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Meno parlamentari, meno efficienza #ReferendumCostituzionale @rivistailmulino

Coloro che voteranno “sì” alla riduzione di un terzo del numero dei parlamentari, poiché vogliono un Parlamento più efficiente con meno parlamentari per fare più leggi e più rapidamente, sbagliano alla grande almeno su due punti assolutamente discriminanti. Dal punto di vista della teoria, che non hanno imparato neppure dopo la grande occasione del referendum 2016, poiché il compito più importante del Parlamento non è fare le leggi. Semmai, è esaminarle, emendarle e approvarle. Dal punto di vista della pratica poiché in tutte le democrazie parlamentari le leggi le fa il governo: tra l’80 e il 90% per cento delle leggi approvate sono di origine governativa. Ed è giusto che sia così perché qualsiasi governo, anche di coalizione, ha avuto il consenso degli elettori sulle sue promesse programmatiche e ha, quindi, il dovere politico di tentare di tradurle in politiche pubbliche. Naturalmente, nei governi di coalizione il governo concilierà le diverse promesse programmatiche dei partiti coalizzati. I parlamentari potranno poi valutare, per eventuali voti di coscienza e scienza, quanto le proposte si discostano dalle promesse e, se non c’entrano per niente, astenersi dal votarle. A un Parlamento che s’attarda, a una opposizione che ostruisce, a una maggioranza riluttante (quasi nulla di tutto questo è un “semplice” affare di numeri), il governo imporrà la decretazione di urgenza.

La domanda giusta è: meno parlamentari saranno in grado nelle Commissioni di merito e in aula di controllare quello che il governo (con i suoi apparati politici e burocratici) fa, non fa, fa male?

Detto che il controllo sul governo è il compito più importante del Parlamento, quasi sullo stesso livello si situa il compito della rappresentanza politica, dei cittadini, della “nazione”. Non ne farò un (solo) problema di numeri come argomentano molti volonterosi sostenitori del taglio, ma di qualità. È plausibile credere che, automaticamente, meno parlamentari saranno parlamentari migliori, più capaci, più efficaci, più apprezzabili? Per sfuggire a una risposta (negativa) frettolosa, mi rifugio nell’affermazione che molto dipenderà dalla legge elettorale. Ovviamente, una legge elettorale è buona o cattiva o anche pessima (che è l’aggettivo da utilizzare per le due più recenti leggi elettorali italiane) a prescindere dal numero dei parlamentari, ma con riferimento prioritario a quanto potere conferisce agli elettori. Gli accorati inviti di Zingaretti ad approvare una legge elettorale proporzionale addirittura prima dello svolgimento del referendum mi paiono avere come obiettivo quello di contenere la riduzione inevitabile del numero di seggi del Partito democratico, piuttosto che quello di migliorare la qualità della sua rappresentanza proprio quando dal suo partito vediamo venire strabilianti esempi di opportunismo.

Questi esempi rispondono in maniera quasi definitiva alla domanda posta da Giovanni Sartori nel 1963. Di quali soggetti i parlamentari temono maggiormente la sanzione per i loro comportamenti: gli elettori, i gruppi di interesse, i dirigenti di partito? Con le due più recenti leggi elettorali la risposta è elementare: i dirigenti di partito (e di corrente). A loro volta sono questi dirigenti a cercare di raggiungere i gruppi di interesse rilevanti spesso candidando uno dei loro esponenti. Quanto agli elettori, costretti a barcamenarsi fra candidature plurime, un vero schiaffo alla rappresentanza politica, e candidature bloccate, la loro eventuale sanzione non riuscirà mai ad applicarsi alla singola candidatura.

E, allora, quale rappresentanza? Quale accountability? Quale responsabilizzazione? Il fenomeno più significativo è rappresentato dal Pd. Tre volte i suoi deputati e i suoi senatori, che non risulta avessero consultato i loro elettori, hanno votato no alla riduzione. L’ultima volta votarono compattamente sì. La spiegazione, forse era preferibile dirlo alto e forte, era che l’approvazione del taglio era indispensabile per dare vita alla coalizione di governo con il Movimento 5 Stelle. Capisco, ma ritengo assai deprecabile chi ha votato tre volte “no” senza trasparentemente esprimere alcun dissenso e ha votato “sì” alla quarta volta, nuovamente senza esprimere dissenso né spiegare la giravolta. Il fatto è che quei parlamentari democratici hanno applicato la linea del loro partito/gruppo parlamentare che aveva deciso che la formazione del governo giallorosso era di gran lunga preferibile all’alternativa rappresentata da Salvini e Meloni, i quali avrebbero aggredito la Costituzione, antagonizzato l’Unione europea, inciso negativamente sulla già non proprio elevata qualità della democrazia italiana.

