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Era una crisi buia e tempestosa… Pasquino legge Renzi (e Mattarella) @formichenews
Qualcuno dovrebbe andare a vedere le carte renziane. Ma non stiamo giocando a poker e chiamare il bluff è pericolosissimo, tanto per i partiti di governo quanto per il sistema politico di oggi e di domani. Meglio ascoltare il richiamo di Mattarrella. Il commento di Gianfranco Pasquino
Finalmente una (non)bella crisi al buio. La crisi è, non facciamo finta di niente, conclamata. Non è neanche possibile sostenere che è un ritorno alla tanto, erroneamente, biasimata Prima Repubblica. Infatti, nella stragrande maggioranza dei casi, allora tutti sapevano che la crisi si sarebbe chiusa in venti-trenta giorni, non di più (tranne la clamorosa eccezione, protagonisti il defenestrato De Mita, Craxi, Andreotti, e Cossiga, con la crisi che durò dal 19 maggio al 23 luglio 1989). Non sempre veniva cambiato il presidente del Consiglio. Infatti, ci sono stati molti bis; sempre “girava” qualche ministro per accontentare le correnti e per dare l’idea di nuovo slancio. Con bassi tassi di rendimento il sistema politico funzionava.
Adesso, il problema è che il rottamatore d’antan non sa esattamente che cosa vuole e che cosa non vuole. Forse, ha ingaggiato un duello personale prima che politico con Conte. Lui sostituirlo non può, ma di sostituti plausibili dentro la coalizione attuale non se ne vedono. Tutto il balletto sulle sue ministre che non sono attaccate alle “poltrone” (ho cercato, ma non trovato, questa parola nella costituzione, forse cariche?) serve soltanto a fare sapere che sono i capi dei partitini che scelgono i/le ministri/e e ne dettano i comportamenti. Che tristezza.
Quello sull’assegnazione dei fondi europei, invece, è un problema molto più serio. È talmente serio che il Presidente della Repubblica, immagino profondamente infastidito dal comportamento di chi ha plaudito al suo discorso di fine anno nel quale aveva auspicato l’avvento del tempo dei “costruttori” e si esibisce in senso contrario, ha fatto sapere che prima di qualsiasi altro movimento/minaccia/ricatto i protagonisti debbono mettere in salvezza quei fondi. Per quel che conta approvo la richiesta di Mattarella che mi sembra molto più che una semplice “moral suasion” e che avrà conseguenze sui prossimi comportamenti presidenziali. Non so se basterà a frenare chi, avendo cominciato le ostilità, non sa oggettivamente più dove andare.
Qualcuno dovrebbe, forse, andare a vedere le carte renziane, ma poiché non stiamo giocando a poker, chiamare il bluff è pericolosissimo, non soltanto per i partiti di governo, ma per il sistema politico di oggi e di domani, addirittura per la Next Generation. Di qui l’importanza del richiamo secco presidenziale. Il tris di Conte non è impossibile, ma richiede qualche legittimo rimescolamento parlamentare (d’altronde, Italia Viva è già un modesto monumento alla possibilità di rimescolamenti). Anche se vedo qualche sceneggiata, data la gravità della situazione, non finirò dicendo che la telenovela continua. Qualche volta guadagnare tempo serve a qualcuno per riflettere e imparare qualcosa. Vado sul banale (non meno vero): “Gli italiani non capirebbero”, sostengono i sostenitori dell’esistente. “Al Paese non serve una crisi”, annunciano i sostenitori del crisaiolo. Tutti vediamo, però, che non soltanto la notte è “buia e tempestosa”.
Pubblicato il 11 gennaio 2021 su formiche.net
Leader eterni Italia immobile
È una buona notizia per la Repubblica italiana vedere nella tabella della longevità dei parlamentari, deputati e senatori, tanti nomi molto illustri (anche se non tutti l’hanno “illustrata”): presidenti della Repubblica, capi di governo, pluriministri. Insomma, ecco il Gotha della politica italiana dal 1945 a oggi. Ovviamente, sono numericamente più presenti e visibili coloro che hanno saputo sopravvivere alla crisi e allo sconquasso del periodo 1992-1994, ma ipotizzerei che è solo questione di un paio di legislature e anche non pochi di coloro che erano il nuovo nel 1994 entreranno nella competizione per la durata in carica con il ceto politico-parlamentare che fece la sua comparsa nel 1946.
