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Le diseguaglianze e la qualità della democrazia @laregione @laR_Lugano

Intervista raccolta da Ivo Silvestro

Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza politica a Bologna, sul futuro delle democrazie confrontate con crescenti disuguaglianze economiche

“Diseguaglianze: precisazioni, problemi, proposte” è il titolo della conferenza che Gianfranco Pasquino, professore Emerito di Scienza Politica all’Università di Bologna, terrà giovedì 5 marzo alle 18 alla biblioteca cantonale di Lugano. L’incontro apre il ciclo “Luci e ombre della globalizzazione” del Club Plinio Verda.

Professor Pasquino, in democrazia siamo tutti uguali – per quanto riguarda diritti civili e politici, mentre le disuguaglianze economiche non sarebbero un problema. Ma una persona molto ricca non ha, anche politicamente, più potere degli altri cittadini?
Sicuramente: senza uguaglianza di diritti civili e politici non possiamo parlare di democrazia, ma possiamo parlare di democrazia di fronte a diseguaglianze economiche.
Tuttavia queste disuguaglianze economiche possono avere un impatto sulla democrazia, sulla qualità della democrazia. Una democrazia in cui i ricchi possono “comprarsi le elezioni” evidentemente è una democrazia che valutiamo negativamente rispetto a una democrazia in cui tutti i cittadini hanno quasi lo stesso potere politico: l’obiezione quindi non è tanto verso coloro che diventano ricchi, ma alla loro capacità di influenzare le politiche che a loro volta favoriranno ancora di più i ricchi. Questa situazione sta diventando intollerabile in alcuni Paesi, iniziando dagli Stati Uniti.

Spesso si sente dire che non è un problema se i ricchi diventano più ricchi – se al contempo i poveri diventano meno poveri. Insomma, le disuguaglianze economiche non sarebbero di per sé un problema.
Il problema è come i ricchi usano le loro risorse per proteggere la loro posizione, per accrescere la loro ricchezza e per controllare il potere politico: questo è un cardine del liberalismo che nasce per dire che ogni uomo, e ogni donna, ha un voto e questo voto conta allo stesso modo. Ma nel momento in cui chi ha più soldi riesce a comprare i voti, riesce a comprare le decisioni degli eletti, nella democrazia entra una discriminazione economica molto dannosa e che incide sul principio dell’eguaglianza politica dei cittadini.

Dovremmo quindi pensare a una incompatibilità tra capitalismo e democrazia? Perché sembra che o il capitalismo fagocita la democrazia, oppure la democrazia impone pratiche redistributive della ricchezza.
Finché il capitalismo rimane competitivo è compatibile con la democrazia – che a sua volta deve essere competitiva, perché se c’è un unico capitalista e c’è un unico governante non siamo più in una democrazia.
La compatibilità quindi c’è, ma c’è anche una forte tensione perché i capitalisti cercano naturalmente di arricchirsi, e di controllare il potere politico affinché non proceda a quella ridistribuzione di cui lei parlava. D’altro canto la democrazia deve basarsi sul potere dei numeri, sulla costruzione di maggioranze popolari.
Il conflitto c’è, e non può che essere risolto attraverso maggioranze che si formano intorno a una certa idea di democrazia, a una certa idea di sistema economico, a una certa idea di società in cui ci sia un minimo di ricerca di uguaglianza, un minimo di opportunità per tutti.

In concreto, cosa dovremmo fare? Impedire alle persone di arricchirsi troppo?
La democrazia non deve porre alcun limite all’arricchimento. La democrazia, o meglio i democratici, intervengono nel momento in cui quei soldi vengono utilizzati per manipolare le elezioni, per influenzare la politica a proprio vantaggio.
Quindi se mi chiede se deve esserci un limite all’arricchimento, la risposta è no. Ma ci devono essere limiti all’uso di quei soldi, quindi una legge vera sul conflitto d’interesse, una legge vera sul finanziamento della politica.

