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Viva la contesa. Ma si pensi agli elettori perduti @DomaniGiornale

La contendibilità (del governo) sta, in maniera non dissimile dalla bellezza, negli occhi di chi guarda. Vedere che i voti del proprio schieramento sono cresciuti è confortante. Constatare che i concorrenti si sono trovati in un sostanziale stallo è quasi altrettanto incoraggiante. Ma il futuro non è mai la semplice prosecuzione dell’oggi poiché numerosi altri fattori sono destinati a fare la loro comparsa. Votando (o no) nelle elezioni regionali, gli elettori erano ampiamente consapevoli della posta in gioco e anche delle problematiche alle quali i candidati presidenti, i loro partiti e, ancor più, le loro coalizioni avevano formulato le loro risposte programmatiche. In Veneto, in Campania e in Puglia non c’era nessun Presidente ricandidato che potesse trarre vantaggio dalle sue prestazioni di governante mettendole in contrapposizioni con le inevitabilmente meno solide promesse degli sfidanti. Peraltro, qualche vantaggio esiste quasi sempre, in termini di visibilità e di relazioni, per le coalizioni governanti. In tutt’e tre i casi, quei governi regionali potevano vantare una lunga storia, quantomeno decennale. Non ne è venuta nessuna sorpresa, ma soltanto una lezione di cui peraltro politici e commentatori attenti non dovrebbero avere necessità: se le sparse membra del centro-sinistra riescono a (ri)comporsi la loro somma può superare il numero di voti che raggranellati dal centro-destra.
Proiettare gli esiti delle elezioni regionali sulle nient’affatto imminenti elezioni politiche del 2027 (a proposito i partiti di governo ci risparmino il brutto gioco di scegliere la data solo in base alle loro convenienze e comunque decidano con un congruo anticipo), non è operazione facile. Chi la fa come, non da sola, la giustamente soddisfatta segretaria del Partito Democratico, deve essere consapevole che il “suo” campo non potrà permettersi nessuna defezione a livello nazionale, anche la più piccola potendo risultare decisiva. Quello che a livello regionale, gli elettori giustamente trascurano, vale a dire la politica estera, non potrà essere eluso a livello nazionale. Oggi come oggi e probabilmente anche domani, le differenze fra i protagonisti del campo largo, sono notevoli e non facili da spingere sotto il tappeto. Vero che la politica estera non è una priorità per l’elettorato italiano, ma basterebbero due o tre per cento di elettori che, particolarmente preoccupati, facessero mancare i loro voti perché l’ago della bilancia pendesse a destra.
Anche se sarebbe sempre preferibile che le elezioni venissero vinte da chi ha le proposte migliori e offre garanzie credibili di saperle attuare, da tempo i dirigenti dei partiti si dedicano alla manipolazione opportunistica delle leggi elettorali. Sbagliano quasi sempre; sbagliano male, e insistono rivelando di conoscere poco la materia (non sono i giuristi gli esperti dei sistemi elettorali). Qui mi limito a sottolineare che una disposizione europea ha sancito da tempo che le leggi elettorali non debbono essere cambiate nell’anno in cui si tengono le elezioni. Aggiungerei anche che è ora di smetterla con la ricerca spasmodica di stampelle sotto forma di premi in seggi per evitare pareggi immaginari. Negli occhi di chi guarda non dovrebbe trovarsi soltanto la bellezza della contendibilità del governo, fenomeno da valutare sempre in maniera positiva. Dovrebbero trovarsi le tracce anche di quei tanti, ad un certo punto sarò costretto a scrivere troppi, elettori e elettrici che alle urne, per molteplici ragioni, comprensibili, ma da me quasi mai ritenute assolutorie, non ci vanno (più). Allora, una buona contesa per il governo del paese sarà quella che sospinge dirigenti, partiti e candidati a cercare gli astensionisti e a incentivarli a tornare con noi. L’interesse di partito e di coalizione coinciderebbe con l’interesse del sistema per una crescita dei votanti. Apprezzabile effetto della ben tornata contendibilità che sarà sotto gli occhi di tutti.
Pubblicato il 26 novembre 2025 su Domani
Cosa imparare dal partito dell’astensione @DomaniGiornale

Le Marche sono, oramai lo sappiamo tutti, l’Ohio dell’Italia. Perdere lì, come hanno fatto i “campeggiatori” del centro-sinistra, è brutt’affare assai. Invece, la Calabria è il Tennessee dove raramente vincono i progressisti. E poi lì, troppi dicono che con poco più del 50 per cento dei non voti ha vinto il Partito dell’Astensionismo. Però, sorpresona o classica truffa elettorale, quel Partito non ha ottenuto neanche un seggio. Non sapremo mai dai suoi non-eletti se i loro non-elettori vogliono più sanità o più Palestina, più servizi e meno criminalità organizzata e sommersa. Da quale proposta più “radicale” saranno raggiunti quei novecentomila elettori che alle urne non ci sono andati e probabilmente non erano neanche andati in piazza con le bandiere della Palestina? Tanto per cominciare, sparse abbondanti lacrime coccodrillo, i politici potrebbero pensare al voto postale in tutte le sue varianti, compresa la possibilità di votare in anticipo. Lungi da me, peraltro, credere che un meccanismo tecnico risolva un problema politico gigantesco che riguarda il campo a geometria troppo variabile del centro-sinistra (e la politica italiana).
Il punto di partenza è prendere sempre atto che nelle amministrazioni locali, comuni e regioni, le elezioni si vincono sulle tematiche che riguardano e preoccupano gli elettorati delle diverse zone. Nessun elettore di destra voterà una lista di sinistra perché è Pro-Palestina. Meno che mai quegli elettori andranno alle urne dell’Ohio e del Tennessee, chiedo scusa, delle Marche e della Calabria, per “cacciare” Giorgia Meloni da Palazzo Chigi. Gli elettori prossimi venturi della California, alias Toscana, che voteranno Eugenio Giani Presidente della regione sanno quello che vogliono, ma non si aspettano che il loro voto sia una spallata al governo delle destre. Saranno tanto più soddisfatti se potranno votare una candidatura di persona che conoscono, che abita nel collegio, che fa campagna elettorale sui temi politici, economici e sociali sui quali la coalizione a suo sostegno ha elaborato una posizione condivisa. Quegli elettori non si chiederanno se stanno dalla parte giusta della storia, dove li aspetta graniticamente attestato Nicola Fratoianni. Saranno probabilmente molto più interessati a stare con chi propone credibilmente soluzioni fattibili.