La longue durée esiste anche in altre democrazie parlamentari europee: Felipe Gonzales fu eletto la prima volta nel 1977 e rimase deputato fino al 2000 (dal 1982 al 1996 Presidente del governo spagnolo); Helmut Kohl, eletto nel 1983 (ma Presidente del Land Renania-Palatinato già nel 1969), deputato fino al 2002, cancelliere dal 1982 al 1998; entrato a Westminster nel 1983, Jeremy Corbyn è stato da allora ripetutamente rieletto; Angela Merkel è deputata dal 1990 e Cancelliera dal 2005, in vista di diventare “longeva” quanto il suo mentore. Però, tutte queste carriere “straniere” sono in qualche misura eccezionali nei loro paesi e, complessivamente, impallidiscono di fronte al numero di legislature che hanno cumulato non una dozzina di parlamentari italiani, ma un centinaio e più. Troppo facile e, almeno parzialmente, sbagliato addebitare queste “carriere” alla legge elettorale proporzionale poiché i longevi sono riusciti a farsi ri-eleggere anche con il Mattarellum, tre quarti maggioritario in collegi uninominali. Per alcuni conta anche essere stati nominati a Senatori a vita, Andreotti, Colombo, De Martino, Fanfani, Taviani o esserlo diventati di diritto come ex-Presidenti Scalfaro, Leone, Cossiga, Napolitano. Altri furono segretari dei loro partiti oppure potenti capi di correnti. Molto conta anche l’assenza di alternanza al governo del paese. In pratica, non risultando mai sconfitti, i numerosi governanti potevano essere sostituiti fisiologicamente quasi soltanto per ragioni d’età. Quanto agli oppositori che non potevano vincere, i missini rimanevano graniticamente nelle loro cariche parlamentari (Giorgio Almirante per 40 anni dal 1948 al 1988), mentre i comunisti procedevano a ricambi periodici dopo due/tre legislature, ma esisteva un gruppo dirigente di trenta-quaranta persone sicure, a prescindere, della rielezione. Politici di professione, nessuno di loro si pose mai il problema del vitalizio. Per lo più, morirono in carica.
Poiché le idee camminano davvero sulle gambe degli uomini e delle donne (incidentalmente, si noti che fra i cento parlamentari più longevi compare una sola donna: Nilde Iotti), il lentissimo e limitatissimo ricambio dei parlamentari italiani in tutta la prima lunga fase della Repubblica portò all’esaurimento di qualsiasi proposta innovativa. Dopo l’impennata del ricambio grazie all’ingresso nel 1994 di rappresentanti di Forza Italia quasi sostanzialmente privi di precedenti esperienze politiche, però, anche dentro Forza Italia hanno fatto la loro comparsa e si sono affermate vere e proprie carriere politiche. La svolta successiva, numericamente persino più significativa di quella prodotta da Forza Italia, è caratterizzata dall’avvento tumultuoso del Movimento 5 Stelle nel febbraio 2013. Con quei “cittadini” che sono diventati parlamentari si poté constatare che il ricambio cospicuo ha un costo, elevato, in termini di competenze e capacità, di funzionamento del Parlamento, dell’attività di opposizione, che, insomma, parlamentari non ci si improvvisa.
Trovare un equilibrio fra esperienza e (capacità di) innovazione non è, comprensibilmente, affatto facile. È un compito che in parte dovrebbe essere nelle mani degli elettori. Non ci riusciranno in nessun modo, però, se le leggi elettorali non hanno collegi uninominali, ma si caratterizzano per l’esistenza di pluricandidature, che tutelano i gruppi dirigenti, e di candidature bloccate. Porre limiti temporali ai mandati parlamentari favorisce il ricambio a spese dell’acquisizione di esperienza e competenza, ma, soprattutto, rischia di ridurre il potere di scelta degli elettori avvantaggiando unicamente i gruppi dirigenti che “nominano” i loro parlamentari. Nessuno maturerà più vitalizi di notevole entità, ma diventeranno pochi coloro disposti a investire le loro risorse personali e professionali nell’attività parlamentare. Non è impossibile fare peggio. Dare più potere agli elettori nella scelta dei candidati, meglio in collegi uninominali, senza vincolo di mandato, e nella bocciatura, è il modo migliore per impedire la ricomparsa di classi politiche tanto longeve quanto immobiliste.
Pubblicato il 24 settembre 2017
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Lelio Basso, passioni e contraddizioni
Articolo pubblicato in
FILOSOFIA E SPAZIO PUBBLICO
viaBorgogna3 il magazine della Casa della Cultura, anno II n 5
Non nutro nessun dubbio sulla grandezza della figura di Lelio Basso nella storia del socialismo italiano e nella politica. Mi rallegro, pertanto, della pubblicazione di due importanti libri (Chiara Giorgi, Un socialista del Novecento. Uguaglianza, libertà e diritti nel percorso di Lelio Basso, e Giancarlo Monina, Lelio Basso, leader globale. Un socialista nel secondo Novecento, entrambi pubblicati da Carocci, rispettivamente, 2015, pp. 276, Euro 30,00 e 2016, pp. 439, Euro 39,00) che ricostruiscono in maniera approfondita e simpatetica tutto il lungo, complicato, fecondo percorso personale, culturale, politico di Basso. Rimando i lettori ai dettagli e alla visione d’insieme che troveranno nei due densi testi. Qui, vorrei svolgere un’opera più ristretta e più focalizzata dedicandomi a enucleare quello che ho imparato da Basso facendo riferimento non soltanto ai suoi successi, ma anche alle sue sconfitte, che neppure lui avrebbe trascurato e che sono ricche di insegnamenti, fra contraddizioni e discriminazioni. Lo farò, in maniera irrituale, ripercorrendo i miei incontri, una sola volta di persona, con i suoi scritti e le sue molteplici attività, e collegandoli a quanto ho letto e imparato nella biografia dedicatagli.
