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Non piangete sull’astensionismo. Le motivazioni di chi non vota @formichenews

Politici e commentatori, spargete lacrime sulla vostra inadeguata capacità di comprensione delle motivazioni di chi non vota. Gianfranco Pasquino li divide in tre gruppi: non voglio, non posso, nessuno me l’ha chiesto. Ecco chi sono

Non esiste nessun “partito degli astensionisti”. Non ha logo, non ha iscritti, non ha organizzazione, non ha leadership, non ottiene mai seggi. Quindi, è sbagliato evocarlo. I suoi adepti, tranne uno zoccolo duro, mutano nel tempo, cambiano casacca ad ogni elezione e, soprattutto, hanno motivazioni molto diverse. Prendendo le mosse dalla ricerca di tre eccellenti studiosi USA sulla partecipazione politica: S. Verba, K. Schlozman Lehman e H. E. Brady, Voice and Equality. Civic Voluntarism in American Democracy, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1995, e votare è una forma, forse la più importante, di partecipazione politica, identifico tre grandi gruppi di astensionisti.

   Primo gruppo: “non voto perché non voglio”. Sono gli irriducibili. Non vogliono dare nessun consenso e neppure legittimità al sistema politico, alla classe politica, a quel che rimane dei partiti. Esistono un po’ dovunque nelle democrazie. Sarebbero da considerare un problema, non perché non votano, ma se, improvvisamente, mobilitati da una crisi o da un demagogo, accorressero in massa alle urne.

   Il secondo gruppo è: “non voto perché non posso”. Sono molto fluttuanti e anche molto irritati poiché vorrebbero effettivamente votare: studenti fuori sede e fuori Italia; imprenditori e lavoratori nelle loro molte, essenziali, attività all’estero; anche turisti colti da sorpresi da imprevedibili elezioni anticipate; donne e uomini anziani, malandati, che vivono soli e isolati e che fisicamente non sono in grado di recarsi alle urne, e nessuno li aiuta. Questo è il gruppo che, appena i coccodrilli smettono di spargere le loro ipocrite lacrime e s’impegnano in modifiche decenti alla legge elettorale, tornerebbe con interesse e soddisfazione a votare. Voto per posta con schede spedite anche in anticipo e voto elettronico con diverse modalità, tutto già esistente, collaudato, praticato in molte democrazie occidentali, ad esempio, in Germania e in Svezia, ma anche negli USA la cui qualità di democrazia elettorale, però, è sfidata dai repubblicani che il voto preferirebbero “sopprimerlo” (in Florida il governatore repubblicano ha vietato portare acqua agli elettori in fila per raggiungere i seggi!).

   Il terzo gruppo risponde: “non voto perché nessuno me l’ha chiesto”. Siamo entrati nel cuore della rappresentanza politica, quel rapporto virtuoso fra elettori sufficientemente informati e candidati sufficientemente disposti e capaci di dialogare con loro. In partenza è anche possibile sostenere che esiste uno sfarinamento del tessuto associativo italiano: meno iscritti, ma anche meno discussioni politiche in associazioni che traggono la loro forza dal contrapporsi alla politica; fine, da tempo, del collateralismo e depoliticizzazione dei sindacati, ma c’è di più. Partiti non presenti sul territorio, molteplicità di candidati/e paracadutati/e che sbarcano, prendono il seggio, se ne vanno a Roma e adieu. Nessuna interazione con gli elettori, nessun rendiconto del fatto, dal malfatto, del non fatto. Prossimo giro altro collegio. Quasi sicuramente se le candidature nascessero dal contesto nel quale debbono cercare di vincere il seggio, fossero enfants du pays/native sons (and daughters), espressione di una comunità, gli appartenenti di quella comunità, che li conoscono da tempo, si attiverebbero anche mobilitando altri elettori e i candidati garantirebbero la loro presenza anche per non deludere amici, conoscenti, compagni di una vita. Il terzo gruppo di astensionisti è ampio, fluttuante, elastico, talvolta crescente.

   Poiché, però, contano i voti di chi vota, i dirigenti dei partiti italiani poco si curano di andare a “chiedere il voto” impegnandosi faticosamente, magari sacrificando un loro candidato a favore del candidato del territorio. Seguirà una lacrimuccia facilmente asciugabile prima dell’elezione successiva. Dopotutto, il “partito degli astensionisti” non è riuscito a conquistare neanche un seggio. Peggio per loro o per la rappresentanza politica?  