Adesso, la risposta da dare nelle urne è proprio se la riduzione del numero dei parlamentari contribuirà o no a un salto di qualità della rappresentanza politica, al miglior funzionamento del bicameralismo (che qualcuno scioccamente continua a definire “perfetto”, dunque, da non toccare minimamente) e alla qualità della democrazia italiana. A mio parere, nulla di tutto questo conseguirà dalla semplice riduzione. I risparmi sui costi di un terzo dei parlamentari eliminati saranno “mangiati” dall’aumento dei costi delle campagne elettorali più competitive e in circoscrizioni più ampie. Il reclutamento di candidati e candidate ad opera dei dirigenti di partito e di corrente premierà coloro che hanno dimostrato di essere più disciplinati (è un eufemismo). Alcuni si sono già posizionati, altri stanno sgomitando. Farà la sua comparsa in grande stile, ma sotto mendaci spoglie, il vincolo di mandato. Vota non come vorrebbero i tuoi elettori, che, a meno di una buona legge elettorale, gli eletti non saranno in grado di conoscere, ma come dicono i dirigenti del partito e della corrente anche perché in questo modo si sfuggirà dal fastidioso esercizio dell’accountability. La prossima volta a qualcuno/a sarà assegnato un seggio sicuro magari in Alto Adige, se vi rimarrà almeno un collegio.

No, chi non vuole nulla di tutto questo ha l’opportunità di respingerlo: con un sano e argomentato voto che si oppone alla riforma sottoposta a referendum. Il resto chiamatelo pure “scontento” democratico. Non è immobilismo perché la Costituzione italiana e la democrazia parlamentare che esistono dal 1948 hanno ampiamente dimostrato di essere flessibili e adattabili, in grado di superare le sfide e di continuare a offrire un quadro democratico per la competizione politica, per un tuttora decente rapporto fra le istituzioni, per il conferimento dell’autorità, per l’esercizio del potere “nelle forme e nei limiti della Costituzione”.

Pubblicato il 28 agosto 2020 su rivistailmulino.it

Gli irriducibili del referendum perduto

A quasi due anni dal referendum costituzionale, gli sconfitti non riescono a farsene una ragione. Anzi, con un implausibile ricorso al post hoc ergo propter hoc attribuiscono la responsabilità di tutti gli esiti negativi, compresa la formazione del governo Cinque Stelle-Lega, a chi ha votato “no”. Non sembrano neppure sfiorati dal dubbio che quelle riforme fossero malfatte e controproducenti, che la campagna plebiscitaria dell’autore di riforme male fatte, tecnicamente, quindi, “malfattore”, abbia provocato reazioni di rigetto, che le argomentazioni a sostegno siano state mediocri e faziose.

Ho ascoltato più volte qualche professore per il “sì” affermare senza nessun ripensamento che la riforma del Senato avrebbe posto fine al bicameralismo “perfetto” (che, se fosse tale, sarebbe davvero da preservare). Il governo giallo-verde deriverebbe dall’esito referendario, anche se non facilmente spiegabile è come mai le Cinque Stelle abbiano accresciuto i loro voti fra il 2013 e il 2018 e la Lega li abbia addirittura quadruplicati. La loro campagna elettorale si è svolta principalmente su temi costituzionali, su quella vittoria, oppure, rispettivamente, su reddito di cittadinanza e blocco dell’immigrazione? Nessuno fra gli sconfitti che si chieda dove sono finiti quel 40 per cento di elettori del PD nelle europee del maggio 2014 e poi del “sì” che il segretario Renzi, mai smentito dai suoi collaboratori, al contrario, applaudito e osannato, rivendicava come suoi facendo un paragone azzardato con lo scarno 26 per cento per Macron nel primo turno delle elezioni presidenziali francesi? Comunque, dimenticando le sconfitte nelle elezioni amministrative del 2015, dove sono finiti e a chi quei voti fuggiti che hanno lasciato il PD al 18 per cento circa? Non sono certamente stati conquistati da Liberi e Uguali, il cui esito percentuale (e politico) è stato assolutamente deludente. La campagna elettorale del PD nel 2018 è stata impostata e condotta in maniera brillante? L’attacco a due punte, Renzi e Gentiloni, ha valorizzato le riforme e la figura del Presidente del Consiglio, già allora più popolare del due volte segretario del partito? È mai passata (se esisteva) l’idea che il PD s preoccupasse delle diseguaglianze, fosse il partito che avrebbe operato per ridurre quelle esistenti e per creare eguaglianze di opportunità? E tutto questo c’entrava qualcosa con la sconfitta referendaria, era impedito da quella sconfitta oppure reso più impellente? Quelle cattive riforme avrebbero cambiato in meglio la Costituzione italiana, che non è necessario considerare la più bella del mondo (non esiste concorso di bellezza per le Costituzioni altrimenti assisteremmo alla paradossale vittoria della Costituzione che non c’è: quella inglese) per valutarne positivamente le qualità? Mancano al loro dovere di difesa della Costituzione gli esponenti del no che non scendono in piazza contro le elucubrazioni di Davide Casaleggio sulla futura probabile inutilità del Parlamento? Oppure il confronto fra riforme fatte e proposte futuribili è improponibile, oltre che un processo alle (non) intenzioni?

Potrei concluderne che la pochezza argomentativa degli irriducibili giapponesi del sì è rattristante. Potrei anche aggiungere che sono fatti loro, parte della spiegazione di una sconfitta sonora che non hanno mai saputo spiegarsi e che continuano a non capire. Dirò, invece, che gli sconfitti del sì, chiusi nella loro torre dalla quale vedono solo le responsabilità altrui, privano il paese e i loro elettori di un’opposizione sulle cose, in grado di contrastare un governo al quale diedero prematuramente via libera, e di controproporre. Chi non impara dalla storia è condannato a riviverla (ma alcuni fra noi non si meritano questa punizione).

