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VIDEO I partiti e le classi dirigenti. Un ricordo di Giorgio Galli @C_dellaCultura
Intervento in occasione dell’evento GIORGIO GALLI, I PARTITI E LE CLASSI DIRIGENTI In ricordo di Giorgio Galli, a un anno dalla scomparsa, organizzato da Fondazione ISEC (Sesto San Giovanni-MI) e Casa della Cultura . Qui il video integrale dell’evento https://www.youtube.com/watch?v=SqAxB…
Sul semipresidenzialismo: un dialoghetto urgente e pressante @C_dellaCultura


Dialoghetto tra una Apprendista e un Professore
Apprendista: Come un fulmine nel ciel sereno (sic) della politica italiana, il Ministro leghista Giancarlo Giorgetti ha evocato il “semipresidenzialismo de facto”. Nel profluvio di interpretazioni, che mi sono per lo più parse piuttosto disinformate, mi piacerebbe sentire la sua.
Professore: Rispondo, anzitutto, sul “de facto” poiché purtroppo ho fatto un frettoloso tweet definendo l’idea del presidenzialismo de facto “abbastanza eversiva”. Uscire dalla democrazia parlamentare italiana per praticare un semipresidenzialismo non tradotto in norme costituzionali è, tecnicamente, una “eversione” della nostra Costituzione. A mente più fredda, sono giunto alla conclusione che Giorgetti non suggeriva l’eversione, ma indicava una soluzione secondo lui possibile e auspicabile: Draghi Presidente della Repubblica che si nomina un Primo ministro suo agente in Parlamento. Può succedere, fermo restando che il Parlamento manterrebbe il potere di sfiduciare il capo del governo e il Presidente quello di sciogliere il Parlamento, anzi, addirittura di minacciarne anticipatamente lo scioglimento. Nel circuito istituzionale del semipresidenzialismo tutto questo è possibile. Legittimo. Produttivo di conseguenze democratiche. Poi, per il semipresidenzialismo de jure ci vorrebbe, ovviamente, una seria e complessa riforma della Costituzione.
A: Poiché ho letto “attribuzioni” di paternità che non mi sono parse convincenti, ricominciamo da capo. Chi ha dato vita alla parola e alla pratica del semipresidenzialismo?
P: Padri della terminologia, non sono stati, come hanno scritto troppi commentatori, né il Gen. De Gaulle né il giurista Maurice Duverger. Il fondatore della Quinta Repubblica era interessato ad un regime che si basasse sul potere costituzionale del Presidente della Repubblica a scapito di quello politico dei partiti. Duverger combattè e perse la sua battaglia a favore dell’elezione popolare diretta del Primo ministro (sì, se le suona qualcosa in testa è giusto così). Solo diversi anni dopo giunse a teorizzarne la validità e l’efficacia (A New Political System Model: Semi-Presidential Government, giugno 1980). In effetti, il termine fu coniato in un articolo pubblicato l’8 gennaio 1959 da Hubert Beuve-Méry, direttore del prestigioso quotidiano “Le Monde”, che voleva criticare l’accentramento di potere nelle mani del Presidente (de Gaulle). In parte, Beuve-Méry aveva ragione, ma era proprio quell’accentramento che de Gaulle voleva e aveva chiesto ai suoi consiglieri giuridici a cominciare da Michel Debré che diventò il primo Primo Ministro della Quinta Repubblica. Lo ottenne. Poi si riscontrò che il semipresidenzialismo gode anche di una buona dose di flessibilità.
A: È vero che esisteva un precedente esempio di semipresidenzialismo finito tragicamente e quindi non menzionabile?
P: Verissimo. La Costituzione della Repubblica di Weimar (1919-1933) aveva disegnato proprio una forma di governo semipresidenziale. Non è inconcepibile che i giuristi intorno a de Gaulle e il grande sociologo Raymond Aron che avevano studiato in Germania in quegli anni ne siano stati più o meno inconsapevolmente influenzati. Solo molto tempo dopo una studiosa USA, Cindy Skach, ha scritto un bel libro mettendo convincentemente le istituzioni di Weimar in collegamento con quelle della Quinta Repubblica (Borrowing Constitutional Designs: Constitutional Law in Weimar Germany and the French Fifth Republic, Princeton University Press, 2005). La vera grande differenza fra Weimar e la Quinta Repubblica è che nella prima fu utilizzata una legge elettorale proporzionale che consentiva/facilitava la frammentazione del sistema dei partiti, mentre in Francia funziona un sistema elettorale maggioritario a doppio turno in collegi uninominali che premia le posizioni moderate e incentiva la formazione di coalizioni.
A: Forse è il momento per definire esattamente cos’è una forma di governo semipresidenziale.
P: Fermo restando, naturalmente, che saprei proporre una definizione con parole mie, ubi maior minor cessat. Quindi, cedo la parola a Giovanni Sartori che individua cinque caratteristiche:
i) il capo dello Stato (il presidente) è eletto con voto popolare –direttamente o indirettamente—per un periodo prestabilito;
ii) il capo dello Stato condivide il potere esecutivo con un primo ministro, entrando così a far parte di una struttura ad autorità duale i cui tre criteri definitori sono:
iii) il presidente è indipendente dal Parlamento, ma non gli è concesso di governare da solo o direttamente; le sue direttive devono pertanto essere accolte e mediate dal suo governo;
iv) specularmente, il primo ministro e il suo gabinetto sono indipendenti nella misura nella quale sono dipendenti dal parlamento e cioè in quanto sono soggetti sia alla fiducia sia alla sfiducia parlamentare (o a entrambe), e in quanto necessitano del sostegno di una maggioranza parlamentare;
v) la struttura ad autorità duale del semi-presidenzialismo consente diversi equilibri e anche mutevoli assetti di potere all’interno dell’esecutivo, purché sussista sempre l’ “autonomia potenziale” di ciascuna unità o componente dell’esecutivo. (Ingegneria costituzionale comparata, il Mulino 2000, pp. 146-147)
Farei un’unica, importante aggiunta: il Presidente può sciogliere il Parlamento quasi a suo piacere (in generale lo motiva con la necessità del buon funzionamento degli organismi costituzionali, ma la tipologia degli scioglimenti può essere alquanto varia e variegata) purché quel Parlamento abbia almeno un anno di vita.
