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Letta, il Pd e gli elettori indecisi da conquistare @DomaniGiornale

Quel quaranta percento di elettori indecisi qualcuno dovrà pure cercarli, parlare loro, convincerli. Certo, almeno la metà di loro alla fine deciderà che non può o non vuole votare, ma quelli che andranno alle urne sono potenzialmente decisivi. Potrebbero allargare il campetto sul quale gioca la sua partita, spero non della vita, Enrico Letta. Difficile, però, che per farli affluire alle urne, se non entusiasticamente, almeno fortemente consapevoli della posta in gioco, sia sufficiente il pur doveroso richiamo all’antifascismo. Sarebbe come giocare in difesa tutta la partita, spettacolo mai esaltante per gli spettatori, in attesa del contropiede vincente, e poi chi sarebbe il contropiedista capace di segnare? Allora, farebbero meglio Letta e i suoi compagni/e, chiedo scusa, alleati a definire meglio il campo di gioco e a cercare le giocate giuste. L’Europa, quella che c’è e quella che vorremmo, è il campo di gioco della nostra vita, retoricamente, del destino nostro, dei figli e delle nipoti. L’Europa che ci rilancia con il PNRR, che ci darà un gas sostenibile, che ci difende dalle aggressioni, che estende la democrazia. L’Europa che non cancella affatto l’identità degli italiani, ma che la considera parte integrante dell’identità che stiamo costruendoci come europei. Agli elettori, dunque, diremo che fare gli scettici, i furbi, i sovranisti con l’Europa significa non rafforzare l’Italiani e gli italiani, ma indebolirla fino a metterla tristemente ai margini (nella metafora “a bordo campo”). Non basterà, ma ce n’est qu’un début. Da lì si inizia, lì si deve innovare e progredire.

Periodicamente, c’è qualcuno che afferma in maniera saccente che le crisi sono opportunità, possono sprigionare creatività. Cominciamo dai fatti, prima delle innovazioni. Bene ha fatto Letta a insistere su una risposta europea (price cap) al prezzo del gas. Europea è stata, e deve continuare a essere, la risposta all’aggressione russa alla Ucraina. Europea bisogna che sia la risposta all’immigrazione, una risorsa, non solo demografica, ma da guidare e regolamentare. Agli elettori indecisi interessa sicuramente il quadro complessivo nel quale si muoverà l’Italia nei prossimi cinque anni, ma ciascuno di loro/noi desidera ascoltare dai candidati, dai partiti, dai dirigenti promesse credibili di rapida realizzazione. Qualche volta la destra le spara grosse: tassa piatta e bassa e blocco navale. Qualche volta è ripetitiva: le pillole scrostate di Berlusconi. Proposte nuove e realizzabili sarebbero decisive per gli elettori indecisi (bisticcio voluto). La vita è lavoro, meglio se gratificante e adeguatamente remunerato, a partire dal reddito di cittadinanza. Questa è un’idea di sinistra, di progresso, di potenziale successo. Attendo la “declinazione” sintetica e allettante da giocatori e allenatori del campetto/campolargo.

Pubblicato il 31 agosto 2022 su Domani

Liste calate dall’alto? Non vale per tutti i partiti #intervista @ilriformista

Il politologo: «Cassese dice che le forze politiche sono diventate oligarchie? Sbagliato generalizzare. Realtà come il Pd hanno scelto i candidati anche in base a competenze importanti. Giudicherà chi vota» Intervista raccolta da Umberto De Giovannangeli

Tra gli scienziati della politica italiani, Gianfranco Pasquino è tra i più accreditati. Professore emerito di Scienza politica nell’Università di Bologna, dal 2005 socio dell’Accademia dei Lincei. Tra le sue numerose pubblicazioni, ricordiamo la più recente: Tra scienza e politica. Una autobiografia (Utet, 2002).

