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Le frittate dello chef del Nazareno
“Non tutte le frittate finiscono per venire bene” è il commento di Romano Prodi, che, avendone fatte, di frittate se n’intende, a quello che ha tentato Pisapia per mettere insieme le sparse membra della sinistra e del PD. Troppo facile attribuire tutte le responsabilità all’improvvisato e velleitario Master Chef di Campo Progressista. Altrettanto facile, ma ugualmente inadeguato sostenere che hanno sbagliato tutti. Chi ha più potere ha anche maggiori responsabilità. Che Alfano, persino troppo premiato dal PD: Ministro degli Interni e Ministro degli Esteri nella stessa legislatura, se ne vada è certamente un danno per il PD di Renzi il quale, probabilmente, fa molto affidamento su quanto il manovriero toscano Denis Verdini riuscirà a combinare sul versante di centro. Tuttavia, il vero problema è sapere se le energie, in verità non molte, non tutte nuove, sollecitate da Pisapia si disperderanno oppure confluiranno nello schieramento che si è creato alla sinistra del PD: Liberi e Uguali, composto da Art. 1-MDP, Sinistra Italiana, Possibile.
Pensare che quello schieramento potesse essere, prima raggiunto dall’ambasciatore Piero Fassino, già rivelatosi esageratamente renziano, poi convinto a stilare qualche tuttora imprecisato accordo con il PD, era ovviamente un nient’affatto pio desiderio. Spesso apertamente offesi da Renzi e dai suoi collaboratori, di volta in volta variamente delegittimati e dichiarati “inutili” (essendo “utile” solo il voto al PD), gli uomini e le donne alla sinistra del PD hanno deciso che giocheranno le loro carte nella campagna elettorale che sta per iniziare. Renzi, l’uomo solo al comando, colui che con l’Italicum aveva imposto che le coalizioni non potessero formarsi, si trova adesso ad allettare tutti quei partitini che un tempo, anche quello dell’Ulivo, si chiamavano “cespugli”. Addirittura qualcuno suggerisce che l’unico modo per evitare l’annunciata sconfitta del Partito Democratico sarebbe quello di tornare a sperimentare la desistenza in un incerto numero di collegi uninominali a favore dei candidati Liberi e Uguali.
Certo, le desistenze mirate del 1996 permisero all’Ulivo di vincere le elezioni e a Rifondazione di ottenere un buon gruzzolo di parlamentari che fecero ruzzolare Prodi due anni e mezzo dopo, cambiando, in peggio, la storia politica dell’Italia. Adesso, però, la legge elettorale Rosato, non casualmente accettata e votata dai parlamentari di Berlusconi, ha meccanismi meno favorevoli alla desistenza (e, comunque, dispone di un numero molto minore di collegi uninominali dell’allora vigente legge Mattarella). Le tecnicalità della legge elettorale contano, ma, ovviamente, le distanze programmatiche e le personalità contano molto di più e possono risultare decisive. “Liberi e Uguali” non hanno neanche bisogno di ripeterlo, ma dovrebbe essere oramai evidente a tutti che per loro Renzi non può essere il candidato alla carica di Presidente del Consiglio. Né potrà essere colui che detterà l’agenda del molto eventuale governo Gentiloni-bis. Quell’agenda, infatti, dovrà ricomprendere misure molto precise di ridefinizione/correzione delle due leggi di cui Renzi si vanta di più: il Jobs Act e la Buona Scuola e, magari, anche delle modalità con le quali stare e agire nell’Unione Europea. Era proprio sulla messa in discussione di queste controverse leggi, nonché sull’impegno forte a fare approvare lo jus soli, che le sinistre sarebbero state disponibili a confrontarsi con il capo del Partito Democratico. Fino alla presentazione delle liste delle candidature è possibile a coloro che intendano evitare di consegnare il prossimo governo al centro-destra o al Movimento Cinque Stelle cercare qualche forma di accordo. Al momento, però, stiamo assistendo a un brutto spettacolo, di cui è il ristretto gruppo dirigente del PD a portare le maggiori responsabilità, che probabilmente si tradurrà in una frittata immangiabile da molti elettori e indigeribile.
