Home » Posts tagged 'Arturo Parisi'
Tag Archives: Arturo Parisi
Bologna è il primo test per Letta: perché il Pd non vuole fare le primarie per il sindaco? @DomaniGiornale
Conseguita molto più che la semplice parità di genere con l’elezione di Debora Serracchiani alla Camera, nettamente preferibile all’imposizione ad opera del capogruppo uscente al Senato Andrea Marcucci di Simona Malpezzi, sua compagna, pardon, amica di corrente, il Partito Democratico di Letta ha iniziato il suo cambio di pelle. O, forse, no. Da Bologna, ma anche da un pezzo non indifferente del PD nazionale vengono segnali alquanto diversi, anche contraddittori. Caso esemplare, non solo perché lo conosco molto bene avendolo ampiamente frequentato, è quello del partito di Bologna. Bisogna scegliere la candidatura per il prossimo sindaco della città. Virginio Merola ha completato due mandati, evento che non si verificava dalla metà degli anni novanta dello scorso secolo. Ha anche indicato, in maniera del tutto irrituale, forse piuttosto scorretta, il suo successore preferito, l’assessore Matteo Lepore. In campo c’è un altro candidato, anche lui assessore, Alberto Aitini, apparentemente preferito dai Circoli cittadini nei quali si sono espressi gli iscritti in qualche modo consultati. Non ho letto dati certi. Il potente parlamentare della città, Andrea De Maria, fino a qualche tempo fa fra i papabili, sembra si sia orientato a favore di Lepore. Non si sono espressi il segretario regionale e il segretario cittadino del PD e neppure l’abitualmente molto loquace presidente della Regione Emilia-Romagna Stefano Bonaccini. Tutti uomini.
Non ho udito nessuna voce proveniente dalle donne del PD, mentre ha fatto capolino Mattia Santori a nome delle guizzanti Sardine le cui procedure decisionali, in materie delicate come quella della indicazione di preferenza per una candidatura importante, mi sono ignote. Trapela la ricerca spasmodica di una candidatura unitaria che, però, è resa impossibile dalla tenace resistenza di Aitini. In un partito democratico la parola definitiva spetta (spetterebbe) allo Statuto nel quale sta scritto in maniera limpida che “il Partito Democratico affida alla partecipazione di tutte le sue elettrici e di tutti i suoi elettori [quindi, non dei soli iscritti, nota mia]…. la scelta delle candidature per le principali cariche istituzionali” (art. 1, comma 5); che “gli incarichi sono “contendibili” (comma 9) e che “i candidati [uh, dizione quanto politicamente scorretta! Nessuna obiezione dalle donne?] alla carica di Sindaco e Presidente di Regione vengono scelti attraverso il ricorso alle primarie di coalizione” (art. 24, sottotitolato Elezioni primarie per le cariche monocratiche istituzionali).
Alcuni almeno dei meno distratti fondatori del PD ricorderanno che i due principi posti alla base non soltanto del suo operato, ma della sua stessa esistenza, e considerati assolutamente qualificanti erano la vocazione maggioritaria e le primarie. La prima, davvero velleitaria, è già stata sostanzialmente archiviata dal neo-segretario che ha indicato come compito importante la ricerca di alleati per formare coalizioni competitive. Seppure sempre contrastate e talvolta manipolate, le primarie si sono svolte in moltissime occasioni e località, ad oggi, in ben più di mille casi. Secondo colui, Arturo Parisi, oggi silente, che viene spesso menzionato nei resoconti giornalistici come “il teorico delle primarie”, la procedura delle primarie per la selezione delle candidature si deve assolutamente aprire ogniqualvolta c’è chi, alzando spontaneamente la mano, dichiara la sua disponibilità/volontà a candidarsi. Il regolamento stabilirà tempi e modi per la raccolta di firme a sostegno e per i dibattiti. Da Bologna giungono, invece, segnali assolutamente inquietanti di resistenza. Il primo è fin troppo facile e prevedibile: la pandemia è un ostacolo a qualsiasi inevitabile “assembramento” primario. Poi, naturalmente, qualcuno sosterrà che non c’è più tempo per farle. Non manca mai la proposta, assolutamente risibile, che si facciano le primarie, non “personalizzanti”, per le candidature, ma “su progetti”. Infine, in apparenza potentissima, si staglia l’obiezione che le primarie dividono il partito, dimenticando bellamente che il partito è già chiaramente diviso in correnti, anche a Bologna. La storia non finisce qui, ma deve tristemente registrare che dal vertice romano del PD il responsabile dell’organizzazione, Stefano Vaccari, manda agli uomini del PD bolognese un ultimatum: si diano da fare per trovare una candidatura unitaria. Ci sarà pure un caminetto all’ombra delle due Torri. Altrimenti, “primarie ultima spiaggia” (Corriere di Bologna, 31 marzo, p. 1).
