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Scienza, burocrazia, politica: un triangolo dove s’incontrano virtù e vizi

Scienza, burocrazia e politica. Giusto arrovellarsi intorno ai rapporti essenziali che intercorrono fra loro. Sbagliato attendersi risposte definitive dalla scienza che procede anche attraverso errori e correzioni. Sbagliato criticare pregiudizialmente la burocrazia che applica regole e procedure scritte dalla politica, ma giusto chiedere ai burocrati apprendimento e flessibilità. Sbagliato dare tutta la responsabilità ai politici che abbiamo eletto noi. Scienza, burocrazia, politica: un triangolo dove s’incontrano virtù e vizi. Buon anno.

Meritarsi gli aiuti per crescere economicamente e culturalmente

Facciamo un po’ di chiarezza nella situazione italiana che commentatori e politici talvolta ignorano spesso manipolano. Grazie ai fondi del programma NextGenerationEU l’Italia avrà 209 miliardi di Euro, 129 sotto forma di prestiti, 80 di sussidi, da spendere nei prossimi anni. Entro giugno 2021 potrà ottenerne in anticipo circa 20 miliardi. Al fine di accedere a quella notevole massa di denaro per la “Ripresa e la Resilienza” vi sono due condizioni molto importanti. La prima consiste nel presentare progetti concreti e fattibili con precisi costi e tempi di realizzazione in sei settori già definiti dalla Commissione Europea. La seconda è che i fondi vanno utilizzati e spesi entro il 2026. In ordine di quantità di investimenti i sei settori sono: i) rivoluzione verde e transizione ecologica; ii) digitalizzazione, innovazione, cultura; iii) infrastrutture; iv) istruzione e ricerca; v) parità di genere e coesione sociale; vi) salute. Per l’Italia, paese, al tempo stesso, che è stato colpito duramente dal Covid-19 e che non cresce economicamente da circa trent’anni è ovviamente, una grande, straordinaria, irripetibile opportunità per migliorare la vita di tutti, ma, soprattutto, come dice il titolo del programma, di quella della prossima generazione.

Nella fase attualmente in corso, il governo guidato da Giuseppe Conte, il quale è positivamente responsabile per avere ottenuto dall’Unione Europea di gran lunga più fondi di qualsiasi altro paese europeo, è impegnato nella preparazione e stesura dei programmi. Non mancano le polemiche, non solo provenienti dalle opposizioni, ma anche dall’interno della coalizione di governo. Sono di due tipi. Da un lato, molti rimproverano, a mio parere, alquanto prematuramente, al governo di essere già in ritardo. I programmi debbono arrivare alla Commissione non oltre il mese di aprile, ma la Commissione ha fatto sapere che “prima arrivano meglio sarà”, vale a dire se ne potrà discutere più approfonditamente e si potrà porre rimedio a eventuali inadeguatezze e carenze. Dall’altro lato, la polemica più aspra e aggressiva riguarda la composizione e la guida degli organismi incaricati di formulare i programmi. A coordinare tutto, al vertice della piramide, sta la figura del Presidente del Consiglio coadiuvato dal Ministro dell’Economia Roberto Gualtieri e dal Ministro per gli Affari Europei Vincenzo Amendola. Vi sarebbero poi sei manager e un (in)certo numero di collaboratori esterni, vale a dire non tratti e non provenienti dalla burocrazia italiana.

Le critiche sono state e, al momento in cui scrivo, continuano ad essere ancora più severe sia contro l’eccessivo potere concentrato nelle mani del Presidente del Consiglio sia contro la composizione complessiva dell’organismo tecnico, della cosiddetta task force. Non mi soffermo sulle contraddizioni di coloro che volevano un Premierato forte e che adesso, in una fase di eccezionale gravità, si oppongono a che il Premier abbia effettivamente forti poteri. Noto, però, che debbono certamente essere il governo e il suo capo a portare la responsabilità di quello che viene fatto, non fatto, fatto male. È opportuno che si consultino le opposizioni, ma la decisione finale deve essere sempre presa dal governo che ne risponderà ai cittadini elettori. Per quel che riguarda manager e collaboratori, l’obiezione è che, da un lato, espropria i poteri dei governanti, dall’altro, che è pletorica, troppo ampia e, questa volta, espropria la burocrazia. Personalmente, ritengo che la prima obiezione sia sbagliata e pretestuosa.