Pubblicato il 11 settembre 2022 su Formiche.net

Liste calate dall’alto? Non vale per tutti i partiti #intervista @ilriformista

Il politologo: «Cassese dice che le forze politiche sono diventate oligarchie? Sbagliato generalizzare. Realtà come il Pd hanno scelto i candidati anche in base a competenze importanti. Giudicherà chi vota» Intervista raccolta da Umberto De Giovannangeli

Tra gli scienziati della politica italiani, Gianfranco Pasquino è tra i più accreditati. Professore emerito di Scienza politica nell’Università di Bologna, dal 2005 socio dell’Accademia dei Lincei. Tra le sue numerose pubblicazioni, ricordiamo la più recente: Tra scienza e politica. Una autobiografia (Utet, 2002).

“Il modo in cui si sono formate le liste è un’ulteriore dimostrazione del carattere oligarchico del nostro sistema politico”. Così Sabino Cassese in una intervista a questo giornale. Lei come la vede?

Le liste vengono formate in maniera molto diversa da partito a partito. Non sono in grado di generalizzare e non vado alla ricerca di modalità democratiche, modalità oligarchiche etc. Parlerei piuttosto di modalità funzionali. Ciascun partito decide cos’è meglio per la sua organizzazione, per i suoi militanti che poi dovranno fare anche un po’ di campagna elettorale, per i candidati che deve scegliere. Non possiamo dire che il Partito democratico abbia scelto i suoi candidati allo stesso modo con il quale li ha scelti Giorgia Meloni per Fratelli d’Italia. E sappiamo da tempo immemorabile che i candidati di Forza Italia vengono scelti da Silvio Berlusconi e abbiamo visto che i 5Stelle utilizzano anche le cosiddette “parlamentarie”. Di tanto in tanto il Pd fa anche delle primarie che purtroppo i commentatori sbeffeggiano, sbagliando.

Perché, professor Pasquino?

Perché se condotto con metodi decenti, rappresenta un metodo democratico. Quindi non generalizzo, le scelte dei candidati sono state fatte in un certo modo e sono in grado di criticare di volta in volta le modalità e le scelte effettive. Mi chiedo, ad esempio, che senso ha paracadutare Elisabetta Casellati in Basilicata quando era eletta e ambita in Veneto, mentre al suo posto c’è Anna Maria Bernini che notoriamente è una bolognese. Naturalmente ho molto da dire sul fatto che Piero Fassino va a fare il parlamentare del Veneto dopo aver fatto il parlamentare del collegio di Modena e Sassuolo. Questo riguarda anche la forza del candidato. Fassino è un uomo molto forte nel suo partito e sceglie dove andare. Nel caso della Casellati, Berlusconi e Tajani preferiscono candidarla in Basilicata. Però non si può generalizzare. Possiamo dire che il metodo comunque non ci convince, dopodiché affidiamo il resto agli elettori. Saranno loro a valutare se sono buoni candidati oppure no, se fanno campagna elettorale, se rappresentano il territorio, se non sanno solo ascoltare ma come dico io anche interloquire con i loro elettori, oppure se è semplicemente un’operazione nel segno di rieleggetemi e buona fortuna.

Nel dibattito aperto da Il Riformista, Sergio Fabbrini, altro autorevole scienziato della politica e dei sistemi istituzionali, ha sostenuto: “Gli eletti sono diventati degli imprenditori di se stessi e quindi si comportano sulla base dei vantaggi immediati che possono conquistare nel mercato politico”. Concorda ?

No, anche se ne apprezzo il rigore e la nettezza. Non sono d’accordo perché, di nuovo, occorre differenziare tra i vari partiti. Nel Partito democratico ci sono le carriere. Persone che hanno iniziato a fare politica prima che ci fosse il Partito democratico e che proseguono nella loro carriera. Non sono degli “imprenditori di se stessi”, come li definisce Fabbrini. Secondo me sono semplicemente dei professionisti, qualche volta anche perché hanno acquisito delle competenze vere. Per non restare nel vago. Non si può fare a meno di uno come Franceschini, perché è bravo, ha delle competenze. Ed è sbagliato respingere la candidatura di Casini, perché anche lui è bravo e ha delle competenze. Siamo di fronte a professionisti, a semi professionisti e come una volta mi disse Domenico Fisichella a “gentleman in politics”. Naturalmente si riferiva a se stesso, cioè a persone che hanno una biografia professionale tale da permettere loro di fare un po’ di politica e poi tornare alla loro professione senza nessuna preoccupazione. Questo vale per il Partito democratico come anche, sul versante opposto, per Fratelli d’Italia, perché è l’unico altro partito rimasto vivo. Il Msi era un partito organizzato sul territorio. E non vale invece in altri casi. Come quello di Forza Italia Ha ragione Berlusconi: i suoi candidati vengono effettivamente dalla società civile. Di errato c’è semmai il verbo. I candidati non “vengono” dalla società civile, è lui che li ha “prelevati” dalla società civile ed è lui che li “ricaccia” nella società civile quando non gli servono più. Nessuna generalizzazione è possibile, insisto su questo, ma analizzare caso per caso, e sul singolo caso costruire una spiegazione, soprattutto quando certe scelte suscitano polemiche non sempre pretestuose.