Pubblicato il 18 agosto 2018

Revenants, a volte ritornano… senza aver imparato dai loro errori

Revenants, vale a dire, quelli che … tornano a casa, incattiviti, senza avere imparato niente. Anzi, ripetono se stessi e i loro errori che hanno prodotto la sonora sconfitta di pasticciate riforme costituzionali senza capo né coda. Che non riguardavano, per insipienza e tracotanza, il governo. Dunque, anche se fossero malauguratamente resuscitate non risolverebbero la situazione, non creata, ma facilitata dalla legge Rosato. I problemi politici si affrontano con la costruzione intelligente delle condizioni del possibile, non con trucchi e premi.

 

Riforma Boschi e Italicum, non si rassegnano

Gli sconfitti del referendum costituzionale del 4 dicembre 2016 non si sono ancora rassegnati. Non riescono ancora a farsene una ragione poiché continuano a ripetere argomentazioni infondate e sbagliate. Grave per i politici, la ripetitività di errori è gravissima per i professori, giuristi o politologi che siano. Sul “Corriere della Sera” Sabino Cassese esprime il suo rimpianto per il non-superamento del bicameralismo (che, comunque, nella riforma Renzi-Boschi era soltanto parziale) poiché obbliga ad una “defatigante navetta”. Non cita nessun dato su quante leggi siano effettivamente sottoposte alla navetta, sembra non più del 10 per cento, e non si chiede se la fatica sia davvero un prodotto istituzionale del bicameralismo paritario italiano oppure dell’incapacità dei parlamentari e dei governi di fare leggi tecnicamente impeccabili, quindi meno faticose da approvare, oppure, ancora, se governi e parlamentari abbiano legittime differenze di opinioni su materie complicate, ma qualche volta non intendano altresì perseguire obiettivi politici contrastanti. Comunque, i dati comparati continuano a dare conforto a chi dice che, nonostante tutto, la produttività del Parlamento italiano non sfigura affatto a confronto con quella dei parlamenti dei maggiori Stati europei: Francia, Germania, Gran Bretagna, Spagna. Nessuno, poi, credo neanche Cassese, sarebbe in grado di sostenere con certezza che le procedure previste nella riforma avrebbero accorciato i tempi di approvazione, ridotti i conflitti fra le due Camere e, meno che mai, prodotto leggi tecnicamente migliori.

Più volte, non da solo, Mauro Calise ha sostenuto che soltanto un governo forte, identificato con quello guidato da Matteo Renzi, risolverebbe tutti questi problemi, e altri ancora. Non ci ha mai detto con quali meccanismi istituzionali creare un governo forte, ma ha sempre affidato questo compito erculeo alla legge elettorale. Lunedì ne “Il Mattino” di Napoli ha ribadito la sua fiducia nelle virtù taumaturgiche del mai “provato” Italicum. Lo cito:”avevamo miracolosamente partorito una legge maggioritaria” …. “senza la quale in Europa nessuno è in grado di formare un governo”. Come ho avuto più volte modo di segnalare, l’Italicum come il Porcellum non era una legge maggioritaria, ma una legge proporzionale con premio di maggioranza. Con il Porcellum nel 2008 più dell’80 per cento dei seggi furono attribuiti con metodo proporzionale; nel 2013 si scese a poco più di 70 per cento. L’Italicum, non “miracolosamente partorito”, ma imposto con voto di fiducia, non avrebbe cambiato queste percentuali. Quanto alla formazione dei governi, tutti i capi dei partiti europei hanno saputo formare governi nei e con i loro Parlamenti eletti con leggi proporzionali. Tutte le democrazie parlamentari europee hanno sistemi elettorali proporzionali in vigore da un centinaio d’anni (la Germania dal 1949). Nessuno di quei sistemi ha premi di maggioranza. Tutte le democrazie parlamentari hanno governi di coalizione. Elementari esercizi di fact-checking che anche un politologo alle prime armi dovrebbe sapere fare, anzi, avrebbe il dovere di fare, smentiscono le due affermazioni portanti dell’articolo di Calise. C’è di peggio, perché Calise chiama in ballo Macron sostenendo che la sua ampia maggioranza parlamentare discende dal sistema elettorale maggioritario. Però, il doppio turno francese in collegi uninominali non ha nulla in comune né con il Porcellum né con l’Italicum le cui liste bloccate portano a parlamentari nominati. Inoltre, il modello istituzionale francese da vita a una democrazia semipresidenziale che non ha nulla a che vedere con i premierati forti vagheggiati, ma non messi su carta, dai renziani né, tantomeno, con il cosiddetto “sindaco d’Italia”. Il paragone fatto da Calise è tanto sbagliato quanto manipolatorio. Non serve né a riabilitare riforme malfatte né a delineare nessuna accettabile riforma futura.