Le decisioni finali rimangono nelle mani dei politici, governo e Parlamento al quale il programma sarà formalmente sottoposto per l’approvazione definitiva. La seconda obiezione è più fondata da almeno due punti di vista. In primo luogo, perché non è vero che la burocrazia italiana sia in blocco inadeguata a stilare un programma di interventi e di azioni. Ci sono isole d’eccellenza nell’apparato dello Stato e ci sono alti funzionari dotati di notevole competenza che è sicuramente da utilizzare. Secondo, buona parte dei fondi che l’Italia otterrà saranno poi posti all’opera attraverso i canali e le strutture della burocrazia (digitalizzabile e digitalizzata, rinnovata, meglio valutata). Dunque, il coinvolgimento di alcuni settori della burocrazia nella fase di elaborazione serve anche a fare sì che siano nelle condizioni migliori quando si passerà all’attuazione.

Credo che faremmo molto male a sottovalutare la portata delle differenze di opinioni e di proposte relative al modo con il quale utilizzare i fondi del NextGenerationEU. In gioco, c’è il futuro dell’Italia e, in parte, anche quello dell’Unione Europea poiché un fallimento dell’Italia avrebbe enormi ripercussioni. In gioco c’è anche, quasi ugualmente importante, il futuro prossimo del governo Conte insieme al posto che certamente mira a conquistarsi nella storia d’Italia. Non è difficile immaginare quale senso di delusione colpirebbe le autorità europee se il governo italiano entrasse in crisi proprio quando deve sottoporre i suoi progetti, difenderli, migliorarli e attuarli. Ancora peggio se vi fossero nuove elezioni e al governo dell’Italia andassero coloro che esprimono idee sovraniste, sempre scettiche spesso critiche dell’Unione Europea che c’è e dalla quale desideriamo un consistente aiuto. Non prevedo nessuna crisi di governo nel 2021 e poi nel gennaio-febbraio 2022 ci sarà l’elezione del Presidente della Repubblica: una ottima ragione per mantenere un minimo di coesione fra i partiti che fanno parte del governo Conte.
Quello che temo per il 2021 sono le incertezze, le divisioni interne al governo, l’incapacità di mettere al lavoro tutte le competenze necessarie, i ritardi nella sottoposizione dei programmi alla Commissione europea. Non riuscire a sfruttare al meglio un’occasione storica significa condannare non soltanto la prossima generazione, ma l’Italia tutta, alla stagnazione economica e culturale. L’anno 2021 è davvero cruciale per gli italiani, in Italia e nel mondo. Auguri.

Pubblicato il 1 gennaio 2021 su ITALIANItaliani

Regionali, cosa mi aspetto dai candidati. Scrive il prof. Pasquino @formichenews

Chi vuole uno Stato delle autonomie deve volere anche e (quasi) subito dimostrare che la sua autonomia la sa esercitare, per esempio, avendo già speso nella sua interezza i vecchi fondi europei, e rendendo meglio preparata, più snella, più efficace la burocrazia regionale. Il commento di Gianfranco Pasquino

Mi pare sia già cominciata in tutte le regioni che voteranno, se confermato, il 20 settembre, una articolata e approfondita riflessione sui temi della campagna elettorale al tempo del Covid-19. Gli acutissimi retroscenisti del Corriere della Sera e de Il Giornale e gli austeri (sic) commentatori de La Stampa e di Repubblica hanno smesso di annunciare la fine del governo Conte. Si sono dedicati da par loro, o mi sbaglio?, a sollecitare i Presidenti che si ricandidano e i loro sfidanti che, come minimo, delineino un progetto di regione. Par condicio: infatti, non c’è nessuna ragione per essere meno esigenti con le autorità regionali di quello che si chiede a Conte e al suo governo. D’altronde, se, finalmente, a livello nazionale, qualcuno, sarà forse proprio il presidente Conte, fra una conferenza stampa e quella successiva?, saprà tirare le somme e fare la sintesi delle proposte formulate agli Stati Generali, vedremo il progetto di rilancio del Paese per i prossimi numerosi anni.

