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Il Festival di Sanremo sposta davvero gli italiani a sinistra? @DomaniGiornale


Sembra che sul palco del Festival di Sanremo siano state dette molte cose di sinistra. Sembra che sia di sinistra anche strappare una imbarazzante foto di attuale sottosegretario di Fratelli d’Italia con camicia nazista. Ma, a parere di alcuni commentatori di destra il massimo della ritornante egemonia culturale della sinistra (sic) sarebbe stato raggiunto in quello che a me e al Direttore di questo giornale è parso lo sgangherato e un po’ ripetitivo monologo di disinvolto elogio alla Costituzione fatto da Benigni (il comico che nel 2016 annunciò di votare a favore delle stravolgenti riforme renziane alla “Costituzione più bella del mondo”). “Salvare” la Costituzione dal progetto malamente considerato eversivo di una trasformazione semi-presidenziale. E poi dicono che Macron, Presidente di una Francia semipresidenziale, è troppo suscettibile: gli danno del leader autoritario! Di sessualità fluida et similia poco so, ma credo che nessuno di quei dodici milioni di telespettatori, un quinto degli italiani, i restanti quarantotto milioni hanno preferito fare altro, si sia “buttato a sinistra” (copyright il principe de Curtis) vedendo alcune immagini conturbanti.
Nel passato, il Festival di Sanremo non incrinò e non rafforzò l’egemonia nazional-popolare della Democrazia Cristiana e non mise mai in crisi l’egemonia culturale della sinistra. Anzi, con il passare del tempo tutti (o quasi) dovrebbero porsi il duplice problema storico se nell’Italia repubblicana è davvero esistita l’egemonia culturale della sinistra, ovvero dei partiti di sinistra, dei loro dirigenti, dei loro intellettuali di riferimento, delle loro idee e quale sia stato l’impatto di quella egemonia sulla vita e sulla cultura degli italiani. So di sollevare un interrogativo enorme al quale probabilmente persino Gramsci sarebbe riluttante a formulare una risposta. Ma, se l’egemonia culturale ha bisogno quasi per definizione di intellettuali, più o, molto meglio, meno “organici”, continua a rimanere vero che le idee camminano sulle gambe degli uomini (e delle influencer), quali intellettuali (di sinistra) hanno frequentato l’ultimo di Festival di Sanremo? E quali intellettuali di destra avrebbero dovuto essere invitati in alternativa, a fare da contrappeso (il dibattito nooooo)?
Mi accorgo che sto personalizzando, ma, se si è interessati a capire l’evoluzione dell’egemonia culturale, del confronto e dello scontro di idee, di progetti, di visioni di società, non solo è indispensabile personalizzare, ma bisogna chiedersi se esistono ancora grandi intellettuali o “scuole di pensiero” in grado di produrre cultura, di reclutare adepti, di influenzarli e orientarli, e di egemonizzare i dibattiti e la vita culturale del paese e di chi distribuisce cultura “per li rami”. Certo qualcuno direbbe che sono scomparse le ideologie del passato. La loro storia è davvero finita. Siamo tutti più poveri, ma anche, forse, più liberi. Allora, sarebbe forse opportuno chiedersi se siano riformulabili ideologie coinvolgenti e trascinanti e se esistano i formulatori, gli intellettuali pubblici che al pubblico, all’opinione pubblica si rivolgono e in maniera trasparente segnalano come è politicamente e eticamente consigliabile e auspicabile stare insieme/interagire nella società globalizzata.
Molte destre e qualche sinistro rispondono con il sovranismo che ideologia è, ma a contatto con le dire lezioni della storia (Hegel) scricchiola, traballa e cerca di adeguarsi. Qualcuno, anche tramite l’ultranovantenne Jürgen Habermas si aggrappa al “patriottismo costituzionale” non privo di ambiguità e inconvenienti. La mia risposta è che l’europeismo, come storia, comecomplesso di valori, come pluralismo e pluralità di obiettivi, può essere. non una nuova ideologia, totalizzante e costrittiva, ma la cultura politica di riferimento. A Sanremo non s’è vista neanche l’ombra dell’europeismo. Fuori, in molte località, centri di ricerca e università, persino nelle sedi radiotelevisive e giornalistiche si trovano studiosi e operatori spesso anche dotati di capacità, in grado di cantare le lodi dell’Unione Europea e dell’idea d’Europa. Però, mancano i predicatori dell’europeismo possibile e futuro: Jean Monnet, Altiero Spinelli, Jacques Delors. Oggi e domani non dovrebbe preoccuparci nessuna inesistente egemonia, ma dovremmo dolorosamente sentire la diffusa mancanza della materia prima sulla quale può nascere l’egemonia e l’assenza dei suoi facitori
Pubblicato il 14 febbraio 2023 su Domani
Partiti sgangherati e antipolitica Ma chi non vota non è ascoltato #intervista @GiornaleVicenza
«Molti sabati pomeriggio di quel dolce autunno del 1974 a Harvard li passammo a giocare al pallone nel campetto dietro casa. Mario Draghi era spesso con noi, ma certo, giocatore piuttosto lento e poco grintoso, non era il più dotato in quello sport». Ci sono chicche come questa e aneddoti spassosi in “Tra scienza e politica. Un’autobiografia”, il libro di Gianfranco Pasquino edito da Utet e presentato a Pordenonelegge. Un’autobiografia, per un politologo, può sembrare qualcosa di ardito. Ma chi conosce Pasquino, professore emerito di scienza politica all’Università di Bologna, socio dell’Accademia dei Lincei, non si stupisce: la sua storia è un crocevia di incontri e conoscenze che vale la pena trasmettere, non fosse altro che per aver avuto come maestri sia Norberto Bobbio sia Giovanni Sartori.