Democrazia e disuguaglianze economiche possono quindi coesistere con regole serie.
Regole serie e severe. Il potere economico non deve controllare il potere politico e a sua volta il potere politico non deve controllare il potere economico. Devono essere in competizione tra di loro, però con delle regole che stabiliscono che non possono esserci dei vincitori per sempre, che i vincitori non possono opprimere coloro che perdono.

Persone molto ricche possono influenzare la società al di là della politica. Un amante del jazz potrebbe finanziare scuole e festival solo  di questo genere, penalizzando rock e classica. L’esempio può apparire banale, ma se lo applichiamo anche all’arte, alla letteratura, al cinema le (legittime) preferenze di pochi possono cambiare una società.
Con il finanziamento di queste attività lei pone un caso molto interessante. Ma se il sistema è competitivo, ci saranno altri ricchi che finanzieranno altre attività, in competizione. E anche per i cittadini ci sono possibilità, attraverso il cosiddetto crowdfunding, di finanziare a loro volta certe attività culturali.
Se avviene in maniera trasparente e in una situazione di competizione, il finanziamento di attività culturali non pone problemi.

La competizione è quindi essenziale.
Sì. Pensiamo alle primarie democratiche negli Stati Uniti. In corso ci sono dei milionari e non è affatto detto che Michael Bloomberg riuscirà a vincere. Finché c’è una situazione competitiva, c’è la possibilità di tenere sotto controllo: una volta ottenuta la nomination e magari anche diventato presidente, ci dovrà essere una legge sul conflitto d’interesse.

Il suo intervento apre il ciclo ‘Luci e ombre della globalizzazione’. In tutto questo discorso, la globalizzazione che ruolo ha?
Innanzitutto la globalizzazione è un fenomeno in corso, per cui possiamo valutarla in questo momento ma sappiamo che non possiamo fermarla – e non dovremmo neanche.
Ha prodotto arricchimento in zone del mondo che erano molto povere, a iniziare dalla Cina ma non solo. Ha prodotto una crescita di disuguaglianze ma l’uscita dalla povertà di milioni di persone. È quello che diceva all’inizio: se i ricchi diventano più ricchi ma al contempo i poveri diventano meno poveri, va benissimo – entro certi limiti, naturalmente.
La globalizzazione ha prodotto tutto questo e adesso però ci rendiamo conto che abbiamo bisogno di poter controllare come la ricchezza si va formando, di strumenti per impedire ad esempio che le corporation vadano in cerca di paradisi fiscali.

Strumenti sovranazionali: ma ci sono istituzioni internazionali che possano farlo?
L’Unione europea qualcosa sta facendo. Il resto ovviamente viene affidato a organizzazioni internazionali, alcune hanno sufficienti poteri altre non ancora. Ma certo la globalizzazione richiede un governo mondiale, o quantomeno misure prese a livello di Nazioni unite che cerchino di mitigare l’impatto che alcuni aspetti della globalizzazione sta avendo. Noi adesso stiamo parlando di ricchezza, di soldi, ma dovremmo parlare anche di clima e di commercio internazionale: quello che Trump sta facendo a livello di dazi è molto negativo, a livello di controllo delle ricchezze e delle diseguaglianze.

Ultima domanda: sul futuro  della democrazia è più ottimista o più pessimista?
Se guardo a quello che è già successo, sono relativamente ottimista. Negli ultimi trenta-quarant’anni il numero di regimi che possiamo ragionevolmente ritenere democratici è cresciuto. Siamo passati grosso modo da una trentina di democrazie a novanta democrazie. C’è una spinta alla creazione di regimi democratici.
Ma al contempo vediamo in alcuni contesti erosioni delle regole democratiche, pensiamo a Orbán che in Ungheria cerca di controllare la stampa…

Quella che lui chiama ‘democrazia illiberale’.
Certo, ma se mi capiterà lo dirò sicuramente durante la conferenza: la democrazia illiberale non esiste. Senza i principi del liberalismo la democrazia non esiste.