A: Abitualmente chi parla di semipresidenzialismo si riferisce (quasi) esclusivamente alla Quinta Repubblica francese, spesso, per lo più, in maniera critica e per sostenere che non è appropriato per la Repubblica italiana. Ciononostante, il semipresidenzialismo si è “affacciato” anche in Italia, giusto?
P: Proprio così. Altro che affacciarsi, il semipresidenzialismo irruppe nella Commissione Bicamerale presieduta da D’Alema quando nel giugno del 1998 i rappresentanti della Lega riuscirono a farlo votare più per affondare la Commissione che per convinzione. Nel dibattito accademico (che non vuole dire soltanto “ininfluente”), Sartori lo appoggiò sempre. Personalmente anch’io sono favorevole, “non da oggi”. Rimando al mio capitolo nel libro che contiene anche capitoli di Stefano Ceccanti e Oreste Massari, Semipresidenzialismo. Analisi delle esperienze europee (il Mulino 1996). Le critiche sono tante, troppe per poterle citare, ripetitive e faziose, per lo più inadeguate dal punto di vista della “verità effettuale”. Insomma, molto si può dire del semipresidenzialismo, ma considerarlo il prodromo di qualche scivolamento irreversibile nell’autoritarismo mi pare francamente improponibile. Qui, poi, si misura anche il provincialismo di molti giuristi italiani e dei commentatori che vi si affidano che sembrano credere che il semipresidenzialismo esista soltanto in Francia.
A: “Provincialismo” è una critica che lei rivolge spesso ai giuristi italiani, ma in questo caso come la sostanzierebbe?
P: Mai domanda fu più facile. In maniera sferzante Sartori rimanderebbe tutti alle bibliografie internazionali che elencano numerosi titoli dedicati alle forme di governo semipresidenziali esistenti in molte parti del mondo: dall’Europa dell’Est a, comprensibilmente, non pochi paesi dell’Africa francofona, a Taiwan che mi pare un caso molto interessante e istruttivo. In estrema sintesi, alcuni studenti taiwanesi a Parigi quando venne creata la Quinta Repubblica ne apprezzarono l’assetto istituzionale e lo importarono in patria. Con notevole successo. Su tutto questo si vedano l volumi curati da Lucio Pegoraro e Angelo Rinella, Semipresidenzialismi, CEDAM 1997, e da Robert Elgie e Sophia Moestrup, Semi-presidentialism outside Europe, Routledge 2007.
A: Insomma, a sentire lei tutto andrebbe splendidamente nel semipresidenzialismo, saremmo nel migliore dei mondi possibili, appropriatamente, insieme al francese Candide. Però, a lungo proprio in Francia vi furono voci critiche e una ventina d’anni fa venne introdotta una riforma piuttosto incisiva Dunque?
P: Credo sia interessante ricordare che il primo cattivissimo critico della Quinta Repubblica, con lui tutta la sinistra, fu François Mitterrand nel suo libro Le coup d’État permanent (1964). Eletto Presidente nel 1981, dichiarò memorabilmente: “Les institutions n’étaient pas faites à mon intention. Mais elles sont bien faites pour moi”. Le critiche più frequenti hanno riguardato il fenomeno della cohabitation: il Presidente di una parte politica, la maggioranza parlamentare di un’altra parte, spesso proprio quella opposta. Sicuramente, de Gaulle non avrebbe gradito, ma lo scioglimento del Parlamento che i Presidenti possono imporre dopo un anno di vita del Parlamento, è lo strumento con il quale tentare di uscire dalla cohabitation. Fu così nel 1981 e nel 1988. Comunque, se quando c’è governo diviso negli USA ne segue uno stallo nel quale non riescono a governare né il Presidente né il Congresso, nei casi di coabitazione governa il Primo ministro (fu così anche nella lunga 1997-2002 coabitazione fra il Presidente gollista Jacques Chirac e il Primo ministro socialista Lionel Jospin) che ha una maggioranza parlamentare consapevole che, creando difficoltà al “suo” Primo ministro, correrebbe il rischio dello scioglimento del Parlamento. Per porre fine all’eventualità della coabitazione Chirac e Jospin si accordarono su una riforma che non sarebbe certamente stata gradita a de Gaulle: riduzione della durata del mandato presidenziale da sette a cinque anni, elezioni presidenziali da tenersi prima di quelle legislative contando sulla propensione dell’elettorato a dare una maggioranza al Presidente appena eletto. Finora ha funzionato con soddisfazione di coloro che credono che la coabitazione è sempre un problema. La mia valutazione è diversa, ma ne discuteremo in altra sede. Mi limito a suggerire di pensare ad una coabitazione fra Draghi Presidente della Repubblica e Meloni Presidente del Consiglio. Meglio, certamente, dell’instabilità dei governi italiani e della creazione di maggioranze extra-large. Ciò detto, il discorso sul semipresidenzialismo non finisce qui, ma mi pare di averne almeno messo in chiaro gli assi portanti.
Pubblicato il 8 novembre 2021 su casadellacultura.it
VIDEO #tavolarotonda LIBERTÀ INUTILE Profilo ideologico dell’Italia repubblicana @UtetLibri @C_dellaCultura
Quando scelse la repubblica, il popolo italiano, appena uscito dalle rovine di una dittatura e di una guerra mondiale, affidò all’Assemblea costituente l’impegnativo compito, condiviso da tutti (o quasi), di costruire un paese migliore. Ma la repubblica che ne è uscita è stata all’altezza di quelle speranze?