Venendo ai “campi” che si fronteggiano. Cosa teme di più del destra-centro: la leadership Meloni?

Io temo l’inesperienza di una parte non marginale di quella classe dirigente. Temo l’eccessiva gioiosità per aver vinto le elezioni, e l’incapacità di capire che cosa vuole l’Europa da noi. E soprattutto temo gesti eclatanti volti a dimostrare che quello a cui daranno vita è un Governo “nuovo”, che siamo entrati in un’era “nuova”. Tutto questo temo. E ne temo l’insieme. E che Giorgia Meloni si lasci trascinare dall’entusiasmo. Mi è rimasta negli occhi, e in parte anche nelle orecchie, la sua performance al congresso di Vox. Non vorrei mai più vedere una Giorgia Meloni così. Certo è che se lei va in Europa con quella grinta la cacciano subito via.

Passando al centrosinistra. Cosa resta del “campo largo” su cui aveva puntato Enrico Letta?

Purtroppo questi politici non hanno studiato la scienza politica. Ne sono proprio digiuni e non sanno proprio di cosa parlano. Non mi riferisco solo alla legge elettorale, di cui non sanno nulla se non tutelare i propri interessi. Davvero non sanno di cosa parlano. “Campo largo” non c’era proprio bisogno di dirlo. Perché se uno avesse acquisito i rudimenti, non dico di più, della scienza politica, saprebbe che in politica si fanno le coalizioni. Questo è il principio dominante. In tutti i sistemi politico si fanno coalizioni. Persino in Gran Bretagna, dal 2010 al 2015 c’è stata una coalizione tra conservatori e liberali. Hanno addirittura stilato le regole della coalizione. Macchè “campo largo”, parliamo di coalizioni. E le coalizioni – c’è una letteratura splendida in proposito – si fanno fra partiti che sono vicini, geograficamente vicini, ideologicamente compatibili, programmaticamente in grado di convergere su quelle che ritengono essere le priorità del Paese. Letta ci ha provato ma evidentemente non conosce la teoria delle coalizioni. Dopodiché ha fatto del suo meglio, anche perché ha dovuto fare i conti con individui che sono molto ambiziosi, ingiustificatamente ambiziosi, immeritatamente ambiziosi, che hanno, come ho avuto modo di dire e scrivere, il loro ego in perenne erezione. Con quella gente è difficile trattare. Chi riesce a fare meglio le coalizioni meglio riesce ad ottenere il consenso. Giuliano Urbani, che è uno scienziato della politica, disse a suo tempo a Berlusconi “fai due coalizioni: una che si chiama Polo del buongoverno e l’altra Polo delle libertà. E in questo modo riesci a mettere insieme sia gli ex missini sia la Lega”. Questo è quello che è successo nel ’94. È il prodotto delle competenze politiche del professore di Scienza politica Giuliano Urbani. Mi lasci aggiungere un consiglio che non vuol essere “professorale”: si dovrebbe sempre chiedere a chi parla/ scrive di tematiche istituzionali-elettorali quali libri/articoli scientifici abbia letto, quali sono gli autori a sostegno delle sue analisi e valutazioni. Per non alimentare una confusione già così diffusa e grande sarebbe cosa alquanto opportuna fare pulizia terminologica per riportare il dibattito sui binari solidi e rigorosi della Scienza politica.

In Italia c’è ancora chi sostiene che si vince occupando il centro.

La Scienza politica racconta un’altra storia…

Quale?

Il centro è un luogo geografico. Non sappiamo quanti elettori stanno al centro, ma soprattutto sappiamo che vi sono elettori che stanno all’estrema sinistra e all’estrema destra. Non possiamo perderli. Dobbiamo andarli a cercare. Sapendo, innanzitutto, che dobbiamo motivare gli elettori a venirci a votare. In Italia vincerebbero alla grande le elezioni coloro che sapessero motivare gli astensionisti, quantomeno trovando la chiave per raggiungerne alcuni settori. Non c’è un “partito degli astensionisti”. Anche qui, evitiamo dannose, oltreché erronee, generalizzazioni. Quegli astensionisti non sappiamo di dove sono, se sono di centro, di destra, di sinistra. C’è di tutto, coprono l’intero arco politico. Si tratta di andare a cercare gli elettori su tematiche specifiche. La scienza politica indica che ci sono tematiche valoriali che sono politiche: le famose issues. Devi trovare la issue giusta e devi sapere anche quali sono i valori condivisi di quegli elettori che cerchi. Quel valore condiviso potrebbe essere, per esempio, molto semplicemente la democrazia in Europa, o qualcos’altro, magari di segno opposto. Ad esempio, manteniamo un alto livello di diseguaglianze perché noi elettori siamo bravi e quindi riusciremmo a trarne profitto. Operazioni che richiedono intelligenza politica a cui abbinare la capacità di un politico di stare sul territorio. Come può Fassino mobilitare gli elettori del Veneto che non l’hanno visto mai se non in televisione? Casini mobilita gli elettori bolognesi perché qui ci abita da quando è nato, perché ha fatto campagna elettorale, perché è notissimo. Ed è per questo che lui è un valore aggiunto.