Pubblicato il 31 marzo 2021 su Domani
Che fine hanno fatto le primarie nel Pd? Domande sul caso Bologna @DomaniGiornale
Il Partito di Bologna ha una lunga, interessante, ingloriosa storia di primarie fatte (e non fatte) per la scelta della candidatura a sindaco della città. L’inizio della saga riguardò i Democratici di Sinistra che, a fronte di profonde divisioni interne con il (quasi)prescelto che rifiutò di “sottoporsi” alle “primarie”, furono costretti a farle in fretta e furia in una piovosissima giornata del marzo 1999. Poi le elezioni furono vinte da Giorgio Guazzaloca, molto più che un candidato civico, un bolognese con una apprezzabile storia personale di lavoro e di impegno. Cinque anni di (mancate) riflessioni non bastarono ai DS per trovare una candidatura indigena cosicché nel 2004 dirigenti, iscritti e i simpatizzanti della borghesia rossa furono entusiasti di accogliere il superparacadutato Sergio Cofferati reduce dalla grande manifestazione contro Berlusconi. Niente primarie per il segretario della CGIL, ma una bella processione nei quartieri di Bologna, città che non conosceva minimamente, ad accogliere suggerimenti, incoraggiamenti, applausi (molti) e critiche (quasi nessuna). Tutt’altro che favorevole, arrivai nel mio quartiere alle 21,10, presi la scheda per iscrivermi a parlare. Alle 22.45 non avendo ancora avuto la parola, mi informai. Avevano “perso” la mia scheda. “Gentilmente”, mi diedero subito la parola, la riunione chiudeva alle 23. Peccato che il tempo di accettazione delle schede con l’approvazione (o no) fosse stato fissato alle 22 e che moltissimi dei presenti avessero già votato.
Nel 2008, all’ultimo momento. Cofferati annunciò che non intendeva fare il secondo mandato. A quel punto il Partito Democratico decise che si potevano/dovevano fare le primarie. Naturalmente, il gruppo dirigente aveva il suo candidato. Provai a candidarmi, ma mi si impedì di avere accesso al registro degli iscritti un certo numero di loro firme essendo necessarie per accreditarsi come candidato. Appoggiato da Bersani e da Prodi e da gran parte del PD (in seguito anche dal cardinale di Bologna), la candidatura di Flavio Delbono non fu mai a rischio. Andò a vincere risicatamente al ballottaggio contro l’imprenditore Alfredo Cazzola. Poco più di sei mesi dopo fu costretto a dimettersi per uso troppo disinvolto, truffaldino (due patteggiamenti) del denaro pubblico (era stato Assessore al Bilancio della Regione Emilia-Romagna). Si dimise anche il segretario della Federazione, Andrea De Maria, debitamente parcheggiato a Roma.
Per la prima volta nella sua storia, quella che era stata la vetrina del comunismo italiano fu commissariata (2010-2011). Ancora in difficoltà il PD intrattenne persino l’idea di candidare la Commissaria Annamaria Cancellieri (poi ministro degli Interni nel governo Monti e della Giustizia nel governo Letta). Messo da parte colui, Maurizio Cevenini, che era il più popolare degli esponenti del Partito, le primarie del 2011 consegnarono la vittoria a Virginio Merola che ha portato a compimento senza biasimo né gloria il suo secondo mandato. Non si è lasciato scappare l’occasione di influenzare la scelta del suo successore candidando alcuni suoi assessori, ma anche manifestando la sua preferenza per uno di loro. Dunque, logicamente: primarie fra i candidabili. Invece, per il momento, proprio no. Il segretario locale annuncia che bisogna cercare e soprattutto trovare un candidato “unitario”. Insieme agli assessori, la neo-eletta europarlamentare Gualmini si dichiara “disponibile”, deludendo, immagini, i 78 mila elettori che le diedero la preferenza. Sullo sfondo si staglia la figura del più potente parlamentare bolognese Andrea De Maria che nega asserendo, però, a ragione, che non vuole nessuna discriminazione nei suoi confronti, come quella comminatagli delle Sardine. Qualcuno ricorda che bisognerebbe allargare il “campo”, nessuno si tira indietro. Il sindaco bolla tutto questo, al quale lui ha dato il suo contributo e altri ne preannuncia, come “un dibattito inconcludente”.