La prima volta che mi sono imbattuto in Lelio Basso risale all’inizio della mia vita di studente universitario. Fu nel 1962 all’Istituto di Scienze politiche di Torino la cui piccola biblioteca aveva appena acquistato una copia del grosso volume Le riviste di Piero Gobetti, a cura di Lelio Basso e Luigi Anderlini, Milano, Feltrinelli 1961. Mi fu concesso in prestito limitato a pochi giorni. Ne divorai l’introduzione che mi incoraggiò anche a leggere La rivoluzione liberale di Gobetti, fra l’altro, uno degli autori preferiti da Norberto Bobbio, il cui corso di Scienza politica stavo seguendo. A quelle letture e a quell’insegnamento, certo rafforzato anche da altri docenti in quello che, allora, era soltanto il Corso di laurea in Scienze Politiche, scaturì gran parte della mia ammirazione per il Partito d’Azione (che ebbe anche Basso). Sono molto d’accordo con quanto scrive Giorgi: “l’attenzione e l’amicizia di Basso nei confronti di Gobetti rappresentano un aspetto molto importante della biografia bassiana, è lo stesso Basso a riprendere e sottolineare in modo diretto molte delle pagine gobettiane, così come a far propri, ma perché comuni, alcuni dei precetti, ma anche degli aspetti umani di Gobetti ” …: “un atteggiamento ‘eroico’ nei confronti della vita, una tensione etica, un’intransigenza morale … l’impegno per la costruzione di ‘una nuova cultura politica’” (Giorgi, p. 33). Tutti questi tratti si ritrovano nella attività culturale e nella vita politica di Lelio Basso e sono messi a durissima prova nelle moltissime difficoltà che Basso incontrò.
La nuova cultura politica alla cui costruzione Basso si dedicò in maniera indefessa non fu, però, innestata unicamente nel solco del pensiero gobettiano, inevitabilmente appena accennato. Consistette soprattutto nella riflessione sul marxismo, in buona parte riletto con gli occhiali eterodossi di Rosa Luxemburg, certamente la teorica marxista da lui preferita, con l’obiettivo di trovarvi o di pervenire ad una “scienza della rivoluzione”. Il rimando bibliografico è, ovviamente, alla sua curatela e alla lunga introduzione a Gli scritti politici di Rosa Luxemburg (Roma, Editori Riuniti 1967, tradotti in varie lingue). Faccio un salto temporale, proprio per seguire la riflessione concettuale poiché Basso, in uno scambio con Bobbio, “che si ripeterà nel tempo in una rispettosa e amichevole distanza di idee” (Monina, p. 194), avrebbe poi dovuto confrontarsi con l’interrogativo posto nel 1975 dal filosofo torinese, in primis, ai comunisti, ma anche a tutti coloro che si dichiaravano marxisti, sull’esistenza di una teoria marxista dello Stato. Nonostante numerose e, rilette oggi, imbarazzanti capriole dell’intelligentsia comunista italiana che, narcisisticamente, si esibì sul tema, non venne nessuna risposta. Però, neppure il marxismo di Basso, incentrato com’era su trasformazioni sociali, fu in grado di dare una risposta alla domanda di Bobbio. Anzi, scrivendo che “quel che deve interessare il marxista è perciò lo svolgimento del processo [rivoluzionario] e il fatto che in esso si affermino valori e istituti a connotazione socialista” (corrispondenza privata, maggio-giugno 1978, citata da Monina, p. 415), Bassi evadeva alla grande l’interrogativo. Enfaticamente, potrei aggiungere che la risposta l’ha data la storia dei regimi comunisti con il loro tonfo.
Il mio secondo “incontro” con Basso avvenne in occasione del mio debutto quale elettore della Repubblica italiana nel 1963. Telefonai alla Federazione del Partito Socialista Italiano di Torino (Corso Valdocco) per sapere quali erano i candidati “vicini” a Antonio Giolitti e quali i “bassiani” ai quali avrei voluto dare i miei voti di preferenza. Mi fu riposto che non c’erano correnti nel PSI. Ricordo questo avvenimento poiché ripetutamente Monina sottolinea quanto difficile era la vita politica dei sostenitori di Basso dentro il partito, soprattutto, ovviamente, in vista di quelle elezioni che avrebbero aperto la strada al centro-sinistra “organico” il cui primo governo vide la partecipazione di Antonio Giolitti come ministro del Bilancio.