Professor Pasquino, il Draghi calciatore non era il migliore, ma da premier com’è stato?
Non era il miglior calciatore e non puntava nemmeno ad esserlo (sorride). Ma da premier è stato molto bravo. Altro che “tecnico”… Da giovane non sembrava così interessato alla politica, ma ha dimostrato di aver imparato molto e molto in fretta.
Ora Draghi è stato fatto cadere e si va al voto. Cosa c’è in gioco in queste elezioni?
Quello che davvero entra in gioco è come stare in Europa, è la vera posta. Sappiamo che il Pd è un partito europeista, come +Europa, e che le persone che vengono da quell’area sono affidabili sul tema. Non sappiamo quali sono le persone affidabili nello schieramento di centrodestra, con poche eccezioni. Però sappiamo che sostanzialmente Giorgia Meloni è una sovranista e Salvini forse ancora di più. È difficile che si facciano controllare dai pochi europeisti di Forza Italia: Berlusconi ha detto cose importanti, ma gli altri alleati avranno almeno il doppio del suo consenso.
Perché teme il sovranismo?
Sovranismo vuol dire cercare di riprendere delle competenze che abbiamo affidato consapevolmente all’Europa. Non abbiamo ceduto la sovranità, l’abbiamo condivisa con altri Stati, e loro con noi. Tornare indietro vuol dire avere meno possibilità di incidere sulle decisioni. Alcune cose non potremmo deciderle mai.
Ritiene che la nuova dicotomia politica sia europeismo-sovranismo, più di destra-sinistra?
Non lo dico io: è stato Altiero Spinelli, nel Manifesto di Ventotene, 1941. Spinelli vedeva le cose molto in anticipo rispetto agli altri. D’altronde i singoli Stati europei sulla scena mondiale non conterebbero nulla: la soluzione è dentro l’Europa, altrimenti non possiamo competere né con la Russia né con la Cina e nemmeno con gli Stati Uniti, anche se bisognerebbe avere un rapporto decente con gli Usa.
Come si inserisce la guerra in Ucraina in questa analisi?
Nella guerra in Ucraina c’è uno stato autoritario che ha aggredito una democrazia. E noi non possiamo non stare con la democrazia. Se quello stato autoritario riesce a ottenere ciò che vuole, è in grado di ripeterlo con altri stati vicini. Non a caso Lituania, Estonia e la stessa Polonia sono preoccupatissimi. La Polonia conosce bene i russi e sa che ha bisogno della Nato e dell’Europa.
In Ucraina è in gioco anche la nostra libertà?
Lì si combatte sia per salvare l’Ucraina sia per salvare le prospettive dell’Europa. E un’eventuale sconfitta di Putin potrebbe aprire le porte a una democratizzazione della Russia: sarebbe un passaggio epocale.
A chi sostiene che le responsabilità della guerra siano anche dell’Occidente come risponde?
Non credo che sia vero. Ma tutto è cambiato quando la Russia ha usato le armi. La Costituzione dice che le guerre difensive sono accettabili, le guerre offensive mai.
L’Italia va al voto con una legge elettorale che toglie ogni potere all’elettore. L’hanno voluta tutti i partiti…
L’ha voluta Renzi e l’ha fatta fare a Rosato. Ma l’hanno accettata tutti perché fa comodo ai dirigenti di partito: si ritagliano il loro seggio, si candidano in 5 luoghi diversi, piazzano i seguaci. Aspettare che riformino una legge che dà loro un potere mai così grande è irrealistico. A noi non resta che tracciare una crocetta su qualcosa.
Come sta la democrazia italiana?
Godiamo di libertà: i diritti civili esistono, i diritti politici anche, i diritti sociali sono variegati. Il funzionamento delle istituzioni invece dipende da una variabile: i partiti. Una democrazia buona ha partiti buoni; una democrazia che ha partiti sgangherati, che sono costruzioni personalistiche, che ci sono e non ci sono, inevitabilmente è di bassa qualità. E non possiamo salvarci dicendo “anche altrove”, perché non è vero: i partiti tedeschi e spagnoli sono meglio organizzati, quelli portoghesi e quelli scandinavi pure.
Una democrazia senza partiti non esiste, lei lo insegna.
Una via d’uscita potrebbe essere il presidenzialismo, ma io sono preoccupato di una cosa: chi e come controlla quel potere? Ciò che manca, comunque, è il fatto che i politici predichino il senso civico, che pagare le tasse magari non è bello ma bisogna farlo; che osservare le leggi e respingere la corruzione è cruciale per vivere insieme. Mancano i grandi predicatori politici, tolti Mattarella e in certa misura Draghi.
Vale la pena comunque votare?
Sì, ma non perché “se non voti la politica si occupa comunque di te”. È il contrario: se non voti la politica non si occupa di ciò che ti sta a cuore.
L’affluenza rischia di essere bassa: colpa dei partiti? Dei cittadini? O dei media?
C’è chi dice “non voto perché non voglio” e li capisco, ma chi non vota non conta; e chi dice “non voto perché nessuno me lo ha chiesto”, ed è un problema dei partiti che non hanno motivato l’elettore. E poi gli italiani continuano ad avere questa idea che la politica sia qualcosa di non particolarmente pulito…
Non è così?
Sono alcuni politici a non esserlo. La politica è quello che facciamo insieme: sono tutte cose che devono essere predicate, ma oggi ciascuno pensa al suo tornaconto.
La sinistra ha perso il rapporto con il popolo?
Non sono sicuro che ci sia il popolo, ma so che la sinistra non ha più la capacità di essere presente in alcuni luoghi: se fosse nelle fabbriche sarebbe meglio, se avesse un rapporto vero con i sindacati, se i sindacati facessero davvero una politica progressista…
E il problema della destra qual è?