Altruisticamente, Conte lavora per il suo successore a Palazzo Chigi – per i nomi bisogna chiedere ai retroscenisti senza accontentarsi di quello di Mario Draghi e, neppure, di Carlo Cottarelli. Il suo Progetto di Rilancio dovrebbe contemplare la chiarissima individuazione dei settori portanti, l’indicazione degli interventi, dei tempi, dei costi e dei vantaggi e anche del coordinamento con le regioni. Se, infatti, terminata la davvero penosa melina sull’accettazione dei 36/37 miliardi di Euro del Mes si deciderà di investire nelle spese sanitarie dirette e indirette, le regioni dovranno necessariamente essere coinvolte. Dovranno dire quanti fondi desiderano e come li spenderanno, magari investendo non solo in assunzioni e strutture, ma anche nel settore bio-medicale che è un’eccellenza nazionale. Ascolteremo almeno EmilianoToti e De Luca spiegare come stanno rendendo digitale e verde la loro economia? Naturalmente, finita, almeno temporaneamente, la vertenza sulle modalità di riapertura delle scuole, da tutti, uscenti e candidati, saremo prontamente informati delle criticità e dei successi nonché degli obiettivi di miglioramento.

Nella pandemia a molti, me compreso, è parso che lo Stato si sia visto riconoscere quel ruolo centrale nella mobilitazione, nella assegnazione e nella distribuzione di risorse al quale nessun mercato potrebbe mai supplire. Ai candidati alle cariche di governo regionali sembra più che lecito chiedere se vorranno usare il loro potere in chiave interventista e se, all’uopo, sanno già come riformare e rendere più dinamiche le rispettive burocrazie regionali. Non è soltanto la burocrazia “nazionale” a costituire la palla al piede di governi che già non sono vivaci, iperattivi, decisionisti. Chi vuole uno stato delle autonomie deve volere anche e (quasi) subito dimostrare che la sua autonomia la sa esercitare, per esempio, avendo già speso nella sua interezza i vecchi fondi europei, e rendendo meglio preparata, più snella, più efficace la burocrazia regionale. Poi, con gli apporti decisivi di Di Battista e Scalfarotto, di Azione di Calenda, proiettata dai sondaggi di Pagnoncelli ad un irresistibile 2,8%, di marmotte e altri graziosi animali, discuteremo di convergenze e di coalizioni e soprattutto di programmi, classico cavallo di battaglia di chi vuole posti. Faites vos jeux.

Pubblicato il 28 giugno 2020 su formiche.net

Dopo fake news e gossip, Conte (ora) è più forte

Limpidamente bocciata nell’aula del Senato la sfiducia delle destre e della radicale Bonino contro il Ministro della Giustizia Bonafede, è venuto il tempo di fare chiarezza sullo stato di salute del governo, del Parlamento, della democrazia italiana. Forse, solo momentaneamente zittiti, i retroscenisti ricominceranno fra qualche tempo a dire che sentono spifferi e scricchioli, tensioni e conflitti, che si moltiplicano le voci di crisi del Governo Conte e di sostituzione del Presidente del Consiglio (ad opera del solito noto che immagino, conoscendolo, sorridente e preoccupato). Sono tutte fake news e gossip sostanzialmente irrilevanti. Quand’anche Renzi ottenesse qualche Presidenza di Commissione chi conosce i governi di coalizione sa che sono richieste fisiologiche e non scandalose che potrebbero persino rafforzare il governo. Lascerei alle sedicenti anime belle, ma certo non brave dal punto di visto delle conoscenze del funzionamento delle democrazie parlamentari, di stracciarsi le vesti. Poi, magari, potrebbero gettare uno sguardo oltre le Alpi e, non dico che apprenderebbero, ma almeno vedrebbero la normalità di pratiche nient’affatto eversive.