Le primarie per le cariche elettive stanno nello Statuto del PD. Se ne sono fatte in tutta Italia ben più di mille. Spesso cito Arturo Parisi, secondo i giornalisti il “teorico delle primarie”. Chi vuole candidarsi, sostenne Parisi, alzi la mano. Poi, naturalmente, raccolga un certo numero di firme a suo sostegno, quante e come sono richieste dal regolamento dei partiti locali. Naturalmente, se il PD allarga effettivamente il campo, a Bologna ci sono almeno due potenziali candidati centristi di valore. Allora, però, nelle primarie non dovrà esserci il candidato ufficiale “del partito”, ma tutti coloro che, PD o no, senza ostacoli, avranno raccolto le firme. Gli assessori disponibili a candidarsi non dovranno essere dissuasi, come il segretario locale ha già lasciato trapelare, poiché di loro si terrà conto “nella formazione della prossima giunta”. La saga non è finita. Neanche la commiserazione, qualche volta irritazione, per un partito che cerca costantemente di svicolare dalle regole che pure si è dato può cessare. Ė possibile che, alla fine, l’esito sia positivo in termini di selezione della candidatura, ma neanche in questo caso dovremmo accettare la massima che “il fine giustifica i mezzi”. Non è così che si migliora la politica né a Bologna né altrove.
Pubblicato il 20 novembre 2020 su Domani
Con sviluppi lenti e contorti continua la “Saga di #Bologna” per la scelta del candidato del Partito Democratico #Comunali2021
A Bologna si è riacceso lo scontro. Un partito che si chiama “democratico” deve regolarmente costantemente ripetutamente utilizzare procedure democratiche. Le primarie stanno nello Statuto del PD e valgono anche per il PDB(olognese). Se c’è più di una candidatura a sindaco di Bologna, allora: primarie. Se sono primarie di coalizione debbono potersi presentare tutti i candidati del PD che lo desiderano, cioè, non un solo candidato “ufficiale”. Prima le primarie, non divisive, ma competitive, poi l’unità a sostegno del/la vincente.
La cultura politica oltre l’ostacolo PD
Se fossi solo interessato alle sorti del Partito Democratico, questo post non dovrebbe essere pubblicato, L’ho scritto perché vorrei una società davvero civile che esprima una politica decente entrambe conseguibili soltanto se si trasforma sostanzialmente quella che è rimasta, seppure con problemi gravissimi, l’unica organizzazione simile ad un partito. Ma, in quanto tale, è fallita. Ne propongo un superamento totale
Già, caro Gianni Cuperlo, come si costruisce “un’alternativa alla destra di oggi” (e di domani e dopodomani)? Alla destra italiana, quella famosa che sta dentro di noi e che non debelliamo mai perché, da un lato, preferiamo non parlarne oppure minimizzarne le implicazioni e conseguenze, dall’altro, perché fino ad oggi non è stata costruita una cultura politica liberale e democratica. Certo, nel secondo dopoguerra non c’è mai stato tempo peggiore di adesso per tentare di dare vita e linfa a una cultura politica che in Italia è sempre stata fortemente minoritaria. Tuttavia, nel male contemporaneo, è proprio spiegando perché i populisti e i sovranisti non sono mai parte della soluzione, ma gran parte del problema, che diventa possibile formulare una variante di cultura politica liberale e democratica. E, allora, sarò drastico, per una molteplicità di ragioni, il Partito Democratico, come è stato costruito, come ha funzionato, per come è diventato costituisce forse l’ostacolo più alto alla elaborazione di una cultura liberal-democratica. Non posso/possiamo aspettarci nessuna riflessione su quella cultura dalle rimanenze di Forza Italia e di tutti coloro che sono caduti nella trappola di una improponibile “rivoluzione liberale” condotta dal duopolista Berlusconi in palese irrisolvibile conflitto di interessi. Mi auguro che un giorno, qualcuno, non chi scrive, farà un dettagliato elenco dei molti opinionisti che hanno fatto credito, interessato, al liberalismo immaginario di Berlusconi. Se l’antifascismo da solo non è democrazia, l’anticomunismo da solo non è liberalismo.
A che punto siete voi Democratici con la elaborazione di una cultura politica decente? Quando è stata l’ultima volta che di questo avete discusso, dei principi culturali a fondamento del PD: in una Direzione e in un’Assemblea del partito, nel corso dell’approvazione delle riforme costituzionali, che, ma proprio non dovrei dirvelo, non possono non avere una superiore cultura politica di riferimento (soprattutto, per chi crede, sbagliando, che la Costituzione italiana sia un documento “catto-comunista”), durante la maldestra difesa di quelle riforme condotta all’insegna di mediocri varianti di motivazioni neo-liberali e decisioniste, di una bruciante sconfitta elettorale? Non ho sentito nessuna parola in proposito nell’ultima campagna per l’elezione del segretario del partito. Già, Zingaretti non è un intellettuale, ma un minimo di consulto con professoroni e professorini potrebbe servirgli oppure gli ideologi del Partito Democratico sono diventati il neo europarlamentare Carlo Calenda e il senatore di Bologna Pierferdinando Casini? Non dovrebbe qualcun preoccuparsi anche del silenzio degli Ulivisti, da Romano Prodi a Arturo Parisi, i quali, peraltro, hanno avallato tutte, ma proprio tutte le decisioni di Renzi le cui personali vette culturali sono state attinte da due parole chiarissime: rottamazione e disintermediazione.