Il primo è che le destre non sono coese, stanno insieme per vincere ma poi avranno difficoltà a governare. Poi hanno pulsioni populiste, punitive, e poca accettazione dell’autonomia delle donne. E non sono abbastanza europeiste.
Che cosa pensa del voto del Parlamento europeo che condanna l’Ungheria di Orbàn?
Semplicemente Orbàn sta violando le regole della democrazia. Non esistono le “democrazie elettorali”: quando lei reprime le opposizioni, quelle non hanno abbastanza spazio nella campagna elettorale; se espelle una libera università come quella di Soros, lei incide sulla possibilità che circolino le informazioni. Tecnicamente non è già più una democrazia. Non si possono controllare i giudici.
Perché secondo lei FdI e Lega hanno votato per salvare Orbàn? Cioè è possibile smarcare un legittimo sovranismo da questi aspetti che toccano democrazia e stato di diritto?
Secondo me dovevano astenersi. Invece per convenienza loro, per mantenere buoni rapporti con Orbàn, non lo hanno fatto. Per me è un errore. Ma poi mi chiedo: è un errore anche per gli elettori di Meloni? Non lo so.
Il populismo è il linguaggio di quest’epoca. Però la legislatura più populista della storia si è chiusa con Draghi premier, che è l’opposto. Bizzarro, no?
È bizzarro, sì. Ma qui c’è stata un’insorgenza populista. Fino al 2013 non c’era. Ma come è arrivata può scomparire. Resta però un tratto di questo Paese: un atteggiamento di anti-politica e anti-parlamentarismo che può essere controllato solo da partiti in grado di fare politiche decenti. L’esito del voto del 25 settembre è scontato? Non lo è mai. Molti elettori decidono per chi votare nelle ultime 48 ore. Può sempre accadere qualcosa che fa cambiare idea.
Draghi ha detto “no”. Ci crede che non farà più il premier?
Sì(lunga pausa). Aveva investito molto nel Paese, essere sbalzato così è stato pesante: è molto deluso, credo anche incazzato.
Intervista raccolta da Marco Scorzato pubblicata su Il Giornale di Vicenza 22 Settembre 2022
Per una robusta e vibrante democrazia: ruolo e prospettive dei partiti europei #trascrizioneintegrale Lecture Altiero Spinelli 2022 @CSFederalismo @CollegioCA

Lecture Altiero Spinelli 2022
Gianfranco Pasquino
Per una robusta e vibrante democrazia: ruolo e prospettive dei partiti europei
Il Centro Studi sul Federalismo organizza, dal 2005, una Lecture intitolata ad Altiero Spinelli, uno dei Padri fondatori dell’Europa unita, autore con Ernesto Rossi del Manifesto di Ventotene.
La Lecture 2022 è stata organizzata insieme con la Fondazione Collegio Carlo Alberto
VIDEO Per una robusta e vibrante democrazia: ruolo e prospettive dei partiti europei – Lecture Altiero Spinelli 2022 @CSFederalismo
Lecture Altiero Spinelli 2022
Gianfranco Pasquino
Per una robusta e vibrante democrazia: ruolo e prospettive dei partiti europei
Il Centro Studi sul Federalismo organizza, dal 2005, una Lecture intitolata ad Altiero Spinelli, uno dei Padri fondatori dell’Europa unita, autore con Ernesto Rossi del Manifesto di Ventotene.
La Lecture 2022 è organizzata insieme con la Fondazione Collegio Carlo Alberto.
L’allargamento è coerente con il sogno europeo @DomaniGiornale


L’Europa non è e non è mai stata (solo) una espressione geografica. Sarebbe sufficiente leggere il libro del grande storico Federico Chabod, Storia dell’idea di Europa (Laterza 1961) per rendersene pienamente conto.
L’Unione Europea non è né un sogno né un’utopia. Gli autori del Manifesto di Ventotene (1941), soprattutto Altiero Spinelli, ma anche Ernesto Rossi e Eugenio Colorni, non avrebbero esitazioni a respingere l’etichetta di sognatori, e la loro storia personale e politica testimonia impegno e concretezza.
Geograficamente, forse l’Europa non va dall’Atlantico agli Urali, come disse il Presidente francese François Mitterrand. Certamente, però, gli europei orientali, a cominciare dagli spesso molto criticati polacchi e ungheresi, lo dimostrano la loro storia e la loro cultura, i loro intellettuali e i loro dirigenti politici, anche quando è possibile e opportuno obiettare alle loro scelte, sono europei. Fanno parte a pieno titolo della storia e della politica, persino delle aspirazioni, degli (altri) europei. Debbo aggiungere “occidentali”? Ma, allora, dove sta la linea divisoria?
Il confine fra europei occidentali e europei orientali si colloca là dove cadde, prontamente denunciata da Winston Churchill, la cortina di ferro? Smantellata quella cortina, l’Unione degli europei occidentali avrebbe dovuto tenere a bada tutti coloro che nell’Europa orientale volevano, vollero produrre i requisiti socio-economici e anche politici necessari a soddisfare le condizioni per diventare Stati-membri dell’Unione? Oppure, come più volte, a mio parere in maniera convincente, ha sostenuto l’allora Presidente della Commissione Europea Romano Prodi, l’allargamento fu, al tempo stesso, il riconoscimento della “europeità” di quelle donne e di quegli uomini, dei loro rappresentanti e dei loro governanti, ma anche la mano tesa per favorirne la crescita e la stabilizzazione democratica?