Conte ne esce effettivamente rafforzato anche perché, come nei Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, ci ha messo la faccia. Si è assunto responsabilità politiche e personali. Talvolta commette errori, ma ha dimostrato di sapersi correggere e di non attribuirli ad altri. Appena smetto di ridere vorrei anche aggiungere che non ho mai letto di derive autoritarie effettuate attraverso la decretazione d’urgenza. Né mi pare che il Presidente del Consiglio abbia chiesto “pieni poteri”. Assolutamente fuori luogo proporre un paragone fra Conte e Orbán che s’era già deliberatamente incamminato su un percorso poco democratico.

Avendo, sicuramente, più a cuore di molti di noi la democrazia, le anime belle si sono ripetutamente lamentate poiché il Parlamento italiano era chiuso non per ragioni legate al contagio, ma perché “qualcuno” voleva evitare che controllasse le pericolosissime attività sovversive del governo Conte. Con la riunione d’aula di mercoledì 20 maggio, il Senato ha già tenuto sei sessioni in maggio. Furono sei in marzo e nove in aprile. Per la Camera i dati sono otto in marzo, dodici in aprile, sei, finora, in maggio. Negli stessi mesi, la Camera dei Comuni inglese, la madre di tutte le Camere basse, si è riunita dieci volte in marzo, quattro in aprile, cinque in maggio; il Bundestag tre volte in marzo, due in aprile, cinque in maggio; il Congreso de los diputados spagnolo nove volte in marzo, sette in aprile, due in maggio; la Camera bassa austriaca (Nationalrat) quattro volte in marzo, quattro in aprile, due in maggio..

Sono ancora esterrefatto che, a suo tempo, nessuno abbia replicato a Salvini, giunto fino all’occupazione per poche ore del Senato, a Meloni e ai commentatori piangenti che: “Ciascuna Camera può essere convocata in via straordinaria per iniziativa del suo Presidente o del Presidente della Repubblica o di un terzo dei suoi componenti” (art. 62 della Costituzione). Al Senato il centro-destra ha 142 seggi su 320, alla Camera 265 su 630, quindi, in entrambi i casi ben più di un terzo (Senato 107; Camera 210). Una semplice e veloce raccolta di firme telematiche, smart collection, e le Camere si sarebbero dovute riunire. No, non è stato il governo a tenere chiuso il Parlamento, ma l’ignoranza e il disinteresse di chi strepitava e non agiva. Infine, la democrazia italiana, appena scossa delle differenze d’opinione e politiche fra le regioni e il governo, non esce in nessun modo indebolita da questa difficile, non finita, prova. Ha inevitabilmente manifestato inadeguatezze che sono strutturali (quelle della burocrazia), ma nessun cedimento nelle sue strutture portanti: Parlamento, governo, Presidente della Repubblica. In attesa del prossimo voto in aula e del prossimo dottissimo retroscena.

Pubblicato il 22 maggio 2020 su Il fatto Quotidiano

 

Come eravamo (normali?)

Ho passato la domenica pomeriggio a prepararmi per la normalità. Ho cominciato con il chiedermi: è normale che i retroscenisti un giorno sì e l’altro anche dichiarino che il governo Conte barcolla, traballa, sta per saltare? E lo dicano da almeno tre mesi riportando non fatti, ma dichiarazioni, gossip, spifferi? Caro Bogie (Humphrey Boghart), non vorrai mica giustificarli dicendo “è la stampa, bellezza”?

È normale che vengano criticati i molti e dettagliati Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri perché danno soldi, contributi, sussidi a pioggia? Ma se il Covid-19 ha colpito tutte le attività del paese, tutti i suoi comparti economici, tutti gli operatori, i sussidi avrebbero con un minimo di “giustizia sociale” dovuto concentrarsi esclusivamente su alcune attività (le mie preferite sono musica, cinema e spiagge) lasciando tutte le altre al bruttissimo destino della scomparsa nella miseria?

È normale che tutti i liberisti, gli sregolati deregolatori, i cavalieri rampanti della flat tax oggi vogliano, fortemente vogliano che lo Stato intervenga qui e là e anche un po’ più in là e comunque di più? È normale che la lentezza nell’applicazione delle regole e nell’erogazione dei fondi sia attribuita come colpa al governo e non piuttosto a una burocrazia irriformata (da nessuno dei precedenti governi, neppure da quello, arrembantissimo, del febbraio 2014-dicembre 2016), e non alle banche?