Pubblicato il 4 marzo 2020 su laregione.ch

Progetto “Il futuro è oggi” Video intervista a Gianfranco Pasquino

Economia
CAPITALISMO
Quale potrebbe essere l’evoluzione futura del complesso rapporto tra capitalismo globalizzato e democrazia?

 

 

Geopolitica
SCENARIO GLOBALE
Quali trend stanno emergendo a livello geopolitico?

 

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Progetto “Il futuro è oggi”

Come sarà il futuro? Quali scenari si stanno delineando in campo sociale, politico, economico e tecnologico? Come si trasformerà il nostro modo di rapportarci alla realtà che ci circonda?
Sul futuro proiettiamo speranze e aspettative di progresso, ma anche paure e timori. Se è vero che anticipare ciò che ci attende è difficile e che avvicinarsi alle frontiere dell’ignoto richiede una buona dose di coraggio, è altrettanto vero che non possiamo abbandonarci alla nostalgia del passato o stazionare in un perpetuo presente.
Mossi dal desiderio di scoprire ciò che ci attende, in partnership con Fondazione Pordenonelegge.it, Dedica Festival e Teatro Comunale “Giuseppe Verdi” di Pordenone, abbiamo intervistato alcuni esponenti della cultura italiana e internazionale.
Siamo fermamente convinti che proprio la cultura, intesa come capacità di analisi critica e consapevole, che non ci fa fuggire davanti ai problemi ma anzi ci porta a trovare per essi autentiche soluzioni originali, possa aiutarci a comprendere i cambiamenti in atto, a dominarli per quanto possibile e non ad esserne dominati.

Video intervista è stata registrata nell’ambito del festival Pordenonelegge 2017

Karl Marx duecento anni dopo #KarlMarx #Marx200 #Marx2018 VIDEO @FondCorriere

Il marxismo è (stato) una ideologia nel senso migliore della parola: una visione del mondo, una prospettiva sul futuro. Ha creato una cultura politica anche nel dibattito/scontro “rivoluzione vs riforme”. Grandi partiti di sinistra si sono formati nella riflessione e nel superamento di quella antinomia, anche senza, inconveniente grave, elaborare una teoria dello Stato. Scomparso il marxismo su quali basi si ricostruisce una cultura politica? È lecito sostenere che il declino dei partiti di sinistra si accompagna, ma forse è anche la conseguenza, della scomparsa della loro cultura politica, e viceversa?

Sala Buzzati
via Balzan 3, Milano
Giovedì 3 maggio 2018

In occasione della presentazione di
Karl Marx vivo o morto?
Il profeta del comunismo duecento anni dopo,
a cura di Antonio Carioti, Solferino – I libri del Corriere della Sera

 

Non c’è traccia di populismo in nessuna variante del marxismo. Non il popolo, non la nazione, ma la classe e il proletariato internazionale occupano il centro del pensiero dei marxisti. Laddove i populisti vogliono dividere il popolo buono e puro, che li sostiene, dai traditori del popolo, ovvero chiunque rappresenta altre preferenze e si oppone a loro, il marxismo vuole offrire ai proletari l’opportunità di liberarsi delle sue catene guardando oltre e fuori i confini delle nazioni. Il populismo non libera nessuno.

La discendenza riformista: successi e crisi della socialdemocrazia* #KarlMarx #Marx200 #Marx2018

*La discendenza riformista: successi e crisi della socialdemocrazia, in A. Carioti (a cura di), Karl Marx. Vivo o morto? Il profeta del comunismo duecento anni dopo, Milano, Solferino, pp. 175-185
Presentazione 3 maggo 2018 ore 18 Fondazione Corriere, Sala Buzzati via Balzan 3 Milano

 