Pubblicato il 12 settembre 2017

 

Riforma da bocciare #4dicembre

cattura

Intervista raccolta da Mattia Vallieri

Le carte fondamentali delle democrazie servono a controllare i potenti, non ad aumentarne le prerogative

Questa riforma merita un 4 in pagella”. Una bocciatura netta della riforma costituzionale (“che peggiora l’esistente”) arriva da Gianfranco Pasquino, intervenuto all’iniziativa ‘Per un no sano e consapevole’ organizzato dall’Anpi e intervistato dal direttore di Estense.com Marco Zavagli.

Una stroncatura su più fronti quella presentata dal professore di scienza politica: “in questa riforma non c’è niente di buono. Anche l’abolizione del Cnel, una delle poche cose ragionevoli, può essere fatta il 6 dicembre da una maggioranza qualificata dei parlamentari modificando un solo articolo della Costituzione”. Bordate anche su nuovo Senato e rapporto Stato-Regioni: “io rimango alla riforma come è stata scritta e lì i nuovi senatori vengono scelti dai consigli regionali e questo fa capire che rappresenteranno i partiti e non i territori, qualcuno parlerebbe di lottizzazione – attacca Pasquino -; ricordiamoci poi che servirà una ulteriore legge per decidere come verranno eletti, scelti, nominati. Una parte di centralizzazione dei poteri ci sta ma in questa riforma è troppa”.

Tutte ragioni per cui “non temo una deriva autoritaria, ma una deriva confusionaria, perché anche se alcuni obiettivi sono buoni, il modo di realizzarli è davvero sconclusionato”. Eppure “alcune riforme sono necessarie”. Ma con cautela: “pensiamo al tanto l’articolo 70. Ai costituenti bastarono nove parole (“La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere”). A chi ha scritto questa riforma 438. Spero davvero che chi l’ha redatta non siano né parlamentari né funzionari”.

Anche perché “viviamo in un paese in cui si cambia la Costituzione che tanti cittadini non conoscono e alla faccia della coerenza professionale si modifica il titolo V dopo averlo voluto fortemente per seguire l’idea federalista della Lega” accusa l’ex senatore, dichiarando la sua approvazione ad una modifica della Costituzione diversa da quella proposta dal governo Renzi.

Non si possono cambiare i principi fondamentali della Costituzione ma io sarei favorevole a toccare anche la prima parte – afferma il professore sfidando gli sguardi degli esponenti Anpi -. L’articolo 21 (libertà di pensiero e parola ndr) andava benissimo per un paese rurale degli anni ’20 oggi con TV e social non va bene, i Patti Lateranensi non hanno senso di fronte all’articolo 8 per il quale tutte le religioni hanno pari dignità; va affrontata poi la questione del conflitto d’interessi e la situazione dei partiti necessita di una disciplina”.

Ce n’è anche per Benigni, un comico che prima diceva che avevamo la “Costituzione più bella del mondo e che ora dice, da comico, che abbiamo la riforma costituzionale più bella del mondo”.

Qual è allora la Costituzione più bella del mondo? “E’ quella non scritta. Penso alla Magna Charta Libertatum dell’Inghilterra, voluta dai lord inglesi per limitare e non per accrescere il potere del re. Ricordiamoci che le carte fondamentali delle democrazie servono proprio a questo: a controllare i potenti, non ad aumentarne le prerogative”.

Va poi ricordato che “i padri costituenti non avevano molti esempi con cui confrontarsi. Nel Nord Europa c’erano, e ci sono, delle monarchie e noi avevamo appena votato contro i Savoia; nell’Europa meridionale erano insediate delle dittature. L’unica a disposizione era quella francese, che non è proprio un modello di perfezione”.

Venendo ora al punto cruciale della riforma (il superamento del bicameralismo perfetto) arriva l’ennesima critica di Pasquino: “Il sistema parlamentare voluto dai costituenti serviva per migliorare la qualità delle leggi, con questa riforma si passa oltre senza però avere possibilità di valutare se le cose miglioreranno o meno”.

Secondo il politologo “c’erano anche meccanismi per rafforzare il potere del capo del governo senza ridurre il ruolo del Parlamento. Per dare stabilità bastava inserire il voto di sfiducia costruttivo. Ma Renzi ha detto che non gli è stata data possibilità di inserirlo. Bugia, non si è mai dibattuto sul tema in parlamento”.

Ecco perché alla fine la “pagella” del professore è impietosa: “4 alla riforma, 5 – ai contenuti, 4 a chi l’ha scritta”. ‘Così tanto?’ si domanda dal pubblico. “Eh, ormai gli zero non si danno più”.

Intanto tra una settimana sono attesi alla resa dei conti due schieramenti contrapposti, anche se “più che una battaglia è una partita. Una partita che non finirà il 4 dicembre. In democrazia le partite non finiscono mai”. E questo sia che vinca il sì, “con il conseguente tempo necessario per l’adeguamento normativo”, sia che vinca il no, in conseguenza del quale “parlare di elezioni anticipate è fantapolitica, non è proprio fattibile”. Secondo l’esperto, in caso di sconfitta, “Renzi presenterà le dimissioni e Mattarella avvierà le consultazioni sul nuovo premier. Per terminare la legislatura e tornare alle urne nel 2018”.