Ho esplorato la letteratura disponibile riguardo le culture politiche democratiche e riformiste finendo per constatare che quei due termini proprio non hanno fatto la loro comparsa, mai, neppure nei più aspri, e sono stati tanti, momenti di confronto e scontro all’interno dei partiti di sinistra. Senza nessuna sorpresa ho anche notato –non scoperto poiché già da sempre sta nel mio bagaglio di professore di scienza politica– che, da Tocqueville e John Stuart Mill, ma si potrebbe tornare anche a Locke (chi erano costoro?), democrazia è mediazione, lasciando la disintermediazione alle pratiche autoritarie e totalitarie (ne ho ricevuto immediata conferma da George Orwell).
Allora, caro Gianni Cuperlo, dobbiamo davvero aspettare che il bambino di Andersen si metta a gridare che il re (il Partito Democratico) è nudo (privo di qualsiasi rifermento culturale) e, aggiungo subito, anche bruttino assai. Acquisita questa consapevolezza, peraltro, già molto diffusa, lasciamo che il PD imploda oppure che si disperda sul territorio confrontandosi senza rete e senza arroganza (per molti piddini questa richiesta non sarà facile da soddisfare) con tutte quelle organizzazioni sociali, professionali, culturali e persino politiche che ritengono che alla egemonia della destra è possibile contrapporre una cultura politica democratica (Bobbio avrebbe aggiunto “mite”) che rimette insieme le sparse membra del liberalismo dei diritti e delle istituzioni con il riconoscimento del potere del popolo, meglio, dei cittadini e dei loro doveri. Caro Cuperlo, sarò molto interessato ad una tua iniziativa in materia. Non posso neppure escludere a priori di parteciparvi.
Pubblicato il 1 luglio 2019 su PARADOXAforum
Le scissioni fanno parte della storia della sinistra europea
Tutti i maggiori partiti di sinistra europei hanno avuto scissioni. Più articolata e variegata delle destre, la sinistra non ha ancora imparato come fare fronte alle diversità, sociali, generazionali, culturali, del suo elettorato. Nessun pensiero unico meno che mai il comando di un uomo può caratterizzare la sinistra. Solo una sinistra plurale riesce a garantire rappresentatività e governo.
Rifare l’Ulivo … prima si riporti il timone a sinistra
Intervista raccolta da Francesco Lo Dico
Dopo il flop al referendum, il Nazareno è in piena fibrillazione. Lungo la faglia del sisma del 4 dicembre, i maggiorenti del Pd misurano oggi la distanza che separa la segreteria democrat dalle istanze giovanili e dalle tante, troppe periferie del Paese. Sicché, ha destato umori contrastanti la proposta dell’ex sindaco di Milano, Giuliano Pisapia. Il quale guarda al “soccorso rosso della sinistra, senza trattino, come alla soluzione per restituire un orizzonte politico credibile a quel centro sinistra renziano, via via scivolato verso il Partito della Nazione, sulla spinta del celebre 40 per cento raccolto alle Europee.
La voglia di inumare di nuovo il seme dell’Ulivo nel campo del Pd, è insomma tanta, e ha trovato anche ieri in queste pagine la solidarietà di Cesare Damiano “Ma reinnestare l’Ulivo nello schema del Nazareno renziano, è un’operazione destinata allo smacco”, riflette Gianfranco Pasquino. “Pensare di restaurare l’antico quadro d’azione messo in atto nel’96 – ragiona il professore di Scienze politiche all’Università di Bologna – è in questo momento semplicemente surreale”.
Il voto sembra avvicinarsi a grandi passi professore. Troppo poco tempo per ragionare su uno schema di centrosinistra, come quello realizzato ormai 20 anni fa?
Ho sentito Prodi sostenere che il parroco non torna mai nella stessa chiesa dove diceva messa. E d’altra parte, della parrocchia dell’Ulivo in molti hanno detto di non aver più bisogno. Lo ha ribadito anche Parisi: dell’Ulivo non c’era più bisogno, perché l’Ulivo era diventato il Pd. Ora invece si invoca un ritorno all’antico. Francamente non capisco, credo che al Nazareno più di qualcuno sia frastornato.
Dopo il 40% delle europee, si pensava all’autosufficienza. Comunali e referendum hanno evidenziato che viviamo in uno schema tripolare.
Quello dell’autosufficienza è stato un mito coltivato senza fortuna. Non esiste partito d’Europa che può ambire a tanto, eccezion fatta per la Gran Bretagna che conta su caratteristiche peculiari. Il Pd sperava di appoggiarsi all’Italicum del doppio turno e del premio di maggioranza per regalarsi l’autarchia. Ma nella realtà dei fatti ha dovuto imbarcare Verdini e i centristi di Ncd per governare, salvo poi scoprire man mano che aveva spianato la strada all’autosufficienza degli altri, i grillini.
