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La democrazia realista contro quella liberale #vivalaLettura @La_Lettura
L’americano John Mearsheimer attacca il liberalismo progressista che aspira a diffondere i regimi rappresentativi. Così svaluta i meriti delle istituzioni internazionali e si mostra incoerente: sostiene che la pace si può ottenere solo in un mondo in cui l’economia prevalga sulla politica, ma poi, cercando di delineare un’alternativa, punta proprio su strumenti politici.
John J. Mearsheimer, La grande illusione. Perché la democrazia liberale non può cambiare il mondo,
LUISS University Press
Bisogna “rendere il mondo un luogo sicuro per la democrazia”, come proclamò nel 1917 Woodrow Wilson, Presidente degli Stati Uniti entrando nella Prima Guerra mondiale, oppure gli Stati debbono perseguire essenzialmente e prioritariamente un’altra/altre finalità? Con Wilson nacque il liberalismo progressista in politica estera che, secondo John Mearsheimer, è causa di tutti i mali possibili, in particolare negli ultimi trent’anni. A prescindere dal colore politico dei Presidenti, Reagan, Bush Sr., Clinton, Bush Jr., e persino Obama, per Trump il verdetto non c’è ancora, ma si annuncia più favorevole, quel liberalismo progressista ha improntato la politica estera USA. Però, argomenta perentoriamente l’autore di questo notevole libro, esiste un’alternativa ed è chiara. Si chiama realismo e si basa su alcuni presupposti semplici e sempre validi. Gli Stati-nazione hanno una preoccupazione prevalente, dominante: la sopravvivenza. Dunque, la loro politica estera deve essere formulata senza troppi fronzoli per perseguire in maniera praticamente esclusiva quell’obiettivo. Del contorno non deve curarsi. Sono i liberali progressisti che, facendosi forti di una generalizzazione largamente accettata, ma che Mearsheimer mette in discussione (non sono, in verità, sicuro che la confuti convincentemente facendo diventare democrazie regimi molto dubbi e guerre conflitti limitati, poco più che scaramucce), “le democrazie non si fanno guerra fra di loro”, cercano di fare spuntare qua e là altre democrazie per ridimensionare le guerre fino a eliminarle del tutto.
Il ragionamento dei liberali progressisti parte dall’affermazione/constatazione dell’esistenza di diritti inalienabili dei cittadini. Le democrazie li garantiscono; i regimi non democratici per lo più li calpestano ad libitum. Quindi, è giusto, persino moralmente doveroso, sostengono i liberali progressisti, intervenire nei paesi non democratici a sostegno dei diritti degli uomini e delle donne ogniqualvolta siano pesantemente violati. Il regime change, proprio quello sbandierato da George W. Bush come obiettivo fondamentale nella sua guerra contro Saddam Hussein, serve ad aprire la strada alla democrazia e quante più democrazie esisteranno maggiore sarà l’esecrazione di regimi non democratici e repressivi. Mearsheimer ha buon gioco a fare notare che nessuna democrazia è emersa dalla vittoria USA in Iraq e che, anzi, un po’ tutto il Medio-Oriente, dall’Egitto alla Sira, dalla Libia allo Yemen, è stato destabilizzato con gravi pericoli e guasti per i diritti umani, a partire dal più importante di loro: il diritto alla vita. Per di più, sottolinea l’autore, un po’ tutti gli interventi armati “liberali” comportano anche rischi e brutte conseguenze all’interno delle democrazie interventiste. I loro governanti mentono su obiettivi e costi della guerra, occultano e manipolano le informazioni, colpiscono e puniscono i loro cittadini dissenzienti, violano grandemente i diritti dei prigionieri, le torture e i detenuti di Guantanamo rappresentando gli esempi più raccapriccianti. Il progressismo liberale in politica estera diventa quasi ineluttabilmente molto illiberale all’interno del proprio paese.
“Il liberalismo all’estero conduce all’illiberalismo in patria” (p. 26). Invece, i liberali progressisti preferiscono porre l’accento sul fatto che l’ordine politico internazionale liberale ha per molti decenni costruito e sostenuto tre esiti positivi: una situazione complessiva di pace fra tutte le democrazie; una notevole interdipendenza basata sul libero commercio; il funzionamento di una rete di istituzioni internazionali (Fondo Monetario, Banca Mondiale, NATO). Mearsheimer non ha nessuna difficoltà a mettere in dubbio tutt’e tre gli esiti, rilevandone la fragilità e l’illusorietà. Anzi, per quel che riguarda la NATO, l’autore ha buon gioco nell’esporre le drammatiche conseguenze della sua prospettata espansione alla Georgia e all’Ucraina. Naturalmente, l’esempio per così dire migliore probante che di ordine politico internazionale ce n’è davvero poco è costituito proprio dalla necessità che i policy-makers degli USA di fare ricorso alla guerra. Dal 1989 (caduta del Muro di Berlino e inizio della loro egemonia unipolare), gli Stati Uniti hanno combattuto due anni su tre su sette fronti differenti (p. 26). Non basta certamente la libertà e la realtà degli scambi commerciali a impedire agli Stati di farsi la guerra e la debolezza delle istituzioni internazionali prive di qualsiasi potere coercitivo non è d’aiuto ai costruttori di pace.