“Il modo in cui si sono formate le liste è un’ulteriore dimostrazione del carattere oligarchico del nostro sistema politico”. Così Sabino Cassese in una intervista a questo giornale. Lei come la vede?

Le liste vengono formate in maniera molto diversa da partito a partito. Non sono in grado di generalizzare e non vado alla ricerca di modalità democratiche, modalità oligarchiche etc. Parlerei piuttosto di modalità funzionali. Ciascun partito decide cos’è meglio per la sua organizzazione, per i suoi militanti che poi dovranno fare anche un po’ di campagna elettorale, per i candidati che deve scegliere. Non possiamo dire che il Partito democratico abbia scelto i suoi candidati allo stesso modo con il quale li ha scelti Giorgia Meloni per Fratelli d’Italia. E sappiamo da tempo immemorabile che i candidati di Forza Italia vengono scelti da Silvio Berlusconi e abbiamo visto che i 5Stelle utilizzano anche le cosiddette “parlamentarie”. Di tanto in tanto il Pd fa anche delle primarie che purtroppo i commentatori sbeffeggiano, sbagliando.

Perché, professor Pasquino?

Perché se condotto con metodi decenti, rappresenta un metodo democratico. Quindi non generalizzo, le scelte dei candidati sono state fatte in un certo modo e sono in grado di criticare di volta in volta le modalità e le scelte effettive. Mi chiedo, ad esempio, che senso ha paracadutare Elisabetta Casellati in Basilicata quando era eletta e ambita in Veneto, mentre al suo posto c’è Anna Maria Bernini che notoriamente è una bolognese. Naturalmente ho molto da dire sul fatto che Piero Fassino va a fare il parlamentare del Veneto dopo aver fatto il parlamentare del collegio di Modena e Sassuolo. Questo riguarda anche la forza del candidato. Fassino è un uomo molto forte nel suo partito e sceglie dove andare. Nel caso della Casellati, Berlusconi e Tajani preferiscono candidarla in Basilicata. Però non si può generalizzare. Possiamo dire che il metodo comunque non ci convince, dopodiché affidiamo il resto agli elettori. Saranno loro a valutare se sono buoni candidati oppure no, se fanno campagna elettorale, se rappresentano il territorio, se non sanno solo ascoltare ma come dico io anche interloquire con i loro elettori, oppure se è semplicemente un’operazione nel segno di rieleggetemi e buona fortuna.

Nel dibattito aperto da Il Riformista, Sergio Fabbrini, altro autorevole scienziato della politica e dei sistemi istituzionali, ha sostenuto: “Gli eletti sono diventati degli imprenditori di se stessi e quindi si comportano sulla base dei vantaggi immediati che possono conquistare nel mercato politico”. Concorda ?

No, anche se ne apprezzo il rigore e la nettezza. Non sono d’accordo perché, di nuovo, occorre differenziare tra i vari partiti. Nel Partito democratico ci sono le carriere. Persone che hanno iniziato a fare politica prima che ci fosse il Partito democratico e che proseguono nella loro carriera. Non sono degli “imprenditori di se stessi”, come li definisce Fabbrini. Secondo me sono semplicemente dei professionisti, qualche volta anche perché hanno acquisito delle competenze vere. Per non restare nel vago. Non si può fare a meno di uno come Franceschini, perché è bravo, ha delle competenze. Ed è sbagliato respingere la candidatura di Casini, perché anche lui è bravo e ha delle competenze. Siamo di fronte a professionisti, a semi professionisti e come una volta mi disse Domenico Fisichella a “gentleman in politics”. Naturalmente si riferiva a se stesso, cioè a persone che hanno una biografia professionale tale da permettere loro di fare un po’ di politica e poi tornare alla loro professione senza nessuna preoccupazione. Questo vale per il Partito democratico come anche, sul versante opposto, per Fratelli d’Italia, perché è l’unico altro partito rimasto vivo. Il Msi era un partito organizzato sul territorio. E non vale invece in altri casi. Come quello di Forza Italia Ha ragione Berlusconi: i suoi candidati vengono effettivamente dalla società civile. Di errato c’è semmai il verbo. I candidati non “vengono” dalla società civile, è lui che li ha “prelevati” dalla società civile ed è lui che li “ricaccia” nella società civile quando non gli servono più. Nessuna generalizzazione è possibile, insisto su questo, ma analizzare caso per caso, e sul singolo caso costruire una spiegazione, soprattutto quando certe scelte suscitano polemiche non sempre pretestuose.