Pubblicato AGL l’8 dicembre 2017
Quelle incerte traiettorie
Nessun paletto e nessuna abiura è la linea morbidamente dettata dal segretario Renzi alla Direzione del Partito Democratico. I toni meno cattivi e meno trionfali non intaccano minimamente la sostanza del discorso politico. Renzi non vuole cambiare le politiche da lui imposte quando era Presidente del Consiglio che, però, sono proprio una delle ragioni per le quali Sinistra Italiana si era rapidamente allontanata dal governo e il Movimento Democratico e Progressista ha fatto la scissione. Se non abiure, almeno l’indicazione chiara di quali correzioni di rotta il segretario avrebbe potuto darla. È rimasto nel vago mirando soprattutto a non antagonizzare le minoranze interne al suo partito. All’esterno, Renzi ha delineato una strategia che in altri tempi sarebbe stata chiamata pigliatutti: la formazione di una coalizione (un tempo parola e fenomeno da lui sdegnosamente respinti: è questa, oggi, un’abiura?) che va da MDP e da quel che c’è di Campo Progressista a quel che rimane, pochino pochino, di Scelta Civica più la non troppo in buona salute Alternativa Popolare di Angelino Alfano. Sulla porta restano i radicali e un embrionale raggruppamento pro-europeista. Insomma, anche a causa di una brutta legge elettorale che impone le coalizioni, Renzi disegna qualcosa che sembra soprattutto un cartello elettorale in grado di opporsi, di fare argine a quelli che lui definisce populismi. Ma non tutto quello che non ci piace può essere definito e esorcizzato come “populismo”.
Nel centro-destra fieramente populista, ma anche sovranista, è il leader della Lega Matteo Salvini e, forse, ma, in verità, poco, Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, decisamente più sovranista che populista. Incredibilmente grande è la sottovalutazione del potenziale populismo che Berlusconi scatenerà, altro che “moderati”, al momento opportuno. Alla sinistra del PD, almeno per due terzi, dicono i sondaggi, sta il populismo “felicemente decrescente” a mio modo di vedere, del Movimento Cinque Stelle nel cui consenso politico-elettorale che non accenna a diminuire gioca moltissimo la protesta per le molte cose che non vanno in Italia. Lo schieramento suggerito da Renzi si avvicina moltissimo alla tanto deprecata Unione di Prodi che vinse molto risicatamente le elezioni del 2006, poi non riuscendo a tenere insieme le troppo variegate posizioni e preferenze cadde rovinosamente neppure due anni dopo. Apertamente, sia Prodi, l’Ulivista, sia Veltroni, il primo segretario del Partito Democratico, hanno manifestato forti perplessità sul futuro del partito guidato da Renzi, il primo chiamandosi fuori, il secondo lanciando un appello più sentimentale che nutrito da elementi politici. Naturalmente, il tentativo di trovare punti di convergenza e di accordo in quel che si trova a sinistra –dire che “si muove” mi parrebbe troppo lusinghiero– non finisce qui.
Inevitabilmente, ci sono personalismi che sembrano incompatibili e insuperabili. Ci sono prospettive di carriera, che, senza negare l’esistenza di convinzioni politiche, riguardano anche i presidenti delle due Camere, oltre che i molti parlamentari alla ricerca di quella ricandidatura che Renzi più di altri può garantire. Ci sono, infine, nodi programmatici irrisolti e priorità non dichiarate. Aspettare l’emergenza assoluta e trovare un accordo tecnico esclusivamente per non finire del baratro della sconfitta annunciata non è affatto una buona idea. A meno che, con una buona dose di cinismo, qualcuno nel PD pensi che, tutto sommato, il Partito non andrà così male e dovrà comunque essere preso in considerazione per formare il prossimo governo, da Berlusconi o chi per lui. La traiettoria da altezzoso partito a vocazione maggioritaria ad alleato subalterno dovrebbe turbare i sonni dei Democratici (e dei loro elettori). O no?