Pubblicato il 26 novembre su Estense.com

Eccome se esiste un NO positivo

La terza Repubblica

Nello schieramento del NO non si trova, come, fra gli altri, ha sostenuto Ernesto Galli della Loggia (Referendum, la doppia battaglia, “Corriere della Sera”, 5 novembre) , tutto il male, passato e futuro, del paese. Non si trovano tutti quelli che non hanno mai fatto niente (che cedimento alla propaganda renzian-boschiana!), tutti quelli che hanno approfittato di chi sa quali privilegi dati loro dalla Costituzione vigente. Rileggere la storia di questo paese permetterebbe di giungere a una valutazione molto più equilibrata. Guardare alle modalità simil-plebiscitarie con le quali il capo del governo ha impostato la sua lunghissima e conseguentemente costosissima campagna referendaria dovrebbe quantomeno portare a qualche critica. Infine, esplorare in maniera selettiva il background degli oppositori delle riforme e di una legge elettorale talmente discutibile che persino i loro facitori si mostrano oggi disponibili a cambiarla dovrebbe imporre una discussione sul merito.

Purtroppo, Galli della Loggia ha seguito un’altra già spesso battuta strada, sulla quale, però, personalmente, non sono affatto disposto a seguirlo. Dunque, non chiederò a nessuno dei sostenitori del sì, neppure ai riformatori parlamentari e al Presidente Emerito Giorgio Napolitano, quali sono state le loro precedenti prese di posizione sulla necessità di ritoccare la Costituzione. Non chiederò con quali conoscenze, magari comparate, sono giunti all’elaborazione di quanto, in maniera del tutto irrituale, hanno fin dall’inizio affermato che avrebbero sottoposto al non richiesto vaglio referendario. Non andrò neppure a sottolineare strane convergenze fra quotidiani, come il Corriere e il Foglio e fra la Civiltà Cattolica, alcune banche, agenzie di rating e la Confindustria, meno che mai a chiederò loro quali riforme ritengono effettivamente non soltanto azzeccate, ma indispensabili.

Almeno a grandi linee, tuttavia, qualche quesito meriterebbe meditate risposte, sul contenuto. Il bicameralismo italiano, che ha regolarmente prodotto più leggi di quello francese, inglese, tedesco, deve essere riformato perché è meno efficiente di quei bicameralismi? Oppure, forse, bisognava andare verso una sana delegificazione di cui non v’è traccia alcuna nelle riforme? La governabilità, fenomeno che i riformatori sostanzialmente declinano come stabilità del governo, creato e potenziato da un cospicuo premio in seggi, non dovrebbe quanto meno contenere qualche riferimento a meccanismi più trasparenti e anche più incisivi, ad esempio, il voto di sfiducia costruttivo, alle origini della grande stabilità dei Cancellieri e dei governi tedeschi? Ma davvero il problema delle democrazie contemporanee è la loro ingovernabilità piuttosto che la loro capacità di offrire e garantire rappresentanza politica ai loro elettorati? Sapere rappresentare quegli elettori e consultarli, non offrendo disintermediazione, ma con forme di intermediazione, che sono la peculiarità positiva delle democrazie? Se si cambiano gli equilibri tra parlamento e governo non bisognerebbe cercare e innestare altri effettivi contrappesi poiché fra i compiti del parlamento sta anche quello di monitorare e controllare l’attività del governo, di quello che fa, non fa, fa male piuttosto di chinare la testa e votare la fiducia su decreti omnibus oppure correre su corsie preferenziali per incocciare votazioni a data certa?

Se, come ha scritto, nient’affatto autorevolmente, la banca d’affari JP Morgan, le costituzioni dell’Europa meridionali sono “socialiste”, qualcuno dei facitori e dei sostenitori delle riforme costituzionali è davvero disposto a sostenere che queste riforme conducono nella direzione di una costituzione liberale? Il marchio, l’imprinting di una costituzione liberale consiste nel dare più forza al governo o nel provvedere freni e contrappesi? nel consentire il massimo di autogoverno ai poteri locali o nel fare ricorso alla clausola della supremazia statale? Nel sostenere, con grande sprezzo della storia del costituzionalismo liberale, che bisogna dare vita ad una, altrove inesistente, democrazia “decidente”, aggettivo che non compare mai negli indici dei nomi dei più importanti testi sulla democrazia a cominciare dall’indimenticabile classico di Giovanni Sartori, Democrazia e definizioni? Mettere in evidenza tutti questi aspetti, proprio di merito, fa di coloro che argomentano il no dei retrogradi che bloccano lo sviluppo del paese e trasforma i riformatori negli avanguardisti delle “magnifiche sorti e progressive”? Credo proprio di no.