Venendo ai “campi” che si fronteggiano. Cosa teme di più del destra-centro: la leadership Meloni?

Io temo l’inesperienza di una parte non marginale di quella classe dirigente. Temo l’eccessiva gioiosità per aver vinto le elezioni, e l’incapacità di capire che cosa vuole l’Europa da noi. E soprattutto temo gesti eclatanti volti a dimostrare che quello a cui daranno vita è un Governo “nuovo”, che siamo entrati in un’era “nuova”. Tutto questo temo. E ne temo l’insieme. E che Giorgia Meloni si lasci trascinare dall’entusiasmo. Mi è rimasta negli occhi, e in parte anche nelle orecchie, la sua performance al congresso di Vox. Non vorrei mai più vedere una Giorgia Meloni così. Certo è che se lei va in Europa con quella grinta la cacciano subito via.

Passando al centrosinistra. Cosa resta del “campo largo” su cui aveva puntato Enrico Letta?

Purtroppo questi politici non hanno studiato la scienza politica. Ne sono proprio digiuni e non sanno proprio di cosa parlano. Non mi riferisco solo alla legge elettorale, di cui non sanno nulla se non tutelare i propri interessi. Davvero non sanno di cosa parlano. “Campo largo” non c’era proprio bisogno di dirlo. Perché se uno avesse acquisito i rudimenti, non dico di più, della scienza politica, saprebbe che in politica si fanno le coalizioni. Questo è il principio dominante. In tutti i sistemi politico si fanno coalizioni. Persino in Gran Bretagna, dal 2010 al 2015 c’è stata una coalizione tra conservatori e liberali. Hanno addirittura stilato le regole della coalizione. Macchè “campo largo”, parliamo di coalizioni. E le coalizioni – c’è una letteratura splendida in proposito – si fanno fra partiti che sono vicini, geograficamente vicini, ideologicamente compatibili, programmaticamente in grado di convergere su quelle che ritengono essere le priorità del Paese. Letta ci ha provato ma evidentemente non conosce la teoria delle coalizioni. Dopodiché ha fatto del suo meglio, anche perché ha dovuto fare i conti con individui che sono molto ambiziosi, ingiustificatamente ambiziosi, immeritatamente ambiziosi, che hanno, come ho avuto modo di dire e scrivere, il loro ego in perenne erezione. Con quella gente è difficile trattare. Chi riesce a fare meglio le coalizioni meglio riesce ad ottenere il consenso. Giuliano Urbani, che è uno scienziato della politica, disse a suo tempo a Berlusconi “fai due coalizioni: una che si chiama Polo del buongoverno e l’altra Polo delle libertà. E in questo modo riesci a mettere insieme sia gli ex missini sia la Lega”. Questo è quello che è successo nel ’94. È il prodotto delle competenze politiche del professore di Scienza politica Giuliano Urbani. Mi lasci aggiungere un consiglio che non vuol essere “professorale”: si dovrebbe sempre chiedere a chi parla/ scrive di tematiche istituzionali-elettorali quali libri/articoli scientifici abbia letto, quali sono gli autori a sostegno delle sue analisi e valutazioni. Per non alimentare una confusione già così diffusa e grande sarebbe cosa alquanto opportuna fare pulizia terminologica per riportare il dibattito sui binari solidi e rigorosi della Scienza politica.