Pubblicato AGL il 14 novembre 2017
Questa legge elettorale fa felici leader di partito e capicorrente. E il voto di fiducia è una grave forzatura
Intervista raccolta da Marco Sarti
Il politologo Gianfranco Pasquino: “La richiesta del voto di fiducia viene da Renzi, Gentiloni si è solo adeguato. Ma sulle leggi elettorali è il Parlamento che deve decidere. Questa riforma iniqua e poco democratica toglie il potere agli elettori e lo consegna ai capicorrente.
La scelta del governo di porre la questione di fiducia sul Rosatellum rappresenta una forzatura istituzionale. In tema di leggi elettorali deve essere il Parlamento ad assumersi la responsabilità di decidere. Ne è convinto Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza Politica all’Università di Bologna, autore apprezzato e già senatore della Sinistra Indipendente e dei Progressisti. In ogni caso il politologo resta fortemente critico sull’impianto della riforma. “Una legge iniqua e scarsamente democratica – spiega – perché toglie il potere agli elettori e lo consegna a dirigenti di partito e capicorrente”.
Professore, alla fine il governo ha autorizzato il voto di fiducia sul Rosatellum. Troppo alto il rischio dei franchi tiratori. C’è chi denuncia una forzatura istituzionale, ma se questa fosse l’unica maniera per superare lo stallo parlamentare?
Per me si tratta di una forzatura istituzionale. Evidentemente il governo ritiene che la propria maggioranza non terrebbe davanti a una brutta legge. Ma è preoccupante, perché è il Parlamento che deve decidere sulla riforma elettorale.
Sarà anche discutibile, ma il voto di fiducia resta una legittima scelta del governo. Non crede?
Guardi, ci sono decisioni che restano in una zona grigia. La richiesta è lecita, ma la legge elettorale è forse materia del governo? Questa riforma si trovava nel programma elettorale di qualcuno dei partiti che oggi sono in maggioranza?
In realtà non è la prima volta che un governo chiede la fiducia su una riforma elettorale. In questa legislatura l’esecutivo Renzi aveva fatto lo stesso con l’Italicum.
Anche quella è stata un’imposizione del Partito democratico. E allora si trattava di una legge elettorale talmente brutta che, in seguito, la Corte Costituzionale ne ha distrutto le parti essenziali.
Come esce da questa vicenda il presidente del Consiglio Gentiloni? Il premier aveva escluso un intervento del governo nel percorso della riforma, deve aver ha cambiato opinione.
Gentiloni non ha cambiato idea, gliel’hanno fatta cambiare. La richiesta di fiducia viene dal segretario del Partito democratico. Comprensibilmente, Gentiloni si è adeguato.
Professore, non si arrabbi. Ma proviamo a osservare la vicenda dal punto di vista di chi sostiene il Rosatellum: questa legge elettorale nasce da un ampio compromesso politico.
Sono un uomo sempre pacato, perché mai mi dovrei arrabbiare? È vero, questa legge elettorale è frutto di un compromesso. Ma un pessimo compromesso. Si tagliano fuori gli elettori che non potranno più scegliere i loro parlamentari. È un compromesso fondato su liste di nominati e impossibilità di voto disgiunto, che consegna il potere totale a segretari di partito e capicorrente.
Nella scheda gli elettori potranno esprimere un unico voto.
Quindi non potranno scegliere il candidato che preferiscono nel collegio uninominale e la lista di un altro partito nella parte proporzionale. E parliamo di liste bloccate: i candidati saranno eletti in Parlamento secondo l’ordine deciso dai segretari di partito.
I detrattori del Rosatellum puntano il dito anche contro le pluricandidature, possibili fino a un massimo di cinque.
Le pluricandidature servono ai capipartito per essere certi della rielezione. Fondamentalmente servono ad Alfano, che non sa in quale collegio sarà eletto. E servono ad alcuni dei candidati che Berlusconi vorrà portare in Parlamento.