Pubblicato il 13 novembre 2016 su terzarepubblica.it

Senato: una riforma da riscrivere

Giustificare la cattiva riforma del Senato è impossibile per chi continua a dire, come fa Franco Pizzetti, che il bicameralismo italiano attuale è “perfetto”. Peggio, Pizzetti sostiene che il bicameralismo dello Statuto Albertino, che il fascismo non toccò, era altrettanto perfetto. Quel bicameralismo, con il Senato tutto non elettivo, ma di nomina regia, fu, evidentemente, già molto imperfetto. Non è neppure vero che il bicameralismo che l’Italia ha avuto dal 1948 a oggi sia stato qualcosa che nessuno dei Costituenti desiderava e di cui era scontento. Mi limito a citare l’opinione, certamente autorevole, di Meuccio Ruini, Presidente della Commissione dei 75, che scrisse la Costituzione. “La Commissione … ha ammesso la bicameralità … poiché è apparso necessario non abbandonarsi sul piano inclinato del Governo di una sola Assemblea o Convenzione. Anche nella forma più o meno felice che è venuta fuori, la Camera dei Senatori non è un duplicato dell’altra”. Aggiungo che tutti i dati disponibili indicano che il bicameralismo italiano paritario, che è l’aggettivo corretto, non ha mai impedito ai governi di legiferare approvando in tempi decenti, spesso anche sotto pressione della decretazione d’urgenza, i disegni di legge che traducevano i programmi in politiche pubbliche.

La riforma oggetto di referendum nasce, non da considerazioni miranti a migliorare il funzionamento del Parlamento e del sistema politico italiano quanto da un episodio: la mancanza dopo le elezioni del febbraio 2013 in Senato di una maggioranza simile a quella di cui godeva il Partito Democratico alla Camera, ma soltanto perché gonfiato dall’ingente premio in seggi. Ridurre le poltrone, come dice e ripete il Presidente del Consiglio, con lessico venato di populismo, e diminuire, peraltro di poco, i costi, non produce affatto una situazione migliore dell’attuale. Infatti, la composizione del prossimo Senato, se vinceranno i “sì”, sarà pasticciata e i suoi compiti risulteranno confusi.

Non è tuttora possibile sapere se i Senatori e i sindaci saranno semplicemente nominati dai Consigli regionali, ma già sappiamo che dovranno rispettare la proporzionalità degli esiti elettorali. Quindi, non rappresenteranno le regioni, ma i partiti che li hanno designati. Difficile poi dire che cosa rappresenterebbero i cinque senatori nominati per sette anni dal Presidente della Repubblica. Quanto ai compiti, in particolare al coinvolgimento del Senato nell’attività legislativa, i consiglieri regionali e i sindaci senatori avranno la prerogativa, che dovrebbe essere limitata ai soli rappresentanti eletti dal popolo, di legiferare in materia elettorale e di revisione costituzionale insieme ai deputati eletti. Il Senato si occuperà, con quali competenze?, in maniera quasi esclusiva di quello che riguarda gli importantissimi rapporti fra Italia e Unione Europea e addirittura avrà il compito, che dovrebbe fare tremare le vene ai polsi di chi, quasi sicuramente, non ha nessuna preparazione specifica, di valutare le politiche pubbliche, vale a dire costi, benefici, impatto, conseguenze di quanto fatto dal governo e attuato dalla burocrazia. Infine, potrà “richiamare” le leggi approvate dalla Camera e introdurvi modifiche, ma l’ultima decisiva parola spetta ai deputati.

Quanto ai rapporti fra Stato e regioni, che, comunque, dovranno sottostare, tutte le volte che il governo lo vorrà, alla clausola di “supremazia statale”, non sono pochi coloro che rilevano che sarebbe stato sufficiente potenziare la Conferenza Stato-Regioni, organismo snello ed efficiente che ha regolarmente funzionato con reciproca soddisfazione. Alla fin della ballata, hanno sottolineato molti ex-Presidenti della Corte Costituzionale, persone più che informate dei fatti, è prevedibile un aumento dei conflitti e dei ricorsi alla stessa Corte (che ne farebbe volentieri a meno). Si poteva fare di meglio, molto, imitando il Bundesrat: 69 rappresentanti espressi dalle maggioranze che vincono le elezioni in ciascun Land. La riforma del Senato non è meglio di niente. E’ peggio dell’esistente. Solo respingendola si apre la strada, certo faticosa, a una riforma migliore.

Pubblicato AGL il 19 ottobre 2016

Referendum, il politologo Pasquino: “Renzi ha rifiutato dibattito con me a RadioRai e mio invito è stato cancellato”

Il fatto

Intervista raccolta da David Marceddu per ilfattoquotidiano.it

Il professore era stato chiamato per un confronto sul tema della riforma a Radioanch’io, ma poche ore prima è stato informato che il presidente del Consiglio non voleva il confronto: “Da premier può decidere se e con chi dibattere. Ma nel momento in cui ritiene di essere il dominus di queste riforme, allora dovrebbe dibattere”

“Giovedì 6 ottobre alle 17 la Rai m’invita a RadioAnch’io con Matteo Renzi. Alle 19.40 la Rai stessa mi comunica che il presidente del Consiglio non vuole fare il dibattito”. A raccontare i fatti è lo stesso Gianfranco Pasquino, politologo di fama mondiale e senatore per tre legislature tra le fila della sinistra indipendente. Non solo quindi la fatwa contro La7 (con l’ordine ai renziani di boicottare i programmi della rete). Questa mattina come da (nuovo) programma il premier ha parlato da solo in trasmissione, criticando tra l’altro “il clima da caccia all’uomo mediatica contro chi la pensa diversamente dal No”. Peccato che proprio premier, secondo quanto riferito dal professore, non ha voluto il contraddittorio. Pasquino a ilfattoquotidiano.it ha detto: “Se avessi potuto parlare gli avrei fatto notare alcune contraddizioni della sua Riforma”. Schierato per il No al referendum costituzionale del prossimo 4 dicembre, da mesi il professore fa dibattiti in tutta Italia (“Un’ottantina per ora lungo tutto il Paese, da Sciacca ad Alessandria”) per combattere una riforma che, a parere suo, non porterà alcun miglioramento nella vita dei cittadini.