È normale che qualcuno pensi che c’è bisogno di un governo di unità nazionale, senza spiegare che cosa significa esattamente: todos Ministros? e nessuno getti lo sguardo oltre le Alpi per vedere se da qualche parte in Europa a causa della crisi e come risposta si sia proceduto a dare vita a governi di unità nazionale?

È normale che qualcuno, con un passato da sostenitore del Premierato forte (sic), accusi di deriva autoritaria il Presidente del Consiglio apportando come prove decisive, primo, il suo avere emanato otto o nove DPCM (quattro dei quali già inseriti in decreti-legge che il Parlamento è chiamato a esaminare e votare) e, secondo, avere annunciato quello che faceva in numerose conferenze stampa? Se non avesse fatto così quanto è probabile che il rimprovero sarebbe stato quello di “non averci messo la faccia”?

È normale che qualche giornalista annunci che è molto probabile che la rabbia generata dalla disperazione economica aprirà spazi all’esplosione sociale? Certo, c’è anche chi vola più in alto e sostiene che bisogna creare una nuova classe dirigente. Mai di domenica. Mi ci proverò domattina dopo la tonificante pausa caffè. Poi i sostenitori della nuova classe dirigente si dividono fra quelli che vogliono fare appello a Mario Draghi, che immagino sorridere, con qualche preoccupazione, e quelli che chiedono consigli al decano del Parlamento italiano, Pierferdinando Casini, il democristiano eletto Senatore del Partito Democratico nel collegio di Bologna-Centro, subito passato al Gruppo misto, che nel 2023 festeggerà (se non sarà stato eletto Presidente della Repubblica…) quarant’anni di vita parlamentare. Non dirò nulla su quei parlamentari, alcuni dei quali con un noto passato assenteista, e i loro buonisti di riferimento che si lamentano perché il Parlamento è (stato)chiuso per molto tempo. Potrebbero approfittarne per leggere la Costituzione dove sta scritto, art. 62, secondo comma, che “ciascuna Camera può essere convocata in via straordinaria per iniziativa del suo Presidente … o di un terzo dei suoi componenti”.

Scripta manent. Temo proprio che tutto quello che ho scritto sia normale. D’altronde, uno dei non migliori slogan di conforto al nostro scontento è: “tutto tornerà come prima”. Vorrà dire che non avremo imparato un bel niente, che non avremo fatto, rimango nelle banalità, della crisi “una opportunità per l’innovazione”, la famosa “crisi creativa”. Vorrà dire che non ha fatto la sua comparsa nessuna nuova classe dirigente, operazione che richiede vent’anni di preparazione e, soprattutto, un conflitto/competizione veri, non fra parlamentari cooptati, raccontati da giornalisti che conoscono i fatti e studiano. È ora che qualcuno dica alto e forte che non vuole affatto tornare alla normalità, ma che auspica un po’ di eccezionalità per la quale sarebbe persino disponibile ad impegnarsi. Che sia questo il senso più profondo dello smart working?

Pubblicato il 18 maggio 2020 su paradoxaforum.com

Ora ci servono eroi anche nel quotidiano

“Nelle emergenze”, è affermazione frequente e ricorrente, “gli italiani danno il meglio di sé”. Peccato (o per fortuna) che le emergenze sono abbastanza rare, che durano relativamente poco, che coinvolgono sempre una piccolissima minoranza di italiani e che ci sono anche italiani che in quelle emergenze danno il peggio di sé. Alcuni, infatti, si danno allo sciacallaggio, materiale, ma anche morale (coloro che lucrano nel descrivere infelicità e nel dare addosso a presunti responsabili). Altri, poi, raramente quelli direttamente colpiti dalla sciagura, cercheranno di sfruttare al massimo la grande occasione. Superata la fase della retorica del “non vi lasceremo soli” e delle accuse allo Stato che non c’è, si tornerà alla quotidianità nella quale, com’è noto e come deriva logicamente dalla fine dell’emergenza, gli italiani danno il peggio di sé ovvero, meglio, non riescono, so che la generalizzazione è eccessiva, a comportarsi in maniera decente. Infatti, degli italiani che si comportano continuativamente, non soltanto in situazioni emergenziali, in maniera decente si dice che sono “eroi della quotidianità”. Difficile dire quanti siano questi eroi. Per fortuna debbono essere molti dal momento che il paese si regge ancora. Più facile sapere che, molto curiosamente, fra coloro nei quali gli italiani dichiarano di avere maggiore fiducia si trovano nelle posizioni di testa proprio i servitori dello Stato carabinieri, forze armate, persino i magistrati. Insomma, per molti italiani lo Stato c’è. Però, la maggioranza degli italiani confondono il governo, da criticare, spesso con molte buone ragioni, magari anche il “governo” più vicino a loro, sindaci e giunte regionali, con le strutture dello Stato (ad eccezione, negativa, della burocrazia).