Qualcuno teme che anche questa legge elettorale sia incostituzionale. Eppure, lo ha segnalato anche lei, la Consulta potrà intervenire solo a legge approvata e, probabilmente, già applicata. Il prossimo Parlamento sarà delegittimato in partenza?
Temo proprio di sì. Il ricorso alla Corte costituzionale non potrà essere presentato fino all’approvazione della legge. Calendario alla mano, si può immaginare che sarà accolto tra gennaio e febbraio. Molto vicino alla data delle elezioni. A quel punto, per evitare la patata bollente, la Consulta potrebbe posticipare ulteriormente la decisione.
Tema governabilità. Secondo alcuni questa legge elettorale ci consegnerà un Parlamento senza una chiara maggioranza. È d’accordo anche lei?
Qui il discorso si fa più complesso. Le leggi elettorali servono a scegliere un Parlamento che rappresenti gli interessi, le aspettative, forse anche gli ideali, degli elettori. Usciamo da questa idea che la legge elettorale deve per forza eleggere un governo. Questo non succede da nessuna parte del mondo. La governabilità dipende da altro, semmai: dalle competenze e dalla capacità del presidente del Consiglio di trovare un’intesa con i suoi alleati. Dire che la legge elettorale serve alla governabilità è una frase senza senso. La lascerei ad altri, magari a Fiano e Rosato.
Vesto i panni dell’avvocato del diavolo. Arrivati a questo punto, davanti al rischio concreto di andare al voto con il Consultellum, la legge elettorale su cui il governo ha posto la fiducia non è comunque il male minore?
Guardi, forse il diavolo avrebbe bisogno di un altro avvocato… La legge elettorale deve scriverla il Parlamento, sono i parlamentari che se ne devono assumere la responsabilità. Ecco perché sono contrario al voto di fiducia, ma sono contrario anche al voto segreto. Avrei voluto una legge elettorale diversa, che si poteva fare. Ma se i capi di partito vogliono nominare i loro parlamentari…
Intanto a Montecitorio è scoppiato il caos. I Cinque Stelle gridano al golpe, denunciano la scelta eversiva del governo e chiamano il popolo in piazza per difendere la democrazia. Forse la temperatura è salita un po’ troppo?
Il clima è surriscaldato, certo. Ma li capisco i Cinque stelle, devono alzare la voce. Molti aspetti di questa riforma elettorale sono contro di loro. Questa legge non è fair, come direbbero gli inglesi. È una legge iniqua. Se fossi un avvocato davanti alla Corte costituzionale direi che le candidature multiple e le liste bloccate rompono il principio di uguaglianza. Non è una riforma immorale, come ha detto qualcuno. Ma riconosce più potere ai dirigenti di partito che agli elettori. È una legge scarsamente democratica perché dà poco potere al popolo.
Pubblicato 11 Ottobre 2017 su LINKIESTA
Le promesse sulla legge elettorale #OscuriDesiderideiPolitici
Care (e)lettrici e (e)lettori che sulle spiagge fra un bagno e l’altro e fra una bibita e un gelato vi chiedete con quale legge si andrà a votare, prestate un po’ di attenzione anche saltuaria a quel che dicono i politici. Vogliono farvi credere che preparano una legge buona per voi e per il sistema politico che diventerà finalmente governabile. È l’oggetto di loro oscuri desideri. Per metà non sanno di cosa parlano poiché i meccanismi elettorali hanno sempre qualche elemento di complessità che sfugge loro, per l’altra metà, manipolano.
Primo punto, non credete a chi vi dice che purtroppo stiamo tornando alla proporzionale. Il ritorno è avvenuto già nel 2005 con la legge del centro-destra nota come Porcellum e sarebbe continuato con l’Italicum (non casualmente gradito anche a Berlusconi), entrambe leggi proporzionali “distorte” da un premio di maggioranza. I critici del ritorno, in realtà, desiderano non una legge elettorale maggioritaria come l’inglese o la francese, entrambe applicate in rischiosissimi collegi uninominali, ma un premio di maggioranza per trasformare un consenso elettorale del 30/40 per cento di voti in un gruppo parlamentare con 54 per cento di seggi. Meglio di no, meglio non stravolgere artificialmente la rappresentanza proporzionale, visto anche che né con Berlusconi né con Renzi al governo abbiamo avuto stabilità e efficacia decisionale.