A sua volta, almeno in parte, la platea degli astenuti tornerebbe in “campo” se quelle proposte la raggiungessero, se ne vedessero i portatori, se venissero convinti che, andata al governo, quella coalizione non si dividesse, non si paralizzasse in estenuanti mediazioni, non precipitasse travolta da ambizioni personalistiche e da profonde contraddizioni. Quegli astenuti hanno opinioni che possono essere plasmate e ridefinite, che un partito capace di meritevole pedagogia politica può fare cambiare a cominciare dall’insegnamento costituzionale che l’esercizio del voto è “dovere civico” (art. 48). Quel partito pedagogico sa anche che ha molto da imparare sulla sua inadeguatezza da chi si astiene, dai motivi talvolta fondati (rappresentanza tradita) ai motivi sbagliati: la politica è autoreferenziale, “non si occupa di persone come me”.
Non bisogna rottamare chi si è astenuto, ma offrire buone ragioni di ravvedimento operoso. Non bisogna disintermediare, ma fare sì che il partito e i suoi candidati/e si rapportino alle associazioni economiche (i sindacati, proprio così), sociali, religiose, culturali, non con mire egemoniche strumentalizzanti, ma per interazioni fruttuose produttive di quel capitale sociale che rende robuste e vibranti le società, anche quelle non proprio e non sempre davvero civili. Sì, la politica in Italia, la politica italiana è arrivata al tornante al quale senza esagerazioni né drammatizzanti né superlative l’astensionismo ne dichiara e evidenzia una condizione deplorevole, tutt’altro che attribuibile esclusivamente al governo di destra e tutt’altro che magicamente risolvibile da una qualsiasi coalizione di centro sinistra. Ma se il centro-sinistra vuole tornare, provare a vincere meglio che tenga conto del sintetico catalogo sopra squadernato.
Pubblicato l’8 ottobre 2025 su Domani
Meloni piccona il potere degli elettori @DomaniGiornale

Il referendum costituzionale non ha quorum. Pertanto, la sua validità non dipende dalla percentuale di votanti, dal partecipazione al voto della maggioranza assoluta degli aventi diritto. I Costituenti ritennero che, dopo due letture del testo in entrambe le Camere a distanza di almeno tre mesi, gli elettori avessero/avrebbero acquisito informazioni sufficienti per esprimere, o no, il loro voto. Parlamentari, uomini e donne di partito, associazioni e, non da ultimo, i mezzi di comunicazione di massa, oggi aggiungeremmo le reti, i social, sarebbero stati in grado di suscitare abbastanza interesse e di spiegare l’importanza del voto spingendo alla partecipazione. Opportuno e giusto che gli elettori interessati, informati, partecipanti venissero poi premiati. Chi vota conta e decide se approvare o respingere la revisione costituzionale. Possiamo legittimamente sostenere che almeno una parte degli elettori che non si è recata alle urne lo ha fatto consapevolmente affidando l’esito ai partecipanti.
L’art. 75 della Costituzione stabilisce che il referendum, richiesto per abrogare, in maniera “totale o parziale”, “una legge o un atto avente valore di legge”, è valido “se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto”. L’onere della diffusione dell’informazione sul quesito referendario e sulle conseguenze dell’abrogazione, ma soprattutto l’arduo compito di convincere la maggioranza assoluta dell’elettorato italiano a partecipare al voto, viene posto interamente sulle spalle dei promotori. Sono loro che debbono trovare le modalità operative e le argomentazioni mobilitanti per sconfiggere coloro che fra furbizia e opportunismo si esprimono a favore dell’astensione dal voto. La furbizia consiste nel trarre vantaggio dall’astensionismo “cronico” già abbastanza elevato che, imprevedibile e non previsto dai Costituenti, conferisce un notevole, immeritato vantaggio iniziale a chi mira ad impedire il raggiungimento del quorum. Sanno che a quorum conseguito perderebbero. Opportunisticamente fanno leva su e sfruttano disinteresse e disinformazione che non sono le migliori qualità degli elettorati in democrazia.
Meglio se le autorità istituzionali, come il Presidente del Senato, non si ponessero alla testa degli astensionisti (ma non sopravvalutiamo il loro seguito). Quanto all’annuncio del Presidente del Consiglio Giorgia Meloni che si recherà al seggio, ma non voterà, non è soltanto uno spettacolo mediatico, una sceneggiata, che verrà coronata da un più o meno grande numero di foto e di riprese televisive. In attesa di saperne di più, che cosa farà Meloni in quel seggio, oltre ad intralciare le operazioni di voto (nel qual caso diventa auspicabile, procedere al suo sgombero), è un modo di deridere chi ha impegnato parte del suo tempo e delle sue energie? Certo non di dare dignità alla politica, di assumersi qualche doverosa responsabilità istituzionali, di riconquistare credibilità anche per gli strumenti, come per l’appunto il referendum, di democrazia diretta.
Intenzionalmente, nell’annunciato comportamento di Meloni non c’è nulla di tutto questo. Piuttosto, si rivela una concezione di democrazia nella quale ridurre comunque il potere degli elettori. Questa concezione si è già manifestata nella forte propensione ad abolire il ballottaggio per le elezioni municipali e regionali, e ha raggiunto il suo culmine nel disegno di legge costituzionale per l’elezione popolare del Presidente del Consiglio, il cosiddetto ”premierato” (pienamente suscettibile di referendum costituzionale) senza che si sappia con quali specifici meccanismi elettorali procedervi. Con tutti condizionamenti esistenti, spetta agli elettori e ai loro rappresentanti eletti cercare di sventare i più o meno sottili tentativi di restringimento della democrazia. Anche se in democrazia si presenteranno altre opportunità, meglio cominciare già dalla occasione offerta dagli imminenti referendum del 8 e 9 giugno.
Pubblicato il 4 giugno 2025 su Domani
Come battere l’astensione cronica sui referendum @DomaniGiornale

I riferimenti troppo frequenti, poco precisi e incompleti al referendum sulla preferenza unica del 9 giugno 1991 sono in parte inappropriati in parte inutili per illuminare tutte le problematiche concernenti i prossimi referendum, per brevità, sul lavoro e sulla cittadinanza. Apparentemente faccenda puramente tecnica, il referendum sulla preferenza unica colpiva il sistema di potere, in particolare democristiano, che si era costruito sulle “cordate” di parlamentari e sulle loro correnti. Era anche il grimaldello per una riforma più incisiva delle leggi elettorali proporzionali, come subito capì Giuliano Amato, vicesegretario del Partito Socialista Italiano, che cercò di bloccarla sul nascere dichiarando incostituzionalissimi i referendum elettorali. Gli inviti all’astensione vennero, certo sulla scia di Craxi e del suo andare al mare quella domenica (peraltro al Nord il tempo non fu buono), ma anche da altri leader politici come Bossi che dichiarò che avrebbe fatto una lunga passeggiata nei boschi padani, da De Mita che sarebbe rimasto a casa a giocare a carte, e, a proposito delle autorità istituzionali, dal democristiano Antonio Gava, Ministro degli Interni preposto ai procedimenti elettorali, che annunciò di trascorrere la domenica con gli “amici”. Quel 95 per cento dei 62,5 per cento di italiani che recatisi all’urne votò sì alla preferenza unica segnalarono non solo di volere una riforma elettorale che permettesse loro di scegliere i parlamentari, ma misero in evidenza quanto quella classe politica del pentapartito avesse perso contatto con la società.