Che cosa avrebbe chiesto al presidente del consiglio se avesse potuto partecipare al dibattito radiofonico?
Gli avrei fatto notare alcune contraddizioni della sua Riforma. Per esempio gli avrei chiesto che cosa ci fanno in un Senato delle Regioni 5 senatori nominati per sette anni dal presidente della Repubblica? Gli avrei fatto notare che il parlamento italiano finora ha fatto più leggi e in tempi più brevi del bicameralismo tedesco o francese o inglese.

È stato chiamato qualcuno a sostituirla alla trasmissione?
No, c’è stata mezzora di scambio con il conduttore, che peraltro ha fatto delle ottime domande. La mia critica non è al conduttore, ma a chi ha accettato l’imposizione del presidente del Consiglio.

Crede che Renzi abbia evitato di averla in trasmissione perché è in difficoltà?
Premetto che Renzi da premier può decidere se e con chi dibattere. Obama non va mica ai dibattiti alla Cnn. Ma nel momento in cui il nostro presidente ritiene di essere il dominus di queste riforme, allora dovrebbe dibattere. Detto questo, non so quanto sia in difficoltà. Durante i dibattiti qualche volta sembra che non capisca le obiezioni e quindi va avanti dicendo le solite cose facilmente contestabili: “Ce lo chiede l’Europa”, “È da 30 anni che aspettiamo”, “Bisogna velocizzare”. Ma raramente queste cose gli vengono contestate. Lui va avanti, interrompe, prosegue oltre i tempi: ha adottato una tattica che conosciamo perfettamente. Nei dibattiti c’è sempre un prevaricatore. Lui è un prevaricatore, che però ha la carica di presidente del consiglio”.

Non capisce le obiezioni?
Credo che qualche volta vada avanti perché non voglia rispondere, qualche volta invece non sa. Sul merito è debole. Per esempio alla domanda del referendum: Volete voi il superamento del bicameralismo paritario, la risposta può essere sì. Ma la domanda vera è se questo superamento, contenuto nella riforma Renzi, sia il migliore possibile? E la risposta è no”

Quando parla di “prevaricatore” si riferisce al dibattito televisivo con Gustavo Zagrebelsky?
Quel dibattito ha dimostrato che Renzi controlla meglio le sue espressioni in tv perché più irruento. Zagrebelsky cercava di ragionare più a fondo e forse avrebbe potuto farsi insegnare qualche cosa su come si sta in tv. La sostanza può essere travolta dall’irruenza.

Gli italiani come risponderanno a questa irruenza? Come andrà il referendum?
Dovunque io vada c’è grande interesse a cercare di capire. La riforma ha indubitabilmente degli elementi di complessità e già questo contraddice il fatto che questa riforma sia quella della semplificazione. Questa riforma non semplifica ma complessifica. Molti italiani decideranno nell’ultima settimana prima del voto e forse anche la mattina stessa. E le informazioni le riceveranno dai loro genitori, dai loro amici e dai loro figli, o dai loro colleghi di lavoro. L’umore collettivo si costruisce attraverso rapporti tra persone.

Che disegno ci vede dietro questa riforma costituzionale?
Non credo che ci sia un disegno: queste sono riforme occasionali, contingenti. Nella riforma berlusconiana del 2005 il disegno era chiaro: rafforzare il capo del governo e dare contemporaneamente più potere alle regioni. Qui in questa riforma non c’è invece alcun disegno: il Senato non c’entra niente con il Cnel. Il Senato non c’entra nulla con i referendum. Il Senato c’entra molto poco con la trasformazione del titolo V. Sono 4 riforme episodiche che stanno insieme finché ci sarà l’Italicum”.

Le piace questa legge elettorale?
Salverei solo il ballottaggio, per il resto la definirei un ‘porcellinum’. Tra l’altro se Renzi continua a dire che questa legge elettorale è ottima, ma è disposto a cambiarla, qualcuno gli vada a dire che questa è una contraddizione. Perché se secondo lui è ottima la dovrebbe difendere sino all’ultimo”.

Pubblicato il 7 ottobre 2016

INVITO Dialogo sul referendum costituzionale. Ragioni a confronto 7 ottobre Zola Predosa #Bologna

Venerdì 7 ottobre ore 20.30 – Sala Arengo – Zola Predosa 

Intervengono

Justin Frosin- Le ragioni del Sì

Gianfranco Pasquino- Le ragioni del NO

modera Stefano Fiorini, Sindaco di Zola Predosa

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Nessun allarmismo per l’esito del referendum italiano

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Dissento fortemente dall’analisi di Gianni Bonvicini ” II rischi per l’Italia se vince il NO” (22 settembre 2016) e ancor più dalla sua conclusione: “Dire no alla riforma significherebbe negare il nostro interesse europeo e internazionale a giocare un ruolo da grande nazione”. L’accusa di disfattismo e di antipatriottismo mi pare davvero fuori luogo.