Secondo, è’ tornato in auge, ma non sono sicuro lo sia davvero mai stato, il sistema elettorale tedesco che, con buona pace del Direttore de “Il Foglio” e di troppi altri, non è un proporzionale “puro” non foss’altro perché ha una bella clausola del 5 per cento per accedere al Parlamento. Allo stato dei consensi rilevati da tutti i sondaggisti, quella clausola escluderebbe dal Parlamento Angelino Alfano, Giorgia Meloni, il Movimento Democratico Progressista. Otterrebbero seggi il PD, il Movimento Cinque Stelle, Forza Italia e la Lega Nord (no, non sono sicuro che questa sarà la graduatoria). Sono sicuro che qualsiasi premio di maggioranza fantasiosamente inserito nel sistema tedesco lo snaturerebbe e imporrebbe di chiamarlo in un altro modo.
Terzo, sotto traccia tutti sanno, più di chiunque lo sanno i parlamentari, che quello che interessa davvero sia a Berlusconi sia a Renzi è avere il potere di nominare i propri parlamentari. Il sistema davvero tedesco elegge metà dei parlamentari in collegi uninominali, anche per questo i due leader ne vorrebbe una correzione/stravolgimento. Quanto alla reintroduzione delle preferenze per dare agli elettori un po’ di potere nell’elezione dei parlamentari, è alquanto offensivo per gli italiani sostenere che il voto di preferenza è veicolo di corruzione come se i parlamentari in carica dal 2013, nessuno eletto con voti di preferenza, non fossero incappati in molti casi di corruzione e di altri reati connessi.
Soprattutto, alza la voce Matteo Renzi, quarto punto, niente coalizioni. Lui sostiene che la coalizione la fa(rà) con i cittadini. Peraltro, il governo che Renzi ha guidato da febbraio 2014 al dicembre 2016 era un classicissimo governo di coalizione: Partito Democratico, Scelta Civica, Nuovo Centro Destra. Quel che più conta, però, è che la politica è proprio l’arte di fare coalizioni anche di governo. Non sarà mica un caso se tutte le democrazie parlamentari dell’Europa occidentale, ma anche la democrazia semipresidenziale francese, hanno governi di coalizione? Aggiungo che tutte queste democrazie, ad eccezione di Gran Bretagna e Francia, usano da molto tempo, alcune da sempre, leggi elettorali proporzionali.
Allora, concludo, il compito per le vacanze dei politici che non ne sanno abbastanza e per quelli che fanno furbesche manipolazioni è: non inventatevi nulla. Avete già dato molto e male. Studiate le leggi elettorali europee per importarne il meglio. Al momento opportuno gli elettori vi valuteranno anche con riferimento alla legge con la quale saranno costretti a votare (o no).
Pubblicato AGL 8 agosto 2017
Ripartenza senza idee né programmi
“Tornare a casa per ripartire insieme” è stato il titolo dell’iniziativa svoltasi al Lingotto per lanciare la campagna elettorale di Matteo Renzi alla segreteria del Partito Democratico. Dal Lingotto dieci anni fa partì Walter Veltroni per diventare il primo segretario del nuovo partito. Durò pochissimo. La sua “vocazione maggioritaria” non fu sufficiente a fargli vincere le elezioni politiche del 2008 e nel febbraio 2009 si dimise. Dunque, Renzi non è, come si ostina a ripetere, l’unico a lasciare la poltrona dopo la sconfitta (per la cronaca politica, dalla “poltrona” di capo del governo si dimise addirittura D’Alema nel maggio 2000). Non è chiaro che cosa si sia prefisso Renzi con il ritorno al Lingotto: farsi un pedigree veltroniano? avere il sostegno di Chiamparino? trovare nuove idee? Agli osservatori e ai commentatori, questa volta meno benevoli del solito, il senso della prima parte dello storytelling renziano è sostanzialmente sfuggito. Quanto al “ripartire insieme”, che ripartire sia necessario non ci piove, ma insieme a chi non è apparso chiaro a nessuno. Se per fare “l’insieme” è sufficiente il cosiddetto ticket con il Ministro Martina che porterebbe in dote la componente ex-DS, allora è davvero poca cosa, come confermano anche i sondaggi. Certamente, con l’espressione “insieme” Renzi non ha in nessun modo inteso tendere la mano agli scissionisti che, anzi, sono stati ripetutamente criticati e da qualcuno dei sostenitori di Renzi addirittura bollati come “vigliacchi”. Né, infine, per giustificare “insieme”, è sufficiente sostituire il “noi” all’io nelle esternazioni renziane.