I quattro quesiti referendari attuali sul lavoro invitano piuttosto a riflettere su un altro importantissimo referendum, per brevità, sul taglio della scala mobile (9-10 giugno 1985), molto controversa riforma voluta e ottenuta dal Presidente del Consiglio Bettino Craxi e molto contrastata dal segretario del Partito Comunista Italiano che volle il referendum appoggiato soltanto da una parte della CGIL, segretario generale Luciano Lama. Per qualche tempo, Craxi intrattenne l’idea di fare fallire il referendum chiamando l’elettorato all’astensione. Venne fortemente sollecitato in quel senso, è opportuno ricordarlo, dal leader radicale Marco Pannella. Alla fine decise di accettare la sfida che vinse (partecipazione 77,85 per cento, no all’abrogazione 54,3) mettendo in gioco la sua stessa carica. Un minuto dopo la eventuale vittoria degli abrogatori avrebbe lasciato la Presidenza del Consiglio. Una lezione di accountability, di accettazione di responsabilità politica e istituzionale seguita da Matteo Renzi nel 2016 e da segnalare a Giorgia Meloni quando il suo premierato arriverà al vaglio del referendum costituzionale.
Da queste esperienze discendono due importanti lezioni. Prima, se il contenuto politico della legge è effettivamente significativo gli elettori vanno alle urne. Seconda, nella misura in cui i partiti si attivano la partecipazione elettorale supera il quorum giustamente richiesto per abrogare leggi approvate da una maggioranza dei parlamentari.
Se il tasso di astensione fosse conseguenza del disagio, come troppi sbagliando ritengono, ai promotori del referendum basterebbe convincere i “disagiati” che l’abrogazione di alcune leggi sul lavoro migliorerà le loro condizioni di vita. Sappiamo che non è così poiché il tasso medio di astensionismo è cresciuto a livelli che i Costituenti non potevano neppure lontanamente immaginare. Parte non piccola di quell’astensionismo è cronica, strutturale, non recuperabile. Conferisce un vantaggio iniziale immeritato agli oppositori di qualsiasi quesito referendario. Esistono convincenti proposte per sterilizzare questo vantaggio e per premiare, invece, i cittadini che si interessano, si informano, partecipano. Queste proposte potrebbero essere utilmente esposte e dibattute anche durante l’attuale, un po’ sonnecchiante, campagna elettorale. Le strade della democrazia sono molte. Bisogna trovarle, aprirle, percorrerle.
Pubblicato il 21 maggio 2025 su Domani
Astensionismo #DemocraziaFutura del 02 luglio 2024

Il professor Gianfranco Pasquino, anticipando per Democrazia futura un contributo destinato alla nuova edizione del volume Le parole della politica, analizza una parola chiave nel dibattito recente in Italia, ovvero “astensionismo”. “Nella sua essenza, il non voto è una relazione complessa fra promesse, (in)adempimenti, comportamenti. Non è espressione di un vago disagio, di sentimenti di inutilità, del crescere delle diseguaglianze, tutte spiegazioni – chiarisce l’Accademico dei Lincei – incontrollate, mai sostanziate da fatti e numeri, ampiamente circolanti nei da salotti televisivi e nel chiacchiericcio” radiofonico e social”. Facendo riferimento ad uno studio di tre grandi politologi, Pasquino analizza le tre categorie individuate “di non partecipanti, quindi anche, a maggior ragione, non votanti. Sono coloro che alla domanda relativa al perché della loro astensione, del loro non voto rispondono: “non posso”; “non voglio”; “nessuno me l’ha chiesto” – che a suo parere – “offrono una spiegazione esemplare delle motivazioni per le quali uomini e donne, cittadini democratici (perché è solo nelle democrazie che esiste la libertà di scegliere fra votare e non votare) si astengono”.
“Tutti promettono. Nessuno mantiene. Vota nessuno”.
Tre lapidarie, pregnantissime frasi scritte sui muri di Bologna, città di diffuse tradizioni civiche e intenso impegno politico partecipativo, introducono splendidamente alla problematica dell’astensionismo. Nella sua essenza, il non voto è una relazione complessa fra promesse, (in)adempimenti, comportamenti. Non è espressione di un vago disagio, di sentimenti di inutilità, del crescere delle diseguaglianze, tutte spiegazioni incontrollate, mai sostanziate da fatti e numeri, ampiamente circolanti nei da salotti televisivi e nel chiacchiericcio radiofonico e social. Per mettere ordine credo che il modo migliore di procedere sia di affidarsi alla teorizzazione di tre grandi politologi statunitensi Kay Lehman Schlozman, Sidney Verba, Henry E. Brady, autori di una importantissima ricerca sulla partecipazione politica: The Unheavenly Chorus. Unequal Political Voice and the Broken Promise of American Democracy[2]
In maniera come si deve, esauriente, esclusiva, elegante gli autori hanno individuato tre categorie di non partecipanti, quindi anche, a maggior ragione, non votanti. Sono coloro che alla domanda relativa al perché della loro astensione, del loro non voto rispondono: “non posso”; “non voglio”; “nessuno me l’ha chiesto”.
Nell’insieme, le tre risposte offrono una spiegazione esemplare delle motivazioni per le quali uomini e donne, cittadini democratici (perché è solo nelle democrazie che esiste la libertà di scegliere fra votare e non votare) si astengono. Con una importante nota di cautela, è possibile che i non votanti qualche volta siano tali perché non hanno potuto votare, qualche volta perché non hanno voluto, qualche volta perché non sono stati raggiunti da chi non ha saputo/voluto sollecitare il loro voto. Ciò opportunamente rilevato e rimarcato, ciascuna singola motivazione deve essere spacchettata con grande profitto analitico.
Chi risponde Non posso.
Votare non è mai un atto semplice. Prima di tracciare una crocetta, premere un tasto, scrivere un nome, il potenziale elettore deve essere iscritto nelle liste elettorali. In alcuni sistemi politici, l’iscrizione avviene alla nascita con un provvedimento amministrativo automatico. Non sempre, però, i mutamenti di residenza vengono registrati automaticamente e rapidamente. Quindi, per molti, “non posso” significa
“non sono stato in grado di registrarmi, non mi hanno registrato”.
A lungo, negli Stati Uniti d’America la registrazione nelle liste elettorali è stata politicamente difficile, discriminando l’elettorato di colore. In anni recenti, i Repubblicani hanno eretto nuovi ostacoli manipolando tempi, luoghi e documentazione per l’iscrizione.