Pubblicato il 27 agosto 2022 su Il Riformista

Chi non vota danneggia la politica e i suoi concittadini elettori

La crescita dell’astensionismo, cioè del numero degli elettori che, per una varietà di motivi, non si recano alle urne, non è una “emergenza democratica”. Nessuna democrazia è mai “crollata” per astensionismo. Al contrario, un’impennata di partecipazione elettorale con milioni di elettori che seguano adoranti un demagogo che ne ha catturato l’immaginazione e ne vuole il sostegno elettorale, è spesso produttiva di conseguenze destabilizzanti. America latina e Filippine ne sono una prova. Tuttavia, quando gli elettori decidono che non vale la pena andare a votare mandano un messaggio che riguarda un po’ tutti a cominciare dai partiti. Infatti, i partiti sono il tramite essenziale fra gli elettori e il (loro) voto. Partiti male organizzati e/o personalistici non riescono a raggiungere gli elettori. Partiti inaffidabili, che indicano le cose da fare e ne fanno altre, provocano delusione nell’elettorato, loro e complessivo. Partiti che presentano candidature di uomini e donne mediocri che hanno il solo pregio di essere popolari oppure di venire dall’apparato non possono essere entusiasmanti. Partiti che cambiano alleanze e preferenze sconcertano gli elettori. Partiti che scrivono leggi elettorali astruse perseguendo il loro interesse particolaristico creano non poca confusione in chi dovrebbe votarli. In Italia, da almeno trent’anni si producono tutti questi fenomeni. Sarebbe, però, sbagliato pensare che gli elettori stessi non portino una buona dose di responsabilità per il loro astensionismo.

   Chi non si interessa di politica, non s’informa e non partecipa alle elezioni automaticamente avvantaggia i votanti e non può poi lamentarsi e gli eletti non si curano dei suoi interessi, delle sue necessità, delle sue preoccupazioni. Non votando, gli astensionisti non trasmettono le loro richieste né a chi ha vinto le elezioni e le cariche né a chi va a formare l’opposizione e avrebbe grande vantaggio dall’ottenere informazioni e sostegno, a futura memoria, dagli astensionisti. Proprio qui sta il problema, se si vuole l’emergenza. I governanti e, di volta in volta, gli oppositori non sanno che cosa desidera “la gente”, per lo più presumono e spesso sbagliano attribuendo preferenze inesistenti. In un certo senso, poi, tanto i governanti quanto gli oppositori diventano e rimangono irresponsabili. Non debbono rispondere ad un elettorato che non li ha votati oppure a elettori casuali e fluttuanti, ma soltanto a quei settori loro già noti, talvolta definiti zoccolo(ino) duro. Per fortuna, fino a quando non farà la sua comparsa un demagogo, non si configura nessuna emergenza. C’è, invece, cospicuo e persistente un problema di scollamento fra una società, che non sempre merita la qualifica “civile”, e partiti disorganizzati, male educati, opportunisti. Poiché questo scollamento riduce e limita il potere del popolo (democrazia) è giusto (pre)occuparsene, non con frasi da coccodrillo, ma riconoscendo e affermando l’importanza del voto e della politica.

Pubblicato AGL il 29 giugno 2022

Dalle elezioni il governo esce rafforzato. Ora il premier accontenti il Pd #intervista @ildubbionews

Intervista raccolta da Giacomo Puletti

Come soddisfare i dem? «Ad esempio con un atteggiamento molto favorevole sul rinnovo del reddito di cittadinanza, pur con le variazioni, sulle pensioni, sull’immigrazione e sullo ius soli»

Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza Politica all’università di Bologna, spiega che «Salvini e Meloni dovrebbero riflettere sui propri errori invece di scaricare le colpe su altri» e che il governo esce «appena rafforzato» dal voto, ma «ora Draghi deve rendersi conto che forse a qualche esigenza del Pd si deve rispondere».

Professor Pasquino, a chi è attribuibile la vittoria del centrosinistra alle Amministrative?

La vittoria è al 50 per cento di Letta. È stato ostinato, tenace, sobrio ed è riuscito a ottenere quello che voleva. Il restante 50 per cento è da dividere: attribuisco un 10 per cento a Conte, perché aveva fatto capire agli elettori del Movimento di votare per i candidati del centrosinistra; un 25 per cento agli stessi candidati, perché sono competenti e hanno buone idee per governare le loro città; un 15 per cento al programma complessivo del centrosinistra, che è meno contundente di quello del centrodestra. Sono rimasto stupefatto, come sa sono abbastanza critico del Pd ma Gualtieri, Lo Russo e anche Russo che ha perso a Trieste sono stati candidati efficaci. Insomma il centrosinistra ha scelto bene.