Il terzo incontro avvenne una decina d’anni dopo. Purtroppo, non ne ricordo appieno i particolari. Dopo i sanguinosi colpi di Stato dei militari in America latina (nell’ordine, Brasile, Uruguay e Cile), Basso aveva dato vita al Tribunale Russell II proprio per giudicare, che, in sostanza, significava gettare maggiore luce informativa sulle organizzazioni militari di quei paesi e soprattutto sui crimini commessi e, ovviamente, impuniti dei governi militari. Immediatamente dopo il golpe cileno avevo pubblicato, grazie ai buoni uffici di Giorgio Galli, sulla rivista “Critica Sociale” diretta da Giuseppe Faravelli, due non brevi articoli sul Cile: Militarismo e imperialismo contro Unidad Popular. Inoltre, insegnavo Storia e istituzioni dell’America latina all’Università di Firenze. Qualcuno deve avere suggerito il mio nome a Basso fatto sta che mi venne chiesto di scrivere un testo sul ruolo politico dei militari brasiliani, quasi un position paper, direbbero gli americani, sullo stato delle conoscenze in materia. So che il testo fu pubblicato in qualche forma (mi rammarico di non averne copia) dal Tribunale Russell e che ne fu fatta un’ampia diffusione. In parte lo ripresi per pubblicarlo, con l’autorizzazione del Tribunale, sulla rivista “il Mulino” nel 1974.
Il Tribunale Russell, la cui attività iniziò per giudicare i crimini di guerra degli USA in Vietnam, costituì una delle innumerevoli attività internazionali di Lelio Basso negli anni sessanta e settanta. Monina ne dà un’accurata descrizione dalla quale emergono due elementi degni di nota: primo, l’enorme ampiezza dei contatti di Basso con dirigenti politici e studiosi di sinistra in Europa e in America latina, ma anche la loro disorganizzazione e disomogeneità; secondo, l’apprezzamento e la stima, testimoniata anche dalla miriade di inviti ricevuti,di cui godeva Basso la cui autorità, direi molto più intellettuale che politica, era unanimemente riconosciuta. Non posso trattenermi dall’aggiungere che nessuna di queste attività e nessuno di questi riconoscimenti avevano ricadute positive nella situazione politica italiana.
Al contrario, è la sua incisiva e appassionata attività all’Assemblea Costituente a rimanere uno dei lasciti più importanti, più apprezzati, più duraturi. Giorgi intitola il capitolo sul tema “La fantasia giuridica del costituente”. C’è molto di più, direi “La passione politica del democratico”. Basso fu, unitamente a Fanfani, l’autore di quello che è, a parere di molti (e, per quel che conta, anche mio), l’autore dell’articolo 3, spesso sbrigativamente definito l’articolo sull’eguaglianza. In quell’articolo c’è molto di più della statuizione dell’eguaglianza di fronte alla legge e del rifiuto delle discriminazioni di qualsiasi tipo e delle loro “giustificazioni”. Vi si trovano limpidamente indicate le culture politiche, liberale, cattolico-democratica, social comunista, ai cui principi e alla cui volontà di collaborazione reciproca siamo debitori della Costituzione e, soprattutto, c’è una innovativa e potente concezione, non dello Stato, ma della convivenza organizzata sotto forma di Repubblica. Sono gli italiani, siamo noi la Repubblica che deve “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale … che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese”. Basso fu giustamente orgoglioso del suo contributo alla stesura di questo articolo. Intervenendo in Assemblea Costituente, ebbe modo di argomentare (come opportunamente riportato da Giorgi, p. 176) che “la democrazia si difende […] non cercando di impedire o di ostacolare l’attività dei poteri dello Stato, ma, al contrario, facendo partecipare tutti i cittadini alla vita dello Stato […]. Solo se noi otterremo che tutti siano effettivamente messi in condizione di partecipare alla gestione economica e sociale della vita collettiva, noi realizzeremo veramente una democrazia”.
L’altro suo importantissimo contributo fu data alla scrittura dell’art. 49, quello noto in maniera un po’ riduttiva e persino fuorviante come l’articolo sui partiti. In verità, l’articolo riguarda il “diritto dei cittadini ad associarsi liberamente in partiti”. Per Basso i partiti sono “la più alta espressione della democrazia, perché consentono a milioni di cittadini di diventare ogni giorno partecipi della gestione politica del Paese” (Giorgi, p. 202). Molto giustamente Giorgi nota il nesso tra l’articolo 49, l’articolo 1 e l’articolo 3 e più avanti riporta uno scritto nel quale Basso sostiene che “la classe si dà un’organizzazione politica: questa è il partito”. Nello stesso periodo, Palmiro Togliatti affermava “i partiti sono la democrazia che si organizza”. Neppure vent’anni dopo Bobbio si interrogava se i partiti fossero ancora un tramite fra cittadini e potere politico oppure non si fossero trasformati in un diaframma. Quanto alla pratica, Basso uomo di partito ebbe enormi traversie. “Fermamente contrario all’ipotesi di scissione” (Monina, p. 199), se ne andò dal PSI nel gennaio 1964; convinto dell’importanza della disciplina di partito, terminò la sua esperienza politica come “indipendente anche nel gruppo [della Sinistra] indipendente” (Monina, p. 325). Fu talmente indipendente da votare il 6 agosto 1976 contro il primo governo Andreotti della solidarietà nazionale, quello sostenuto dall’esterno dai comunisti che lo avevano debitamente rieletto nelle elezioni del 20 giugno. Un anno dopo avrebbe poi anche contraddetto frontalmente la politica di Enrico Berlinguer affermando che “le parole d’ordine del ‘compromesso storico’ e dell”austerità’ non sono certo ‘adatte a suscitare entusiasmo e a convincere la gioventù d’oggi'” (Monina, p. 402).