Alcune società sono particolarmente mobili, come, ma non solo, gli Stati Uniti. Milioni di lavoratori e di studenti non si trovano nei loro luoghi di residenza il giorno del voto (primo martedì di novembre). Se non hanno preveggentemente provveduto a chiedere il voto per posta, non potranno votare. In Europa, gli straordinari successi socio-economici del Mercato Unico, libera circolazione di persone e servizi, e del programma Erasmus con studenti sparsi in una molteplicità di sedi, creano grandi difficoltà di partecipazione elettorale.
Vivere più a lungo si può, nelle democrazie, ma spesso lo stato di salute degli anziani, che hanno perso compagni/e della loro vita e i cui figli sono sparsi sul territorio, non consente loro di andare alle urne. “Non posso” è una spiegazione soddisfacente dell’astensionismo, qualche volta una giustificazione dolente per uomini e donne che per decenni sono stati in grado di esercitare il diritto di voto e di adempiere a quello che la Costituzione italiana (art. 48) statuisce come dovere civico.
Chi risponde “Non voglio”.
“Sono tutti eguali”.
“Nessuno si cura di me”.
“Non ho tempo e energie da sprecare”
“Vinca l’uno o l’altro la mia situazione non cambierà”.
Sono motivazioni molto diffuse, spesso persino condivisibili, contrastabili con argomentazioni razionali piuttosto che sentimentali.
Interessante è il cangiante tenore della motivazione “nulla cambia”. Indicatore di disaffezione/alienazione di elettori che ritengono con qualche buona ragione che il loro voto non serve, il “nulla cambia” può spiegare anche il fenomeno dell’astensione di coloro, un tempo li avremmo chiamati yuppies (young, urban, professional) che pensano di avere le risorse, nell’ordine, culturali, sociali e materiali per fare a meno della politica. La loro vita, le loro sorti personali e professionali, il conseguimento degli obiettivi ai quali mirano possono essere in qualche modo e in una incerta misura intralciati dalla politica, ma, per lo più, sono nelle loro mani, conseguibili grazie al loro impegno e alle loro capacità senza politica, al di fuori della politica. Perché, dunque, sciupare tempo e energie per dare un voto quasi sicuramente ininfluente?
Chi risponde “Nessuno me l’ha chiesto”.
Questa risposta segnala immediatamente l’esistenza di due fenomeni:
- Da un lato, l’isolamento sociale, molto più che, ma talvolta anche, geografico;
- dall’altro, la debolezza del tessuto associativo del luogo, paese, regione, sistema politico dove si trova a vivere la persona che ha risposto.
Il titolo americano del libro di Robert Putnam, dedicato alle vicissitudini del capitale sociale e al suo declino, Bowling Alone (2000)[3] fotografa la situazione delle società contemporanee. Tutte le associazioni un po’ dovunque, dai sindacati alle associazioni professionali, dalle associazioni religiose a quelle industriali, tranne forse quelle si impegnano nella difesa dell’ambiente, dalle società di mutuo soccorso a quelle per il tempo libero, hanno perso iscritti.
Le loro riunioni sono meno frequentate, durano poco tempo, in maniera crescente si svolgono online. Un lustro e più fa Putnam additava la televisione come la maggior colpevole di un declino apparentemente inarrestabile.
Oggi, sappiamo che la proliferazione dei social network erode quel che rimane di molte associazioni e crea bolle di simili, contenti di chattare, raramente con oggetto la politica, quasi esclusivamente fra simili, non di impegnarsi in azioni collettive, meno che mai andare a votare.
Osservazioni conclusive
Le notevoli differenze nelle motivazioni di non voto attraversano le classi sociali, le generazioni e i generi per lo più rendendo poco significative le analisi tradizionali basate su queste caratteristiche.
Suggeriscono anche di evitare i discorsi giornalistici che fanno del “partito di chi non vota” il vincitore di molte elezioni. Con le motivazioni tanto distanti fra loro che stanno a fondamento del loro non voto, gli astensionisti non riuscirebbero mai a mettersi insieme, neppure opportunisticamente, in qualsivoglia partito.
E, poi, rimane il punto davvero dirimente: chi non vota non conta.
Da qualche tempo, anche a causa della crescita e della diffusione in ogni latitudine dell’astensionismo, austeri e severi commentatori hanno iniziato a lamentarlo e a denunciarlo come un problema di prima grandezza, una ferita inferta alla e alle democrazie, che potrebbe portarle alla morte.
Non sappiamo, non esistono precedenti, se le democrazie implodono per mancanza di partecipazione, specificamente elettorale. Partecipare/non partecipare, votare/non votare sono opzioni alternative che soltanto le democrazie offrono ai loro cittadini, le garantiscono e le proteggono.
In molti contesti l’astensionismo è smobilitazione individuale, graduale, silenziosa, tanto rispettabile quanto criticabile senza piagnistei e vittimismi da coccodrilli. Alcuni studiosi sostengono che, senza in nessun modo rimanere indifferenti nei confronti dell’astensionismo e degli astensionisti, dovremmo temere molto più l’eventualità di una rimobilitazione improvvisa su vasta scala degli astensionisti ad opera di un demagogo che li abbindoli e li conduca in massa contro tutto e contro tutti.
Alla fin della ballata, prendendo atto che ci sono sempre cittadini che partecipano alla cosa pubblica e cittadini che se ne stanno nel privato, possiamo permetterci di concordare con Pericle che i partecipanti sono cittadini migliori.
[1] Contributo preparato per la nuova edizione de Le parole della politica, Bologna, il Mulino. Data prevista di pubblicazione marzo-aprile 2025.
[2] Kay Lehman Schlozman, Sidney Verba, Henry E. Brady, The Unheavenly Chorus. Unequal Political Voice and the Broken Promise of American Democracy, Princeton-Oxford, Princeton University Press, 2012, 728 p.
[3] Robert Putnam, Bowling Alone: The Collapse and Revival of American Community, New York, Simon&Schuster,2000, 541 p.
Pubblicato il 2 luglio 2024 su ilmondonuovo.club
La democrazia dell’astensione e i trucchetti della destra @DomaniGiornale

Gradualmente, con bassi e alti, impuntature e contraddizioni, giravolte e regressi, sembra che coloro che frequentano il “capo largo” abbiano finalmente appreso l’abc della politica: Avanzare Bene Coalizzandosi. Non tutti, per carità, hanno colto appieno l’insegnamento. Appesantito dal suo ego, qualcuno rilutta e aspetta, talvolta intralcia, ma la lezione è chiara e gli elettori sembrano apprezzarla. Non vogliono perdere quello che hanno (avuto) da buone amministrazioni di centro-sinistra. Vogliono ottenerlo quando le promesse di candidature adeguate e condivise appaiono preferibili rispetto alle prestazioni degli amministratori del centro-destra. Azzardato è sostenere come, sull’onda dell’entusiasmo ha affermato Elly Schlein, che nel voto favorevole al centro-sinistra stanno anche la richiesta di più fondi alla sanità pubblica e la critica all’autonomia regionale (malamente) differenziata. Gli elettori, almeno la maggior parte di loro, ragionavano su tematiche locali, evidenti, urgenti, importanti, ma, certo anche il rumore di fondo di brutte riforme nazionali ha influito sul loro voto. Non è forse inutile ricordare ai dirigenti del centro-sinistra che sulle tematiche più propriamente relative al governo nazionale: aggressione russa all’Ucraina e europeismo, le differenze fra loro restano, con parte degli elettori non disponibili a premiare potenziali governanti che non offrissero una visione convincente, condivisa e praticabile.