Se lo chiedeva già Norberto Bobbio nel suo fondamentale Profilo ideologico del Novecento italiano, fermandosi però sulle soglie del 1968, e se lo chiede oggi Gianfranco Pasquino, raccogliendo l’eredità del grande filosofo torinese e provando a impostare nuovamente una riflessione che riesca a cogliere l’accidentato percorso della nostra mutevole e inquieta storia repubblicana.
A partire dalle fondamenta costituzionali, Pasquino sismografa gli smottamenti culturali, gli umori e i contrasti che, di decennio in decennio, hanno attraversato la nazione e coinvolto i suoi protagonisti. Così ci immergiamo nelle contraddizioni delle tre grandi culture politiche del Novecento: il liberalismo, fondamentale durante la Resistenza e sminuito nella ricostruzione del dopoguerra; il comunismo, lacerato all’interno dal dibattito fra i desideri di riformismo parlamentare e le pulsioni semirivoluzionarie, negli anni caldi delle contestazioni di piazza; l’area democristiana, appesantita dal troppo potere politico, economico e sociale accumulato senza controlli, fino alla resa dei conti di Tangentopoli.
E poi ancora i mutamenti delle stagioni recenti: la personalizzazione della politica propiziata dal berlusconismo e l’affermarsi di nuove culture che strizzano l’occhio all’antipolitica e al populismo.
Il quadro che ne viene fuori è un’inedita biografia della nazione: un paese di passioni ideologiche ed enormi contraddizioni, in cui le fortune dei leader durano il tempo di una stagione. E allora, attraversando le riflessioni di Pareto, Calamandrei, Gramsci, Sartori, prende forma il dubbio di Pasquino: la democrazia italiana ha disatteso le promesse costituzionali? Quella conquistata con tanta fatica è stata forse una Libertà inutile?
Mercoledì 26 maggio 2021 ore 21 Tavola rotonda a partire dal libro |
Gianfranco Pasquino LIBERTÀ INUTILE Profilo ideologico dell’Italia repubblicana (UTET, 2021) Dialogano con l’autore Ferruccio Capelli Anna Falcone Mario Ricciardi |
LIBERTÀ INUTILE Profilo ideologico dell’Italia repubblicana #webinar #26maggio @C_dellaCultura @Fer_Capelli @annafalc @marioricciard18
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Mercoledì 26 maggio 2021 ore 21 Tavola rotonda a partire dal libro |
Gianfranco Pasquino LIBERTÀ INUTILE Profilo ideologico dell’Italia repubblicana (UTET, 2021) Dialogano con l’autore Ferruccio Capelli Anna Falcone Mario Ricciardi |

La governabilità fra 10, Downing Street e Westminster #recensione Storia costituzionale del Regno Unito attraverso i Primi ministri
Alessandro Torre, Storia costituzionale del Regno Unito attraverso i Primi ministri, (Milano, Wolters Kluwer, 2020)
Ho sempre pensato e regolarmente insegnato che il Primo ministro inglese è il capo di governo più “forte” di tutti regimi democratici, comprese le repubbliche presidenziali. Più forte perché è in grado di tradurre le promesse elettorali sue e del suo partito con la massima fedeltà in politiche pubbliche, poiché è effettivamente, come ha scritto Max Weber, il “dittatore del campo di battaglia parlamentare” e dal Parlamento e con il Parlamento guida il suo paese. Almeno a partire dall’inizio del secolo scorso, è davvero forte perché diventa Primo ministro chi è capo del partito che ha (conquistato) la maggioranza assoluta dei seggi alla Camera dei Comuni. Ciascuno dei parlamentari di maggioranza è ampiamente consapevole che se il “suo” governo funziona in maniera apprezzabile, le sue chances di essere rieletto rimarranno (molto) buone. Quindi, quel parlamentare sosterrà il governo e il Primo ministro nell’attuazione del programma, della party platform, che il suo partito ha presentato agli elettori ritenendo, per lo più correttamente, che gli elettori abbiano dato loro il mandato di attuarlo. Pertanto, il Primo ministro, il suo Cabinet composto dai senior Ministers, la sua compagine di governo, i parlamentari del partito di maggioranza hanno non soltanto il diritto istituzionale di tradurre le promesse elettorali in politiche pubbliche. Hanno anche il dovere politico di farlo. Dal canto loro, i parlamentari di maggioranza hanno la facoltà di dissentire esclusivamente su materie che attengono a loro profondi convincimenti (ma anche alle preferenze, almeno come le conoscono, proprio del loro collegio) che debbono, ogniqualvolta appaia necessario, giustificare e spiegare ai colleghi parlamentari, al Primo ministro e, naturalmente, agli elettori, in particolare, ma non soltanto, a quelli del loro collegio. I parlamentari di maggioranza sono tenuti ad accettare, con più o meno preoccupazione, lo scioglimento della Camera quando lo deciderà il Primo ministro poiché ritengono e sperano che il Primo ministro abbia fatto bene i suoi conti, con riferimento all’attuazione/esaurimento del programma, alla popolarità del governo, ai sondaggi. Tutto questo nella sua talvolta ingannevole linearità e nei molteplici elementi di discrezionalità, mi è sempre apparso affascinante. Coerentemente, ho pensato che imporre per legge che la legislatura durasse cinque anni, come fece la coalizione Conservatori-LiberalDemocratici all’inizio della loro fase di governo nel 2010, significasse un irrigidimento dannoso contro una prassi che garantiva invece positiva flessibilità (alla quale, in parte, sono già tornati). Questo modello costituzionale inglese che ho descritto a grandi linee è in larga misura non imitabile. Tuttavia, è stato esportato e ha finora funzionato più che soddisfacentemente laddove