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Apologia del (vero) liberalismo. Così le istituzioni proteggono i diritti @DomaniGiornale

Il problema non è il neo-liberalismo (troppo spesso identificato con ricette economiche meglio definibili come neo-conservatrici). Il problema sono i sedicenti liberali che parlano di qualcosa che non conoscono. Per molti di loro, essere liberali significa porsi contro la sinistra in qualsiasi versione si presenti. Per molti di loro, soltanto i liberali possono scrivere e discutere di liberalismo. Dissento verticalmente e qui argomenterò, inevitabilmente a grandi, ma credo sufficienti, linee, perché e come.

Ricostruisco il liberalismo al quale sono stato esposto come studente da Norberto Bobbio, Luigi Firpo (docente di Storia delle dottrine politiche a Torino), Nicola Matteucci e Giovanni Sartori. Poi, sì, grazie a loro, ho letto molti altri libri importanti. A richiesta ne provvederò i riferimenti bibliografici. All’origine di tutto voglio porre tre essenziali principi derivati dagli scritti del sicuramente liberale John Locke (1632-1704), nell’ordine: libertà, vita, proprietà. Senza libertà non c’è vita degna di essere vissuta. Proteggere la vita non consiste unicamente nel garantire le condizioni minime di esistenza, grazie alla proprietà di alcune risorse, ma significa opporsi a qualsiasi ingerenza fisica a cominciare dalla tortura. Tre secoli dopo Locke, l’eminente filosofa politica ebrea nata in Lettonia Judith Shklar (1928-1992) denunciò la crudeltà come il peggior vizio illiberale. Concordo e mentre rimando ad una valutazione complessiva del suo importantissimo lavoro contenuta nel volume curato da Bernard Yack, Liberalism without Illusions: Essays on Liberal Theory and the Political Vision of Judith N. Shklar (University of Chicago Press, 1996), attendo di sentire l’opinione e dei (no, non scrivo più “sedicenti”) liberali italiani.

Stabiliti quei principi tuttora irrinunciabili, dunque, liberale non è mai colui che attenta, fatto salvo un discorso su come sia stata acquisita, alla proprietà delle persone, il liberalismo non esce come Minerva dalla testa di Giove. Si dipana, invece, gradualmente, da un lato, sul versante delle istituzioni, dall’altro, sul versante dei diritti, con la precedenza delle prime, troppo spesso trascurate dai liberali contemporanei, sui secondi. Strappare al re il potere giudiziario e il potere legislativo è quanto suggerisce Montesquieu nel suo De l’esprit des lois (1748), l’inizio della separazione/separatezza delle istituzioni. Il Re d’Inghilterra resisterà strenuamente, ma i coloni americani indipendentisti (1776) fecero delle istituzioni separate l’asse portante del loro presidenzialismo. Quelle istituzioni erano separate come origine anche elettorale, ogni 2 anni i Rappresentanti e un terzo dei Senatori, ogni 4 anni il Presidente, ma condividevano i poteri. Il Senato interviene nelle nomine presidenziali, persino dei Ministri (Segretari) e, ancor più significativamente, dei giudici della Corte Suprema nominati dal Presidente. Quei giudici possono fare decadere le leggi approvate dal Congresso e firmate dal Presidente che, peraltro, può porre il suo veto per lo più vincente su leggi sgradite.

Le istituzioni USA, hanno sostenuto alcuni studiosi recenti, non si limitano a condividere (sharing) i poteri fino ad una situazione di “governo diviso” (stallo e/o ingovernabilità) pur preferibile ad una Presidenza onnipotente, “arrogante” nelle parole del Sen. William Fulbright, “imperiale” nell’analisi dello storico Arthur Schlesinger Jr, ma sono entrati in una nociva, costante competizione per strapparli a proprio favore.