Questa motivazione vale ancora e anche per gli Stati che dai Balcani si trovano in uno stadio avanzato di paesi candidati e per l’Ucraina che sta iniziando una procedura inevitabilmente lunga, ma con la prospettiva di un esito positivo. Spinelli non si pose mai il problema dei confini dell’Europa federale che bisognava costruire per superare gli Stati nazionali portatori inevitabili di spinte alla guerra e per conquistare pace (giusta) e prosperità. Qualsiasi obiezione nei confronti dei cittadini e dei sistemi politici “orientali” che si fondi sulla inadeguatezza insuperabile di alcuni di loro alla democrazia e ai suoi (nostri) valori, non soltanto non trova nessuna traccia nel pensiero di tutti coloro che hanno contribuito a dare vita, a ampliare, a migliorare l’Unione Europea, ma contiene elementi di intollerabile etnocentrismo, al limite del razzismo, che certamente cozzano con i valori degli Europei.
Pubblicato il 10 maggio 2022 su Domani
INVITO Per una robusta e vibrante democrazia: ruolo e prospettive dei partiti europei – Lecture Altiero Spinelli 2022 #Torino #5maggio @CSFederalismo @CollegioCA

Giovedì 5 maggio 2022 ore 17
Auditorium Castellino – Fondazione Collegio Carlo Alberto
Piazza Arbarello, 8 Torino
Lecture Altiero Spinelli 2022
Gianfranco Pasquino
Per una robusta e vibrante democrazia: ruolo e prospettive dei partiti europei
Il Centro Studi sul Federalismo organizza, dal 2005, una Lecture intitolata ad Altiero Spinelli, uno dei Padri fondatori dell’Europa unita, autore con Ernesto Rossi del Manifesto di Ventotene.
La Lecture 2022 è organizzata insieme con la Fondazione Collegio Carlo Alberto. Si svolgerà in presenza presso l’Auditorium della Fondazione Collegio Carlo Alberto.
In presenza: https://bit.ly/3DDRZcA Online: https://bit.ly/3r6k1s3 @CSP_live @MOVFEDEUROPEO
LOCANDINA INTERATTIVA
L’Europa secondo Cuperlo: dove rimane qualcosa di dignitoso @fattoquotidiano @giannicuperlo #RinascimentoEuropeo @ilSaggiatoreEd

Va preso alla lettera il sottotitolo del libro di Gianni Cuperlo, Rinascimento europeo (Milano, ilSaggiatore 2022). L’autore ha voluto scrivere “il libro dell’Europa che siamo stati, che siamo e che dobbiamo diventare”. Lo ha fatto in maniera elegante e accattivante, talvolta eccedendo nel brio della scrittura, sempre offrendo materiale e interpretazioni degne di essere discusse. La mia premessa è che l’Europa qui e ora, vale a dire l’Unione Europea, è il più grande spazio di libertà e di diritti mai esistito al mondo. Riduttivamente, Cuperlo afferma che è lo spazio “dove la vita di milioni di noi resta qualcosa di dignitoso” (19). Porrei l’accento sulle opportunità che la UE, anche in tempi di crisi economica e sanitaria, ha saputo offrire agli europei, e continuerà a farlo. Condivido appieno l’osservazione del grande storico francese delle Annales, Lucien Febvre, sintetizzata da Cuperlo: “L’Europa è una civiltà. E niente sulla terra è più in movimento di una civiltà” (41). Dunque, l’Europa non è una “utopia” poiché ha un luogo. Non è una mera espressione geografica poiché è fatta di cultura condivisa. Non è neppure un sogno poiché la sua esistenza è facilmente accertabile. La migliore definizione è che l’Europa, come fermamente volle Altiero Spinelli, con Ernesto Rossi e Eugenio Colorni, è un progetto politico: unificazione federale di Stati altrimenti bellicosi.
Il libro di Cuperlo non può ovviamente tenere conto dell’aggressione russa all’Ucraina né questo recensore può trattare il fatto in poche righe. Credo, però, legittimo ritenere che se l’Ucraina fosse stata un paese membro dell’Unione Europea, la Russia di Putin non l’avrebbe attaccata. Nel suo ambito l’Unione Europea, nata per porre fine ai conflitti Francia/Germania, ha garantito la pace, offrendo anche nel corso del tempo prosperità. Qualsiasi civiltà in movimento deve affrontare problemi. Cuperlo non li sottace, ma li analizza con critiche ai comportamenti passati e soluzioni per le sfide presenti e future. L’obiettivo dichiarato è “abbattere la povertà”. Altrove, però, si esprime a favore della “difesa del continente politico” con “una lotta senza quartiere alle disuguaglianze” (184). I due obiettivi, strettamente collegati, non stanno in contraddizione. Semmai, sono le ricette per l’abbattimento che divergono. Per i liberisti soltanto un mercato totalmente aperto, “deregolamentato”, davvero e sempre competitivo potrebbe abbattere la povertà, fermo restando che chi rimarrà povero lo sarà per colpa sua.
Cuperlo trae la sua proposta di soluzione dai keynesiani, post-keynesiani, neo-keynesiani: “una cura massiccia di welfare, nel senso di risorse aggiuntive per via fiscale” (123), combinando “lo sviluppo delle forze del mercato con le tutele sociali in capo a un’autorità espressa dalla sovranità del popolo” (144). Qui, inevitabilmente, fa la sua comparsa l’Europa politica, vale a dire le istituzioni dell’UE, la loro legittimità, funzionalità, democraticità. L’autore sembra talvolta propendere dalla parte di coloro che denunciano un, per me inesistente, deficit di democrazia nell’Unione e ne chiede una riformulazione “dove sulla frontiera dei diritti umani, a partire da quelli delle donne, si imbastisca la prossima stagione della nostra civiltà” (31), e dell’Unione stessa “da rifondare nella visione e anche nei trattati” (133). Più volte in più luoghi per quasi tutti i problemi l’autore chiama in causa il suo campo (largo?): la sinistra. Degna del suo nome, la sinistra dovrebbe impegnarsi in “pratiche redistributive”, costruire un “impianto di società”, formulare “un altro modo pensare” anche perché “l’Europa ha sete di una lingua dei fini” (197). Pur personalmente più preoccupato dai mezzi, concludo che Cuperlo ha scritto un racconto utilissimo, anche quando non condivisibile, impegnativo e di affascinante lettura.