esiste una cultura politica “anglosassone”: Australia, Canada, Nuova Zelanda e in alcuni paesi dei Caraibi. Si è sviluppato nel tempo anche, forse, soprattutto, accompagnando l’evoluzione della figura del Primo ministro che è, da qualsiasi prospettiva lo si guardi, centrale e cruciale. Pertanto, apprezzo molto l’idea portante di quanto ha organizzato e inteso fare Alessandro Torre in un densissimo importante volume: ripercorrere la Storia costituzionale del Regno Unito attraverso i Primi ministri (Milano, Wolters Kluwer, 2020). Ne è risultata un’opera straordinaria che consta di 1210 pagine di cui non esiste l’eguale nella letteratura in materia. È una storia lunga che Torre fa cominciare con Robert Walpole, intitolando il capitolo da lui stesso scritto “Nascita e formazione di un Primo ministro”. Walpole è stato colui che plasmò la carica da lui ottenuta anche grazie al fatto che la occupò per ben ventuno anni, dal 1721 al 1742, più di qualunque altro Primo ministro dopo di lui. Finora di Primi ministri ce ne sono stati, in tutto, cinquantacinque. I lettori e gli autori mi scuseranno, dunque, se non recensirò/discuterò approfonditamente nessuno dei capitoli, cercando, invece, di mettere in rilievo i punti nodali e le trasformazioni intervenute nel tempo, mirando a dare un senso alla storia complessiva. In parte, l’operazione cui mi accingo è svolta efficacemente da Angus Hawkins nella sua introduzione intitolata The Office of Prime Minister. È una storia che si dipana nell’ambito di una Costituzione che è “scritta”, sostiene Hawkins, ma “non codificata”. La si trova in qualche modo scritta nelle tradizioni, nei precedenti, nelle sentenze della magistratura, negli Atti del Parlamento, nonché, naturalmente, nei comportamenti dei Primi ministri. Esiste un consenso abbastanza ampio fra gli studiosi del Primo ministro che, in effetti, la carica è, nelle parole di Herbert Henry Asquith, Primo ministro liberale dal 1908 al 1916 (l’apposito capitolo è opera di Paola Piciacchia), “quello che il suo detentore sceglie ed è capace di farne”. Questa affermazione, da un lato, suggerisce che il Primo ministro ha una grande discrezionalità nella sua interpretazione del ruolo; dall’altro, scoraggia dal tentare una comparazione fra i 55 Primi ministri presentati nel libro. Personalmente, sono, in larga misura, d’accordo con l’esistenza di notevoli opportunità per il Primo ministro di esercitare il suo ruolo, ma è innegabile che esistano dei limiti, delle costrizioni, delle restrizioni e che, nel corso del tempo, vi siano stati cambiamenti significativi a cominciare dal contesto. Il declino del potere della monarchia è uno di questi cambiamenti “epocali”. La comparsa di partiti organizzati è il secondo cambiamento, mentre il terzo discende dall’aumento dell’importanza dei mass media, della comunicazione politica. Le difficoltà della comparazione non mi scoraggiano, ma certo costituiscono una sfida che accetto sapendo, però, che è possibile fare molto di più. Noterò criticamente che il curatore avrebbe dovuto chiedere agli autori di offrire in maniera sistematica alcuni dati aderendo ad un template. Mi limito ad alcuni esempi: età di elezione alla camera dei Comuni; età di ascesa alla carica di Primo ministro; durata in carica. Tutti i primi ministri sono stati parlamentari, per lo più alla Camera dei Comuni. Nel caso di Douglas Home, 1963-1964 (capitolo di Giulia Aravantinou Leonidi) dovette rinunciare al titolo di Lord. Tutti i Primi ministri hanno ricoperto la carica di Ministro prima di diventare l’inquilino di 10 Downing Street, ad eccezione di Tony Blair (1997-2007, dal 1983, anno della sua prima elezione, il Labour Party fu confinato all’opposizione fino alla sua vittoria nel 1997), quindi, giungevano a guidare il governo almeno relativamente preparati. Tutti o quasi, ma qui azzardo, erano i capi dei rispettivi partiti. Non più di un quarto di loro ha guidato più governi. Credo sia giusto menzionare i più famosi Pitt il Giovane, 1783-1801, 1804-1806 (capitolo di Marina Calamo Specchia); Henry John Temple, più noto come Lord Palmerston, 1855-1858, 1859-1865; Benjamin Disraeli, 1868, 1874-1880 (capitolo di Miryam Jacometti); William Gladstone 1868-1874, 1880-1885, 1886, 1892-1894 (capitolo di Claudio Martinelli); Stanley Baldwin, 1923-1924, 1924-1929, 1935-1937 (capitolo di Davide Rossi); Winston Churchill, 1940-1945, 1951-1955 (capitolo di Carlo Fusaro); Harold Wilson, 1964-1970, 1974-1976 (capitolo di Francesca Rosa), fino ai casi molto noti di Margaret Thatcher, 1979.1983, 1983-1987, 1987-1990 (capitolo di Ginevra Cerrina Feroni) e Tony Blair, 1997-2001, 2001-2005, 2005-2007 ( capitolo di Francesco Clementi). Da questo elenco trarrei una sola conclusione che mi sembra abbastanza fondata e plausibile. A periodi di continuità nella carica fanno seguito periodi nei quali i Primi ministri cambiano spesso. Questi cambiamenti sono, ovviamente, dovuti ai risultati elettorali, ma spesso il cattivo esito delle elezioni è anche il prodotto delle divisioni/lacerazioni all’interno dei singoli partiti. Leggendo i vari profili mi sono spesso chiesto se non fosse utile cercare di giungere ad una valutazione complessiva dei Primi ministri. Wikipedia mi ha offerto una pluralità di fonti e di tabelle. Ne esiste anche una contenente la valutazione di tutti i Primi ministri a partire da Walpole. Ho preferito guardare ai Primi ministri del dopoguerra e alla Tabella costruita nel 2016 da un gruppo di