Qui si inserisce il secondo elemento istituzionale/costituzionale eminentemente liberale: checks and balances. Nessuna istituzione deve mai trovarsi in condizione di prevaricare sulle altre e nessuna di essere “prevaricata”. Freni e contrappesi sono meccanismi delicati costantemente bersagli di battaglie politiche e culturali. Coloro che ottengono attraverso elezioni libere, eque (fair), periodiche (qui l’importanza di buone leggi elettorali) e occupano cariche politiche debbono rispondere dei loro comportamenti agli elettori: accountability. Non è solo l’obbligo di accettare le proprie responsabilità e rendere conto di quanto fatto, non fatto, fatto male. L’accountability è la virtù liberaldemocratica per eccellenza, totalmente coerente con l’assenza di qualsiasi vincolo al mandato (art. 67 della Costituzione italiana) e sostanzialmente incompatibile con limiti temporali imposti ai mandati, misura di chiaro stampo populista.

Espressione del potere e delle preferenze dei cittadini, le istituzioni liberali proteggono e promuovono i diritti. Sancite la libertà di parola e opinione e libere elezioni, il Bill of Rights inglese del 1689 è tutto focalizzato sui rapporti istituzionali fra Re e Parlamento e sui rispettivi poteri. Cent’anni dopo la Costituzione USA è un documento tutto istituzionale. Nel 1791, il Bill of Rights USA entrò a farne parte integrante in qualità di primo emendamento. I diritti liberali sono di due tipi, civili e politici. Libertà di parola, di opinione, di stampa, di culto, di associazione e di movimento sono diritti civili essenziali. Votare e essere votati, costruire organizzazioni politiche e partecipare alla politica in varie forme attraverso tentativi di influenzare i detentori del potere politico con proteste e movimenti sono tutti diritti politici. Una società che riesce a esprimersi secondo queste modalità è, ricorrendo agli aggettivi frequentemente usati nel lessico politico/logico USA, “robusta e vibrante”. Poiché la competizione pluralista fra idee, proposte, soluzioni è quanto il liberalismo auspica, considera importante, ‘impegna a garantire quella società è definibile liberale. La competizione, non l’eguaglianza, è il suo tratto distintivo.

   L’unica eguaglianza indispensabile e caratterizzante del liberalismo è quella davanti alla legge. La diseguaglianza intollerabile dal liberalismo è quella che deriva dall’uso del denaro per conquistare il potere politico. Il principio “una persona un voto” è eguaglianza politica liberale. Il conflitto di interessi fra le attività e le risorse economiche personali e l’esercizio di cariche pubbliche è la ferita più profonda inferta alla concezione e alla pratica dello Stato liberale.

   Non sta nella concezione dello Stato liberale il terzo insieme di diritti, quelli sociali: istruzione, salute, lavoro, pensione. Nulla osta che, come scrisse il grande sociologo inglese T.H Marshall già nel 1950: Citizenship and Social Class, a quei diritti si possa pervenire. Sono diritti caratterizzanti le esperienze e le politiche socialdemocratiche, ma non per questo incompatibili con lo Stato liberale e dai liberali rigettati. Al contrario, rispetto ai diritti sociali le differenze fra liberali e socialdemocratici non stanno affatto nell’importanza attribuita a quei diritti, ma nelle modalità con le quali perseguirli. I socialdemocratici affidano il compito prevalentemente allo Stato e alle sue istituzioni. I liberali pensano che debbano essere i cittadini attraverso la libera competizione politica a stabilire, fatta salva una rete di sicurezza, se, come e quanto investire in istruzione e sanità, in lavoro e pensioni. Da questo punto di vista gli Stati Uniti sono molto più liberali della Gran Bretagna. Prova ne è che la riforma sanitaria di Obama è stata bollata come socialista, mentre il sistema scolastico viene fortemente criticato per la sua produzione e riproduzione di enormi diseguaglianze e privilegi.