Riforme inutili e inefficaci

Credo che sia praticamente impossibile dimostrare che uno qualsiasi dei capi di governo che contano nell’Unione Europea conosca le riforme costituzionali imposte da Matteo Renzi e sia in grado di valutarne, compito difficile anche per gli italiani, l’utilità e l’efficacia. Tanto per cominciare la riforma del bicameralismo italiano, che non è affatto “perfetto” come scrive Bonvicini, produrrà un Senato di consiglieri regionali e sindaci che si occuperanno, con quale preparazione e con quali conoscenze?, certo non ne faranno sfoggio durante le loro campagne elettorali regionali,della politica europea. E’ una scelta assolutamente fuori luogo. Secondo, nel momento in cui sarebbe opportuno valorizzare le regioni e le autonomie locali, anche per attuare compiutamente il principio di sussidiarietà, le riforme approvate reintroducono la “supremazia statale” in molte materie. Avrebbero, invece, se miriamo congiuntamente a rappresentanza ed efficienza, dovuto mirare ad un accorpamento delle regioni e a un’incentivazione della loro efficienza anche in tutti gli ambiti nei quali, a cominciare dall’utilizzo dei fondi europei, debbono operare.

Un bicameralismo non “perfetto”, ma produttivo

Nulla di tutto questo. Bonvicini sembra credere alla non-produttività del Parlamento italiano e alla sua presunta lentezza e farraginosità. Invece i dati, che ho riportato nel mio volumetto NO positivo. Per la Costituzione. Per buone riforme. Per migliorare la politica e la vita (Edizioni Epoké 2016) indicano tutt’altro. Il bicameralismo italiano ha regolarmente “fatto”, ovvero approvato, più leggi e in tempi comparativamente più brevi dei bicameralismi tedesco, francese e inglese. Inoltre, il governo, anche quello di Renzi, ha regolarmente ottenuto le leggi che voleva, spesso nei tempi da lui desiderati, magari ricorrendo alla decretazione d’urgenza e imponendo il voto di fiducia. Semmai, il problema italiano è che le leggi sono quantitativamente troppe e qualitativamente malfatte. Per colpa dei governi, dei ministri, dei direttori generali dei ministeri.

Governi deboli o inaffidabili?

Governo “debole”, Presidente del Consiglio ingabbiato? Supponendo che qualcuno possa credere, senza dati, a queste fattispecie, dovrebbe allora interrogarsi sul perché nelle riforme costituzionali che saranno sottoposte a referendum non si trovi nulla che riguardi direttamente e specificamente né il governo né il suo capo. Rimanendo in Europa sarebbe stato semplicissimo e auspicabilissimo introdurre il voto di sfiducia costruttivo la cui esistenza tantissimo ha giovato alla stabilità dei Cancellieri tedeschi e delle loro compagini governative. Allo stesso modo, una forte Camera delle regioni avrebbe dovuto essere impostata come il Bundesrat tedesco. Naturalmente, punto che, ne sono certo, Bonvicini condivide con me, la “forza” di un capo di governo nell’Unione Europea non dipende tanto e neppure essenzialmente dalla struttura del suo Parlamento, dall’organizzazione del potere locale, da una legge elettorale che contempli un cospicuo premio di maggioranza (che i greci avevano, to no avail, e che hanno recentemente abolito).

Quasi tutte le democrazie europee meglio funzionanti hanno sistemi elettorali proporzionali e governi di coalizione, più rappresentativi delle preferenze dei loro elettorati e con programmi in grado di accogliere in maniera più soddisfacente interessi e preferenze diversificate. La forza di quel capo di governo dipende dalla sua credibilità politica e personale che implica non fare promesse che non può mantenere e non farsi paladino di riforme costituzionali controverse le quali, creando conflitti interistituzionali e confusione di competenze, renderanno le sue promesse ancora più difficili da mantenere.

Unità d’intenti

Infine, un “sistema-paese” diventa e rimane un interlocutore affidabile, non soltanto per e nell’Unione Europea, anche quando non solo, ma in primis, i suoi politici e poi gli intellettuali e gli istituti di ricerca non fanno allarmismo, quando dichiarano convintamente (e cooperano a fare sì che…) che l’esito di consultazioni democratiche sarà comunque governabile. Che i nostri partner europei non hanno nulla di cui preoccuparsi. Che l’allarmismo interno ed esterno non è affatto giustificato. Che i sostenitori del NO non sono nemici del loro paese, ma pensano semplicemente che altre riforme siano possibili e migliori e sanno anche quali riforme introdurre. Questo, soltanto, questo è il messaggio da inviare ai quotidiani economici straneri, alle grandi banche d’affari, all’Ambasciatore USA, che avrebbe fatto meglio a parlare dopo avere ascoltato i rappresentanti dei due fronti, ai partners europei.

Pubblicato il 3 ottobre 2016  su AffarInternazionali