ricercatori dell’Università di Leeds sulla base delle risposte di 82 docenti britannici specialisti di storia e politica inglese nel secondo dopoguerra. La Tabella non richiede una interpretazione raffinata, ma è importante segnalare come il primo posto sia occupato dal laburista Clement Attlee che guidò un solo governo, avendo sconfitto Winston Churchill, pure l’artefice della vittoriosa resistenza contro Hitler. Nel sottotitolo del suo capitolo dedicato a Attlee, Salvatore Bonfiglio lo definisce The “Unorthodox”. Mi pare ci sia molto di più: una carriera politica, doti di negoziatore e persuasore, capacità di fare funzionare il Gabinetto, l’attuazione di un programma di respiro, ricostruzione e trasformazione. La classifica degli studiosi riconosce in Attlee non solo il miglior Primo ministro del dopoguerra, ma un grande uomo politico. Concludo facendo riferimento alle riflessioni di George W. Jones contenute in una conferenza del 2014 e pubblicate come conclusione del volume. Sono riflessioni dedicate in senso lato al problema della crescita dei poteri del Primo ministro, della cosiddetta più o meno intenzionale “presidenzializzazione” della sua carica, del suo ruolo. Sono riflessioni sagge e ricche di sfumature che sottolineano come il ruolo e il potere del Primo ministro inglese siano fluttuanti, dipendano dal contesto, dagli eventi, dalla popolarità e dalla composizione del governo, dal grado di successo o no delle politiche, dall’atteggiamento dei suoi ministri. Mettono in fortissimo dubbio che altrove, per esempio, in Italia dove se ne è dissennatamente e forsennatamente discusso, sia possibile costruire con qualche riformetta elettorale e qualche aggiuntina di poteri un Premierato “forte”. Implicitamente respingendo la tesi della presidenzializzazione, Jones conclude che “al di sopra di tutto il Primo ministro risulta potente tanto quanto lo lasciano essere i colleghi di governo”. È la lezione da apprendere dai duecentocinquanta anni di questa utile e efficace storia costituzionale del Regno Unito attraverso i suoi protagonisti: i Primi ministri. Pubblicato il 9 maggio 2020 su casadellacultura.it |
VIDEO Quale futuro per la Democrazia?
Nel futuro la democrazia non potrà perdere la sua caratteristica fondante: il potere del popolo. La declinerà con autorità legittimate dal voto e dalle regole e con cittadini/e infomati/e partecipanti. Forse qualcosa di più, sicuramente niente di meno.
Intervento alla Casa della Cultura di Milano IN OCCASIONE DEI 73 ANNI DALLA FONDAZIONE DELLA CASA DELLA CULTURA Tavola rotonda
Le trasformazioni che stanno investendo il sistema democratico provocano crisi nella democrazia o la crisi della democrazia?
QUALE FUTURO PER LA DEMOCRAZIA?con Ferruccio Capelli, Carmen Leccardi, Valerio Onida, Gianfranco Pasquino, Mario Ricciardi, Salvatore Veca
INVITO Quale futuro per la Democrazia? #CasaCulturaMilano #15marzo #73° @C_dellaCultura
A 73 ANNI DALLA FONDAZIONE DELLA CASA DELLA CULTURA
Le trasformazioni che stanno investendo il sistema democratico provocano crisi nella democrazia o la crisi della democrazia?
QUALE FUTURO PER LA DEMOCRAZIA?
ne discutono:
Ferruccio Capelli
Carmen Leccardi
Valerio Onida
Gianfranco Pasquino
Mario Ricciardi
Salvatore Veca.
seguirà rinfresco
Venerdì 15 marzo 2019 ore 17.30
In via Borgogna,3 Milano
Il populismo nel cuore (delle democrazie)
Nessuna nostalgia per il passato, nessuna paura per il futuro. Capire il presente per costruire il futuro. Queste sono le due considerazioni che hanno guidato la mia lettura del denso, stimolante, efficace volume di Ferruccio Capelli, Il futuro addosso. L’incertezza, la paura e il farmaco populista (Milano, Guerini e Associati, 2018). Ho anche pensato che il presente è il prodotto del passato, di scelte, errori e responsabilità personali che bisogna individuare e criticare, superare. Differentemente da Capelli, credo che il presente non sia tutto populismo. È molto diversificato, non ha bisogno del “farmaco” populista, ma di politica e già contiene non pochi anticorpi che debbono e possono essere sollecitati. La grande trasformazione degli ultimi trent’anni è stata innescata, secondo Capelli, da due possenti motori: la globalizzazione (finanziaria e delle comunicazioni) e l’innovazione tecnologica. È stata giustificata e sostenuta dall’ideologia neo-liberale. Si è manifestata in tre ambiti, ovvero secondo tre modalità: la disintermediazione, la solitudine (involontaria) e lo spaesamento (culturale). L’esito complessivo è stato quello di aprire grandi spazi – vere e proprie praterie – alle incursioni populiste. Il populismo, o meglio, i populisti offrono una risposta che definirò ricompositiva: mettono insieme il loro popolo (gli altri, quelli che non ci stanno a farsi mettere insieme e continuano a essere molti, si meritano la definizione di “nemici del popolo” e come tali sono trattati), lo utilizzano contro le élite (l’establishment che Capelli sembra identificare con i potenti che si riuniscono a Davos, con coloro che definisce il “Senato virtuale”, ma – di volta in volta – bisognerebbe specificare quale sia loro presenza e influenza dentro ciascun sistema politico e coglierne anche le contraddizioni), applicando politiche escludenti. Nazionalisti, forse, sovranisti di sicuro, quasi tutti i populisti, anzi, le élite (!) populiste appartengono a un passato del quale, però, non rivelano particolare nostalgia, tranne quella per un’omogeneità etnica, sicuramente non più recuperabile.