Il pensiero e gli scritti di Karl Marx, la sua analisi del capitalismo, dello sfruttamento e dell’alienazione dei lavoratori, la prospettiva del superamento dello stadio nel quale la borghesia era/è stata la classe dominante fino alla situazione nella quale non sarebbe più esistito il governo degli uomini sugli uomini in quanto sostituito dall’amministrazione delle cose hanno costituito il patrimonio iniziale di tutti, o quasi, i partiti che si definivano socialdemocratici. Tuttavia, fin dall’inizio delle esperienze socialdemocratiche, già ai tempi di Marx e Engels, si sono prodotti contrasti di non poco conto sulle modalità con le quali fare transitare la teoria di Marx all’azione nella concretezza della lotta politica per conseguire obiettivi che non tutti i socialdemocratici condividevano a cominciare dall’alternativa, a lungo protrattasi, fra riforme e rivoluzione. Se le riforme “di struttura” portassero ad esiti rivoluzionari oppure addirittura rafforzassero il capitalismo in sostanza rimandando e impedendo l’emergere della società socialista è un dilemma che ha attraversato i socialdemocratici in tutti i luoghi fino a tempi relativamente recenti. La rottura più profonda e duratura nel mondo delle socialdemocrazie avvenne quando nel Secondo Congresso della Terza Internazionale Lenin impose ai partiti socialdemocratici e socialisti di accettare 21 condizioni che li avrebbero trasformati in comunisti. Da allora il marxismo fu per molti decenni l’ideologia al tempo stesso sia del maggior numero dei partiti socialdemocratici sia di tutti i partiti comunisti dell’Occidente. Le loro strade si divaricavano, ma per lungo tempo il riferimento a Marx non venne meno né, faccio due soli esempi, per i socialisti italiani guidati da Turati né per i cosiddetti austromarxisti. Nella pure tragica contrapposizione durante la Repubblica di Weimar (1919-1933) fra i socialdemocratici e i comunisti, il marxismo come ideologia e teoria non fu messo in discussione dai primi pure tacciati dai comunisti staliniani di essere diventati socialfascisti.

Ieri. L’abbandono del marxismo da parte dei socialdemocratici tedeschi fu effettuato più di un decennio dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale nel Congresso di Bad Godesberg nel 1959. Quella decisione ebbe un impatto enorme. Aprì la strada ad una molteplicità di richieste, talvolta intimazioni, indirizzate soprattutto ai comunisti, in particolare quelli italiani, di “andare a Bad Godesberg” (ridente cittadina termale) e procedere ad un lavacro di tipo revisionista. Sette anni dopo i socialdemocratici tedeschi arrivarono al governo della allora Germania Ovest, la Repubblica Federale Tedesca, in una Grande Coalizione, per rimanervi poi con i Liberali fino al 1982. Per l’importanza della Germania e della SPD stessa e per le conseguenze politiche irreversibili che Bad Godesberg ebbe, l’avvenimento ha segnato uno spartiacque nella storia delle socialdemocrazie. Tuttavia, i percorsi dei vari partiti socialdemocratici e socialisti europei, dopo Marx, dopo la rivoluzione bolscevica, dopo il fascismo e il nazismo erano già stati molto differenziati. Oserei applicare a tutti quei partiti una famosa frase di Marx sostituendo la parola uomini appunto con partiti, come segue: “i partiti fanno la propria storia, ma non la fanno in modo arbitrario, in circostanze scelte da loro stessi, bensì nelle circostanze che trovano immediatamente davanti a sé, determinate dai fatti e dalle tradizioni”. Anche se già nel 1951 fu fondata l’Internazionale Socialista, che oggi conta circa 150 partiti aderenti, soltanto i pure molto importanti principi generali sono condivisi. Non solo le tattiche politiche contingenti, ma le strategie di lungo periodo dei diversi partiti sono fortemente condizionate dallo stato dei paesi e delle società in cui operano, dalle loro tradizioni e dal contesto partitico stesso.