C’è da preparare il futuro, in un modo o nell’altro. Il Pd deve guardare al modello Pisapia per ripartire?
Mi incuriosisce la sua apertura. Aveva fatto sapere che era stanco, e non sentiva di avere forze adeguate per un secondo mandato a Milano. Salvo ora aver ritrovato energie per tentare di rimettere insieme le forze a sinistra del Pd. Se il tentativo possa funzionare, lo si potrà desumere soltanto dai termini dell’eventuale accordo individuato. Ma la cosa certa è che se si fa del mondo a sinistra del Pd, una sorta di sidecar per tentare di imbarcare qualche voto in più, l’operazione è destinata al fallimento.
Quali sarebbero le precondizioni per fare funzionare il progetto?
Innanzitutto il tempo e la riflessione. Inutile precipitare la data del voto, se non si comprende in quale direzione andare, e come invertire la rotta. Occorre tracciare una mappa precisa, prima di fare un lungo viaggio: comprendere quali politiche attuare per ridurre le diseguaglianze e far ripartire lo sviluppo,ad esempio.
Renzi e gli altri spingono per il voto. L’impulsività della politica nuoce alla politica?
Il premier contava di realizzare il Partito della Nazione, convinto di ancorare il partito al centro invece che a sinistra. Non è andata bene. E ha detto che se avesse perso il referendum, avrebbe lasciato la politica. Non voglio sostenere che dopo dieci anni il Pd debba ricominciare da zero. Ma che debba ripensare se stesso, certamente sì. Specie nell’ottica di riaccreditarsi come una forza di centrosinistra.
Per resuscitare l’Ulivo, serve quindi un cambio della guardia al Nazareno?
Non c’è alcun dubbio. Occorre una nuova leadership che guardi a sinistra, se si pensa che la soluzione sia a sinistra. Il Pd dovrebbe individuare per la guida del Paese, da qui alle elezioni, una figura da testare sul campo e sulla quale puntare eventualmente anche per le politiche. Un uomo capace di ridare voce e spazio agli altri, nell’ottica di una leadership inclusiva che si riconcili con tutte le anime della sinistra, e soprattutto con il Paese.
Pubblicato il 9 dicembre 2016
Brancaleone e il “no” che risuona argentino
di Gianfranco Pasquino e Marco Valbruzzi
Messo da parte, almeno temporaneamente, l’elisir plebiscitario al quale quasi tutti i sostenitori del “sì” si sono abbeverati, adesso la discussione è tornata sul merito. Almeno così affermano i corifei del “sì”. Dopo che Giorgio Napolitano, seppure molto tardivamente, ha denunciato in maniera felpatissima la propaganda di Renzi, caratterizzata “forse, da un eccesso di personalizzazione politica”, i sostenitori del disegno di revisione costituzionale hanno beatificato il loro statista Renzi perché – udite udite – si è corretto. Pazzesco. Vedremo fino a quando. Ancora inebriati da quel potente elisir, o forse ricordando un esemplare articolo, definibile solo come character assassination, scritto da una coppia di professori di scienza politica a Bologna, Sergio Fabbrini cerca, ricorrendo a qualche mediocre sarcasmo, di fare di meglio. Scopre che i sostenitori del “no” sono un’Armata Brancaleone (quale originalità!). Continuando la discussione sul merito, scrive, ma non è il primo, che i “no” sono degli irresponsabili anti-italiani che non hanno fatto nulla di buono nel passato e che scasserebbero il paese se vincessero. Della stupefacente omogeneità dello schieramento del Sì (Il Foglio e Civiltà Cattolica, il Corriere e Il Sole 24 Ore, la Confindustria e i suoi pregevoli algoritmi, Arturo Parisi e Denis Verdini, Marcello Pera e Cesare Damiano, con la ciliegina di JP Morgan sulla quale vale la pena di soffermarsi) nulla ci dice il professore della LUISS. Pazienza.