Dal novembre 1983 al 1 febbraio 1985, fui tra i componenti della Commissione Bicamerale per le Riforme Istituzionali presieduta dall’on. Aldo Bozzi (PLI). Mi preparai leggendo una pluralità di testi di interpretazione e di valutazione della Costituzione. Oltre a quelli, fondamentali di Piero Calamandrei e di Costantino Mortati, lessi il libro di Basso, Il Principe senza scettro. Democrazia e sovranità popolare nella Costituzione e nella realtà italiana (Milano, Feltrinelli, 1958). Sono in grado di misurare le distanze fra la visione complessiva di Basso e le riforme, fra le quali quella della legge elettorale proporzionale che Basso aveva strenuamente difeso nel 1953 contro la legge “truffa”, che proposi in quella sede. Proprio per difendere la visione complessiva di una democrazia parlamentare fondata sui partiti ritenni che bisognasse ridefinire i rapporti “elettori-partiti-Parlamento-governo” con l’obiettivo di Restituire lo scettro al principe (il titolo del mio libro pubblicato da Laterza nel 1985), con la p minuscola poiché in quegli anni, ma ancora adesso, c’è qualcuno che, contro la lettera e lo spirito della Costituzione italiana, che non evidentemente conosce abbastanza, definisce Principe il capo del governo. Proseguendo le mie riflessioni decisi di approfondire l’attività di Basso Costituente con un articolo pubblicato nel 1987 in “Quaderni Costituzionali”. Nel frattempo, per uno degli strani casi della vita, Giuseppe Branca mi commissionò il commento all’art. 49 per il monumentale Commentario alla Costituzione da lui diretto.
Qui, il mio incrocio con Basso è ancora più tortuoso, ma davvero curioso. Nel 1971, alla scadenza del suo mandato alla Corte Costituzionale, di cui era diventato Presidente, Branca doveva essere sostituito da un giudice di area socialista la cui designazione spettava al PSI. Non sta a me giudicare con quanta convinzione i socialisti designarono Basso. È molto probabile che non si siano accertati del gradimento degli altri partiti, in particolare della DC, nella quale Andreotti esercitò un intollerabile veto che portò, dopo tre votazioni, alla inevitabile rinuncia di Basso. Pochi mesi dopo Basso fu candidato “come indipendente nelle liste unitarie social comuniste [meglio PSIUP-PCI] per il collegio senatoriale di Milano” (Monina, p. 324 congiuntamente dallo PSIUP e dal PCI a Milano. Ebbe il “pieno sostegno della Casa della Cultura” (Monina, p. 325) alle cui attività aveva molto frequentemente collaborato fin dagli inizi nel 1946. Vinse e entrò nel Gruppo della Sinistra Indipendente del Senato dove nel mandato successivo avrebbe trovato Anderlini e nel quale sarei entrato anch’io nel 1983. Curiosamente, ero stato eletto (e verrò rieletto) nel collegio di Portomaggiore-Ferrara quello rappresentato per due legislature proprio da Giuseppe Branca. Direi che almeno questo piccolo cerchio si era così chiuso.
Dieci anni dopo la morte di Basso se ne tenne una commemorazione in Senato. Avevo appena curato la raccolta dei Discorsi parlamentari di Lelio Basso (Senato 1988), compito affidatomi da Fanfani e confermato da Spadolini e, naturalmente, andai alla commemorazione. Seduto in prima fila, ma molto decentrato, vicino a me rimaneva un posto libero, presto occupato da un uomo alto, elegante, con una camicia bianca appena indossata. Era Bettino Craxi il quale, come se ci vedessimo tutti i giorni (dubito si ricordasse che ci eravamo incontrati dieci anni prima in occasione dell’elaborazione del programma della Alternativa socialista), mi confidò, da un lato, senza mezze parole di non apprezzare l’oratore del momento, dall’altro, con un leggero sentimento di nostalgia di avere conosciuto Basso nello studio d’avvocato di suo padre e di essere diventato socialista anche in seguito a quell’incontro.