Disintermediazione vuole dire, secondo Capelli – e sono d’accordo – la scomparsa di capacità associative e, al tempo stesso, l’indebolimento di tutte le associazioni intermedie che avevano costituito il tessuto connettivo dei processi di democratizzazione e di consolidamento delle democrazie. A sostegno di ciò potrei citare alcuni importanti politologi che hanno scritto e argomentato che le democrazie sono inconcepibili senza partiti. Preferisco ricordare che – secondo Palmiro Togliatti – i partiti sono “la democrazia che si organizza”. Giustamente, Capelli chiama in causa Alexis de Tocqueville e il suo elogio con sorprese delle propensioni associative degli americani, forse sottovalutando il pericolo del conformismo che l’aristocratico francese intravedeva in democrazie basate sull’uguaglianza di condizioni. Sotto dirò di più su uguaglianza e disuguaglianze.
Certo, la solitudine non conduce a interesse politico, a partecipazione politica, a solidarietà. La folla solitaria del sociologo americano David Riesman, pubblicato nel 1950, con un sottotitolo rivelatore: A study of the changing American character, precede di quasi cinquant’anni il – forse triste forse no – “andare a giocare a bowling da soli” (ossia senza una squadra di amici), best seller di Robert Putnam relativo al capitale sociale, vale a dire alle reti di rapporti sociali e affettivi che rendono la vita migliore. Naturalmente un conto è rimanere/ritrovarsi soli, un conto è il volere essere soli e non curarsene poiché si è convinti di possedere le risorse intellettuali, culturali, professionali per cavarsela senza l’aiuto di nessuno e per attivarsi esclusivamente con l’obiettivo di proteggere e promuovere i propri interessi. Sono i “post-materialisti” intelligentemente individuati e studiati da Ronald Inglehart, prodotti e produttori di una rivoluzione silenziosa nei costumi e nei comportamenti.
“Lo spaesamento del cittadino, senza mediazioni e senza cornici culturali, è un altro volto della solitudine dell’uomo [e della donna!] contemporaneo. Egli è libero, svincolato dalle tradizioni e da vincoli predefiniti con gli altri esseri umani, ma l’esercizio della sua libertà si rivela quanto mai problematico” (p. 177). Nel 1941, il grande psicologo Erich Fromm colse nel desiderio di fuggire dalla libertà – ossia dalla necessità di scegliere e dalla corrispondente responsabilizzazione – una delle ragioni per le quali uomini e donne si assoggettarono ai fascismi e al nazismo. Oggi, forse, è il leader populista a offrire questa protezione dalla libertà che, però, il cittadino esercita “nella galassia infinita del mercato” (p. 117).
Dietro o intorno a tutto questo stanno, da un lato, l’irresistibile globalizzazione, cioè un processo forse ingovernabile, certamente non governato; dall’altro, la vittoria su tutta la linea, sostiene Capelli, dell’ideologia neo-liberale. Le capacità di ciascuno e di tutti si misurano attraverso la competizione nei mercati. Il merito viene premiato. Gli sconfitti sono responsabili della loro condizione. Al massimo, lo Stato deve adempiere al compito di regolatore e valutatore. Non deve mai intervenire a favore di chicchessia, ma noi sappiamo – o forse no, sostiene Capelli – che esiste un Senato virtuale, fatto dai potenti in ciascun settore, che squilibra tutta la competizione e, quindi, che incide sugli esiti facendo diventare più ricchi i ricchi e più poveri i poveri. “Il populismo è il sintomo [sosterrei, piuttosto, che è l’esito] più evidente della crisi della politica ridotta nella stagione neoliberale a tecnica di adattamento al mercato e di gestione del contingente” (p. 150).
Secondo Capelli, il populismo indica “un umore, uno stile, una mentalità” (p. 165). È mia opinione, invece, che il populismo debba essere letto e analizzato come un modo, uno dei modi possibili di fare politica nelle democrazie (Orbán è certamente un populista, mentre Putin e Erdogan praticano modalità populiste, ma sono due capi di regimi autoritari, nel caso turco con una spruzzata di fondamentalismo islamico). Dirò di più. In tutte le democrazie è insita una “striscia” di populismo, nel caso italiano accompagnata e pervertita da un cocktail di antipartitismo, antiparlamentarismo e anti-politica. Nelle democrazie più disintermediate – solitarie e spaesate – quella striscia s’ingrossa e confluisce nelle organizzazioni populiste. Non tutto quello che in politica non ci piace è populismo, ma il populismo non può piacere a chi ritiene che la democrazia abbia forme e limiti nei quali si esprime il popolo, funzioni tenendo conto di freni e di contrappesi, protegga e promuova diritti di tutti, delle minoranze di vario tipo, delle opposizioni. Ciò detto, non concordo con Capelli su un altro punto rilevante. La democrazia non ha mai promesso eguaglianza, meno che mai eguaglianza economica (né uguale soddisfacimento di aspettative, preferenze, obiettivi, bisogni). Sartori ha scritto che democrazia è soltanto, ma è moltissimo, isonomia: eguaglianza di fronte alla legge. Dal canto mio, sosterrò che la democrazia promette al popolo (demos) che potrà esercitare potere (kratos), nulla di più. Quel popolo e i singoli cittadini otterranno/eserciteranno influenza sulle decisioni politiche in base alla loro capacità di organizzarsi e di convincere – di volta in volta – le maggioranze. Quel popolo e i singoli cittadini hanno spesso chiesto uguaglianze (plurale) di opportunità e le socialdemocrazie sono spesso riuscite a dare e ridare quelle eguaglianze. Non ho qui lo spazio per indagare se la promessa di eguaglianze di opportunità non possa essere riproposta opportunamente riformulata.
