunto, valutano le scelte in campo. I “sinceri democratici” debbono augurarsi che gli elettori d’opinione siano molti, intendano attivarsi e superino il disgusto recandosi alle urne e smentendo con la loro crocetta i simulatori senza fantasia e i politici senza vergogna. Purtroppo, una legge elettorale pessima non consentirà di avere un Parlamento buono a sostegno di un governo capace. Chi comprime la rappresentanza non può ottenere governabilità.

 

 

1 G. PASSARELLI, Electoral Laws and Elections in the Second Italian Republic. The 2013 Landmark (?), in Polis, n. 1/2014, pp. 107-122.
2 Più che trentennale poiché, lasciando da parte la legge truffa (1953) e, non tornando assurdamente alla legge Acerbo (1923), improponibile come termine di paragone, dibattito e riforme risalgono all’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso. Per una essenziale panoramica, si veda M. REGALIA, Electoral Systems, in E. JONES – G. PASQUINO (a cura di), The Oxford Handbook of Italian Politics, Oxford, OUP, 2015, pp. 132-143. La mia proposta, presentata in Commissione Bozzi il 4 luglio 1984 e ampiamente discussa per tutto il decennio, ora si trova in G. PASQUINO, Partiti, istituzioni, democrazie, Bologna, il Mulino, 2014, pp. 229-242.
3 S. ROKKAN, Citizens, Elections, Parties, Oslo, Universitetsforlaget, 1970.
4 M. HTUN – G.B. POWELL, Jr. (a cura di), Political Science, Electoral Rules, and Democratic Governance. Report of the Task Force on Electoral Rules and Democratic Governance, American Political Science Association, Washington, D.C., September 2013 (reperibile all’url: https://liberalarts.utexas.edu/government/_files/moserweb/APSATaskForce2013.pdf).
5 Il ritaglio truffaldino dei collegi elettorali è operazione che risale al governatore del Massachusetts Elbridge Gerry il quale la iniziò, con successo, nel 1812.
6 Il contesto, come messo in limpida evidenza cinquant’anni fa da Sartori, include i partiti e i sistemi di partito (G. SARTORI, Political Development and Political Engineering, in J.D. MONTGOMERY – A.O. HIRSCHMAN (a cura di), Public Policy, Cambridge (MA), HUP, 1968, pp. 261-298). Entrambi sono spariti dall’orizzonte culturale (sì, parola grossa) degli apprendisti riformatori italiani i quali, nel non necessariamente migliore dei casi, vedono solo l’orizzonte degli interessi del loro partito.
7 Il Ministro Maria Elena Boschi è arrivata ad affermare che i capilista bloccati sarebbero stati “i rappresentanti di collegio”. George Orwell direbbe che questo è uno splendido esempio di neolingua. Date le modalità con le quali è probabile che fossero selezionati e i comportamenti che si sarebbero attesi da loro, mi permetterei di suggerire che quei capilista erano a tutti gli effetti intesi come “commissari di partito” (del capo del partito).
8 M. VALBRUZZI, Government Alternation in Western Europe: A Comparative Exploration, tesi di dottorato, Firenze – Istituto Universitario Europeo, 2017.
9 G. PASQUINO – M. VALBRUZZI (a cura di), Il potere dell’alternanza. Teorie e ricerche sui cambi di governo, Bologna, BUP, 2011.
10 D.W. RAE, The Political Consequences of Electoral Laws, New Haven-Londra, Yale University Press, 1971.
11 G. AMATO – A. BARBERA (a cura di), Manuale di diritto pubblico, Bologna, il Mulino, 1984.
12 Di ballottaggio si deve parlare con precisione poiché è limitato a due concorrenti, competitors, non di secondo turno che spesso contempla la presenza anche di tre, addirittura quattro candidati.
13 G. PASQUINO, Sistemi politici comparati, Bologna, Bononia University Press, 2007; G. PASQUINO, Governments in European Politics, in J.J. MAGONE (a cura di), Routledge Handbook in European Politics, Londra, Routledge, 2015, pp. 295-310.
14 R. ROSE (a cura di), Challenge to Governance. Studies in Overloaded Polities, London, Sage Publications, 1980; M. CROZIER – S.P. HUNTINGTON – J. WATANUKI, La crisi della democrazia. Rapporto alla Commissione trilaterale, Milano, Franco Angeli, 1977.
15 La governabilità può essere secondo Sartori la conseguenza della stabilità del governo che consente e agevola la produzione di decisioni. Quanto le decisioni siano/saranno efficaci dipende soprattutto, ma non solo dalla competenza dei governanti.
16 G.B. POWELL. Jr., Elections as Instruments of Democracy, New Haven e Londra, Yale University Press, 2000.
17 O. MASSARI – PASQUINO (a cura di), Rappresentare e governare, Bologna, il Mulino, 1994.
18 Se gli eletti parlamentari temono che a sanzionare i loro comportamenti saranno, nell’ordine, il capo del partito, il capo della corrente di partito, il gruppo di pressione che ne ha imposto la presenza in lista e non gli elettori, è prevedibile che daranno “rappresentanza”, se tale si può definire (meglio obbedienza) ai capi e non agli elettori. Sul punto si veda: G. SARTORI, Elementi di teoria politica, Bologna, il Mulino, 1990, pp. 211-236.
19 G. PASQUINO, Cittadini senza scettro. Le riforme sbagliate, Milano, Egea-UniBocconi, 2015, pp. 71-91.
20 P. CALAMANDREI, Patologia della corruzione parlamentare, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2017.
21 G. PASQUINO, Accountability, Electoral, in B. BADIE – D. BERG SCHLOSSER – L. MORLINO (a cura di), International Encyclopedia of Political Science, Londra, Sage Publications, 2011, pp. 13-16.
22 Molti elementi utili a smentire ciascuna e tutte queste affermazioni si trovano in P. BELLUCCI-P. SEGATTI (a cura di), Votare in Italia: 1968-2008. Dall’appartenenza alla scelta, Bologna, il Mulino, 2010.
23 A. PARISI – G. PASQUINO, Relazioni partiti-elettori e tipi di voto, in A. PARISI – G. PASQUINO (a cura di), Continuità e mutamento elettorale in Italia. Le elezioni del 20 giugno 1976 e il sistema politico italiano, Bologna, il Mulino, 1977, pp. 215-249.