In conclusione, potrei limitarmi, quasi d’ufficio, a sottolineare la complessità della personalità e della vita politica di Basso, ma credo sia giusto mettere in rilievo anche tre suoi punti deboli: primo, l’atteggiamento nei confronti dell’URSS e della sua involuzione, mai criticata a fondo tanto che dovette persino difendersi dai suoi critici dopo l’invasione della Cecoslovacchia, scrivendo “non ho niente di comune con i nostalgici dello stalinismo” (Monina, p. 290) e non può esserci dubbio che lo stalinismo era quanto di più distante ci fosse dalla sua concezione del comunismo plasmata dal pensiero e dagli scritti di Rosa Luxemburg; secondo, per l’appunto, il contrasto/contraddizione fra il suo voler essere “fedele allo spirito di Marx” offrendo attraverso la rivista “Problemi del socialismo” “una base ideologica” per aiutare il comunismo occidentale “a liberarsi dagli schemi ortodossi del marxismo-leninismo” (Monina, p. 406) e i residui di quell’ortodossia dai quali lui stesso fu talvolta influenzato; terzo, il suo meno che limpido atteggiamento nei confronti dello Stato d’Israele che spingono Monina, quasi del tutto alieno dal criticare affermazioni e comportamenti di Basso, a scrivere che, in particolare nel 1974, Basso inasprì i toni della sua denuncia di Israele “adombrando scivolosi paralleli tra la persecuzione subita dagli ebrei e quella da loro inflitta ai palestinesi oppure tra Israele e il regime di apartheid sudafricano” (Monina, p. 372).
L’epigrafe più veritiera e più limpida ad una vita ben vissuta la scrisse lui stesso in una lettera alla moglie nel gennaio 1975: “Ho sbagliato molte cose nella vita, ma credo di poter dire che ho sempre agito secondo le mie convinzioni e che non mi sono mai venduto per ambizione di successo, di potere, di denaro: Mi piacerebbe se di me rimanesse solo questo ricordo” (Monina, p. 389). Rimane, ovviamente, molto di più: una mole di scritti di grande valore, una Fondazione (con la quale ho variamente, ma non intensamente, collaborato), questa bella biografia in due volumi e, soprattutto, l’esemplarità di una vita fatta di battaglie, ma anche di sconfitte dalle quali ricominciare.
Tina Anselmi. Una Italia migliore
Gli elogi impropri, esagerati, male informati provenienti da persone che non hanno mai manifestato nessun apprezzamento per la sua azione politica non avrebbero disturbato più di tanto Tina Anselmi. Non perché si sentisse superiore. Al contrario, perché il suo stile di vita, sobrio e riservato, e il suo modo di fare politica, privo di qualsiasi concessione alle esagerazioni e alla spettacolarità, semplicemente non contemplavano mai ipocrisie e servilismi. Tuttavia, quegli elogi postumi, provenienti da donne che occupano oggi posizioni di rilievo nelle istituzioni e al governo, non per la loro storia e meno che mai per provate capacità, ma perché sono state cooptate dagli uomini, segnalano qualcosa d’importante sulla politica del passato e sulla politica contemporanea. Una riflessione sul percorso personale e politico, non sulla “carriera” di Tina Anselmi serve a capirne di più e ad apprezzare le sue qualità nella misura giusta ed equilibrata che lei avrebbe certamente gradito. Questa riflessione dice anche molto sul partito della Democrazia Cristiana, vero Partito della Nazione, in grado di reclutare, di selezionare, di promuovere, di rimanere aperto, qualche volta forse fin troppo permeabile, a una pluralità di apporti e di gruppi, qualche volta non sufficientemente controllati, ma, per lo più, almeno dagli anni sessanta alla metà degli anni ottanta, capace di cogliere il merito e di premiarlo.
Nel 1975, Giampaolo Pansa pubblicò un libro di ricerca molto importante, oggi un vero documento storico: Bisaglia. Una carriera democristiana. Sfruttando senza nessuno scrupolo le sue connessioni e gli appoggi molto interessati di banche e Coldiretti, Antonio Bisaglia si costruì un Veneto, uno dei bacini più importanti, più ampi e più affidabili di voti democristiani, una carriera personale che lo portò ai vertici della DC. In contemporanea, a riprova che la politica non è inevitabilmente destinata a farsi sottomettere e dominare da interessi esterni, di qualsiasi tipo, più o meno inclini e capaci di farsi ricompensare, Tina Anselmi percorreva gradualmente con impegno un molto diverso cursus parlamentare. Eletta alla Camera dei deputati per la prima volta nel 1968, a 41 anni, fu rieletta altre cinque volte. Sottosegretaria al Lavoro in tre governi guidati da Rumor e da Moro, divenne Ministro del Lavoro (prima donna italiana) poi Ministro della Sanità nei governi guidati Andreotti. L’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale fu uno dei suoi grandi successi. In seguito, proprio per le sue caratteristiche personali, di intransigenza, non ostinazione, di equilibrio, di correttezza, fu nominata alla presidenza della Commissione che indagava sulla loggia massonica P2: un lavoro improbo e ingrato che svolse con assoluto rigore.
Nel frattempo, la DC cambiava pelle diventando, da un lato, incapace di rimanere aperta al nuovo, incapsulandosi nel soffocante schieramento dei governi del pentapartito, dall’altro, riducendo gli spazi della sinistra interna. E’ la triste, non soltanto per molti democristiani, storia dell’inizio di un declino, quasi un’eutanasia consapevole ad opera di Forlani e Andreotti. Per molte buone ragioni, Tina Anselmi, morotea per temperamento, per stile e per ammirazione politica per Moro, veniva lentamente e inesorabilmente messa ai margini. La storia successiva, con il crollo della DC e la politica della personalizzazione e della spettacolarizzazione, dell’immagine che fa aggio sulla sostanza, delle ambizioni senza nessun ritegno, non poteva più appartenerle.