Il Movimento 5 Stelle è destinato a diventare junior partner del Pd nella coalizione di centrosinistra?

 Credo che ormai sia inevitabile. Il ruolo di Conte sarà quello di far passare alcune delle idee del Movimento nella coalizione. Non dimentichiamoci tuttavia che è riuscito a convincere una parte di elettori pentastellati romani che non era il caso di astenersi e men che mai di votare per Michetti. In una vittoria con il 60 per cento dei consensi è difficile che non ci siano anche elettori del M5S. Stessa cosa a Torino, ma a Roma l’apporto di Conte è stato diretto.

Letta ha parlato di coalizione larga, da Conte a Calenda, anche se quest’ultimo non è apparso molto entusiasta. Cosa ne pensa?

Credo che la coalizione debba fare affidamento sulle leadership che ci sono. Quindi purtroppo bisognerà parlare anche con Calenda e Renzi. Ma poi ci sono gli elettori, che sanno che o si allarga la colazione o il paese finisce in mano a Salvini e Meloni. Non sono affatto sicuro che Calenda riesca a convincere i suoi elettori a fare cose contronatura. Renzi ci proverà e alzerà il prezzo ma anche gli elettori di Italia viva sanno che è meglio sopravvivere in uno schieramento di centrosinistra che finire schiacciati da Lega e Fratelli d’Italia.

A proposito di Lega e Fratelli d’Italia, di chi è la colpa della sconfitta?

Salvini e Meloni dovrebbero riflettere sui propri errori invece di scaricare le colpe su altri. Non è il tempo che è mancato, sono loro che hanno scelto tardi i candidati. I quali sono stati pescati dai leader, prima di tutto Michetti e Bernardo. Scegliendo un politico a Milano il centrodestra sarebbe stato molto più competitivo. Dovrebbero riflettere anche sul fatto che i sondaggi fotografano una situazione per quel che riguarda l’andamento del partito ma dall’ultima fotografia sono accadute alcune cose, come il caso Morisi, il caso Fd’I a Milano, l’assalto alla Cgil. Fatti non prodotti dalla sinistra, ma dai loro seguaci.

La forte astensione è causata dalla pandemia, dal fatto che tutti i partiti tranne Fratelli d’Italia sostengono Draghi o cos’altro?

Lascerei stare Draghi, che non c’entra niente. Ci mancherebbe che collegassimo l’astensione alla soddisfazione o meno sul governo Draghi. Il punto è che chi vuole vincere deve saper mobilitare i propri elettori e sia Salvini che Meloni non l’hanno saputo fare. Il Pd evidentemente ha una capacità di mobilitazione maggiore. Forse la Meloni doveva impegnarsi di più in prima persona, non soltanto a Roma.

Non pensa ci sia comunque un problema di disaffezione nei confronti della politica?

Dell’astensionismo dobbiamo certamente preoccuparci, perché è chiaro che una parte di elettori crede poco in questa politica e quella parte va recuperata. Ci sono poi strumenti che facilitano la partecipazione, come il voto per posta, e questi strumenti ormai andrebbero presi in considerazione per recuperare un 5, forse 10 per cento di astenuti.

Crede che una legge elettorale di stampo proporzionale, di cui già si parla, porrebbe le basi per la nascita di un nuovo centro?

Non sono dell’idea di costruire un centro artificiale mettendo insieme Calenda, Renzi e altri. Vorrei che fosse un’operazione più limpida e non fatta solo per dare ragione al direttore del Corriere della Sera o a qualche suo editorialista. Poi possiamo anche avere una legge proporzionale ma dev’esserci uno sbarramento per evitare la frammentazione del sistema politico e per impedire il potere di ricatto di qualche partitino.

Crede che il Pd per la troppa euforia o la Lega per sparigliare le carte potrebbero staccare la spina al governo e chiedere elezioni anticipate?

Mi pare che dal punto di vista numerico non basta che la Lega esca dal governo perché si vada a votare. E sarebbe anche un atto abbastanza grave, non condiviso da almeno un terzo del partito. Il governo sarebbe uscito indebolito se avesse vinto il centrodestra. Ne esce invece come prima o forse appena rafforzato, ma ora Draghi deve rendersi conto che forse a qualche esigenza del Pd si deve rispondere.

In che modo?

Ad esempio avendo un atteggiamento molto favorevole sul rinnovo del reddito di cittadinanza, pur con delle variazioni, sulle pensioni, sull’immigrazione e sullo ius soli. Sarebbe il modo migliore per compensare il Pd, che è l’alleato fin qui più forte e credibile del governo.