La legge elettorale, i sistemi politici e 5 cose da non dimenticare @StudiElettorali

Bisogna sfatare un po’ di luoghi comuni sul dibattito attuale e prendere con le pinze le stime del voto che si fanno a quattro mesi dal voto.

Questo è un articolo dell’Atlante elettorale della Società Italiana di Studi Elettorali (Sise) che – in collaborazione con Repubblica – offre ai lettori una serie di uscite settimanali in vista delle elezioni politiche del 2018. La Sise promuove dal 1980 la ricerca nel campo delle elezioni, delle scelte di voto e del funzionamento dei sistemi elettorali. L’Associazione si avvale del contributo di giuristi, sociologi, storici e scienziati della politica, con l’obiettivo di favorire la discussione attraverso l’organizzazione di convegni di taglio accademico aperti anche al contributo di politici e commentatori.

La legge elettorale Rosato assegna due terzi dei seggi (66 per cento) della Camera e del Senato con metodo proporzionale e un terzo con metodo maggioritario in collegi uninominali. Nel 2006 circa il 90 per cento dei seggi furono assegnati con il metodo proporzionale; nel 2008, più dell’85 per cento; nel 2013 più del 75 per cento. Quindi, l’Italia non sta affatto “tornando alla proporzionale”. Non ne era mai uscita, neanche con l’Italicum. Al contrario, è cresciuta la percentuale di seggi attribuiti con metodo maggioritario.

Tutte le democrazie parlamentari europee utilizzano da tempo, quelle scandinave, il Belgio e l’Olanda, da più di cent’anni, leggi elettorali proporzionali. La legge tedesca, che si chiama “rappresentanza proporzionale personalizzata”, in vigore dal 1949, ha subito diversi piccoli adattamenti, ma la struttura è invariata.