Il merito, come hanno capito prima di tutti i notissimi professoroni della JP Morgan, riguarda la trasformazione delle Costituzioni socialiste dell’Europa meridionale. Cestinarle, dicono quei professoroni anonimi, senza curarsi del punto, effettivamente di merito, che nell’Assemblea Costituente italiana c’erano fior fiore di liberali, repubblicani, azionisti e socialisti né catto né comunisti. Naturalmente, sempre restando sul merito, ridimensionare il Senato (ma i comunisti volevano il monocameralismo: che non abbiano vinto allora, ma stiano per vincere adesso?), abolire il CNEL, introdurre qualche referendino in più, accentrare poteri nello Stato (ma non erano i comunisti quelli che miravano all’accentramento del potere politico?), è inoppugnabile che le riforme renzian-boschiane faranno diventare la Costituzione italiana un moderno palinsesto liberista applaudibile anche dall’allarmato/ista Ufficio Studi della Confindustria. Però, chiedere politiche keynesiane all’Unione Europea proponendo come vessillo una riforma sedicente liberista appare non propriamente convincente. Comunque, vorremmo fare sapere a JP Morgan che ha sbagliato bersaglio: il cattocomunismo non sta nella seconda parte della Costituzione, ma nella prima. Sono i diritti civili, politici e sociali, che Renzi e i suoi giurano di non toccare, la vera eredità del cattocomunismo, ovvero, meglio dell’elaborazione ampia e pluralista, condivisa dai nove decimi dell’Assemblea, che ha portato alla Costituzione italiana.
Non è chiaro in quale dei molti testi da lui compulsati, il Fabbrini abbia scoperto le ambizioni che lui attribuisce al molto composito schieramento del “no”: dare vita a un nuovo governo. Non è affatto così. Il NO vuole sconfiggere riforme di bassissimo profilo, ma dannose, che produrrebbero conseguenze molto negative sul funzionamento del sistema politico italiano e che inquinerebbero la vita politica italiana per anni e anni. Il “no” pensa che non esiste nessun uomo della provvidenza né oggi né domani e che il Parlamento italiano, se Renzi e i suoi non si metteranno di traverso (pazzesco), è in grado di dare vita a un nuovo governo a guida legittimamente espressa dal partito che ha la maggioranza parlamentare, il PD. Anche questo è il merito.
Infine, è sempre utile ricordare a tutti, soprattutto agli ulivisti della prima e della seconda ora, che da questo progetto di revisione costituzionale non emergerà alcuna fantomatica “democrazia governante” né, tantomeno, una democrazia maggioritaria e competitiva. Non saranno le elite negative, per di più argentine, evocate da Fabbrini, a riproporre un ritorno all’Italia proporzionalista. Anche perché questo nostalgico ritorno al passato lo dobbiamo, da ultimo, alle giovani élite fiorentine che, in compagnia dei loro gigli magici, hanno approvato una legge elettorale di ispirazione e stampo proporzionalista, che garantirà diritto di tribuna e di veto anche alle più piccole minoranze, disponibili (loro sì!) alla consociazione appena la maggioranza di turno darà segni di cedimento. Col “sì” si chiude la transizione istituzionale italiana riportando indietro le lancette dell’orologio di oltre venti anni. Col “no” si tiene aperta la porta a riforme migliori, provando a restituire al cittadino lo scettro e il fischietto (nostro omaggio a Roberto Ruffilli e al suo libro Il cittadino come arbitro).
Pubblicato il 21 ottobre 2016 su il Mulino online
Ulivo, la nostalgia non basta per un “Sì”
Per giustificare l’ovviamente sofferto “sì” alle riforme renzian-boschiane c’è chi si abbandona ad una non meglio definita “sensibilità repubblicana”, come fa Massimo Cacciari, e chi si affida alla nostalgia/archeologia prodian-ulivista, come fa Arturo Parisi (“Il mio sì al referendum è nel solco dell’Ulivo”, intervista a “La Stampa”, 14 agosto). Tutto quello che si trova(va) in quelle, in verità non proprio dense e limpide, tesi di vent’anni fa sarebbe buono. Quindi, chi lo recupera, automaticamente ha scritto buone riforme. Come discussione sul merito non mi pare davvero un buon inizio. Neppure nel seguito emerge una qualsiasi considerazione di merito.
Parisi non può fare a meno di notare, anche lui un po’ tardivamente, che Renzi ha personalizzato il referendum. Subito lo scusa perché per partire ci vuole un “io” (forse un ego, meglio se sproporzionato). Siamo alla teorizzazione dell’uomo solo che fa le riforme la cui imperfezione, peraltro, Renzi e Boschi cercano di spiegare asserendo che hanno dovuto negoziarle con il centro-destra, cioè, con Berlusconi. Invece, sostiene Parisi, da un lato, i renzian-boschiani (l’espressione è mia) dovrebbero riconoscere i meriti della generazione ulivista; dall’altro, dovrebbero prendere atto che si sono messi, a loro insaputa (ma questa è una mia aggiunta) nel solco del “cambiamento nella continuità”.