Già, gli elettori. L’astensionismo che cresce si offre a molteplici interpretazioni, la meno accettabile delle quali mi pare il disagio. Piuttosto, a livello delle emozioni, porrei l’accento sull’indifferenza (l’uno o l’altra per me pari sono) e sull’alienazione (va male, andrà peggio, non ci posso fare niente). Non escludo i “soddisfatti” (comunque si me la cavo abbastanza bene chiunque vinca). Il punto, però, è che, non solo il voto è “dovere civico” (art. 48 della Costituzione bellina), ma in democrazia è, più che auspicabile, raccomandabile che il maggior numero possibile di cittadini esprima le sue preferenze, sia coinvolta, partecipi. Se la partecipazione è un obiettivo di sinistra, allora dirigenti e attivisti del centro-sinistra dovrebbero dedicare molte più energie a raggiungere elettori fuoriusciti e elettori mai entrati. La democrazia può funzionare anche con alti tassi di astensionismo, ma la sua qualità non sarà buona e le diseguaglianze rimarranno molte e alte, se non addirittura cresceranno.
Pur essendo per lo più vero che al secondo turno elettorale e al ballottaggio (non sono la stessa cosa) diminuiscono gli elettori, stabilire che per vincere la carica in palio sia sufficiente il 40 per cento dei voti (con il perdente magari al 39 per cento) non avrà nessun effetto sul tasso di astensione. Invece, avrebbe effetti negativi sulla legittimità e sulla rappresentatività del candidato vittorioso, proprio quella legittimità e rappresentatività che la maggioranza assoluta garantisce. Qui, il punto è che il ballottaggio è un ottimo strumento politico per i candidati rimasti in lizza e per gli elettori. I primi sono obbligati a cercare voti allargando lo schieramento che li sostiene e prefigurando la coalizione di governo. I secondi ottengono maggiori informazioni e sanno di disporre di un voto decisivo. Chi rinuncia a questa opportunità si assume la responsabilità dell’eventuale elezione del candidato meno gradito. Chi vota al secondo turno ha preferenze più intense e esprime maggiore impegno politico. Il Presidente del Senato La Russa e i leghisti firmatari del disegno di legge (però, che cattivo gusto presentarlo sull’onda di una sconfitta!) che chiamerò “40 per cento ebbasta”, hanno paura di questi elettori? E, forse, stanno anche prefigurando una inaccettabile soglia per l’elezione popolare diretta del Presidente del Consiglio? No, grazie.
Articolo pubblicato il 26 giugno 2024 su Domani
Non piangete sull’astensionismo. Le motivazioni di chi non vota @formichenews

Politici e commentatori, spargete lacrime sulla vostra inadeguata capacità di comprensione delle motivazioni di chi non vota. Gianfranco Pasquino li divide in tre gruppi: non voglio, non posso, nessuno me l’ha chiesto. Ecco chi sono

Non esiste nessun “partito degli astensionisti”. Non ha logo, non ha iscritti, non ha organizzazione, non ha leadership, non ottiene mai seggi. Quindi, è sbagliato evocarlo. I suoi adepti, tranne uno zoccolo duro, mutano nel tempo, cambiano casacca ad ogni elezione e, soprattutto, hanno motivazioni molto diverse. Prendendo le mosse dalla ricerca di tre eccellenti studiosi USA sulla partecipazione politica: S. Verba, K. Schlozman Lehman e H. E. Brady, Voice and Equality. Civic Voluntarism in American Democracy, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1995, e votare è una forma, forse la più importante, di partecipazione politica, identifico tre grandi gruppi di astensionisti.
Primo gruppo: “non voto perché non voglio”. Sono gli irriducibili. Non vogliono dare nessun consenso e neppure legittimità al sistema politico, alla classe politica, a quel che rimane dei partiti. Esistono un po’ dovunque nelle democrazie. Sarebbero da considerare un problema, non perché non votano, ma se, improvvisamente, mobilitati da una crisi o da un demagogo, accorressero in massa alle urne.
Il secondo gruppo è: “non voto perché non posso”. Sono molto fluttuanti e anche molto irritati poiché vorrebbero effettivamente votare: studenti fuori sede e fuori Italia; imprenditori e lavoratori nelle loro molte, essenziali, attività all’estero; anche turisti colti da sorpresi da imprevedibili elezioni anticipate; donne e uomini anziani, malandati, che vivono soli e isolati e che fisicamente non sono in grado di recarsi alle urne, e nessuno li aiuta. Questo è il gruppo che, appena i coccodrilli smettono di spargere le loro ipocrite lacrime e s’impegnano in modifiche decenti alla legge elettorale, tornerebbe con interesse e soddisfazione a votare. Voto per posta con schede spedite anche in anticipo e voto elettronico con diverse modalità, tutto già esistente, collaudato, praticato in molte democrazie occidentali, ad esempio, in Germania e in Svezia, ma anche negli USA la cui qualità di democrazia elettorale, però, è sfidata dai repubblicani che il voto preferirebbero “sopprimerlo” (in Florida il governatore repubblicano ha vietato portare acqua agli elettori in fila per raggiungere i seggi!).
Il terzo gruppo risponde: “non voto perché nessuno me l’ha chiesto”. Siamo entrati nel cuore della rappresentanza politica, quel rapporto virtuoso fra elettori sufficientemente informati e candidati sufficientemente disposti e capaci di dialogare con loro. In partenza è anche possibile sostenere che esiste uno sfarinamento del tessuto associativo italiano: meno iscritti, ma anche meno discussioni politiche in associazioni che traggono la loro forza dal contrapporsi alla politica; fine, da tempo, del collateralismo e depoliticizzazione dei sindacati, ma c’è di più. Partiti non presenti sul territorio, molteplicità di candidati/e paracadutati/e che sbarcano, prendono il seggio, se ne vanno a Roma e adieu. Nessuna interazione con gli elettori, nessun rendiconto del fatto, dal malfatto, del non fatto. Prossimo giro altro collegio. Quasi sicuramente se le candidature nascessero dal contesto nel quale debbono cercare di vincere il seggio, fossero enfants du pays/native sons (and daughters), espressione di una comunità, gli appartenenti di quella comunità, che li conoscono da tempo, si attiverebbero anche mobilitando altri elettori e i candidati garantirebbero la loro presenza anche per non deludere amici, conoscenti, compagni di una vita. Il terzo gruppo di astensionisti è ampio, fluttuante, elastico, talvolta crescente.