Soltanto la Francia ha dal 1958, con la sola interruzione delle elezioni legislative del 1986, una legge elettorale maggioritaria in collegi uninominali con clausola di accesso al secondo turno. Talvolta, raramente, passano al secondo turno soltanto due candidati. Allora si ha tecnicamente ballottaggio. Quando i candidati che rimangono in lizza sono più di due si ha, per l’appunto, il secondo turno nel quale chi vince raramente ottiene la maggioranza assoluta dei voti espressi.

La quasi totalità dei governi delle democrazie europee sono governi di coalizione, composti da due o più partiti. Rari sono i casi di governi composti da un solo partito, ovviamente ad esclusione della Gran Bretagna (tranne nel periodo 2010-2015) e, soprattutto nel passato, dei governi di minoranza socialdemocratici, in particolare in Svezia, agevolati dalla non necessità di un esplicito voto di sfiducia.

I governi di coalizione si caratterizzano per due elementi. Il primo elemento è che, comprensibilmente, due partiti rappresentano l’elettorato, le sue preferenze, i suoi interessi, persino i suoi ideali, meglio di quanto possa fare un solo partito. Il secondo elemento è che il programma concordato, faticosamente quanto si vuole (ma con meno fatica se non è la prima volta che si forma quella coalizione di governo) smusserà le punte estreme dei programmi dei differenti partiti. Quel governo risulterà meglio rappresentativo delle preferenze degli elettori mediani.

Nonostante recenti, comparativamente e numericamente del tutto infondate, affermazioni, non è affatto vero che l’alternanza al governo fra partiti e coalizioni costituisca una costante nel funzionamento delle democrazie parlamentari europee. Al contrario, l’alternanza è un fenomeno generalmente raro e l’alternanza “completa” – quella nella quale un partito o una coalizione subentrano ad un partito e ad una coalizione escludendoli totalmente – è un fenomeno rarissimo. Richiede l’esistenza di un solido sistema bipartitico com’è stato quello inglese dal 1945 al 2010, nel quale soltanto due partiti, gli stessi, potevano ottenere la maggioranza assoluta di seggi nella Camera dei comuni e, quando la ottenevano, governavano da soli. Altrove, nella grande maggioranza dei casi, quello che avviene è la sostituzione di uno o due partiti al governo accompagnata dalla persistenza di uno o due partiti nel governo: semi-alternanza? Semi-rotazione?

La casistica è amplissima. Mi limiterò ai due esempi più recenti. In Austria, i Popolari, già al governo, hanno deciso di fare una nuova (ma non inusitata) coalizione di governo escludendo i Socialdemocratici e includendo i Liberali. In Germania è ritornata possibile la Grande Coalizione, esempio probante di non alternanza. In nessuna delle democrazie parlamentari europee è mai stato posto l’obiettivo di conoscere “chi ha vinto” la sera stessa delle elezioni.
Infine, una nota di cautela sulle simulazioni relative ai risultati elettorali e alle loro conseguenze sui governi possibili. Ragionare su quelle simulazioni a quattro mesi dalle elezioni prendendole come attendibili significa ritenere che:
1. la campagna elettorale non farà nessuna differenza;
2. gli accordi pre-elettorali fra i partiti saranno irrilevanti;
3. le personalità dei leader degli schieramenti non conteranno quasi nulla;
4. nessuno degli antagonisti commetterà errori significativi né troverà un asso nella manica;
5. le preferenze degli elettori, molti dei quali, è noto, decideranno il loro voto nell’ultima settimana, se non la notte prima dell’elezione, rimarranno stabili.
Tutto improbabile.

* Gianfranco Pasquino è Professore Emerito di Scienza Politica.