Cosa cambia in vista del voto per il nuovo presidente della Repubblica?

È ancora troppo presto, dico solo che il nome giusto sarebbe quello di Pier Ferdinando Casini, che è un decano del Parlamento, apprezzato da tutti, con molte conoscenze e infine un bravo ragazzo. Ma su alcune candidature ci sarà uno scontro bestiale. Preferirei non venisse eletto Draghi, perché vorrei che il governo andasse avanti fino al 2023. Ma deve scegliere lui, che ne sa più di me e lei. È una sua scelta personale.

Pubblicato il 20 ottobre 2021 su Il Dubbio

Chi non vota non conta #amministrative2021 #elezioni #democrazia #astensionismo

Dal TG5 delle 20 di martedì 19 ottobre 2021

L’astensionismo e il voto delle amministrative 2021. Intervista a Gianfranco Pasquino @RadioRadicale @LanfrancoPalazz

Intervista raccolta da Lanfranco Palazzolo il 4 ottobre 2021 alle ore 19

Astensionismo vuol dire tante cose: la popolazione invecchia, ha ancora timori del contagio, viviamo isolati, non riceviamo abbastanza stimoli politici e i partiti non sono in grado di fare un’offerta.

Nel corso dell’intervista sono stati discussi i seguenti temi: Amministrative, Amministrazione, Astensionismo, Calenda, Centro, Comuni, Conte, Destra, Elezioni, Forza Italia, Fratelli D’italia, Lega Per Salvini Premier, Letta, Manfredi, Meloni, Milano, Movimento 5 Stelle, Napoli, Parlamento, Partiti, Partito Democratico, Politica, Raggi, Roma, Sala, Salvini, Voto.

La registrazione ha una durata di 3 minuti

Ascolta qui

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C’è un rimedio per l’astensione: il voto per posta @HuffPostItalia

L’Europa non ce lo chiede, ma ce lo consente. Sarebbe contenta se procedessimo in quella direzione. Anche molti di noi

In un talk show mattutino ho ascoltato due fantasiose/fantastiche interpretazioni della crescita dell’astensionismo. Prima interpretazione: gli italiani (ma anche le italiane) non sono andati/e a votare perché non ci credono più. Loro volevano votare nell’agosto 2019 dopo la crisi del primo governo Conte e non li hanno lasciati votare. Volevano votare nel febbraio 2021, dopo la crisi del secondo governo Conte, ma nisba. Allora, hanno deciso che per punire i politici non votano neanche alle comunali del 2021 (elezioni che per di più sono in ritardo di sei mesi). Tiè.

   No, seconda interpretazione, gli italiani/e non sono andati a votare perché erano molto confusi: troppe liste, troppe candidature, perplessità, disorientamento, fuga dalle urne. Meglio non sbagliare, sto a casa. Chi sostiene l’una o l’altra di queste concezioni non ha evidentemente mai letto un libro né un articolo scientifico sul comportamento elettorale e sull’astensione, tematiche fra le più studiate e approfondite dalla scienza politica. Più liste e più candidature più probabilità che amici, parenti e conoscenti si mobilitino, vadano a votare. Incidentalmente, a riprova sono altissime le probabilità che la partecipazione scenda significativamente al ballottaggio quando si avranno solo due sfidanti.

   Chi legge e studia, ma anche chi si informa professionalmente deve sapere alcune cose basilari sul non voto. Primo, il voto è una relazione fra, da un lato, i partiti e i loro candidati e gli elettori. I primi fanno un ‘offerta, i secondi rispondono. Se l’offerta è debole e malfatta, la risposta è starsene a casa. Secondo, votano i cittadini/e inseriti in circuiti sociali e professionali. Coloro che sono isolati hanno molte difficoltà ad attivarsi. Se nessuno me lo chiede, se nessuno parla con me, non vado a votare. Questa, dell’isolamento sociale, è una situazione che cresce, è cresciuta nel tempo. I singles di necessità o per scelta che vivono in aree non centrali hanno abbandonato, perduto qualsiasi stimolo alla partecipazione elettorale. Infine, questo, l’Italia, è un paese che invecchia. Le donne e gli uomini anziani votano in percentuali declinanti. Potrei aggiungere che spesso hanno smesso di parlare di politica con chiunque e magari non l’hanno fatto abbastanza in famiglia con i propri figli. Questo, l’Italia, è un paese che continua ad avere cittadini mobili, fuorisede, all’estero per ragioni di studio e di lavoro, che non vivono nei luoghi dove dovrebbero votare.

   È venuto il tempo del voto per posta (i referendum SPID insegnano qualcosa), da consentire anche tre/quattro settimane prima del giorno del voto di persona nella gabina (sic) elettorale. L’Europa non ce lo chiede, ma ce lo consente. Sarebbe contenta se procedessimo in quella direzione. Anche molti di noi.