Del partito, che nella corsa alla segretaria, dovrebbe essere l’oggetto del contendere, non tanto come conquistarlo, ma come ri-organizzarlo, non ha parlato nessuno. E’ stata una mancanza preoccupante in un’assemblea di uomini e donne di partito che al partito-ditta di Bersani e ai voti da lui ottenuti nel febbraio 2013 sono debitori delle loro cariche, del loro potere, delle loro carriere in atto e future. Qualche cenno è stato fatto alle alleanze, tanto vituperate fino a ieri anche se, senza gli alleati: la spappolata Scelta Civica e il Nuovo Centro Destra di Angelino Alfano (più qualche aiutino di Denis Verdini, diventato innominabile e per il quale il neo-garantismo di Renzi non sembrerebbe applicarsi), il PD non avrebbe nessuna maggioranza operativa al Senato. L’unica cosa nuova è stata l’offerta all’ex-sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, di un posto nelle liste PD. Un’offerta assolutamente strumentale, quasi per disinnescarne il tentativo di organizzare un campo progressista che, se vincente, sarebbe una significativa novità: spazio di sinistra plurale simile a quella creata da François Mitterrand 46 anni fa dalla quale ottenne lo slancio e la forza per vincere le elezioni presidenziali francesi del 1981.
Pur con la sotterranea consapevolezza che qualche alleanza bisognerà pur trovarla per tornare, non a casa, ma a governare il paese e che una grande differenza la farà la prossima indispensabile legge elettorale, al Lingotto non si è discusso né dell’una né dell’altra. Lo storytelling non ha riguardato niente di davvero politico, di davvero concreto, di davvero produttivo di conseguenze. Neppure i numerosi ministri costretti a sfilare hanno saputo entusiasmare i rappresentanti del popolo del PD con la rivendicazione di qualche successo acquisito e con la presentazione di qualche progetto epocale. Il PD di Renzi riparte, ma la strada è la stessa, un po’ più in salita. La parola, pardon, lo storytelling passa agli altri concorrenti, il Ministro della Giustizia Andrea Orlando e il governatore della Puglia Michele Emiliano, i quali dovrebbero raccontare come sapranno ampliare lo spazio e migliorare l’organizzazione e la democrazia interna del Partito chiamato Democratico.
Pubblicato AGL 14 marzo 2017
Salvini può sognarsi la guida della Destra, ha più possibilità persino Maroni
Intervista raccolta da Giorgio Velardi
Altro che “Trump italiano”. La leadership del centrodestra il segretario della Lega Nord, Matteo Salvini, può sognarsela. Parola del politologo Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza della politica all’Università di Bologna. “A quel punto meglio Roberto Maroni – dice a La Notizia –. Peccato non spinga fino in fondo sull’acceleratore”.
Andiamo verso un centrodestra italiano a trazione leghista?
La prospettiva di un centrodestra italiano a trazione leghista credo che non esista.
Cosa la porta a dire questo?