E’ sempre molto rischioso andare alla ricerca delle eredità politiche e dei successori. Sicuramente, Tina Anselmi non si è mai preoccupata nella sua azione politica di costruire un lascito. La sua politica trovava una ricompensa in se stessa, nell’impegno ad agire con onestà per ottenere risultati per gli altri, per conseguire miglioramenti nelle politiche sociali, non per agitare qualche successo personale risonante. Pur consapevole di avere infranto quello che alcune donne definiscono “soffitto di cristallo” diventando la prima donna ministro, Tina Anselmi non ha mai creduto né nelle cordate di donne in politica né nelle quote che ne favorissero le ambizioni e le carriere. Pur ovviamente solidale con molte di loro, preferiva che le rivendicazioni delle donne fossero adeguatamente sostenute e giustificate dalle loro competenze e dai meriti. No, non ci sono oggi nella politica italiana donne in grado di vantare credibilmente un titolo politico (e personale) alla successione di Tina Anselmi (e neppure di Nilde Iotti, da lei stimata e ricambiata). Di questi tempi, l’esempio della buona politica di Tina Anselmi non sembra essere né di moda né imitabile.
Pubblicato AGL 2 novembre 2016
Il libro dei sogni di Renzi &Co
Stiamo fin troppo ascoltando il Presidente del Consiglio e i suoi collaboratori-corifei che ci promettono un paese dei balocchi e delle meraviglie. Sapremo chi ha vinto le elezioni la sera stessa, persino un po’ prima. Come nessun altro al mondo? Il vincitore si troverà in condizione di garantire la governabilità per cinque, lunghi, anni e farà una riforma al mese, fino ad esaurimento. L’Italicum che, pazzescamente il professor D’Alimonte definisce un sistema elettorale maggioritario (al contrario, è una variante di un sistema che assegna i seggi in proporzione ai voti e attribuisce un brutto premio di maggioranza) , ripristinerà il bipolarismo dei nostri (non di tutti) sogni. E’ a questo punto che ci siamo accorti che stavamo, per l’appunto, sognando. Per Craxi, il bipolarismo “DC-PCI” bisognava spezzarlo. Per Andreotti, il bipolarismo significava avere due forni dai quali approvvigionarsi di pane, pardon, di voti, per i suoi governi proiettati nell’impossibile eternità. Per Renzi, Boschi, Serracchiani e Guerini (ma altri si aggiungerebbero volentieri, e lo faranno), il bipolarismo è: il Partito Democratico incamera il premio di maggioranza, mentre le opposizioni, al plurale, si spartiscono in maniera assolutamente proporzionale, le briciole della frammentazione, e l’alternativa, in parlamento e nel paese viene rimandata alle calende minacciosamente greche.
In verità, a noi di quelle opposizioni non potrebbe importarcene di meno. Stanno facendo di tutto per meritarselo il loro destino di frammentazione e di irrilevanza. Berlusconi non ha ancora capito e nessuno, tranne, qualche volta, Fitto, ha finora avuto il coraggio di dirglielo, che se, fra il 2008 e il 2013 Forza Italia ha perso circa sei milioni e mezzo di voti, dal 2013 a oggi ne ha persi altri 3 milioni. Che se Lui non si fa da parte, prendendo atto che “l’autunno del patriarca” è cominciato da qualche tempo, e se non consente una seria e dura battaglia per la successione, il suo lascito politico consisterà in una nota di due righe e mezza a fondo pagina nei libri di storia (quei pochi non scritti dai “comunisti”). Noi per le note su Berlusconi non nutriamo un interesse spasmodico, ma quando pensiamo al sistema politico italiano, ci viene il dubbio euristico che, forse, la rappresentanza tanto politica (e saremmo persino disposti a scrivere “ideale”) quanto di interessi sarebbe opportuno garantirla in maniera un po’ più equilibrata.
Non siamo mai riusciti a sapere né quanto moderati né quanto liberali fossero i liberali e i moderati ai quali Berlusconi mandava promesse e dai quali traeva un’abbondante messe di voti. Più che liberali e moderati ci sono sembrati creduloni. Sappiamo, però, che nessun sistema politico può funzionare in maniera decente -“normale” non abbiamo mai capito che cosa significhi esattamente: come in Francia, in Germania, in Gran Bretagna, in Spagna, nella dimenticata Svezia?-, se una parte del paese, una parte dell’elettorato non si sente rappresentata e, forse, anche quando si sente sottorappresentata ad arte, schiacciata da massicci e artificiali premi. Ci hanno persino raccontato che i governi funzionano meglio quando l’opposizione, non frammentata, è in grado di criticare, (contro)proporre, presentare alternative. Non sembra che questa sia l’opinione prevalente fra i renziani e i loro trafelati fiancheggiatori.