In Italia c’è ancora chi sostiene che si vince occupando il centro.

La Scienza politica racconta un’altra storia…

Quale?

Il centro è un luogo geografico. Non sappiamo quanti elettori stanno al centro, ma soprattutto sappiamo che vi sono elettori che stanno all’estrema sinistra e all’estrema destra. Non possiamo perderli. Dobbiamo andarli a cercare. Sapendo, innanzitutto, che dobbiamo motivare gli elettori a venirci a votare. In Italia vincerebbero alla grande le elezioni coloro che sapessero motivare gli astensionisti, quantomeno trovando la chiave per raggiungerne alcuni settori. Non c’è un “partito degli astensionisti”. Anche qui, evitiamo dannose, oltreché erronee, generalizzazioni. Quegli astensionisti non sappiamo di dove sono, se sono di centro, di destra, di sinistra. C’è di tutto, coprono l’intero arco politico. Si tratta di andare a cercare gli elettori su tematiche specifiche. La scienza politica indica che ci sono tematiche valoriali che sono politiche: le famose issues. Devi trovare la issue giusta e devi sapere anche quali sono i valori condivisi di quegli elettori che cerchi. Quel valore condiviso potrebbe essere, per esempio, molto semplicemente la democrazia in Europa, o qualcos’altro, magari di segno opposto. Ad esempio, manteniamo un alto livello di diseguaglianze perché noi elettori siamo bravi e quindi riusciremmo a trarne profitto. Operazioni che richiedono intelligenza politica a cui abbinare la capacità di un politico di stare sul territorio. Come può Fassino mobilitare gli elettori del Veneto che non l’hanno visto mai se non in televisione? Casini mobilita gli elettori bolognesi perché qui ci abita da quando è nato, perché ha fatto campagna elettorale, perché è notissimo. Ed è per questo che lui è un valore aggiunto.

Pubblicato il 27 agosto 2022 su Il Riformista

Il nuovo bipolarismo senza più programmi @DomaniGiornale

Molto ipocritamente Silvio Berlusconi, che ha sempre impostato, e talvolta persino vinto, le campagne elettorali sul suo nome e sulla sua persona fisica: “il corpo del leader”, afferma di non appassionarsi alla ricerca della candidatura del centro-destra a Palazzo Chigi. Lui sta lavorando al programma, sapendo che non è affatto facile produrre altre proposte mirabolanti come quelle del lontano Contratto con gli italiani del 2001 (e trovare un conduttore televisivo accomodante come Bruno Vespa che gli offrì tutta la sceneggiatura possibile). Tuttavia, il milione di alberi (trascurando che nel Piano di Ripresa e di Resilienza ne sono già previsti sei milioni) e i 1000 Euro al mese di pensione minima per tutte le nostre nonne e mamme è già un bel programma. No, Berlusconi non scrive programmi. “Spara” priorità incontrollabili. Forse gli italiani, a giudicare dai sondaggi che danno Forza Italia in netta flessione, gli hanno preso le misure. Non pochi, importanti parlamentari lo hanno lasciato, “tradito” sostiene lui con poca classe.

   Giorgia Meloni teme giustamente che Berlusconi e Salvini si siano già messi d’accordo per tradire l’impegno che chi prende più voti andrà a Palazzo Chigi. Nel bene, la coerenza politica della leader di Fratelli d’Italia, all’opposizione, e programmatica, atlantista più sovranista che europeista, è fuori dubbio. Lei, la sua figura è il programma, facile da capire, facile da votare anche se il fantasma del fascismo eterno non può essere esorcizzato. Meloni si giova anche del ruolo di reale contendente opportunisticamente attribuitole dal segretario del Partito Democratico Enrico Letta che spera in questo modo in un lungo e alto sussulto antifascista che riempia il suo “campo”, largo e aperto, ma tuttora non sufficientemente frequentato.