Finita l’emergenza senza la quale la retorica trova meno spazio e meno lettori, ricomincia la quotidianità con i suoi non molti eroi. Questa quotidianità, nel caso delle conseguenze di un terremoto, di inondazioni, di incendi devastanti, di incidenti ferroviari, merita di essere seguita, descritta, analizzata e, quando è necessario, criticata. Purtroppo, fa meno notizia, vende meno copie, attrae meno telespettatori anche perché gli operatori dell’informazione non sono affatto preparati a raccontarla. Richiede una strumentazione che quegli operatori non hanno poiché non è stata offerta (insegnata) loro e non viene richiesta sui loro posti di lavoro. Non sarebbe neanche premiata. Non si diventa grandi “firme” raccontando perché e come i cittadini di un paese, di una comunità, di una zona geografica si organizzano, senza aspettare lo Stato, per ricostruire il tessuto sociale. In alcune zone, quel tessuto sociale era esile, le associazioni deboli o inesistenti, la comunità neppure si sentiva tale. Non c’erano, ad esempio, leader d’opinione e d’azione.

Spente, inevitabilmente, le luci della ribalta chi era solo, isolato, non organizzato, tale è destinato a rimanere. Al massimo, meglio di niente, ma certo non una soluzione, troverà la forza di protestare contro le autorità, mentre sarebbe di gran lunga preferibile che si rimboccasse le maniche, si organizzasse, cercasse di mobilitare i suoi concittadini, a cominciare da parenti e amici, mirasse alla costituzione di un comitato permanente non di sola protesta, ma di proposta e di monitoraggio. Conosco le obiezioni la più importante delle quali è che in molte zone d’Italia la tradizione associativa non esiste; non ha mai fatto la sua comparsa. Allora, richiamo in causa gli eroi della quotidianità. Nella misura del possibile, che, naturalmente, può essere diversa da zona a zona, da gruppi sociali e da coorti generazionali, ciascuno cominci con il tornare alla sua occupazione magari tenendo conto che persino quello che lui/lei fa sarebbe più produttivo se coinvolgesse altri e che tutti gli altri tornerebbero a stare meglio se ognuno di loro pensasse anche agli interessi della comunità. Spirito civico, senso etico, dovere morale? di tutto questo un po’ e, se fosse possibile riscontrarlo e raccontarlo senza retorica, ma con precisione, monitorarlo nel suo svolgimento, ma anche criticarlo nelle sue inevitabili inadeguatezze, il contributo alla (ri)costruzione di un paese migliore sarebbe notevole, tutt’altro che inestimabile, addirittura emulabile. Così si esce dall’emergenza e si entra nella quotidianità dove una maggioranza di cosiddetti “eroi” potrebbe riuscire a dare vita ad una comunità coesa, solidale, civica.

Pubblicato AGL il 29 agosto 2016

La nostra Repubblica esigente

Per nessuno scopo, analitico, interpretative, propositivo, la Costituzione italiana può essere divisa nettamente in due parti: una attinente ai diritti (e doveri), l’altra all’ordinamento dello Stato. I principi ispiratori dei Costituenti e la loro visione complessiva informano chiaramente e coerentemente entrambe le parti. Tutte le componenti della Costituzione italiana si tengono insieme e segnalano che qualsiasi revisione, anche minima, deve essere valutata con riferimento al suo impatto complessivo. La tesi che argomento e svolgo nel libro La Costituzione in trenta lezioni, UTET 2015 è che nessuna Costituzione è mai semplicemente un documento giuridico. Le Costituzioni migliori , a cominciare da quella degli Stati Uniti d’America e a continuare con quella della Germania contemporanea, sono documenti eminentemente politici. Mirano a plasmare la vita di una comunità, a darle le regole di comportamento e di rapporti fra persone, associazioni, istituzioni.