Sostiene Capelli che la crisi della democrazia contemporanea dipenda da un elemento specifico: “mai tante promesse di eguaglianza e mai tante disuguaglianze”. Non credo che sia così. La crisi affonda le radici proprio nei tre fattori da lui abilmente delineati all’inizio della sua analisi: disintermediazione, solitudine, spaesamento e in un quarto fattore da lui stesso accennato: il declino della rappresentanza politica. La soluzione sta in più democrazia, ma sicuramente nient’affatto in quella proclamata come “uno vale uno” (incidentalmente, in nessun ambito uno vale uno) che fa tutt’uno di masse disintermediate che si affannano ad osannare (qualc)uno. Più democrazia non significa neppure che tutte le decisioni di qualsiasi genere debbano essere sottoposte sempre a votazioni popolari attraverso Internet. Significa, invece, che è diventato imperativo esplorare tutte le potenzialità della democrazia deliberativa, delle modalità di istruzione di una decisione, di discussione di un problema, di diffusione delle conoscenze, di apprendimento, di coinvolgimento della cittadinanza fino alla decisione motivata. Qui s’incrociano la politica (“tutte le cose che succedono nella polis”) e la democrazia (il potere dei cittadini sempre più istruiti in materia). No, il populismo non ha vinto e non vincerà. Altri futuri sono possibili.
Pubblicato il 22 febbraio 2019 su casadellacultura.it
Due libri sul #M5S: storia, struttura e sociologia politica di un movimento “pigliatutti”
Paolo Ceri e Francesca Veltri,
Il Movimento nella Rete. Storia e struttura del Movimento 5 Stelle,
Rosenberg&Sellier
Piergiorgio Corbetta
(a cura di),
M5s. Come cambia il partito di Grillo,
Il Mulino
Il Movimento Cinque Stelle ha, giustamente, attirato un’attenzione enorme da parte dei mass media e degli studiosi, italiani e stranieri. Ho letto molto in materia. Ho trovato cose buone e meno buone; cose originali e cose ripetitive; cose utili e cose inutili alla comprensione del Movimento; cose che mirano alla oggettività e cose che si (s)qualificano per la faziosità (quando sono gli studiosi ad essere faziosi, si mostrano “sottilmente” tali). Credo che il problema più importante non sia quello di classificare il Movimento in categorie a noi note, ma di comprenderne le origini, di collocarlo nel sistema politico e nella società italiana, di valutarne l’impatto e, nella misura del possibile, che potrebbe anche non essere scarsa, prevederne il futuro. In buona parte, questo è il lavoro svolto da Paolo Ceri e Francesca Veltri. Dirò un po’ pomposamente che il Movimento Cinque Stelle è un pezzo consistente dell’autobiografia della Repubblica italiana post- 1945 (preparata da qualche embrione precedente). Trova certamente un prodromo nel Fronte dell’Uomo Qualunque fondato nel 1944 dal commediografo e giornalista Guglielmo Giannini, durato meno di un decennio. Si alimenta non soltanto di critica della politica, ma di vera e propria antipolitica, a lungo nascosta e tenuta sotto controllo dai partiti italiani, soprattutto quelli di massa la cui scomparsa ha aperto la diga. È antipolitica non tanto colpire tutti i privilegi dei politici, tutte le loro sregolatezze senza genio nella gestione del potere e, nel nepotismo, tutti i loro scandali e i salvataggi reciproci dei coinvolti nel malgoverno e nel malaffare quanto pensare e agire come se la politica, in particolare, il ricoprire cariche elettive, fosse un’attività che chiunque, in qualsiasi luogo o in qualsiasi momento, possa svolgere. Insomma, sulla scia di un poco conosciuto Karl Marx, i “cittadini” delle Cinque Stelle vorrebbero credere e farci credere che possiamo fare a meno del “governo degli uomini sugli uomini” poiché con il loro ingresso in politica e in Parlamento, nonché nei governi locali, siamo quasi arrivati allo stadio della “amministrazione delle cose”. Poi, resuscitando Lenin, il bilancio dello Stato e degli enti locali non soltanto diventerà leggibile dalle cuoche, ma lo stileranno loro stesse. Sarà, finalmente un bilancio partecipato, “cucinato” attraverso il web da tutti gli aderenti in maniera assolutamente democratica: uno vale uno.
Prima di riflettere su questo punto, eguaglianza “sostanziale”?, approfondirlo e valutarlo, è opportuno sottolineare che, secondo non pochi studiosi e commentatori politici, il Movimento Cinque Stelle si caratterizza per essere soprattutto e anzitutto populista molto più che, semplicemente (e rozzamente) antipolitico. È Piergiorgio Corbetta che dà voce a questa interpretazione populista che contiene non pochi elementi convincenti. Ho due obiezioni e un suggerimento di tipo previsionale. La prima obiezione è che da qualche tempo un po’ dappertutto si eccede nel qualificare come populista tutto quello: stile, messaggio, contenuti, persone, che non ci piace e che vorremmo non esistesse e sparisse. Invece, bisognerebbe abituarsi a dare per scontato che nelle democrazie, in tutte le democrazie c’è sempre quella che chiamo una “striscia di populismo”. Le democrazie senza popolo sono una contraddizione in termini. Le democrazie con associazioni intermedie deboli e esitanti e con istituzioni di rappresentanza e di governo mal funzionanti aprono praterie all’ingresso dei populisti. È facilmente accertabile che dal momento del meritato crollo dei partiti tradizionali nel 1994 e dell’intero sistema partitico ad oggi l’Italia si trova in condizioni di grande vulnerabilità rispetto al populismo. La seconda obiezione all’uso del populismo classico come categoria interpretativa del Movimento Cinque Stelle va ricondotta a due specificità: da un lato, il fatto che di leader ce ne sono due, il fondatore, Beppe Grillo, e colui che chiamerei il gestore, ieri GianRoberto Casaleggio, oggi il figlio Davide; dall’altro, l’importanza della rete, del Web, mai così tanto cruciale nei rapporti fra il leader e i followers (qui, mi rifaccio al linguaggio dei “social”), laddove il populismo classico, ma anche quello più recente, di Berlusconi e di Bossi, mette l’accento sulla persona fisica del leader, sulla sua carne e le sue ossa, sull’uso evidente del corpo. Il suggerimento di tipo previsionale è che, fermo restando che il populismo si manifesta in corso d’opera, fino ad oggi tutti i movimenti populisti hanno mostrato un problema letale comune: non sopravvivono alla scomparsa del leader-fondatore. Da ultimo, questo è il caso, drammatico per le sue conseguenze sulla vita della popolazione del Venezuela, di Hugo Chavez il cui successore, Nicolàs Maduro, dimostra quotidianamente di non avere praticamente nessuna delle qualità che resero Chavez un populista esemplare (sic).