   Neppure nel centro-sinistra i programmi stanno al centro della proposta per attrarre e convincere l’elettorato. Calenda tenta di egemonizzare il centro intorno alla sua persona che agita in maniera frenetica. Mette dodici punti nero su bianco, ma sostanzialmente sono una revisione di quanto stava facendo e progettando il Presidente del Consiglio Mario Draghi. Dulcis neanche troppo in fundo, Calenda afferma che Letta non può essere il candidato per Palazzo Chigi. Verrà stanato e candidato l’irreprensibile Mario Draghi. D’altronde chi meglio di lui, se non è stanco, come in maniera poco elegante ha sostenuto Berlusconi per giustificarne la mancata fiducia, potrà aggiornare e attuare la sua agenda? Meloni verso Letta; non-draghiani verso draghianissimi: come è bello, anche no, il nuovo bipolarismo italiano (alle vongole avrebbe certamente aggiunto Ennio Flaiano). Comunque, sia chiaro che se lo meritano molti italiani, soprattutto quelli del #iononvoto.

Pubblicato il 27 luglio 2022 su Domani

Ci sono troppi “campi larghi” nella politica italiana @DomaniGiornale

Immagino che Letta non sia troppo contento di sentire che il migliore campo largo l’ha creato Damiano Tommasi a Verona. Proprio il giocatore che ha sempre respinto con gentilezza la richiesta di definirsi di destra o di sinistra. Per fortuna Tommasi non ha neanche detto “tutt’e due” e nelle sue parole si trova l’indicazione a stare dalla parte di una politica decente. Che non è mai la politica dei populisti. Ciò detto, se spingiamo il “laboratorio” (termine del tutto inappropriato) Verona per trarne qualcosa che prefiguri accadimenti nazionali, andiamo davvero troppo in là. Meglio, invece, fare una riflessione che non si fondi mai su un unico caso per quanto eclatante. Infatti, se è giusto affermare che ha vinto l’idea di campo largo formulata e ripetuta da Letta, nella pratica, di campi larghi se ne sono visti parecchi. Pochi campi erano uguali per composizione e molti differivano comunque poiché al loro interno, componente spesso essenziale, si trovava una lista civica. Quelle liste contano e sono spesso state decisive grazie al loro radicamento locale che, naturalmente, risulta proprio l’elemento non trasferibile e non sfruttabile in elezioni nazionali.

   Subito da aggiungere, perché è anch’essa una variabile tanto importante quanto non generalizzabile (meno che mai se ci si riferisce a Tommasi), la persona/personalità di candidati e candidate scelti/e da Partito Democratico e alleati è risultata decisiva quando la partita si è giocata su un margine ristretto. Attuale ”allenatore”, per rimanere in metafora, delle squadre scese vittoriosamente nei campi larghi del paese, Letta vorrà poi trasformarsi nel capitano-giocatore della sua “nazionale” oppure dovrà affrontare e risolvere il problema della leadership?

Più o meno visibilmente, ma inesorabilmente, l’individuazione di chi sarà il leader della squadra del centro-destra agita le ambizioni di Salvini e di Meloni. Diventato nervosetto a causa dei sondaggi che segnalano che la sua ambiguità gli fa perdere consensi, Salvini è stato anche punito da alcune candidature da lui imposte e risultate perdenti. “Granitica”, Giorgia Meloni incassa i suoi dividendi di coerenza, critica le scelte sbagliate, ma ribadisce la sua appartenenza al campo del centro-destra. Non può andare da nessuna altra parte. Proprio la sua coerenza fa risaltare ancora di più le tensioni e le differenze di opinione e di posizionamento (nazionale) anche nelle città nelle quali, ad esempio, Genova, il centro-destra vince. E dire che nelle città meno si sentono le distanze fra chi del centro-destra sta al governo e chi all’opposizione, chi è europeista e chi combatte per un’altra Europa, chi è atlantista e chi è opportunista (però, “per la pace”). Il messaggio più facile da capire per i tre del centro-destra è che la vantata compattezza non è un dato, ma qualcosa da costruire in maniera convincente e credibile. Esiste sempre un po’ dappertutto una parte piccola, ma importante di elettorato che vota per chi offre garanzie di dare vita a un governo stabile. Quell’elettorato si è forse manifestato anche a Verona.