Che in due anni di discussioni, di esternazioni e di processioni (la specialità del Ministro Boschi, non dipendente, per carità, dalla sua avvenenza), questo riconoscimento non abbia mai neppure fatto capolino, non sembra preoccupare Parisi. Anzi, si limita a suggerire che per andare lontano ci vuole il “noi”, vale a dire il coinvolgimento di “voci provenienti da tutte le parti politiche”. Al posto delle parti politiche, tranne gli alfanian-(neanche tutti)-verdiniani, sono arrivate le parti sociali, guidate dalla Confindustria, seguite da “Civilità Cattolica”, coronate da JP Morgan e dal “Financial Times”. Almeno in parte, dovrebbe valere la saggezza popolare “dimmi con chi vai ti dirò chi sei”. A molti, però, che desiderano proprio discutere il merito, più che valutare le compagnie, piacerebbe che Parisi chiarisse quali riforme, oltre ad una trasformazione del Senato che, come Sofia Ventura ha subito acutamente e documentatamente evidenziato nel suo blog (sofiajeanne.com), non è affatto sulla falsariga della apposita tesi dell’Ulivo d’antan, sono valide, e quali presentano limiti e destano motivate riserve. Dove, poi, Parisi abbia visto la magica riforma che farà “della nostra democrazia una democrazia che decide e coinvolge direttamente i cittadini nelle scelte di governo e nella scelta di chi lo guida”, da un lato, mi sfugge poiché con l’Italicum il 60 per cento dei parlamentari non saranno eletti dai cittadini, ma nominati dai capipartito e capicorrenti; dall’altro, mi inquieta perché i cittadini non sceglieranno “direttamente” la persona a capo del governo (che implicherebbe una sorta di presidenzialismo di fatto), ma il partito per il quale, dunque, non vale “l’esaurimento della missione” (certamente non nella grande maggioranza delle democrazie parlamentari europee) da lui denunciato e posto a fondamento delle riforme istituzionali.
Naturalmente, Parisi sa che altri antichi esponenti della compagine ulivista hanno già manifestato netta opposizione a riforme che solo parzialmente si ritrovano nelle tesi dell’Ulivo che, incidentalmente, non sono assimilabili ai Dieci Comandamenti e che è anche plausibile ritenere che, forse, quanto scritto vent’anni fa potrebbe essere superato, ma poteva anche allora essere inadeguato.
Soprattutto preoccupante è la chiusa dell’intervista del braccio destro di Prodi, non propriamente un esperto di riforme e di Costituzione, ma neppure un sostenitore di quelle riforme che, infatti, guardò preoccupatissimo a quanto veniva facendo la Commissione Bicamerale presieduta da Massimo D’Alema. Con la vittoria del NO, non soltanto daremmo l’addio “per decenni” alle riforme (nessun dubbio esprime Parisi sulla loro qualità), ma vi sarebbe una conseguenza peggiore che merita di essere citata per esteso: “quei poteri che vorremmo garantire a un Parlamento oggi abbondantemente esautorato continuerebbero a trasferirsi dal Governo interno alle forze che ci guidano dall’esterno”. Ne deduco tre considerazioni. Primo, Parisi crede che ridimensionando il Senato, rendendolo non elettivo, cambiandone composizione e compiti, il Parlamento italiano risulterebbe meno esautorato. Secondo, molto sottilmente, che già il Governo (del cui potenziamento Parisi non parla) aveva/ha esautorato il Parlamento. Terzo, che il plauso di JP Morgan e del “Financial Times” vada a riforme che riusciranno ad impedire a forze esterne (qui Parisi si colloca fra coloro che credono ai complotti dei poteri forti internazionali), vale a dire anche a loro, di guidare il governo italiano, mi pare assolutamente incredibile. Mah.
Pubblicato il 17 agosto 2016
Partiti, istituzioni, democrazie al XXIX Convegno SISP #SISP2015
XXIX Convegno SISP 10 – 12 settembre 2015
Università della Calabria, Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali – Arcavacata di Rende (Cosenza)
Venerdì 11 Settembre 2015 ore 18
Aula Magna “Beniamino Andreatta”
Presentazione del volume di Gianfranco Pasquino
PARTITI, ISTITUZIONI, DEMOCRAZIE
Arturo Parisi, già ministro, sottosegretario e deputato della Repubblica
Francesco Raniolo, Università della Calabria
Luca Verzichelli, Università degli Studi di Siena
Modera:
Fulvio Venturino, Università degli Studi di Cagliari
Davvero dovremmo riformare un bicameralismo che qualcuno, impropriamente, si ostina a definire perfetto? Spetta al parlamento oppure al governo e alla sua maggioranza, fare le leggi? Chi ha detto che i partiti non controllano più la politica e sono in via di sparizione? Le primarie sono uno strumento di partecipazione democratica oppure un pasticcio manipolato da dirigenti di partito e gruppi di interesse? Esistono democrazie parlamentari nelle quali il capo del governo viene eletto dai cittadini e non può essere sostituito senza nuove elezioni? Nelle quali fa il bello e il cattivo tempo, nomina e sostituisce i ministri, scioglie a piacere il parlamento? Le leggi elettorali sono solo meccanismi per tradurre i voti in seggi oppure lo strumento essenziale con cui gli elettori scelgono i loro candidati e poi li premiano o li puniscono? Le approfondite analisi comparate qui proposte forniscono una risposta articolata a tali interrogativi, esaltando per questa via il contributo fondamentale che la scienza politica può dare ai processi di riforma istituzionale.