Poiché, però, contano i voti di chi vota, i dirigenti dei partiti italiani poco si curano di andare a “chiedere il voto” impegnandosi faticosamente, magari sacrificando un loro candidato a favore del candidato del territorio. Seguirà una lacrimuccia facilmente asciugabile prima dell’elezione successiva. Dopotutto, il “partito degli astensionisti” non è riuscito a conquistare neanche un seggio. Peggio per loro o per la rappresentanza politica?
Pubblicato il 11 settembre 2022 su Formiche.net
Liste calate dall’alto? Non vale per tutti i partiti #intervista @ilriformista

Il politologo: «Cassese dice che le forze politiche sono diventate oligarchie? Sbagliato generalizzare. Realtà come il Pd hanno scelto i candidati anche in base a competenze importanti. Giudicherà chi vota» Intervista raccolta da Umberto De Giovannangeli

Tra gli scienziati della politica italiani, Gianfranco Pasquino è tra i più accreditati. Professore emerito di Scienza politica nell’Università di Bologna, dal 2005 socio dell’Accademia dei Lincei. Tra le sue numerose pubblicazioni, ricordiamo la più recente: Tra scienza e politica. Una autobiografia (Utet, 2002).
“Il modo in cui si sono formate le liste è un’ulteriore dimostrazione del carattere oligarchico del nostro sistema politico”. Così Sabino Cassese in una intervista a questo giornale. Lei come la vede?
Le liste vengono formate in maniera molto diversa da partito a partito. Non sono in grado di generalizzare e non vado alla ricerca di modalità democratiche, modalità oligarchiche etc. Parlerei piuttosto di modalità funzionali. Ciascun partito decide cos’è meglio per la sua organizzazione, per i suoi militanti che poi dovranno fare anche un po’ di campagna elettorale, per i candidati che deve scegliere. Non possiamo dire che il Partito democratico abbia scelto i suoi candidati allo stesso modo con il quale li ha scelti Giorgia Meloni per Fratelli d’Italia. E sappiamo da tempo immemorabile che i candidati di Forza Italia vengono scelti da Silvio Berlusconi e abbiamo visto che i 5Stelle utilizzano anche le cosiddette “parlamentarie”. Di tanto in tanto il Pd fa anche delle primarie che purtroppo i commentatori sbeffeggiano, sbagliando.
Perché, professor Pasquino?
Perché se condotto con metodi decenti, rappresenta un metodo democratico. Quindi non generalizzo, le scelte dei candidati sono state fatte in un certo modo e sono in grado di criticare di volta in volta le modalità e le scelte effettive. Mi chiedo, ad esempio, che senso ha paracadutare Elisabetta Casellati in Basilicata quando era eletta e ambita in Veneto, mentre al suo posto c’è Anna Maria Bernini che notoriamente è una bolognese. Naturalmente ho molto da dire sul fatto che Piero Fassino va a fare il parlamentare del Veneto dopo aver fatto il parlamentare del collegio di Modena e Sassuolo. Questo riguarda anche la forza del candidato. Fassino è un uomo molto forte nel suo partito e sceglie dove andare. Nel caso della Casellati, Berlusconi e Tajani preferiscono candidarla in Basilicata. Però non si può generalizzare. Possiamo dire che il metodo comunque non ci convince, dopodiché affidiamo il resto agli elettori. Saranno loro a valutare se sono buoni candidati oppure no, se fanno campagna elettorale, se rappresentano il territorio, se non sanno solo ascoltare ma come dico io anche interloquire con i loro elettori, oppure se è semplicemente un’operazione nel segno di rieleggetemi e buona fortuna.
Nel dibattito aperto da Il Riformista, Sergio Fabbrini, altro autorevole scienziato della politica e dei sistemi istituzionali, ha sostenuto: “Gli eletti sono diventati degli imprenditori di se stessi e quindi si comportano sulla base dei vantaggi immediati che possono conquistare nel mercato politico”. Concorda ?
No, anche se ne apprezzo il rigore e la nettezza. Non sono d’accordo perché, di nuovo, occorre differenziare tra i vari partiti. Nel Partito democratico ci sono le carriere. Persone che hanno iniziato a fare politica prima che ci fosse il Partito democratico e che proseguono nella loro carriera. Non sono degli “imprenditori di se stessi”, come li definisce Fabbrini. Secondo me sono semplicemente dei professionisti, qualche volta anche perché hanno acquisito delle competenze vere. Per non restare nel vago. Non si può fare a meno di uno come Franceschini, perché è bravo, ha delle competenze. Ed è sbagliato respingere la candidatura di Casini, perché anche lui è bravo e ha delle competenze. Siamo di fronte a professionisti, a semi professionisti e come una volta mi disse Domenico Fisichella a “gentleman in politics”. Naturalmente si riferiva a se stesso, cioè a persone che hanno una biografia professionale tale da permettere loro di fare un po’ di politica e poi tornare alla loro professione senza nessuna preoccupazione. Questo vale per il Partito democratico come anche, sul versante opposto, per Fratelli d’Italia, perché è l’unico altro partito rimasto vivo. Il Msi era un partito organizzato sul territorio. E non vale invece in altri casi. Come quello di Forza Italia Ha ragione Berlusconi: i suoi candidati vengono effettivamente dalla società civile. Di errato c’è semmai il verbo. I candidati non “vengono” dalla società civile, è lui che li ha “prelevati” dalla società civile ed è lui che li “ricaccia” nella società civile quando non gli servono più. Nessuna generalizzazione è possibile, insisto su questo, ma analizzare caso per caso, e sul singolo caso costruire una spiegazione, soprattutto quando certe scelte suscitano polemiche non sempre pretestuose.
Venendo ai “campi” che si fronteggiano. Cosa teme di più del destra-centro: la leadership Meloni?
Io temo l’inesperienza di una parte non marginale di quella classe dirigente. Temo l’eccessiva gioiosità per aver vinto le elezioni, e l’incapacità di capire che cosa vuole l’Europa da noi. E soprattutto temo gesti eclatanti volti a dimostrare che quello a cui daranno vita è un Governo “nuovo”, che siamo entrati in un’era “nuova”. Tutto questo temo. E ne temo l’insieme. E che Giorgia Meloni si lasci trascinare dall’entusiasmo. Mi è rimasta negli occhi, e in parte anche nelle orecchie, la sua performance al congresso di Vox. Non vorrei mai più vedere una Giorgia Meloni così. Certo è che se lei va in Europa con quella grinta la cacciano subito via.
Passando al centrosinistra. Cosa resta del “campo largo” su cui aveva puntato Enrico Letta?