Il fatto che in questo Paese per vincere c’è bisogno di un leader che non sia troppo distante dal centro. I voti delle ali estreme convergono in quella direzione, mentre non avviene il contrario. Salvini non può diventare il capo di quell’area, ma al tempo stesso può impedirle di riunificarsi. Dall’altra parte, Berlusconi continua a non trovare un successore. E probabilmente non lo troverà mai, perché è unico nel suo genere.
Il Cavaliere ha “scaricato” l’ennesimo delfino sul quale aveva investito, Stefano Parisi. Era quello più sacrificabile se messo a confronto con Salvini?
Non penso che Berlusconi abbia investito su Parisi. È vero il contrario: l’ex candidato sindaco di Milano ha puntato su di sé probabilmente esagerando, vista la sconfitta rimediata contro Sala. Del resto, il leader di Forza Italia ha sempre avuto dei tratti che lo accomunavano a Umberto Bossi: populista elegante il primo, rampante il secondo. E sa che il rapporto con il Carroccio è fondamentale, altrimenti le chance di un’eventuale vittoria sarebbero ridotte al lumicino.
Ma quindi un Trump italiano non esiste proprio?
Trump è il Berlusconi americano, che grazie a quel sistema elettorale ha vinto contro la Clinton. Nel bene e nel male, se non ci fosse l’ex presidente del Consiglio non avremmo nessun “nostro” Trump.
E la Meloni? Lei continua a chiedere le primarie, da sempre annunciate a destra e mai diventate realtà.
Ha le caratteristiche per poter guidare uno schieramento di centrodestra, ma il problema in questo caso è un altro.
A cosa si riferisce?
Prima che il centrodestra affidi a una donna la leadership passerà ancora molto tempo. Anche perché se la Meloni scendesse in campo dovrebbe confrontarsi con Mara Carfagna e Maria Stella Gelmini, le candidate di Berlusconi. Bene fa la leader di Fratelli d’Italia a chiedere le primarie: sono un elemento di mobilitazione ma vanno organizzate bene, altrimenti rischiano di disaggregare. Anche perché il Cavaliere spingerà una sua figura che poi potrà controllare.
Berlusconi rimane un brand. La prospettiva resta la candidatura di uno dei suoi figli?
Era una prospettiva esistente ma credo che sia passata. Marina ha dimostrato in questi anni di avere delle capacità per raccogliere il testimone del padre, ma ha perso l’attimo. Stesso discorso per Piersilvio: è troppo tardi.
Secondo lei in che direzione si va?
È difficile da dire, anche perché non ci sono figure vincenti. Forse fra quelli che oggi popolano quell’area il migliore è Raffaele Fitto. Ma…
Quali problemi vede in questo caso?
Per il centrodestra è fondamentale l’elettorato del Nord, e Fitto non ha quella caratura per poterlo raggiungere.
E un outsider non esiste proprio?
Una figura che potrebbe aggregare bene le anime sparse c’è e si chiama Roberto Maroni, leghista moderato e governante. Certo, non è una novità. E non lo vedo spingere sull’acceleratore fino in fondo.
Alfano sta cercando di rientrare nelle grazie di Berlusconi. Ci riuscirà?
La dico brutalmente: Alfano, che non è un leader, vale il 3/3,5%, Salvini il 12. Credo che questo Berlusconi lo sappia bene.
Tw: @GiorgioVelardi
Pubblicato il 16 novembre 2016 su lanotiziagiornale.it
Fa il “forzato” del governo e minaccia la minoranza
“Ci dicono ‘governano coi voti
del centrodestra’. Già, è così
perché noi abbiamo perso le elezioni”
(Matteo Renzi al congresso dei GD)
Renzi afferma di essere costretto a governare con Alfano e Verdini, ma la prossima volta non avrà questo problema, perché li avrà già inseriti nelle sue liste. Dopodiché, il vero nodo è che la Corte costituzionale da un lato e l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano dall’altro stanno legittimando le riforme renziane. Addirittura, stanno vidimando la qualità di testi confusi e mediocri, come quello della riforma costituzionale. E allora l’unica via è resistere con il no nel referendum di ottobre, insistendo anche su un principio: la consultazione di ottobre sarà un referendum oppositivo, non confermativo. In caso contrario, si accetterebbe la sua riduzione a un plebiscito da parte del presidente del Consiglio. Le sue parole sul Pd e sulla maggioranza di governo, d’altronde, mi richiamano alla mente un’altra considerazione di Renzi, ossia che “la prossima classe dirigente uscirà dai comitati referendari per il sì”. Non l’ha notato nessuno, ma con questa frase ha lanciato un chiaro avvertimento alla sua minoranza: che non fa i comitati per il sì non verrà ricandidato. Fossi in Gianni Cuperlo e negli altri della minoranza dem, sarei decisamente preoccupato.