Pubblicato il 12 marzo 2022 su Il Fatto Quotidiano
IL CASTORO | Gianfranco Pasquino sugli 80 anni del Manifesto di Ventotene #intervista

Intervista raccolta da Beatrice Gagliani

Compie 80 anni ma non si direbbe. Scritto al confino da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, il manifesto di Ventotene è considerato uno dei testi fondanti dell’Unione Europea. Ne abbiamo parlato con Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza politica all’università di Bologna.
Perché Il Manifesto di Ventotene è considerato uno dei testi fondativi dell’Unione europea?
«Perché individua il problema e suggerisce soluzioni: il problema è l’esistenza degli stati nazionali che si sono combattuti devastando l’Europa e loro stessi e la soluzione è superare la loro suddivisione e andare nella direzione di uno stato sovranazionale, che si sarebbe chiamato prima Europa e poi Unione Europea. L’Ue è l’unica in grado di porre fine alle guerre intestine, attraverso la messa in comune di sovranità e di tutta una serie di altri strumenti per la prosperità comune».
Nel ‘41 Spinelli e Rossi scrivevano: «Gli spiriti sono ora molto meglio disposti che in passato ad una riorganizzazione federalista dell’Europa». Che ne è oggi di quella prospettiva?
«Nel ‘41 Spinelli e Rossi erano sorprendentemente ottimisti, perché allora infuriava la guerra. Era tutt’altro che scomparso il pericolo che il nazismo riuscisse a vincere anche contro l’Unione Sovietica. Oggi quella prospettiva rimane assolutamente viva, anzi ha fatto molti passi avanti, siamo nella direzione giusta, pur sapendo che gli egoismi nazionali continuano a esserci e si traducono in visioni sovraniste ormai assolutamente fuori luogo. Abbiamo fatto dei passi avanti, infatti l’Unione europea oggi, nonostante le politiche ungheresi e polacche, è il più grande spazio di diritti civili e politici e di libertà mai esistito al mondo».
Cosa manca agli Stati Uniti d’Europa? Ci arriveremo?
«Manca ad esempio una politica fiscale comune, manca la possibilità di decidere con il voto a maggioranza su certe tematiche importanti. Su alcune, cruciali, bisogna decidere all’unanimità e ciò non rappresenta paradossalmente una procedura democratica, perché consente a uno stato di bloccare una decisione, sulla quale convergono gli altri 26. L’Europa ha già una cultura comune grazie a scienziati, letterati, pittori, scultori e musicisti, ma le manca ancora la convinzione di poter condividere una politica comune. È solo questione di tempo».
Sempre dal Manifesto: «La rivoluzione europea, per rispondere alle nostre esigenze, dovrà essere socialista, cioè dovrà proporsi l’emancipazione delle classi lavoratrici e la creazione per esse di condizioni più umane di vita». A suo parere, nell’attuale economia neoliberista e di mercato, l’Europa ha saputo garantire la giustizia sociale?
«Spinelli era un ex comunista, non credeva ancora che fosse possibile arrivare al socialismo. Oggi sappiamo che paesi come Norvegia, Svezia, Danimarca, Finlandia attuano politiche socialdemocratiche e occupano i primi posti in tutte le classifiche riguardo al livello di benessere e di giustizia sociale. È giusto sostenere che un’Europa federale unificata garantirebbe meglio i diritti dei lavoratori? La risposta probabilmente è sì. Non è detto che la via sarà quella del socialismo, ma deve essere prioritaria la lotta contro le disuguaglianze e la battaglia per una società giusta».
Alla luce dell’evoluzione storico-sociale degli ultimi decenni, ritiene che gli autori abbiano intuìto come si sarebbero modificati i rapporti economici tra i Paesi del globo?
«Non bisogna leggere quello che è stato scritto nel 1941 con gli occhi di oggi, ma cercare di capire quali erano i problemi che gli autori intendevano risolvere. Probabilmente con la loro intelligenza oggi sarebbero in grado di trovare alcune soluzioni a ciò che non funziona della globalizzazione, che di per sé non è un problema, ma un’opportunità».
Il Manifesto di Ventotene ha rappresentato un sogno utopico o si è fatto latore di un progetto politico realizzabile?
«Abitualmente combatto l’idea che l’Europa sia un’utopia. È piuttosto un progetto politico che si realizza con la capacità di coinvolgere i cittadini e le classi dirigenti, spingendoli nella direzione giusta».
Che cosa manca all’Europa attuale, rispetto a come l’avrebbero voluta gli estensori del testo?
«Manca una politica fiscale ed economica comune, la vera priorità della Ue. Al momento ci sono “disuguaglianze cattive”, come le chiama il presidente del Consiglio Mario Draghi, che devono essere sanate, mentre devono essere valorizzate le caratteristiche peculiari di ognuno, come avere più tempo libero da dedicare alla cultura, più spazio per l’immaginazione personale. Bisogna essere capaci di offrire opportunità adeguate in ogni momento della vita dei cittadini europei».