Purtroppo questi politici non hanno studiato la scienza politica. Ne sono proprio digiuni e non sanno proprio di cosa parlano. Non mi riferisco solo alla legge elettorale, di cui non sanno nulla se non tutelare i propri interessi. Davvero non sanno di cosa parlano. “Campo largo” non c’era proprio bisogno di dirlo. Perché se uno avesse acquisito i rudimenti, non dico di più, della scienza politica, saprebbe che in politica si fanno le coalizioni. Questo è il principio dominante. In tutti i sistemi politico si fanno coalizioni. Persino in Gran Bretagna, dal 2010 al 2015 c’è stata una coalizione tra conservatori e liberali. Hanno addirittura stilato le regole della coalizione. Macchè “campo largo”, parliamo di coalizioni. E le coalizioni – c’è una letteratura splendida in proposito – si fanno fra partiti che sono vicini, geograficamente vicini, ideologicamente compatibili, programmaticamente in grado di convergere su quelle che ritengono essere le priorità del Paese. Letta ci ha provato ma evidentemente non conosce la teoria delle coalizioni. Dopodiché ha fatto del suo meglio, anche perché ha dovuto fare i conti con individui che sono molto ambiziosi, ingiustificatamente ambiziosi, immeritatamente ambiziosi, che hanno, come ho avuto modo di dire e scrivere, il loro ego in perenne erezione. Con quella gente è difficile trattare. Chi riesce a fare meglio le coalizioni meglio riesce ad ottenere il consenso. Giuliano Urbani, che è uno scienziato della politica, disse a suo tempo a Berlusconi “fai due coalizioni: una che si chiama Polo del buongoverno e l’altra Polo delle libertà. E in questo modo riesci a mettere insieme sia gli ex missini sia la Lega”. Questo è quello che è successo nel ’94. È il prodotto delle competenze politiche del professore di Scienza politica Giuliano Urbani. Mi lasci aggiungere un consiglio che non vuol essere “professorale”: si dovrebbe sempre chiedere a chi parla/ scrive di tematiche istituzionali-elettorali quali libri/articoli scientifici abbia letto, quali sono gli autori a sostegno delle sue analisi e valutazioni. Per non alimentare una confusione già così diffusa e grande sarebbe cosa alquanto opportuna fare pulizia terminologica per riportare il dibattito sui binari solidi e rigorosi della Scienza politica.
In Italia c’è ancora chi sostiene che si vince occupando il centro.
La Scienza politica racconta un’altra storia…
Quale?
Il centro è un luogo geografico. Non sappiamo quanti elettori stanno al centro, ma soprattutto sappiamo che vi sono elettori che stanno all’estrema sinistra e all’estrema destra. Non possiamo perderli. Dobbiamo andarli a cercare. Sapendo, innanzitutto, che dobbiamo motivare gli elettori a venirci a votare. In Italia vincerebbero alla grande le elezioni coloro che sapessero motivare gli astensionisti, quantomeno trovando la chiave per raggiungerne alcuni settori. Non c’è un “partito degli astensionisti”. Anche qui, evitiamo dannose, oltreché erronee, generalizzazioni. Quegli astensionisti non sappiamo di dove sono, se sono di centro, di destra, di sinistra. C’è di tutto, coprono l’intero arco politico. Si tratta di andare a cercare gli elettori su tematiche specifiche. La scienza politica indica che ci sono tematiche valoriali che sono politiche: le famose issues. Devi trovare la issue giusta e devi sapere anche quali sono i valori condivisi di quegli elettori che cerchi. Quel valore condiviso potrebbe essere, per esempio, molto semplicemente la democrazia in Europa, o qualcos’altro, magari di segno opposto. Ad esempio, manteniamo un alto livello di diseguaglianze perché noi elettori siamo bravi e quindi riusciremmo a trarne profitto. Operazioni che richiedono intelligenza politica a cui abbinare la capacità di un politico di stare sul territorio. Come può Fassino mobilitare gli elettori del Veneto che non l’hanno visto mai se non in televisione? Casini mobilita gli elettori bolognesi perché qui ci abita da quando è nato, perché ha fatto campagna elettorale, perché è notissimo. Ed è per questo che lui è un valore aggiunto.
Pubblicato il 27 agosto 2022 su Il Riformista
Chi non vota danneggia la politica e i suoi concittadini elettori
La crescita dell’astensionismo, cioè del numero degli elettori che, per una varietà di motivi, non si recano alle urne, non è una “emergenza democratica”. Nessuna democrazia è mai “crollata” per astensionismo. Al contrario, un’impennata di partecipazione elettorale con milioni di elettori che seguano adoranti un demagogo che ne ha catturato l’immaginazione e ne vuole il sostegno elettorale, è spesso produttiva di conseguenze destabilizzanti. America latina e Filippine ne sono una prova. Tuttavia, quando gli elettori decidono che non vale la pena andare a votare mandano un messaggio che riguarda un po’ tutti a cominciare dai partiti. Infatti, i partiti sono il tramite essenziale fra gli elettori e il (loro) voto. Partiti male organizzati e/o personalistici non riescono a raggiungere gli elettori. Partiti inaffidabili, che indicano le cose da fare e ne fanno altre, provocano delusione nell’elettorato, loro e complessivo. Partiti che presentano candidature di uomini e donne mediocri che hanno il solo pregio di essere popolari oppure di venire dall’apparato non possono essere entusiasmanti. Partiti che cambiano alleanze e preferenze sconcertano gli elettori. Partiti che scrivono leggi elettorali astruse perseguendo il loro interesse particolaristico creano non poca confusione in chi dovrebbe votarli. In Italia, da almeno trent’anni si producono tutti questi fenomeni. Sarebbe, però, sbagliato pensare che gli elettori stessi non portino una buona dose di responsabilità per il loro astensionismo.
Chi non si interessa di politica, non s’informa e non partecipa alle elezioni automaticamente avvantaggia i votanti e non può poi lamentarsi e gli eletti non si curano dei suoi interessi, delle sue necessità, delle sue preoccupazioni. Non votando, gli astensionisti non trasmettono le loro richieste né a chi ha vinto le elezioni e le cariche né a chi va a formare l’opposizione e avrebbe grande vantaggio dall’ottenere informazioni e sostegno, a futura memoria, dagli astensionisti. Proprio qui sta il problema, se si vuole l’emergenza. I governanti e, di volta in volta, gli oppositori non sanno che cosa desidera “la gente”, per lo più presumono e spesso sbagliano attribuendo preferenze inesistenti. In un certo senso, poi, tanto i governanti quanto gli oppositori diventano e rimangono irresponsabili. Non debbono rispondere ad un elettorato che non li ha votati oppure a elettori casuali e fluttuanti, ma soltanto a quei settori loro già noti, talvolta definiti zoccolo(ino) duro. Per fortuna, fino a quando non farà la sua comparsa un demagogo, non si configura nessuna emergenza. C’è, invece, cospicuo e persistente un problema di scollamento fra una società, che non sempre merita la qualifica “civile”, e partiti disorganizzati, male educati, opportunisti. Poiché questo scollamento riduce e limita il potere del popolo (democrazia) è giusto (pre)occuparsene, non con frasi da coccodrillo, ma riconoscendo e affermando l’importanza del voto e della politica.