Nelle notti di inverno, ma i più bravi anche nelle lunghe notti d’estate, sono soliti raccontare che i democristiani si felicitassero dell’esistenza di una opposizione comunista. Avevano ragione. Tre anni dopo la scomparsa di quei comunisti che ritenevano il partito una ditta, ma anche una scuola, persino i democristiani scivolarono silenziosamente in un cono d’ombra. Non ci fu neppure bisogno di quella rottamazione che l’ex-Cavaliere del Lavoro Silvio Berlusconi dovrebbe conoscere e praticare, anche su di sé. Sarebbe un contributo utile alla sopravvivenza di Forza Italia e, a determinate condizioni, quasi tutte da (ri)creare, al suo rilancio. Non sappiamo se gli elettori moderati e liberali se lo meritino, un qualsiasi rilancio. D’altronde, molti italiani neanche si “meritano” Renzi, la sua velocità, la sua (raccapricciante) conoscenza dell’inglese, il suo libro dei sogni, i giornalisti che, persino sdraiati/e, ne raccontano le gesta eroiche. Finirà che usciremo a guardare le stelle, nient’affatto cadenti, che già adesso continuano a essere molte più di cinque.
Pubblicato il 20 aprile 2015
Con questo articolo inizia la collaborazione del prof. Gianfranco Pasquino con TerzaRepubblica.it
La lezione di Andreatta
Intellettuale in politica. Non un intellettuale qualsiasi; non per una politica di tutte le stagioni. Un economista consapevole di dovere e sapere elaborare interventi e soluzioni tenendo conto della sua visione di lungo periodo della società preferibile. Prima nella politica aspra e confusa degli anni settanta; poi, in quella conflittuale e mediocre degli anni ottanta; infine, nel periodo breve, ma promettente, dell’Ulivo al quale aveva contribuito in maniera decisiva. Questo è stato in un’estrema sintesi, che non è mai in grado di rendere conto della complessità della persona e dell’ampiezza della sua cultura, il democristiano Nino Andreatta. In questi tempi, difficilissimi per i frastornati partiti italiani, probabilmente Andreatta continuerebbe a fare appello a quella che era la sua concezione del partito migliore: un partito di popolo, Volkspartei. Non un partito di classe, non un partito di interessi aggregati, non un partito territoriale: un partito capace di dare rappresentanza e governo a una comunità, appunto ad un popolo.
Si rallegrerebbe di fronte alla vittoria chiara e netta di quel grande partito di popolo che è la Democrazia Cristiana tedesca. Così avrebbe voluto vedere anche la DC italiana mentre ne coglieva i sintomi della degenerazione e del declino. Non per questo si arrese. Al contrario, dopo avere combattuto la finanza alquanto fraudolenta del Vaticano e dello IOR, per un lungo decennio, quello del CAF, Craxi-Andreotti-Forlani, gli venne impedito l’accesso a qualsiasi carica di governo. Però, la Democrazia Cristiana non era in grado di fare a meno delle sue competenze e, dunque, Andreatta fu ripetutamente Presidente della Commissione Bilancio del Senato. Rimasi frequentemente colpito da due importanti segnali del prestigio e dell’apprezzamento, oggi diremmo “trasversale”, di cui godeva. Da un lato, elemento minore, ma nient’affatto poco significativo, i commessi gli si rivolgevano con il termine Professore riconoscendogli qualità molto superiori a quelle di qualsiasi senatore. Dall’altro, in quella inquieta e spesso rumorosa aula parlamentare, soltanto quando prendeva la parola Nino Andreatta si faceva silenzio. Compagni di partito, opposizione, uomini al governo tutti tacevano e ascoltavano con attenzione. C’era sempre qualcosa da imparare; c’era sempre sostanza nei discorsi di Andreatta, del professore.
Anche i comunisti, mi raccontò una volta con tono beffardo, appallottolato in un taxi che ci portava da Fiumicino al Senato, erano oramai in condizioni di imparare, da quando reclutavano gli “economisti borghesi” suoi allievi. Il riferimento era a Filippo Cavazzuti, eletto, dai comunisti, Senatore della Sinistra Indipendente. Quanto a lui, non ebbe mai vita facile nella Democrazia Cristiana anche perché il suo politico di riferimento era stato Aldo Moro. Combatté molte battaglie, fino all’ultimo, convinto che il rigore nel bilancio dello Stato fosse molto più che un problema di conti. Era un modo di concepire una società capace di governarsi senza sciupare le sue risorse, ma destinandole al miglioramento delle condizioni di vita dei meno fortunati. Questo fa un partito di popolo. A questo contribuisce un intellettuale, degno di questo appellativo, in politica.
Il libro Un economista eclettico. Distribuzione, tecnologie e sviluppo nel pensiero di Nino Andreatta
A. Quadrio Curzio, C. Rotondi (a cura di). Edizioni Il Mulino
verrà presentato alla Sala dello Stabat Mater dell’Archiginnasio di Bologna, giovedì 3 ottobre alle ore 17.