Forse un po’ contraddittoriamente, l’autore afferma che la pace si potrà/si potrebbe ottenere in un mondo in cui l’economia abbia il predominio sulla politica (p. 73). Quando, però, necessariamente e volutamente, Mearsheimer perviene a delineare la sua alternativa mette, eccome, l’accento proprio sulla politica. Preliminarmente, nota che all’interno di ciascuno Stato l’elemento più importante, spesso dominante, è il nazionalismo basato sul senso, quando non anche l’orgoglio, di appartenenza a una comunità, ai suoi stili di vita, ai suoi valori più diffusi che rarissimamente contemplano il desiderio di andare in altre parti del mondo per proteggere e promuovere i diritti umani. Nel caso degli USA è evidente una chiara discrepanza fra le preferenze della cittadinanza e quelle delle elite che si occupano di politica estera e che la fanno da decenni implementando i principi del liberalismo progressista. [Fra loro, ovviamente, non troviamo l’autore di questo libro, che, infatti, pure molto apprezzato docente di Relazioni Internazionali all’Università di Chicago, non è ancora stato chiamato a far parte del Chicago Council on Global Affairs. Concludendo, c’è un’unica vera alternativa al liberalismo progressista.] Mearsheimer la delinea brevemente, ma con grande vigore: è il realismo. Comincia con il mettere al primo posto l’America. Continua con lo schivare, tutte le volte che incrocino gli interessi degli USA, le regole delle istituzioni internazionali. Perviene a modalità di rapporti con la Cina e, soprattutto, con Putin che nessun progressista liberale potrebbe giudicare positivamente. Tutto questo si colloca coerentemente nella visione realista delle relazioni internazionali formulata da Mearsheimer: gli Stati che perseguono senza tentennamenti e sbandamenti il loro interesse nazionale non destabilizzeranno il sistema internazionale e salvaguarderanno nella misura del possibile sia la loro sovranità sia la pace. Quanto alle democrazie, conclude l’autore di questa graffiante analisi, invece di impegnarsi in costosi e spesso fallimentari tentativi di esportazione delle loro istituzioni e pratiche, dovrebbero procedere a migliorare la loro qualità fiduciose che altri regimi e altri governanti ne procederanno all’emulazione.
Pubblicato il 27 ottobre 2019 su LA LETTURA 413 Corriere della sera
Rileggete Huntington. Segnalò rischi reali @La_Lettura #vivalaLettura
A circa un quarto di secolo dalla sua pubblicazione qual è la validità della tesi di Samuel P. Huntington contenuta nel libro The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order (1996, trad. it. Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti 1997)? Per rispondere correttamente bisogna preliminarmente chiarire qual’era effettivamente la tesi del grande politologo di Harvard scomparso ottantunenne nel 2018. Infatti, la maggior parte dei molti, spesso faziosi, critici di Huntington sembra essersi fermata alla prima parte del titolo e non avere mai letto la seconda. Per di più, molti di loro hanno fatto di Huntington una specie di sostenitore e cantore della necessità dello scontro fra le civiltà, non solo inevitabile, ma addirittura auspicabile. Al contrario, Huntington intendeva mettere in rilievo gli elementi e gli sviluppi che sembravano portare a un possibile scontro fra le civiltà proprio affinché i policy makers, con i quali aveva avuto frequenti e controversi rapporti nella sua attività accademica e di consulente, ne fossero consapevoli e approntassero opportuni rimedi. Come per l’altrettanto giustamente famoso libro del suo allievo Francis Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo (1991, trad. it. 1992), ugualmente letto male e peggio interpretato, è il crollo del muro di Berlino e del comunismo a stare a fondamento dell’interrogativo/obiettivo che si pone Huntington. La ricostruzione di un ordine mondiale sarebbe stata resa più facile dalla fine dello “scontro” fra le liberal-democrazie contro i comunismi realizzati e dalla vittoria delle prime? “Il futuro non sarà più dedito ai grandi, vivificanti scontri di ideologie, ma piuttosto a risolvere concreti problemi economici e tecnici”, che è la sintesi del libro di Fukuyama proposta da Huntington (p. 29), oppure altro si affacciava all’orizzonte e le sue premesse erano già visibili a chi disponeva di adeguati strumenti conoscitivi?