Pubblicato il 4 ottobre 2021 su Huffingtonpost.it

Il referendum con lo Spid resta strumento da usare con cura @DomaniGiornale

Nei suoi termini essenziali la questione è semplice: la possibilità di raccogliere le firme attraverso lo SPID rende la richiesta di referendum esageratamente facile con il rischio di intasare le procedure democratiche e “svuotare” di potere il Parlamento? I Costituenti intesero l’istituto del referendum abrogativo essenzialmente come modalità attraverso la quale coloro che erano stati sconfitti in Parlamento e tutti coloro che erano ostili ad una legge approvata potessero fare appello ai cittadini per vanificarla. La paziente raccolta delle 500 mila firme indispensabili per chiedere il referendum serviva soprattutto a mobilitare i contrari e a informare gli elettori sui contenuti della legge, ma anche a dimostrare un minimo di sostegno iniziale alla sua eventuale abrogazione. Non fu mai molto facile raccogliere quel numero di firme. Ci riuscirono le organizzazioni, come quelle cattoliche, i sindacati e anche i partiti grandi. Ci riuscirono anche i radicali, più che un semplice “movimento di opinione”, attraverso tumultuose (e volute) vicissitudini fino alle raffiche di richieste lanciate contro la classe politica: “aboliscila con una firma”.

   Rapidamente i difensori di una legge appresero che qualsiasi referendum poteva essere fatto fallire per mancanza di quorum incitando all’astensione. Il punctum dolens, però, fu che 500 mila firme, con una popolazione e un elettorato molto cresciuti rispetto al 1948, vennero considerate troppo poche. L’innalzamento delle firme fu spesso proposto, da taluni accompagnato con l’abbassamento del quorum per la validità dell’esito. Oggi la possibilità di ricorrere a nuove tecnologie rende molto semplificata la raccolta delle firme e alcuni temono (ma altri auspicano) l’avvento di una (a mio parere alquanto improbabile) democrazia referendaria. Per giustificare e legittimare questo tipo di democrazia, i cui segni iniziali, peraltro, sono flebili, non basta puntare il dito contro il Parlamento accusandolo di incapacità e inerzia legislativa, anche se certamente esistono entrambe. Bisogna, invece, argomentare che su alcune materie è cosa buona e giusta che siano i cittadini ad esprimersi direttamente, di persona personalmente.

   Sappiamo, peraltro, che, da un lato, il Parlamento può “sventare” qualsiasi referendum legiferando lungo le linee dei proponenti, ma anche producendo un testo che dia una risposta più o meno puntuale e organica alla problematica. Dall’altro, non dobbiamo dimenticare che rimane comunque possibile l’appello potenzialmente “vittorioso” all’astensionismo. Però, giustamente, molti solleveranno l’obiezione dei costi comunque incorsi per lo svolgimento del referendum. In generale, è certamente vero che le nuove tecnologie sono promettenti per quanto riguarda la “voce” dei cittadini, ma contengono più di una criticità per qualsiasi concezione della democrazia intesa come confronto e scontro nonché conciliazione di opinioni, posizioni, soluzioni diverse. Forse, dovremmo meglio distinguere fra la fase di formazione dell’agenda, ovvero quello che è importante porre all’attenzione dei policy-makers e della cittadinanza, e le modalità decisionali. Dovremmo, cioè, andare a esplorare e utilizzare quanto formulato e già applicato attraverso esperimenti di democrazia deliberativa. Il referendum è uno strumento, utile e importante, ma da maneggiare con cura. C’è molto lavoro da fare per i partiti e i loro dirigenti, dentro e fuori del Parlamento.   

Pubblicato il 22 settembre 2021 su Domani

Le elezioni dicono chi siamo e cosa vogliamo. Si tratta solo di saperle interpretare

Un’analisi del voto e della situazione politica nata dopo il 4 marzo. 

Torino 22 maggio Nell’ambito dei “Martedì sera” del Centro Congressi Unione Industriale Torino, Anna Masera, Gianfranco Pasquino e Lorenzo Pregliasco hanno discusso sulla situazione politica nata dal voto del 4 marzo e sulla nuova alleanza di governo Di Maio – Salvini a partire dal libro “Una nuova Italia. Dalla comunicazione ai risultati un’analisi delle elezioni del 4 marzo” (Castelvecchi)

L’intervento di Gianfranco Pasquino

Elettori insoddisfatti, desiderosi di cambiare, volubili. Un sistema di partiti destrutturati. Un PD sull’orlo di una crisi di nervi e con un leader inadeguato. Che lo facciano i “vincitori” il governo, di “ricomposizione nazionale”. Tempi duri per tutti, anche per loro. Se ne accorgeranno.