Pubblicata il 20 dicembre 2021 su settesere.it
L’ideologia democratica dell’UE alla prova più dura @DomaniGiornale


“Senza ideologie che strutturano le opinioni i populisti trovano spazio”. Questa affermazione di François Hollande, socialista, Presidente della Quinta Repubblica francese (2012-2017), coglie in pieno la situazione nella quale si trovano molti Stati-membri dell’Unione Europea e, in una certa misura, la stessa Unione. Nel caso italiano, se fosse rimasto qualcosa delle vecchie ideologie non vi sarebbero tanti elettori che si astengono dall’andare alle urne, che cambiano voto da un’elezione all’altra (più del 30 per cento), che decidono uno o due giorni prima del voto, se non la mattina stessa. I populisti si sono fatti largo quasi dappertutto in Europa, ma di più proprio dove non è più possibile parlare di “ideologie” che organizzano le opinioni. Per ovvie motivazioni legate all’Unione Europea, in Ungheria prima e di più, ma oggi molto anche in Polonia, si sono affermati leader, partiti e comportamenti populisti. In parte per opportunismo (Orbán contribuiva con i suoi voti e seggi alla vittoria dei Popolari Europei), in parte per malposta accondiscendenza nei confronti dei polacchi, troppo a lungo i capi degli altri Stati-membri e la stessa Commissione hanno tollerato violazioni più o meno palesi degli impegni che tutti gli Stati hanno assunto proprio per fare parte dell’Europa e per godere dei vantaggi, non solo economici, della loro appartenenza.
A fondamento del Manifesto di Ventotene, Altiero Spinelli pose la sua convinzione, che era anche un ambizioso progetto politico, condivisa da Ernesto Rossi e Eugenio Colorni, che i partiti europei non si sarebbero più distinti in destra e sinistra, ma fra quelli favorevoli all’unificazione politica dell’Europa e quelli che vi si sarebbero opposti. In una certa misura, l’europeismo è un insieme di idee, politiche e sociali, che potremmo assimilare ad una ideologia. Al sovranismo al momento è difficile, forse anche prematuro, attribuire la stessa qualifica. Però, esiste un punto che ha acquisito crescente rilievo. Quel complesso di idee europeiste posto a fondamento dell’Unione e dei suoi Trattati è sicuramente caratterizzato dalla piena accettazione dei principi democratici. L’Unione Europea è il più grande spazio di libertà e di diritti mai esistito al mondo. Le sue istituzioni, compresa la Corte Europea di Giustizia, proteggono e promuovono i diritti dei cittadini anche contro i rispettivi Stati nazionali. La violazione dei diritti dei cittadini in qualsiasi Stato nazionale ferisce l’Unione.
Porre il diritto nazionale al di sopra del diritto dell’Unione fa cadere uno dei cardini dell’europeismo. L’Unione Europea ha una ideologia democratica, che, applicando le parole di Hollande, struttura (o dovrebbe strutturare) le opinioni e i comportamenti dei governanti, dei rappresentanti, dei cittadini. Quanto i governanti ungheresi e polacchi hanno fatto nei confronti dei mass media, delle università, del sistema giudiziario, delle opposizioni colpisce i principi democratici fondamentali sui quali l’Unione è stata costruita e che l’Unione ha promosso e ampliato. Più volte, il Parlamento europeo ha ribadito la centralità di quei principi e dell’ideologia democratica a loro sottostante. In gioco nello scontro fra Commissione e Polonia non c’è un pugno di Euro, anche se i populisti sono spesso molto sensibili al valore del denaro e dei benefici economici. Quello che l’Unione deve difendere e imporre richiedendo il rispetto delle leggi e degli accordi è “semplicemente” l’ideologica democratica. Quanto più la Commissione metterà in evidenza che la posta in gioco sono i valori democratici tanto più riuscirà a restringere lo spazio dei populisti.
Pubblicato il 2 novembre 2021 su Domani
Democrazia Futura. Mario Draghi fra Presidenza del Consiglio e Presidenza della Repubblica @Key4biz #DemocraziaFutura

Un bilancio della sua presenza a Palazzo Chigi e una previsione sul suo futuro istituzionale.
Un bilancio della presenza di Mario Draghi a Palazzo Chigi e una previsione sul suo futuro istituzionale richiedono alcune premesse. Per fin troppo tempo, in maniera affannata e ripetitiva, il direttore del Corriere della Sera Luciano Fontana e alcuni editorialisti di punta (Aldo Cazzullo, Paolo Mieli, persino Ferruccio de Bortoli) hanno criticato i governi e i capi di governo non eletti (dal popolo), non usciti dalle urne (Antonio Polito) (1).
La nomina di Mario Draghi alla Presidenza del Consiglio li ha finora zittiti tutti nonostante la sua non elezione popolare e il suo non essere uscito da nessuna urna.
Forse, però, siamo già entrati, sans faire du bruit, in una nuova fase del pensiero costituzionale del Corriere. Draghi vive e opera in “una sorta di semipresidenzialismo sui generis”, sostiene Ernesto Galli della Loggia (2) non senza lamentarsi per l’ennesima volta della sconfitta delle riforme renziane che avrebbero aperto “magnifiche sorti e progressive” al sistema politico italiano senza bisogno di semipresidenzialismo e neppure del voto di sfiducia costruttivo German-style. Fermo restando che le forme di governo cambiano esclusivamente attraverso trasformazioni costituzionali mirate, esplicite, sistemiche, la mia tesi è che Draghi è il capo legittimo di un governo parlamentare che, a sua volta, è costituzionalmente legittimo: “il Governo deve avere la fiducia delle due Camere” (art. 94).Tutti i discorsi sull’operato, sulle prospettive, sui rischi del governo Draghi si basano su aspettative formulate dai commentatori politici da loro variamente interpretate e criticate.