Per cominciare con il caso in qualche modo ai margini delle socialdemocrazie continentali, più che alla lunga operosa presenza di Marx a Londra, città nella quale morì (nel 1883) ed è sepolto, la storia del laburismo inglese è debitrice di fatti e tradizioni specifiche della Gran Bretagna, della forza del pur variegato e frammentato movimento sindacale, dell’eredità del pensiero illuminista scozzese e liberale, degli intellettuali della Fabian Society e della dinamica complessiva del sistema politico a cominciare dall’estensione graduale, ma significativa, del diritto di voto. Tutto questo plasmò un partito laburista nel quale i marxisti furono sempre una piccola e non influente minoranza, e nel quale la cifra dell’azione politica fu regolarmente il riformismo senza nessuna ambizione rivoluzionaria. Sicuramente i Laburisti britannici debbono essere considerati parte integrante delle socialdemocrazie europee, ma le loro specificità hanno continuato a contare nel corso del tempo e nelle numerose esperienze di governo. Sono state trasferite ovvero recepite e nutrite anche in alcuni paesi della diaspora anglosassone come Australia e Nuova Zelanda dove i partiti laburisti hanno spesso governato dando rappresentanza e potere alle classi popolari.

Sul continente è possibile rilevare tre, forse quattro varianti di socialismi. Le prime due varianti sono relativamente facili da individuare e definire. Sono, rispettivamente, quelle dei partiti – laburisti, socialisti, dei lavoratori – dei paesi nordici e quelle dell’Europa meridionale, più precisamente, della Francia e dell’Italia. Nei paesi nordici i socialisti non hanno dovuto, con l’eccezione parziale della Finlandia, affrontare la sfida di un forte partito comunista alla loro sinistra. Hanno a lungo goduto dell’appoggio ovvero di una relazione stretta e fondamentalmente collaborativa con un forte sindacato unitario. Giunsero al governo del loro paese, in special modo, il Partito Socialista dei Lavoratori svedese, già all’inizio degli anni trenta. Hanno plasmato in maniera indelebile, “nelle circostanze che trova(ro)no immediatamente davanti a sé”, la vita politica, sociale e economica come non è stato possibile in nessun altro sistema politico. Lo hanno fatto procedendo alla virtuosa combinazione fra una politica economica all’insegna del keynesismo e una politica sociale improntata al welfare. Hanno formulato e spesso attuato accordi e addirittura assetti definiti neo-corporativismo basati sulla solida relazione tripartitica fra un governo di sinistra (sorretto dal partito socialdemocratico), il sindacato unitario e le organizzazioni imprenditoriali, sorretta dalla fiducia reciproca che gli impegni presi saranno mantenuti e attuati. Non può suscitare nessuna sorpresa che, come direbbero gli inglesi, at the end of the day, tutte le classifiche internazionali, a cominciare da quella autorevole dell’Indice dello Sviluppo Umano (reddito, livello di istruzione, stato di salute) vedano regolarmente ai primi posti Norvegia e Svezia, Danimarca e Finlandia.

Le esperienze socialdemocratiche di governo nei paesi nordici sono spesso state giudicate in maniera molto severa, comunque considerate non meritevoli di imitazione nei due maggiori paesi latini, vale a dire Francia e Italia. Sia i politici socialisti e, con maggiore acrimonia, comunisti sia i loro intellettuali di riferimento hanno rimproverato a quei socialdemocratici di non avere saputo cambiare, sconfiggere, superare il capitalismo quanto, piuttosto, di averlo “salvato”, rendendolo persino più efficiente e più forte. In seguito, quei politici e quegli intellettuali hanno sostenuto che le esperienze socialdemocratiche si erano logorate ed erano entrate in crisi. Dunque, non valeva la pena né studiarle né, tantomeno, imitarle. Certamente non entrarono in crisi le esperienze socialdemocratiche in Francia e in Italia poiché in Francia non ebbero mai modo di prodursi tranne che, in parte, con la prima presidenza di François Mitterrand (1981-1988), in Italia sostanzialmente mai anche se, forzando un po’ la valutazione e gli esiti, il primo centro-sinistra italiano (1962-1964) costituì una fase di significativo riformismo. La debolezza dei partiti socialisti francese e, soprattutto, italiano a fronte della solidità dei corrispondenti partiti comunisti e della loro rappresentatività della classe operaia costituì l’ostacolo maggiore, ancorché non l’unico (vi si deve aggiungere quantomeno la divisione della rappresentanza sindacale), alla conquista del governo in un paese occidentale nel periodo della Guerra Fredda. La divisione a sinistra e il conflitto socialisti/comunisti hanno finito per rendere impossibile qualsiasi costruzione di un attore partitico unitario in grado di proporre politiche riformiste di stampo socialdemocratico. In nessuno dei due paesi, praticamente scomparsi i partiti che potrebbero richiamarsi alla socialdemocrazia, è ragionevolmente possibile ipotizzare una qualche ripresa di politiche riformiste, rese per di più ancora più difficile dalla dinamica complessiva della globalizzazione e dallo spirito del tempo.