INDICE
Introduzione. Quel che so di scienza politica
PARTE PRIMA: PARTITI, PARTECIPAZIONE, PRIMARIE
I. Partiti, società civile, istituzioni
1. Introduzione
2. Società civile e partiti
3. Partiti e istituzioni politiche e amministrative
4. Partiti e riforme istituzionali
5. Conclusioni
II. La teoria dei sistemi di partito
1. Introduzione
2. Le premesse
3. Oltre la critica a Duverger
4. La tipologia dei sistemi di partito
5. Formato, meccanica e gli altri sistemi di partito
6. Come contare i partiti
7. Quando conta un solo partito
8. Le modalità della trasformazione dei sistemi di partito
9. Partiti e scienza politica applicata
10. Conclusioni
III. La partecipazione politica
1. Introduzione
2. Le determinanti della partecipazione politica
3. Partiti e partecipazione politica
4. Le trasformazioni della partecipazione politica
5. Le conseguenze della partecipazione
6. Il futuro della partecipazione
IV. Le primarie per riformare partiti e politica
1. Introduzione
2. Due obiezioni classiche
3. Alcune regole di comportamento
4. Un rischio ineliminabile?
5. Una soluzione possibile e praticabile
6. Post scriptum
V. Le primarie alla prova dei cittadini
1. Introduzione
2. Primarie vere e primarie comode
3. Perché le primarie
4. Mobilitazione
5. Le conseguenze delle primarie
6. Primarie e vittorie elettorali
7. Partecipazione degli «intensi» e rappresentanza dell’elettorato
8. Informazione e comunicazione
9. Per andare oltre
PARTE SECONDA: PARLAMENTI E GOVERNI
VI. Ingovernabilità
1. Introduzione
2. La crisi di rappresentanza
3. Tra rappresentanza e decisionalità
4. La crisi di decisionalità
5. La crisi fiscale dello stato
6. «Les jeux ne sont pas faits»
VII. Tipologie dei parlamenti democratici
1. Introduzione
2. Tra assemblearismo e centralità
3. Quali parlamenti
4. Classificazioni alternative
5. Bicameralismi (e monocameralismo)
6. Conclusioni
VIII. Un sistema elettorale per rappresentare e governare
1. Introduzione
2. Gli obiettivi da perseguire
3. Il potere all’elettore
4. Un premio a chi vota
IX. Varianti dei modelli di governo parlamentare
1. Introduzione
2. La definizione del problema
3. Per un controllo comparato
4. Quello che sappiamo dei rapporti fra modelli di governo e sistema dei partiti
5. Conclusioni
6. Postilla
X. I poteri dei capi di governo
1. Introduzione
2. Gli spazi di flessibilità delle istituzioni semipresidenziali
3. Il rapporto di fiducia nei governi parlamentari
4. Selezione e rimozione dei ministri
5. La nomina dei ministri nelle forme di governo semipresidenziale
6. La sostituzione dei capi di governo e dei ministri
7. Lo scioglimento del parlamento
8. Conclusioni
PARTE TERZA: DEMOCRAZIE
XI. Le idee di democrazia
1. Idee che vengono da lontano
2. Democrazia liberale e democrazia populista
3. La critica elitista della democrazia
4. Democrazia plebiscitaria
5. Democrazia rappresentativa e democrazia competitiva
6. Rappresentanza, competizione e diritti
7. Democrazia, capitalismo e socialismo
8. La democrazia dell’uomo a più dimensioni
9. Poliarchia e democrazia consensuale
10. La teoria discorsiva della democrazia
11. Democrazia mondiale e democrazia telematica
12. Conclusioni
XII. Teorizzare l’alternanza, la sua pratica e la sua mancanza
1. Introduzione
2. L’alternanza nelle teorie democratiche
3. Verso una definizione
4. Le conseguenze dell’alternanza
5. Quando manca l’alternanza
6. I fattori che influenzano l’alternanza
7. Considerazioni intermedie
8. Conclusioni
XIII. Problemi di funzionamento dei modelli di governo
1. Introduzione
2. Il governo diviso nei sistemi presidenziali
3. La coabitazione nei sistemi presidenziali
4. I sistemi parlamentari: instabilità e «indecisione»?
5. Grand Bretagna, Italia e Germania a confronto
6. Conclusioni
XIV. Socialdemocrazie
1. Introduzione
2. Partito e sindacato
3. La gestione dell’economia
4. La stratificazione sociale
5. Il ruolo dello stato
6. Esaurimento o superamento dell’esperimento socialdemocratico?
Riferimenti bibliografici
Indice dei nomi