Il contenuto del libro di Huntington richiede ai lettori, ai critici, agli “interpreti” la capacità di combinare elementi di cultura politica in senso lato (cultura è una traduzione migliore di “civiltà”) con conoscenze di relazioni internazionali. Non può stupire che la recensione del libro di Huntington pubblicata sulla prestigiosa “American Political Science Review” (16 mila abbonati in tutto il mondo) fu affidata a un prestigioso studioso di Relazioni Internazionali , Richard Rosecrance. Infatti, Huntington non è interessato alle “civiltà” (o culture politiche) in quanto tali, ma al loro impatto sulla (ri)costruzione di un ordine mondiale. “Finita la storia” della Guerra Fredda durante la quale l’ordine mondiale, seppure con molte anche sanguinose slabbrature, era stato mantenuto dal bipolarismo USA/URSS, in che modo e da chi e che cosa sarebbe emerso un nuovo ordine mondiale? È in atto un’intensa discussione sull’esistenza durante la Guerra Fredda, di un ordine politico internazionale liberale fatto da istituzioni come il Fondo Monetario Internazionale, la Banca mondiale, le Nazioni Unite, con regole e procedure comunque rispettate fino a tempi recenti, ma che il presunto, reale, relativo declino degli USA non riuscirebbe più a garantire.
Le distinzioni che contavano negli anni Novanta non erano già più quelle su basi ideologiche, ma, per l’appunto culturali. Le liberaldemocrazie potevano anche avere vinto la Guerra Fredda, ma nel frattempo avevano fatto la loro comparsa i fondamentalismi e nella visione di Huntington alcune grandi religioni stavano a fondamento delle civiltà che prendevano coscienza delle loro peculiari identità per organizzarsi. Intese come “ampie entità culturali”, secondo Huntington esistono nel mondo contemporaneo sette civiltà (l’ordine è mio): occidentale, latino-americana, giapponese, indù, islamica, cinese (confuciana), africana. Molti critici si sono esercitati a smentire l’esistenza delle “civiltà” come definite da Huntington e, comunque, a negarne l’unitarietà, preferendo sottolinearne le differenziazioni interne. Huntington non nega le possibili differenze, ma il suo punto è che, a ogni buon conto, le differenze fra le civiltà sono molto più grandi e più rilevanti delle differenze all’interno delle stesse civiltà. A proposito dei critici (ai quali la più brillante risposta è contenuta nel densissimo articolo di Francesco Tuccari, “il Mulino”, n. 3/2015, pp. 588-594), è interessante notare che sostanzialmente ciascuno di loro è uno specialista, conoscitore di una civiltà, come i francesi studiosi dell’Islam, come Amartya Sen e la sua India, come l’orientalista di origine palestinese Edward Said, come alcuni intellettuali latino-americani, e le loro obiezioni sono tutte particolaristiche. Praticamente nessuno guarda, come direbbero gli anglosassoni, alla “big picture”.
Le critiche più severe, qualche volta addirittura violente, riguardarono il trattamento, certamente tutt’altro che ossequioso, che Huntington fa dell’Islam e della sua civiltà. Due furono le obiezioni rivoltegli. Primo, l’Islam non è monolitico; secondo, lo scontro di civiltà è talvolta interno proprio ai paesi islamici. Sono entrambe obiezioni malposte poiché Huntington riconosce le differenziazioni all’interno di tutte le civiltà e la possibilità di scontri. Nel caso del mondo islamico la mancanza più preoccupante è quella di una potenza egemonica (core) in grado di imporre l’ordine e di diventare guida. I tentativi di Al Quaeda e dell’Isis sembrano falliti così come le primavere arabe. Nel mondo islamico stanno tutti i fattori di rischio per la costruzione e stabilizzazione di un ordine mondiale, in particolare, le guerre civili in Siria, Libia, Yemen. Né si vede come, nella latitanza egoistica della leadership autoritaria, compromessa e corrotta dell’Arabia Saudita, possa fare la sua comparsa una potenza egemone riconosciuta e accettata come tale.
Da qualche tempo, ha fatto la sua comparsa, inquietante, ma inevitabile, per ragioni territoriali, demografiche, di coesione intorno al confucianesimo e grazie alla possente guida del Partito Unico, la Cina Comunista. Ha potenzialità enormi e persino la pazienza di attendere che maturino le condizioni per una sua espansione comunque già in atto. In maniera premonitrice, poiché da un’analisi solida conseguono previsioni non campate in aria, Huntington scrisse che “gli scontri più pericolosi del futuro nasceranno probabilmente dall’interazione tra l’arroganza occidentale, l’intolleranza islamica e l’intraprendenza sinica” (cinese, p. 265). Quegli scontri, surrogati da episodi violenti di vario genere, sono tuttora un’eventualità, mentre il nuovo ordine mondiale è molto di là da venire.
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