Nei paesi più propriamente mediterranei come Grecia, Portogallo, Spagna, dopo il crollo dei rispettivi autoritarismi, il compito dei partiti socialisti è consistito soprattutto nel creare e mantenere le condizioni di un regime democratico dando rappresentanza ai ceti popolari e guidando lo sviluppo dell’economia ed è stato coronato da sostanziale successo. La democrazia si è consolidata. Non era da quei partiti e da quei paesi che ci si potessero aspettare innovazioni di rilievo nelle politiche socialiste. L’abbandono del marxismo come ideologia e come guida alla prassi fu logica conseguenza dei tempi e, tranne che brevemente per il Partito Socialista Operaio Spagnolo, non implicò nessuna difficoltà né, tantomeno, traumi. Più complessa la situazione prodottasi nei sistemi politici dell’Europa centro-orientale dopo il 1989. Ridotto il marxismo a mero rituale, a ideologia imbalsamata, a catechismo per gli aspiranti a far parte della nomenclatura, il fallimento dei regimi comunisti ha svelato il vuoto di cultura politica. Non poteva che essere bassa o nulla la credibilità dei partiti comunisti che trasformavano il loro nome in socialisti e i cui ceti politici traslocavano armi e bagagli nella neppur troppo nuova botte socialista che avevano in passato largamente screditato. La reazione profonda e di entità inattesa contro il comunismo “realizzato” ha chiuso ogni spazio a eventuali apparizioni di compagini socialiste che, infatti, tuttora, quasi vent’anni dopo la transizione, non esistono, con conseguenze gravi sullo spirito civico e sulla qualità della democrazia di ciascun paese. Non erano, forse, solo i partiti comunisti dominanti l’impedimento alla formulazione e attuazione di politiche riformiste neppure quelle vagamente di stampo socialdemocratico.

La caduta del Muro di Berlino il 9 novembre 1989 cambiò ancora una volta “le circostanze” nelle quali si trovavano ad operare i partiti (e i governi) socialdemocratici. In verità, nell’Europa occidentale quelle circostanze erano già cambiate molto significativamente grazie alla prosperità economica diffusasi nel dopoguerra e soprattutto a mutamenti culturali più irreversibili di qualsiasi benessere economico. Quei vantaggi economici, di lavoro e di guadagno, che l’azione organizzata in partiti e in sindacati aveva consentito di conseguire a milioni di cittadini e che i partiti e i governi socialdemocratici avevano cercato di distribuire in maniera equa, semmai più favorevole ai ceti popolari, potevano oramai, almeno così sembrò ai figli e alle figlie di quei lavoratori, essere conseguiti individualmente, di persona attraverso il perseguimento dell’autorealizzazione (Inglehart 1977). I valori post-materialisti e i loro (giovani) portatori fecero irruzione sulla scena politica scompaginando in particolare la sinistra, le variegate organizzazioni socialdemocratiche nelle quali convivevano padri “materialisti” e figli e figlie che, proprio grazie ai loro genitori, potevano permettersi di avere e applicare valori post-materialisti. Naturalmente, alcuni paesi erano più avanzati sulla scala del post-materialismo e in questi paesi come, ad esempio, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, ma anche i paesi nordici, l’onda del post-materialismo colpì in misura considerevole le socialdemocrazie esistenti e governanti.