Pubblicato il 7 dicembre 2017 su Repubblica.it

 

 

Caos e alternanza

Due o tre cose che sappiamo sull’alternanza
di Gianfranco Pasquino e Marco Valbruzzi

 

L’alternanza “vera”, alla cui mancanza Paolo Mieli addebita, sulla scia di un libro di Massimo Salvadori (Storia d’Italia, crisi di regime e crisi di sistema 1861-2013, Il Mulino 2013), i mali dell’Italia, il caos italiano, si manifesta quando un partito (o una coalizione) viene sostituito/a al governo da un altro partito (o coalizione). In blocco. Queste sostituzioni, sostiene Mieli, avvengono e sono avvenute dappertutto. In Italia, praticamente mai. Non è esattamente così; anzi, non è proprio così. L’alternanza pura e dura, totale, è un fenomeno raro. Qualcuno, Giancarlo Loquenzi, prende ad esempio gli USA sostenendo che Repubblicani e Democratici si alternano in blocco frequentemente. Non è così. I numeri sono probanti e non difficili da trovare. Molto materiale utile/issimo si trova nel volume curato da me e da Marco Valbruzzi, Il potere dell’alternanza. Teorie e ricerche sui cambi di governo (Bononia University Press 2011). Qui ci limiteremo ad alcune poche notazioni con riferimento ai casi tedesco e austriaco, nei quali si sono appena svolte le elezioni politiche e al caso USA.

Dal 1949 al 2017, la Germania ha sperimentato una sola alternanza completa/totale vale a dire nella quale i due partiti al governo (democristiani e liberali) hanno perso le elezioni e sono andati a fare l’opposizione ai due partiti (socialdemocratici e verdi) subentrati al governo: 1998-2005. Prima di allora c’erano state esclusivamente sostituzioni parziali con i Liberali, partito al governo dal 1949 al 1966 con i democristiani e dal 1969 al 1982 con i socialdemocratici, poi, nuovamente, dal 1982 al 1998 e dal 2009 al 2013 con i democristiani. Tre grandi coalizioni 1966-1969; 2005-2009; 2013-2017. No, l’alternanza completa non è stata la modalità prevalente di cambio dei governi in Germania. Eppure, nessuno scriverebbe di “caos tedesco” e nessuno direbbe che la carenza di alternanza ha prodotto malgoverno.

L’Austria non è un caso molto dissimile dalla Germania (vedi fig. 1). Ci sono state Grandi Coalizioni dal 1947 al 1966; un governo monocolore Democristiano dal 1966 al 1970; un’alternanza nel 1970 con un governo monocolore Socialdemocratico durato fino al 1983; un governo Socialdemocratici-Liberali dal 1983 al 1987; una Grande Coalizione dal 1987 al 1999. Poi governo dei Democristiani con i Liberali di Haider dal 1999 al 2002. Poi soltanto Grandi Coalizioni. Quindi, se i Popolari faranno una coalizione con i Liberali sarà semplicemente una semi-rotazione governativa. No, l’alternanza non abita neanche in Austria.

Quanto agli Stati Uniti d’America, un conto sono le elezioni presidenziali vinte da un candidato Repubblicano o da un candidato Democratico: alternanza alla Casa Bianca, sostanzialmente e significativamente favorito dal limite di due soli mandati; un conto molto diverso è l’alternanza fra Repubblicani e Democratici in Congresso. Spesso, infatti, i Presidenti dell’uno o dell’altro partito non hanno avuto la maggioranza del loro partito sia al Senato sia alla Camera dei Rappresentanti. Il fenomeno del “governo diviso” ha segnato quarant’anni dal 1945 ad oggi, ovvero più della metà del tempo. Dal novembre 2016 con o sotto Trump i Repubblicani controllano entrambi i rami del Congresso. Soltanto se, fenomeno assolutamente improbabile, i Democratici riuscissero a conquistare le due maggioranze nelle elezioni di metà mandato del 2018 potremmo parlare di alternanza (termine praticamente inusitato nel linguaggio politico USA), ma rimarrebbe il potere presidenziale ad impedire l’attuazione di un programma democratico.

Insomma, non sembra proprio che l’alternanza costituisca la modalità prevalente dei cambi di governo nelle democrazie contemporanee, persino a prescindere dalle leggi elettorali. Ma, poi, lasciando da parte le malposte aspettative di leggi elettorali malcongegnate: è l’alternanza che produce buona politica oppure, piuttosto, è la buona politica che pone le condizioni dell’alternanza? O, forse, è la cattiva politica, prodotta da mediocri governanti, che apre la porta all’alternanza?

Pubblicato il 26 ottobre 2017 si La Terza Repubblica