 

Italiani, eccolo il Governo che vi state meritando

Quando conteremo i voti scopriremo che il 40 per cento di voi che avete votato hanno scelto l’usato sicuro (sicuro di cosa: delle bugie, delle inadempienze, della crescita del debito pubblico?) e l’ex-rottamatore (rottamatore di idee, di competenze, di culture politiche, mai dei suoi imbarazzanti collaboratori). Scopriremo anche che il 25/30 per cento di voi hanno delegato, colpevolmente, la scelta dei nuovi parlamentari a chi è andato votare. Pur comprendendo la loro insoddisfazione, irritazione, delusione per la politica com’è praticata in Italia, quegli astensionisti cronici o occasionali debbono essere severamente rimproverati. Hanno comunque perso il diritto di continuare nella critica, spesso qualunquistica, a politica e politici. Sono anche loro con il non-voto responsabili di quello che va male in Italia. Insomma, in un sistema politico nessuno può chiamarsi fuori, fare l’anima bella e dire che è colpa degli altri -meno che mai, naturalmente, che è colpa dell’Europa alla quale, anzi, dobbiamo riconoscere il diritto di criticarci e di auspicare, come ha fatto, persino troppo timidamente, Jean-Claude Juncker, “un governo operativo”. Ha ragione. Anche molti di noi vorremmo un governo, non solo operativo, ma fatto di persone decenti, in grado di dare rappresentanza alle preferenze dei cittadini e persino ai loro interessi (una scuola davvero buona, un mercato del lavoro flessibile e accogliente, una politica dell’immigrazione con filtri e controlli, la sicurezza nella legge), in grado di governare non a colpi di arroganza e di “teatro”, ma con una visione orientata dalla consapevolezza che, fuori dall’Unione Europea, l’Italia non andrebbe da nessuna parte tranne che a fondo nel Mediterraneo.

Rosi dalle loro differenze interne sia la coalizione di centro-destra sia il PD e i suoi alleati cespugli non offrono granché come stabilità e progettualità. Né si può pensare ad un governo pentastellato con Di Maio (insieme a Grillo e Casaleggio) costretto a dedicare tutto il suo tempo a verificare gli scontrini delle spese e delle restituzioni e a comminare espulsioni a destra e a manca, ma anche al centro. Insomma, la palla passa al Presidente della Repubblica Mattarella che, felpato almeno quanto Paolo Gentiloni, il Presidente del Consiglio che, seppur necessariamente dimissionario, rimarrà in carica (proprio come Angela Merkel) fino alla formazione del prossimo governo, s’inventerà una soluzione politica secondo il dettato costituzionale: “Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio” (che, dunque, lo scrivo per chi ancora non lo sa, non è “eletto dal popolo”). No, non è vero che il paese reale starà meglio senza governo. No, non è vero che governare gli italiani è impossibile. Non è neanche inutile. È doveroso. Senza governo si ha soltanto galleggiamento, mentre è opportuno che qualcuno sia al timone. La barca non va mai avanti da sola, finisce per girare su se stessa.

Dovremo attenderci un “governo del Presidente”? e di quale Presidente? Del Presidente della Repubblica? Non sembra questa la propensione di Mattarella che, invece, cercherà la persona (non necessariamente un uomo) che sappia costruire e tenere insieme una coalizione in grado di durare e di governare, anche viceversa: governare e durare. I numeri (dei seggi in Parlamento) contano, ma bisogna avere anche i “numeri”politici, quelli che solo l’esperienza e la competenza garantiscono. Sarà il Presidente della Corte Costituzionale, come in nessuna, ma proprio nessuna democrazia parlamentare, è mai avvenuto? Oppure tornerà fra di noi, il figliol prodigo Mario Draghi, Presidente della Banca Centrale Europea, le cui competenze politiche sono ignote ai più, a tutti? Credo che se ne guarderebbe bene. Avremo bisogno del neo-Presidente del Parlamento Europeo, Antonio Taiani, facendo la classica figuraccia italiana: preferire una carica nel proprio paese a un ruolo importante nelle istituzioni europee? Sono convinto che, alla fine, Mattarella ci consegnerà un governo politico dopo avere escluso i più divisivi degli ambiziosissimi leader in campo e avere esercitato la sua fantasia e, mi auguro, anche la sua moral suasion. Sarà, comunque, un governo che noi italiani, certo con responsabilità differenziate, ci siamo meritato. Purtroppo, anche con la pessima legge elettorale firmata dal piddino Rosato, non adeguatamente contrastata dai grandi opinionisti dei grandi quotidiani e dai conduttori/trici dei meno grandi talk show, il Parlamento lo abbiamo eletto noi e, seppure indirettamente, è sui nostri voti che si costruirà un governo.

Pubblicato il 1 marzo 2018 su ITALIANItaliani