   Se l’assenza di qualsiasi intervento sostitutivo o correttivo o di indirizzo ad opera dello Stato che neghi la prospettiva formulata da John Maynard Keynes per l’economia e non la voglia/sappia estendere ai settori istruzione, sanità, lavoro è definibile come neo-liberalismo, allora la sua distanza dal pensiero liberale classico è, se non incolmabile, certamente considerevole. Ma, pur esigenti, non buoni/sti come troppi, questa volta la qualifica sedicenti merita di tornare, liberali italiani si compiacciono di essere, i liberali degni di questo nome non sono crudeli e una competizione politica ben regolata continua a promettere e spesso a conseguire esiti apprezzabili.

Pubblicato il 10 agosto 2023 su Domani

Qualche punto fermo sul politically correct e sulla cancel culture @DomaniGiornale

“Non conosco un paese dove regni meno l’indipendenza di spirito e meno autentica libertà di discussione che in America …”. La frase non è stata scritta da un contemporaneo e non da un visitatore preconcetto, ma da Alexis de Tocqueville nel 1831. La preoccupazione dell’aristocratico francese si estendeva alle conseguenze sulla nascente democrazia USA del conformismo che sopprime il dibattito delle idee, opprime i loro portatori e li reprime. Potrei dire che Tocqueville non aveva visitato abbastanza paesi per avere dati comparati a sostegno della severissima valutazione. Sono ragionevolmente convinto che la libertà di discussione sia (stata) poco tutelata in molti paesi. Poi, sappiamo tutti che la libertà di parola (free speech) è solennemente codificata nel Primo emendamento alla Costituzione USA fin dal lontano 1791, facendo parte del pacchetto noto come Bill of Rights. Ma sono le tendenze contemporanee negli USA più che altrove (anche se dagli USA spesso si irradiano) che appaiono preoccupanti. “Le idee dei paesi dominanti spesso diventano idee dominanti”: politically correct e cancel culture.

Inizio un discorso inevitabilmente complicatissimo e che è già fortemente incrostato da una molteplicità di interpretazioni. Nella sua versione buona il politically correct serve a non offendere le persone talvolta inevitabilmente celando le proprie opinioni quando divergono da quelle della maggioranza e fare un omaggio meno verbale (lip service) a quanto i più dicono. Nella sua versione “cattiva”, il politicamente corretto è la tendenza portata agli estremi di stabilire quello che è accettabile dire e quello che non è accettabile e, naturalmente, di sanzionare i devianti vale a dire coloro che non si uniformano. Nella seconda versione il politicamente corretto può giungere fino a violare la libertà di parola imponendo una censura e punendo coloro che insistono a esprimersi in maniera difforme. Nei casi di grave censura gli scorrettamente politici possono appellarsi al primo emendamento della Costituzione USA e, in Italia, all’art. 21. Nei casi meno gravi difendersi dalla coltre del conformismo di gruppo, di ceto, di massai può essere difficilissimo, quasi impossibile.

 Boicottare coloro che esprimono posizioni e comportamenti considerati non in linea con la cultura attualmente dominante, è una degenerazione del politicamente corretto. Distruggere le statue del generale sudista e schiavista Lee e i monumenti a Hitler (e Stalin) è comprensibile, anche se, talvolta, i monumenti del passato potrebbero servire a insegnare la storia. Fare a meno di Shakespeare e di Mozart, uomini bianchi morti, mi sembra proprio un esempio deplorevole di, stiracchio il concetto a mio favore, di cancellazione della cultura. Tutt’altro è il discorso relativo al vilipendio delle istituzioni, all’istigazione a delinquere, all’incitare a comportamenti criminali e, persino, alle offese e agli insulti politicamente motivati. Non credo che la libertà di parola possa essere invocata a difesa di chi oltraggia deliberatamente, ma, certamente, riconosco la complessità delle situazioni e dei giudizi. So che, in democrazia, il conflitto delle idee deve essere il più libero e anche il più aspro possibile. Non vorrei, però, che con la scusa dell’asprezza e con il richiamo alla libertà si legittimassero parole e comportamenti che mirano a minare alle fondamenta le democrazie costituzionali. Di tanto in tanto vanno posti punti fermi. Qui e adesso, pongo il mio punto, democraticamente rivedibile e superabile.

Pubblicato il 19 maggio 2021 su Domani