Pubblicato il 22 marzo 2016
Una vicenda in cui hanno perso tutti
Sono in molti ad avere perso qualcosa in questa brutta vicenda di un disegno di legge di origine parlamentare sulle unioni civili che avrebbe portato l’Italia al livello al quale sono giunte da tempo la grande maggioranza delle nazioni europee. In primis, hanno perso tutti coloro che desideravano unioni fra persone dello stesso sesso che ottenessero quanto, in termini di eguaglianza e di dignità, hanno coloro che contraggono un matrimonio. Parecchio è stato ottenuto sul piano economico, che conta ed è importante. Molto meno su quello, altrettanto importante, del riconoscimento dei figli avuti dal partner prima che si stipulasse l’unione civile. Il resto, come forse troppo spesso avviene, è stato affidato alla magistratura, probabilmente anche alla Corte Costituzionale, che si troveranno obbligate, come hanno fatto alla grande sulla legge 40, fecondazione assistita, a supplire alle gravi carenze della politica (e, magari, venendo poi criticate per la loro indispensabile interferenza).
Hanno perso tutti coloro che credono che fare le leggi sia un compito che il Parlamento adempie attraverso un dibattito aperto e trasparente che serve a spiegare ai cittadini come e perché, con quali conseguenze, ad educarli alla complessità delle scelte e alla ragionevolezza delle decisioni. Questa volta, probabilmente, la società ne sapeva, sulla propria pelle, molto di più di quanto troppi parlamentari volessero intendere e capire. Hanno perso i senatori delle Cinque Stelle poiché il loro messaggio si è abbattuto sul muro di gomma dei renziani e non sono riusciti a diventare determinanti. Avevano probabilmente ragione, ma sono arrivati tardi e male, percepiti, non del tutto erroneamente, come strumentali, al momento delle decisioni cruciali. Non hanno davvero vinto i Democratici poiché in definitiva hanno dovuto ingoiare tutte le richieste del partito di Alfano e finiranno per trovarsi debitori anche dei voti che il giustamente spregiudicato Verdini farà valere pesantemente sul voto di fiducia. Si aprirà davvero la porta alla mutazione antropologica del Partito Democratico in Partito della Nazione?
Infine, ha perso una certa concezione del Parlamento e della sua funzione di legislazione. Il testo del disegno di legge prima firmataria la senatrice dem Cirinnà avrebbe dovuto, secondo l’art. 72 della Costituzione italiana, essere discusso e “approvato articolo per articolo”. E’ sfuggito all’operazione esageratamente truffaldina implicita nell’emendamento canguro, della cui legittimità bisognerà pur discutere, che mangia tutti gli altri. Però, è stato poi divorato dal maxiemendamento del governo il quale ha, addirittura, posto la fiducia su un atto che non è di governo, non attiene al programma, non riguarda obiettivi strategici. Un governo che ottiene quello che vuole, in questo caso, quello che ha voluto una delle componenti della coalizione, a spese del parlamento, piegandolo e in sostanza umiliandolo, intraprende una strada pessima che, forse, dovrebbe essere bloccata dai Presidenti delle Camere e, possibilmente, se vi sarà un debito ricorso, dalla Corte Costituzionale. Questo non è neppure il nuovo modo di governare. Purtroppo, è l’aggravamento del vecchio che da cattivo diventa pessimo.
Pubblicato AGL il 26 febbraio 2016