Pubblicato AGL il 29 giugno 2022
Dalle elezioni il governo esce rafforzato. Ora il premier accontenti il Pd #intervista @ildubbionews


Intervista raccolta da Giacomo Puletti
Come soddisfare i dem? «Ad esempio con un atteggiamento molto favorevole sul rinnovo del reddito di cittadinanza, pur con le variazioni, sulle pensioni, sull’immigrazione e sullo ius soli»
Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza Politica all’università di Bologna, spiega che «Salvini e Meloni dovrebbero riflettere sui propri errori invece di scaricare le colpe su altri» e che il governo esce «appena rafforzato» dal voto, ma «ora Draghi deve rendersi conto che forse a qualche esigenza del Pd si deve rispondere».
Professor Pasquino, a chi è attribuibile la vittoria del centrosinistra alle Amministrative?
La vittoria è al 50 per cento di Letta. È stato ostinato, tenace, sobrio ed è riuscito a ottenere quello che voleva. Il restante 50 per cento è da dividere: attribuisco un 10 per cento a Conte, perché aveva fatto capire agli elettori del Movimento di votare per i candidati del centrosinistra; un 25 per cento agli stessi candidati, perché sono competenti e hanno buone idee per governare le loro città; un 15 per cento al programma complessivo del centrosinistra, che è meno contundente di quello del centrodestra. Sono rimasto stupefatto, come sa sono abbastanza critico del Pd ma Gualtieri, Lo Russo e anche Russo che ha perso a Trieste sono stati candidati efficaci. Insomma il centrosinistra ha scelto bene.
Il Movimento 5 Stelle è destinato a diventare junior partner del Pd nella coalizione di centrosinistra?
Credo che ormai sia inevitabile. Il ruolo di Conte sarà quello di far passare alcune delle idee del Movimento nella coalizione. Non dimentichiamoci tuttavia che è riuscito a convincere una parte di elettori pentastellati romani che non era il caso di astenersi e men che mai di votare per Michetti. In una vittoria con il 60 per cento dei consensi è difficile che non ci siano anche elettori del M5S. Stessa cosa a Torino, ma a Roma l’apporto di Conte è stato diretto.
Letta ha parlato di coalizione larga, da Conte a Calenda, anche se quest’ultimo non è apparso molto entusiasta. Cosa ne pensa?
Credo che la coalizione debba fare affidamento sulle leadership che ci sono. Quindi purtroppo bisognerà parlare anche con Calenda e Renzi. Ma poi ci sono gli elettori, che sanno che o si allarga la colazione o il paese finisce in mano a Salvini e Meloni. Non sono affatto sicuro che Calenda riesca a convincere i suoi elettori a fare cose contronatura. Renzi ci proverà e alzerà il prezzo ma anche gli elettori di Italia viva sanno che è meglio sopravvivere in uno schieramento di centrosinistra che finire schiacciati da Lega e Fratelli d’Italia.
A proposito di Lega e Fratelli d’Italia, di chi è la colpa della sconfitta?
Salvini e Meloni dovrebbero riflettere sui propri errori invece di scaricare le colpe su altri. Non è il tempo che è mancato, sono loro che hanno scelto tardi i candidati. I quali sono stati pescati dai leader, prima di tutto Michetti e Bernardo. Scegliendo un politico a Milano il centrodestra sarebbe stato molto più competitivo. Dovrebbero riflettere anche sul fatto che i sondaggi fotografano una situazione per quel che riguarda l’andamento del partito ma dall’ultima fotografia sono accadute alcune cose, come il caso Morisi, il caso Fd’I a Milano, l’assalto alla Cgil. Fatti non prodotti dalla sinistra, ma dai loro seguaci.
La forte astensione è causata dalla pandemia, dal fatto che tutti i partiti tranne Fratelli d’Italia sostengono Draghi o cos’altro?
Lascerei stare Draghi, che non c’entra niente. Ci mancherebbe che collegassimo l’astensione alla soddisfazione o meno sul governo Draghi. Il punto è che chi vuole vincere deve saper mobilitare i propri elettori e sia Salvini che Meloni non l’hanno saputo fare. Il Pd evidentemente ha una capacità di mobilitazione maggiore. Forse la Meloni doveva impegnarsi di più in prima persona, non soltanto a Roma.
Non pensa ci sia comunque un problema di disaffezione nei confronti della politica?
Dell’astensionismo dobbiamo certamente preoccuparci, perché è chiaro che una parte di elettori crede poco in questa politica e quella parte va recuperata. Ci sono poi strumenti che facilitano la partecipazione, come il voto per posta, e questi strumenti ormai andrebbero presi in considerazione per recuperare un 5, forse 10 per cento di astenuti.
Crede che una legge elettorale di stampo proporzionale, di cui già si parla, porrebbe le basi per la nascita di un nuovo centro?
Non sono dell’idea di costruire un centro artificiale mettendo insieme Calenda, Renzi e altri. Vorrei che fosse un’operazione più limpida e non fatta solo per dare ragione al direttore del Corriere della Sera o a qualche suo editorialista. Poi possiamo anche avere una legge proporzionale ma dev’esserci uno sbarramento per evitare la frammentazione del sistema politico e per impedire il potere di ricatto di qualche partitino.
Crede che il Pd per la troppa euforia o la Lega per sparigliare le carte potrebbero staccare la spina al governo e chiedere elezioni anticipate?
Mi pare che dal punto di vista numerico non basta che la Lega esca dal governo perché si vada a votare. E sarebbe anche un atto abbastanza grave, non condiviso da almeno un terzo del partito. Il governo sarebbe uscito indebolito se avesse vinto il centrodestra. Ne esce invece come prima o forse appena rafforzato, ma ora Draghi deve rendersi conto che forse a qualche esigenza del Pd si deve rispondere.
In che modo?
Ad esempio avendo un atteggiamento molto favorevole sul rinnovo del reddito di cittadinanza, pur con delle variazioni, sulle pensioni, sull’immigrazione e sullo ius soli. Sarebbe il modo migliore per compensare il Pd, che è l’alleato fin qui più forte e credibile del governo.
Cosa cambia in vista del voto per il nuovo presidente della Repubblica?
È ancora troppo presto, dico solo che il nome giusto sarebbe quello di Pier Ferdinando Casini, che è un decano del Parlamento, apprezzato da tutti, con molte conoscenze e infine un bravo ragazzo. Ma su alcune candidature ci sarà uno scontro bestiale. Preferirei non venisse eletto Draghi, perché vorrei che il governo andasse avanti fino al 2023. Ma deve scegliere lui, che ne sa più di me e lei. È una sua scelta personale.
Pubblicato il 20 ottobre 2021 su Il Dubbio