Oggi. Curiosamente, nello stesso anno, 1994, in cui Bobbio insisteva sulle ragioni della persistenza di ben distinte posizioni di destra e di sinistra, il sociologo inglese Anthony Giddens argomentava e spiegava perché fosse indispensabile andare Oltre la destra e la sinistra. I tumultuosi anni di governo dei conservatori, Thatcher (1979-1990) e Major (1990-1997), favoriti dalla scissione dei socialdemocratici nel 1981, avevano imposto ai laburisti un agonizing reappraisal (dolorosissima rivalutazione) della loro strategia, della loro stessa visione della Gran Bretagna. Più di altri Giddens contribuì alla formulazione della Terza Via (il sottotitolo inglese del libro omonimo pubblicato nel 1998 è The Renewal of Social Democracy) che divenne la formula con la quale il New Labour di Tony Blair approdò al governo nel 1997. Tra il liberismo estremo dei conservatori e il laburismo obsoleto, Blair e Brown si aprirono una Terza Via che doveva riformare il partito, le modalità di governo, le politiche, la stessa società britannica. È una Via nella quale neppure credono più la maggioranza dei dirigenti laburisti e i loro elettori che premiano il più tradizionale, classico, forse effettivamente socialdemocratico Jeremy Corbyn.

Non credo si possa collocare nella Terza Via l’Ulivo fortunosamente vittorioso alle urne nell’aprile 1996 anche se, indubbiamente, fra le motivazioni di alcuni protagonisti si trovava quella del superamento della socialdemocrazia classica (peraltro, mai concretamente comparsa nel contesto italiano). Con qualche forzatura fu inserita nella Terza Via l’esperienza del governo presidenziale del democratico Bill Clinton (1992-2000). Molto più appropriato è il riconoscimento che quanto volle fare il cancelliere socialdemocratico Gerhard Schröder (1998-2005), ovvero plasmare e ridefinire un nuovo centro (Die Neue Mitte), rappresentò effettivamente la Terza Via secondo modalità tedesche. Tuttavia, da allora è cominciato un significativo e persistente declino elettorale della SPD che, peraltro, è rimasta politicamente la migliore alleata di governo della Democrazia Cristiana tedesca (2005-2009; 2013-2017; ????-????). Infine, l’esperimento iniziato in Italia nel 2007 con la formazione del Partito Democratico è, comunque lo si valuti, la fuoriuscita da qualsiasi possibilità di recupero, di rilancio, di rielaborazione di un esperimento socialdemocratico. Nella vicina Francia, la clamorosa vittoria presidenziale (2017) di Emmanuel Macron ha con tutta probabilità posto fine a quel poco che era rimasto di socialdemocrazia francese trascendendo Parti Socialiste e Rèpublicains gollisti con lo slogan sia destra sia sinistra e relegandoli in un passato che non potrà tornare. Solo nei sistemi politici scandinavi le socialdemocrazie hanno lasciato tracce tanto profonde quanto positive, ma i duri dati elettorali dicono che, sì, potranno, nella logica delle democrazie dell’alternanza, tornare al governo, ma all’orizzonte non si vede nessun rilancio di un’età d’oro socialdemocratica.