Sospensione della democrazia o soluzione costituzionale flessibile del parlamentarismo?
Lascio subito da parte coloro che hanno parlato di sospensione della democrazia poiché, al contrario, stiamo vedendo all’opera proprio la democrazia parlamentare come saggiamente delineata nella Costituzione italiana. Sono la flessibilità del parlamentarismo Italian-style e l’importantissima triangolazione fra Presidenza della Repubblica, Governo e Parlamento che per l’ennesima (o, se si preferisce, la terza volta dopo Dini 1995-1996; e Monti 2011-2013) volta ha prodotto una soluzione costituzionale a problemi politici e istituzionali.
Il discorso sulla sospensione della politica merita appena più di un cenno. Infatti, nessuno dei leader politici ha “sospeso” le sue attività e le elezioni amministrative si svolgono senza nessuna frenata né distorsione. Aggiungo che non soltanto Draghi è consapevole che quel che rimane dei partiti ha la necessità di ingaggiare battaglie politiche, ma anche che, da un lato, prende atto di questa “lotta” politica, dall’altro, la disinnesca se non viene portata nel Consiglio dei Ministri.
Sbagliano, comunque, coloro che attribuiscono a Draghi aspettative e preferenze del tipo “non disturbate il manovratore”. Al contrario, se volete disturbare è imperativo che le vostre posizioni siano motivate con riferimento a scelte e politiche che siano nella disponibilità del governo e dei suoi ministri. Chi ha, ma so che sono pochissimi/e, qualche conoscenza anche rudimentale del funzionamento del Cabinet Government inglese (certo, costituito quasi sempre da un solo partito), nel quale può manifestarsi la supremazia del Primo ministro, dovrebbe apprezzare positivamente la conduzione di Draghi.
I veri nodi da sciogliere: ristrutturazione del sistema dei partiti e accountability
A mio modo di vedere rimangono aperti due problemi: la ristrutturazione del sistema di partiti e la accountability. Il primo si presenta come un wishful thinking a ampio raggio, privo di qualsiasi conoscenza politologica. Il secondo è, invece, un problema effettivo di difficilissima soluzione.
Non conosco casi di ristrutturazione di un sistema di partiti elaborata e eseguita da un governo, dai governanti. Fermo restando che in nessuna delle sue dichiarazioni Draghi si è minimamente esposto e impegnato nella direzione di una qualsivoglia (necessità di) ristrutturazione, facendo affidamento sull’essenziale metodo della comparazione la scienza politica indica tre modalità attraverso le quali un sistema di partiti potrebbe ristrutturarsi: leggi elettorali; forma di governo; emergere di una nuova frattura politica.
Leggi elettorali, forma di governo, emergere di fratture politiche o sociali
Quanto alle leggi elettorali, pur tecnicamente molto perfezionabile, la legge Matttarella, grazie ai collegi uninominali nei quali venivano eletti tre quarti dei parlamentari, incoraggiò la competizione bipolare e la formazione di due coalizioni, che, più a sinistra che a destra, fossero coalizioni molto composite, è responsabilità dei dirigenti dei partiti. Fu un buon inizio. Oggi ci vuole molto di più per ristrutturare il sistema dei partiti. Non può essere compito di Draghi e del suo governo, ma i dirigenti dei partiti e i capicorrenti tutto desiderano meno che una legge elettorale che offra più opportunità agli elettori e più incertezza e rischi per candidati e liste.
La spinta forte alla ristrutturazione potrebbe sicuramente venire da un cambio nella forma di governo. Da questo punto di vista, il semipresidenzialismo di tipo francese è davvero promettente per chi volesse imprimere dinamismo al sistema politico italiano. Mentre mi pare di sentire da lontano le classiche irricevibili critiche alle potenzialità autoritarie della Quinta Repubblica, ricordo di averne fatto oggetto di riflessione e valutazione in più sedi (3) e respingo l’idea che all’uopo sia necessaria la trasformazione di Draghi in novello de Gaulle. Naturalmente, non sarà affatto facile per nessuno imporre una trasformazione tanto radicale se non in presenza di una non augurabile crisi di grande portata.
La terza modalità che potrebbe obbligare alla ristrutturazione del sistema dei partiti è la comparsa di una frattura sociale e politica di grande rilevanza che venga sfruttata sia da un partito esistente e dai suoi leader sia da un imprenditore politico (terminologia che viene da Max Weber e da Joseph Schumpeter).
La frattura potrebbe essere quella acutizzata e acutizzabile fra europeisti e sovranisti, sulla scia di quanto scrisse Altiero Spinelli nel Manifesto di Ventotene. Potrebbe anche manifestarsi qualora si giungesse ad una crescita intollerabile di diseguaglianze, non solo economiche, cavalcabile da un imprenditore che offra soluzioni in grado di riaggregare uno schieramento. In entrambi i casi, la ristrutturazione andrebbe nella direzione di un bipolarismo che taglierebbe l’erba sotto ai piedi di qualsiasi centro che, lo scrivo per i nostalgici, non è mai soltanto luogo di moderazione, ma anche di compromissione ovvero, come scrisse l’autorevole studioso francese Maurice Duverger, vera e propria palude.
I compiti ambiziosi su cui potremo valutare l’operato del governo Draghi e il futuro del premier in politica e nelle istituzioni
Il governo Draghi in quanto tale non può incidere su nessuno di questi, peraltro molto eventuali e imprevedibili, sviluppi. La sua esistenza garantisce lo spazio e il tempo per chi volesse e sapesse agire per conseguire l’obiettivo più ambizioso. Nulla di più, giustamente. Draghi e il suo governo vanno valutati con riferimento alle loro capacità di perseguire e conseguire il rinnovamento di molti settori dell’economia italiana, la riforma della burocrazia, l’ammodernamento della scuola e l’introduzione di misure che producano maggiore e migliore coesione sociale. Sono tutti compiti necessariamente ambiziosissimi.