L’ultimo elemento degno di nota di queste elezioni amministrative nel loro piccolo è che nessuno dei vari partitini che si strattonano al centro si è dimostrato cruciale. Tuttavia, è ipotizzabile che una parte, quanta lo sapremo in base alla legge elettorale che verrà, del loro consenso elettorale potrebbe essere decisivo, magari non tanto per la vittoria del centro-destra o del campo largo, ma per la formazione del governo. Tutta un’altra storia.

Pubblicato il 29 giugno 2022 su Domani

Letta deve aprire il campo largo a tutti quelli affidabili @DomaniGiornale

La strada è tracciata o, quantomeno, indicata: “campo largo”. Il centro-destra non è compatto né nel momento elettorale, come dimostrato dagli esiti delle elezioni ammnistrative, né qualora arrivasse al governo (ma su questa eventualità non mi avventuro) diviso com’è su scelte importanti a cominciare dall’Unione Europea. Tuttavia, continua ad avere più voti del centro-sinistra. Il segretario del Partito Democratico, Enrico Letta, tiene la barra e incassa qualche non marginale risultato. Certo, continuare a credere nel Movimento Cinque Stelle richiede una straordinaria pazienza e anche molta generosità. Tuttavia, dovrebbe stare diventando sempre più chiaro ai pentastellati, di ieri e di oggi, per quelli di domani servirà una buona campagna elettorale, che, da solo, il Movimento 5 Stelle non va da nessuna parte. Meglio, si avvia verso la quasi totale irrilevanza, Insomma, il PD è alleato essenziale per le Cinque Stelle. Merito di Letta è di non farlo pesare in attesa che il Conte titubante ne prenda pienamente atto e non faccia nessun avventuroso giro di tarantella.

   I Cinque Stelle sono necessari, ma non sufficienti a fare un campo largo capace di ottenere tutti i voti richiesti per arrivare alla maggioranza assoluta di seggi in Parlamento. Dunque per allargare l’attuale campo, con il PD che, non dimentichiamolo, oltre il 21-22 per cento su scala nazionale sembra non essere in grado di andare, è imperativo trovare altri alleati. Alcuni, ad esempio, Più Europa, sanno che, anche programmaticamente, i Democratici sono non solo il referente da privilegiare, ma la loro àncora di sicurezza. Altri, penso ad Italia Viva, sono piuttosto (è un eufemismo) inaffidabili ed è difficile che si emendino. Altri ancora, come Azione di Calenda, pongono una preclusione dirimente: niente Cinque Stelle nel campo largo. In questo modo, però, la sconfitta appare garantita.

   La formulazione della strategia che porti alla crescita e le sue modalità stanno tutte nelle mani di Letta. Mi sembra che nel PD non siano molti (anche questo è un eufemismo) coloro che, invece di badare alla conservazione del loro personale seggio, si dedichino all’elaborazione di idee e magari anche a un sano e impegnativo lavoro sul territorio, questo sì diventato largo assai dopo la riduzione di un terzo del numero dei parlamentari. Sono giunto alla conclusione, parzialmente rivedibile dopo le dure lezioni della storia, che Letta deve tenere aperti gli ingressi nel suo campo largo a tutti coloro che garantiscano europeismo e impegno convinto e effettivo all’attuazione integrale del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Deve promettere che il governo del quale il Partito Democratico sarà comunque il perno s’impegnerà nella crescita culturale e economica dell’Italia. Chi non volesse assumere congiuntamente questo impegno non è un alleato affidabile, e allora sarebbero/saranno guai per tutti.