Bilancio per il domani. Abbiamo appreso dai bolscevichi la dura lezione della storia che il socialismo in un solo paese non può essere costruito. Non è possibile dimenticare che uno dei cardini del pensiero di Marx era l’internazionalismo sotto forma di solidarietà del proletariato di tutti i paesi: “Proletari di tutto il mondo unitevi”. Invece, ciascuno e tutti i partiti socialdemocratici hanno a partire dagli anni Trenta, ma ancor più nel secondo dopoguerra intrapreso e percorso, con maggiore o minore successo, le loro vie nazionali. Dappertutto c’è da qualche tempo ormai la consapevolezza che nessuna di quelle vie nazionali porta ai traguardi/esiti di mantenimento della prosperità e di riduzione delle diseguaglianze che le socialdemocrazie continuano a ritenere degni di essere perseguiti. Anzi, almeno per quel che riguarda la prosperità la sfida della globalizzazione può essere meglio affrontata in chiave sovranazionale nel quadro offerto dall’Unione Europea. Che le sfide della globalizzazione, del governo dell’economia, delle migrazioni possano essere vinte dai governi nazionali che operino senza accordi reciproci e senza cooperazione è l’illusione dei sovranisti. Che possa riaprirsi quella che, brillantemente analizzando le esperienze scandinave, Esping Andersen (1985) definì La via socialdemocratica al potere caratterizzata dalla capacità della politica di contrapporsi vittoriosamente ai mercati appare piuttosto improbabile.

I primi due punti di quello che circa centocinquant’anni fa era il Programma socialdemocratico minimo: 1. Rimuovere gli ostacoli allo sviluppo del capitalismo; 2. Ampliare le libertà borghesi, democrazia e diritti civili, soprattutto il suffragio, sono stati conseguiti. Il punto 3. Accrescere il ruolo del proletariato industriale di fabbrica deve essere ridefinito con riferimento al ruolo dei lavoratori in un mercato del lavoro caratterizzato da enormi variazioni e squilibri. Il punto 4. Lottare contro i bastioni internazionali della reazione (la Russia zarista) mantiene la sua validità, ma i bastioni della reazione non si trovano all’interno di un solo Stato. Anche se l’Unione Europea non è in alcun modo definibile come socialdemocratica, la lotta contro la reazione non può che partire dalle sue istituzioni che delimitano il più grande spazio di libertà e diritti mai conosciuto. Quest’ultima affermazione mi consente di ricordare le parole di Bobbio che qualche decennio fa (per la precisione nel 1976) concludeva la sua splendidamente sintetica voce Marxismo del Dizionario di politica UTET sottolineando che la socialdemocrazia “ritiene che compito del movimento operaio sia quello di conquistare lo Stato (borghese) dall’interno”, mentre il marxismo afferma la necessità della distruzione dello Stato borghese affinché lo Stato stesso si estingua. Le esperienze dei comunismi realizzati hanno contraddetto l’imperativo marxista riguardante l’estinzione dello Stato potenziandolo e rendendolo totalitario. Le socialdemocrazie hanno di tanto in tanto conquistato non lo Stato, ma il governo di numerosi paesi trasformando in meglio il funzionamento e il rendimento complessivo dei sistemi politici nei quali hanno avuto ruoli importanti. All'”amministrazione delle cose” profetizzata da Marx le socialdemocrazie non sono pervenute, ma, è opinione diffusa che i loro governi hanno avuto successo. Eppure, è il paradosso, sono diventati meno probabili e meno frequenti. In Europa non si aggira lo spettro della socialdemocrazia.

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Riferimenti bibliografici
Bartolini, S. (2000) The Political Mobilization of the European Left, 1860-1980: The Class Cleavage, Cambridge: Cambridge University Press
Bobbio, N. (2016) Marxismo, in N. Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino (a cura di), Dizionario di politica, Novara, De Agostini, pp. 556-562.
De Waele, J.-M., Escalona, F., Vieira, M. (a cura di) (2013) The Palgrave Handbook of Social Democracy in the European Union, New York, Palgrave-Macmillan.
Esping-Andersen, G. (1985) Politics against Markets. The Social Democratic Road to Power, Princeton, Princeton University Press.
Giddens, A. (1994) Oltre la destra e la sinistra, Bologna, Il Mulino.
Giddens, A. (2001) La terza via, Milano, Il Saggiatore.
Inglehart, R. (1977) The Silent Revolution. Changing Values and Political Styles among Western Publics, Princeton, Princeton University Press.