Per valutarne il grado di successo bisognerà attendere qualche anno, ma fin d’ora è possibile affermare che il governo ha impostato bene e fatto molto.
Qui si situa il discorso che non può essere sottovalutato sul futuro di Draghi in politica e nelle istituzioni. I precedenti di Lamberto Dini e di Mario Monti dovrebbero scoraggiare Draghi a fare un suo partito, operazione che, per quel che lo conosco, non sta nelle sue corde e non intrattiene. Ricordando a tutti che Draghi è stato reclutato per un incarico specifico: Presidente del Consiglio (dunque, sì, in democrazia le autorità possono essere tirate per la giacca!), procedere alla sua rimozione per una promozione al Colle più alto, richiede convincenti motivazioni, sistemiche prima ancora che personali.
È assolutamente probabile, addirittura inevitabile, che, senza farsene assorbire e sviare, Draghi stesso stia già valutando i pro e i contro di una sua ascesa al Quirinale.
Non credo che il grado di avanzamento nell’attuazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza sarà già a fine gennaio 2022 tale da potere ritenere che viaggerà sicuro senza uscire dai binari predisposti dal governo. Però, è innegabile che esista il rischio che il prossimo (o prossima) Presidente non sia totalmente sulla linea europeista e interventista del governo Draghi. Così come è reale la possibilità che il successore di Mattarella sia esposto a insistenti e possenti pressioni per lo scioglimento del Parlamento e elezioni anticipate con la vittoria annunciata dei partiti di destra e dunque governo nient’affatto europeista, se non addirittura programmaticamente sovranista.
L’ipotesi plausibile di Draghi al Quirinale alle prese con la formazione del governo dopo le elezioni del 2023: verso una coabitazione all’italiana?
Non è, dunque, impensabile che negli incontri che contano Draghi si dichiari disponibile ad essere eletto Presidente della Repubblica.
A partire dalla data della sua elezione Draghi avrebbe sette anni per, se non guidare, quantomeno orientare alcune scelte politiche e istituzionali decisive.:
- Anzitutto, non procederà a sciogliere il Parlamento se vi si manifesterà una maggioranza operativa a sostegno del governo che gli succederà.
- Avrà voce in capitolo nella nomina del Presidente del Consiglio e di non pochi ministri.
- Rappresenterà credibilmente l’Italia nelle sedi internazionali.
Qualora dopo le elezioni del 2023 si formasse eventualmente un governo di centro-destra Draghi Presidente della Repubblica ne costituirà il contrappeso non soltanto istituzionale, ma anche politico per tutta la sua possibile durata.
In questa chiave, forse, si può, ma mi pare con non grandi guadagni analitici, parlare di semipresidenzialismo di fatto nella versione, nota ai francesi, della coabitazione: Presidente versione europeista contrapposto a Capo del governo di persuasione sovranista. Il capo del governo governa grazie alla sua maggioranza parlamentare, ma il Presidente della Repubblica può sciogliere quel Parlamento se ritiene che vi siano problemi per il buon funzionamento degli organismi costituzionali (ed è probabile che vi saranno).
L’irresponsabilità del capo di governo non politico. Uno stato di necessità e un vulnus non attribuibile a Draghi.
Concludo con un’osservazione che costituisce il mio apporto “originale” alla valutazione dei governi guidati da non-politici.
Ribadisco che non vedo pericoli di autoritarismo e neppure rischi di apatia nell’elettorato e di conformismo.
Nell’ottica della democrazia il vero inconveniente del capo di governo non-politico è la sua sostanziale irresponsabilità. Non dovrà rispondere a nessuno, tranne con un po’ di sana retorica a sé stesso e alla sua coscienza, di quello che ha fatto, non fatto, fatto male.
Poiché la democrazia si alimenta anche di dibattiti e di valutazioni sull’operato dei politici, l’irresponsabilità, cioè la non obbligatorietà e, persino, l’impossibilità di qualsiasi verifica elettorale a meno che Draghi intenda, commettendo, a mio modo di vedere, un errore, creare un partito politico oppure porsi alla testa di uno schieramento, esistente o da lui aggregato, rappresenta un vulnus. Non è corretto attribuire il vulnus a Draghi, ma a chi ha creato le condizioni che hanno reso sostanzialmente inevitabile la sua chiamata. Ne ridurremo la portata grazie alla nostra consapevolezza dello stato di necessità, ma anche se i partiti e i loro dirigenti sapranno operare per impedire la futura ricomparsa di un altro stato di necessità. È lecito dubitarne.
Note al testo
- Ho criticato le loro analisi e proposte in un breve articolo: Cfr. Gianfranco Pasquino, “Ma di cosa parlate, cosa scrivete?”, Comunicazione Politica, XXII, (1), gennaio-aprile, pp.103-108.
- Ernesto Galli della Loggia, “Il sistema politico che cambia”, Il Corriere della Sera, 8 settembre 2021.
- Si vedano i miei contributi in: Stefano Ceccanti, Oreste Massari, Gianfranco Pasquino, Semipresidenzialismo. Analisi delle esperienze europee, Bologna, il Mulino, 1996, 148 p. e il capitolo conclusivo: “Una Repubblica da imitare?” del libro da me curato insieme a Sofia Ventura, Una splendida cinquantenne: la Quinta Repubblica francese, Bologna, il Mulino, 2010, 283 p. [pp. 249-281].
Pubblicato il 14 settembre 2021 su Key4biz