Anche la Costituzione italiana mira a fare, limpidamente, tutto questo. Plasma la Repubblica democratica, evidenziando, fin dall’inizio, che la Repubblica sono i cittadini, siamo noi. Ai cittadini — elettori, rappresentanti, governanti– spetta il compito di rimuovere gli ostacoli all’effettiva partecipazione alla vita della comunità (art. 3). Con questa indicazione, i Costituenti miravano a costruire le premesse della coesione sociale e a dare senso e identità ad una comunità di sconosciuti, usciti da vent’anni di fascismo che aveva teso a isolarli e a punirli se si associavano e se parlavano di politica. A questi “sconosciuti”, anche agli stessi uomini e donne nell’Assemblea Costituente, apparve subito necessario ricordare l’importanza della partecipazione, sottolineare il riconoscimento del pluralismo e delle capacità associative, anche in partiti politici (art. 49), mettere in evidenza che le cariche pubbliche, in politica, nelle istituzioni, nella burocrazia debbono essere adempiute con “disciplina e onore” (art. 54). Ai detentori di cariche istituzionali, fra i quali si trovano, naturalmente, anche i magistrati, si raccomanda di tenere in grande conto sia la separazione dei poteri affinché ciascuno di loro svolga i compiti specifici affidatigli sia l’equilibrio affinché nelle loro inevitabili interazioni nessuna istituzione cerchi di sopraffare le altre e tutte operino in un complesso “gioco” di freni e contrappesi. Forse, nella predisposizione di questi freni e contrappesi si colloca anche il fin troppo spesso menzionato “complesso del tiranno”, ma che i freni e i contrappesi siano la base sulla quale operano tutte le democrazie migliori appare innegabile.

La Costituzione è un documento politico esigente. Funziona tanto meglio quanto più i cittadini, i rappresentanti e i governanti non si limitano a rivendicare diritti, ma si impegnano a svolgere fino in fondo i doveri ai quali vengono chiamati: educare i figli, votare, pagare le tasse in proporzione al loro reddito, riconoscere e rispettare il diritto d’asilo e porlo in pratica. La Costituzione ha accompagnato e, oserei dire, ha guidato la crescita dell’Italia da paese rurale, agricolo, ampiamente analfabeta, sostanzialmente impoverito e distrutto dal fascismo e dalla Guerra fino a farlo diventare l’ottava potenza industriale del mondo. Tuttavia, è sempre esistita una qualche insoddisfazione nella società e nella politica per obiettivi, il più importante dei quali è la crescita culturale e sociale, che non venivano raggiunti. Insomma, la società italiana non diventava, non è ancora diventata abbastanza civile. Né, oramai da anni, fa progressi, ad esempio, in materia di pagamento delle tasse o di contenimento e “respingimento” della corruzione. Questi gravissimi inconvenienti non sono evidentemente attribuibili alla Costituzione e ai suoi articoli, tantomeno alla sua ispirazione, agli accordi e ai compromessi, spesso fecondi, che i Costituenti raggiunsero fra loro, offrendo una non banale e non criticabile lezione di metodo.

Se, come ho detto e ribadisco, “la Repubblica siamo noi”, allora dobbiamo criticare gli italiani, individualisti e egoisti, che pensano di cavarsela da soli e di non dovere nulla allo Stato e ai loro concittadini; gli italiani “familisti amorali”, che orientano e giustificano qualsiasi loro comportamento con l’esclusivo perseguimento di vantaggi per la loro famiglia; gli italiani che si fanno forti della loro appartenenza a qualche corporazione (burocrazia, magistratura, classe politica, giornalismo); gli italiani che screditano qualsiasi forma di impegno e si rifiutano di riconoscere il merito e di premiarlo. Questi sono gli italiani che non hanno saputo né voluto capire che soltanto agendo nel rispetto delle regole, dei diritti, dei doveri scritti nella Costituzione, la Repubblica, di cui celebriamo i settant’anni, raggiungerà una apprezzabile qualità democratica e si accompagnerà ad una società davvero, finalmente civile.