Pubblicato il 15 giugno 2022 su Domani  

Fatta la legge elettorale, trovato il disaccordo. Scrive Pasquino @formichenews

Tra gli elementi non considerati nella scelta di una legge elettorale c’è la premessa scientificamente e eticamente doverosa: quanto potere conferisce agli elettori. L’analisi di Gianfranco Pasquino, accademico dei Lincei prossimamente in libreria con “Tra scienza e politica. Una autobiografia” (Utet)

La premessa scientificamente e eticamente doverosa è che il criterio dominante per valutare la bontà di una legge elettorale è quanto potere conferisce agli elettori. Naturalmente, abbiamo imparato che nessun dirigente di partito e nessuno dei loro politologi, o presunti tali, di riferimento utilizza quel criterio come essenziale. Sappiamo che due criteri prevalgono su qualsiasi altra considerazione. Primo, non perdere ovvero limitare le dimensioni della eventuale sconfitta. Secondo, riuscire comunque a portare in Parlamento rappresentanti consapevoli di essere debitori della loro elezione e carica al capo partito o al capocorrente e, dunque, orientati alla disciplina interessata (alla ricandidatura). Nessuna variante di legge proporzionale rende impossibile conseguire entrambi gli obiettivi, anche se, garantendo un voto di preferenza (ricordo che gli italiani si espressero in questo senso in un fatidico referendum giugno 1991) si darebbe persino un po’ di potere agli elettori. Mi sono tappato le orecchie per non sentire le strilla di coloro che contro ogni obiezione vedono nelle preferenze solo corruzione.

   Se Letta mi chiedesse che cosa serve meglio a chi vuole costruire un campo largo, gli risponderei che una legge maggioritaria a doppio turno in collegi uninominali è la soluzione migliore. Quel campo sarebbero/saranno gli elettori a costruirlo secondo il gradimento che daranno all’offerta delle candidature, ovviamente con occhi di tigre, e delle indicazioni di alleanze con i pentastellati incentivati a stare nella coalizione in fieri. Dal canto loro, un po’ tutti i centristi vorrebbero contarsi grazie ad una legge proporzionale che non contenga nessuna soglia d’accesso al Parlamento, rischiosissima per la sopravvivenza di non pochi di loro. Meloni continua a propendere per e difendere “il” maggioritario, credo sostanzialmente la legge Rosato, due terzi proporzionale, un terzo maggioritaria. Sa che, a bocce ferme, questa legge le consentirebbe di essere numericamente decisiva se il centro-destra vuole ricompattarsi e governare. Ma non è vero, come sembra temere, che “la” proporzionale la metterebbe fuori gioco. Anzi, contati i voti proporzionali è possibile, persino probabile che quel che resto del centro-destra sarebbe costretto a constatare l’indispensabilità dei seggi di Fratelli d’Italia per giungere alla maggioranza assoluta in Parlamento. Non tanto paradossalmente, anche una legge di tipo francese renderebbe comunque i suoi voti decisivi per tutti candidati uninominali del centro-destra. FdI sarebbe sottorappresentata, ma determinante.    Come si capisce da questo sintetico scenario, risulta chiarissimo perché un accordo sulla legge elettorale sia molto difficile da trovare. Formiche mi ha chiesto di non esprimere le mie preferenze. Allora concludo con due notazioni comparate che è sempre il modo migliore di procedere. Il doppio turno francese dà più potere agli elettori e ai candidati e agevola la formazione di coalizioni per il governo. Le leggi proporzionali sono spesso raccomandate quando esiste frammentazione sociale e politica. Una buona soglia di accesso riduce la frammentazione, la proporzionalità rappresenta adeguatamente la società. Il resto, nel bene e nel male, non può non restare nelle mani dei dirigenti di partito.

Pubblicato il 23 febbraio 2022 su formiche.net