Pubblicato AGL il 2 giugno 2016

La corruzione che affonda il Paese

Quando i dirigenti dei partiti indeboliscono la loro struttura, la aprono agli arrivisti, non controllano la selezione del personale, non sanno escludere chi fa politica non per vocazione ma per carriera, qualsiasi tipo di corruzione è in agguato e sarà sicuramente praticato dalle Alpi alla Sicilia. Quando i partiti, i loro dirigenti, i loro rappresentanti al governo e all’opposizione si rivelano disposti a tutto pur di mantenere le cariche ottenute e di proseguire la carriera, tutti gli operatori economici, ma soprattutto quelli che in un mercato aperto e competitivo non riuscirebbero a vincere, entrano in relazioni di scambi perversi con quei politici. Negli scambi, inevitabilmente, sono coinvolti anche i burocrati, nominati e promossi dai politici, che traggono il massimo del vantaggio dal loro ruolo cruciale di intermediari, ma, spesso, anche essendo coloro che danno attuazione alle decisioni. Alla fine della filiera si trova la magistratura il cui compito costituzionale è scoprire, processare, punire i responsabili della corruzione che stravolge la vita della collettività e le attività economiche, sociali, politiche.

È indispensabile prendere le mosse da queste considerazioni, accompagnandole con il dato della corruzione percepita che pone l’Italia al 63 esimo posto nella classifica di Transparency International (ai primi posti stanno i paesi con il più basso livello di corruzione, scandinavi e anglosassoni). Risanare un paese profondamente corrotto richiedere colpire la testa della corruzione, cioè la politica e le burocrazie pubbliche. La Legge Severino che, appena approvata, è stata abbondantemente e subdolamente criticata da parlamentari, politici e loro giornalisti di riferimento, va proprio nel senso giusto. Data la vastità della rete di corruzione politica in Italia e la sua straordinaria capacità di riprodursi (inimitabile esempio di “energie rinnovabili”), il contrasto va effettuato non tanto con l’inasprimento delle pene detentive, che, naturalmente, non debbono neppure essere addolcite, ma colpendo politici e burocrati in quello che hanno di più caro: il posto di “lavoro” e le prospettive di carriera.

Per quanto riguarda i detentori di cariche elettive, il primo passo è l’immediata sospensione. A condanna acquisita, il secondo passo è la decadenza dalla carica. Infine, il terzo e ultimo passo è la decisiva sanzione dell’ineleggibilità, un po’ come è stato comminato a Berlusconi, ma a mio parere l’ineleggibilità dovrebbe essere definitiva. Per i burocrati coinvolti in casi di corruzione la sequenza delle pene dovrebbe riguardare, anzitutto, lo stipendio, anche per indennizzare lo Stato (cioè i cittadini) dei danni subiti; poi, la retrocessione nelle mansioni e quindi nello stipendio; infine, il licenziamento, accompagnato nei casi più gravi anche dalla rivalsa dello Stato sulla pensione eventualmente maturate. Se queste mie riflessioni e proposte hanno qualche validità, i dirigenti di partito e i politici dovrebbero rivisitare la legge Severino e le sue clausole e lavorare sulla riforma della burocrazia predisposta dal Ministro Marianna Madia affinché si giunga ad una rapida e, soprattutto, certa applicazione delle sanzioni da me indicate.
Potremo anche valutare la reale volontà dei politici di combattere la corruzione nei loro ranghi e in quelli della burocrazia dalla celerità e dalla sistematicità dei loro interventi e dal loro non intralcio, ma sostegno alle inchieste della magistratura. Quando l’Europa ci guarda è soprattutto la corruzione italiana che vede e l’inadeguatezza degli interventi con i quali ridurla. Meno corruzione, percepita e praticata, più affidabilità: questa sarebbe l’Italia che va avanti.

Pubblicato AGL 9 maggio 2016