I due libri qui recensiti hanno taglio e intenti diversi. Ceri e Veltri sono interessati, come recita correttamente il sottotitolo, alla storia e alla struttura del Movimento 5 Stelle. I collaboratori del libro curato da Corbetta offrono, invece, complessivamente quella che chiamerei la sociologia politica del Movimento: presenza nelle istituzioni (Rinaldo Vignati); andamento elettorale (Pasquale Colloca e Andrea Marangoni); basi sociali (Andrea Pedrazzani e Luca Pinto); l’elettorato (Luca Comodo e Mattia Forni); i cambiamenti nell’organizzazione (Gianluca Passarelli, Filippo Tronconi e Dario Tuorto); le modalità di comunicazione (Lorenzo Mosca e Cristian Vaccari). Non potendo sintetizzare nessuno degli articoli, operazione comunque difficilissima per il recensore e diseducativa per il lettore, mi limiterò a pescare nell’ampio e utile materiale messo a nostra disposizione quello che ritengo più rilevante per la comprensione del Movimento, quello che non si trova nei mass media e che, al contrario, gli operatori dei mass media dovrebbero conoscere, ricordare, utilizzare per non farsi sorprendere tutte le volte dagli avvenimenti che riguardano il Movimento.
Primo elemento molto importante: non siamo di fronte ad un’insorgenza subitanea che potrà essere facilmente assorbita. Le Cinque Stelle non sono un movimento flash che, nato ieri, morirà domani. Dieci anni di vita suggeriscono che la spinta propulsiva non si è affatto esaurita. Anzi, si è trasformata in crescita, in espansione, in radicamento. Secondo elemento: stando così le cose, mi sarebbe piaciuta una pluralità di approfondimenti, soprattutto da parte del sociologo Paolo Ceri (che giustamente si riferisce a due grandi classici: Robert Merton e C. Wright Mills), relativi alle possibilità e alle modalità di istituzionalizzazione del Movimento Cinque Stelle. Insieme alla sua co-autrice, Ceri preferisce condurci ad uno sbocco peraltro annunciato indirettamente già a p. 13: “le promesse mancate della democrazia diretta” (che è il titolo delle conclusioni) finiranno per condurre ad un nuovo “dispotismo”? Terzo elemento: curiosamente sia Ceri e Veltri sia Corbetta sembrano credere che il disvelamento del grande inganno “(non) democratico” delle Cinque Stelle espressosi al suo meglio nella frase di Grillo “fidatevi di me” (affermazione populista quant’altre mai) che sceglieva il candidato sindaco perdente per Genova, farà sgonfiare il Movimento, gli toglierà il vento dalle vele. Ho due obiezioni a queste aspettative. La prima la mutuo da Giovanni Sartori che sosteneva e continuerebbe a sostenere (anche se né Grillo né i suoi parlamentari riscuotevano il suo apprezzamento) che quello che conta nella competizione politico-elettorale non è la democrazia interna. Semmai è la democrazia/ticità nella competizione fra partiti.
Il partito è uno strumento che si organizza per conseguire obiettivi. Fintantoché li consegue nessuno metterà in discussione quanto avviene al suo interno né la scelta delle candidature né l’individuazione e accentuazione degli obiettivi programmatici né, tantomeno, la leadership. Il successo si autoalimenta. Le richieste di democrazia faranno la loro insorgenza a fronte di gravi fallimenti, non di piccole battute d’arresto. La seconda obiezione è che il Movimento non è nato su una spinta democraticista, ma, come ho già accennato, su una spinta antipolitica. Quindi, incontrerà delle difficoltà quando, per l’appunto, il vento dell’antipolitica si trasformerà in pochi lievi refoli. L’avvenimento in Italia appare alquanto improbabile (questo è davvero un understatement!). Gli attacchi basati sulla carenza di democrazia interna e sulla manipolazione lasciano il tempo che trovano anche perché i portatori di quegli attacchi non sono, per così dire, impeccabili, al di sopra di ogni sospetto. Affermare, come fa Corbetta, con molti buoni motivi, che il Movimento esprime “una visione in aperta contraddizione con la concezione liberale della democrazia” (p. 270) suscita subito l’interrogativo su chi sarebbero in Italia i portatori di una “concezione liberale della democrazia”, in rigoroso ordine alfabetico: Berlusconi, Bossi, Meloni, Renzi, Salvini, Verdini?
Insomma, è utile e importante sapere che il Movimento è diventato sociologicamente pigliatutti, vale a dire tutti gli elettori che può con una leggera prevalenza di quelli che altrimenti sceglierebbero le sinistre. Ha forti tratti populisti. Dovrà presto vedersela con le sue contraddizioni quanto ai rapporti ambigui intessuti con i mass media. Tuttavia, fintantoché la politica italiana sarà praticata da una maggioranza di carrieristi/e senza scrupoli e senza etica, da sedicenti riformatori che perseguono fini particolaristici e corporativi, da uomini e donne che galleggiano nei loro conflitti di interessi, da incompetenti che non sanno fare funzionare né le assemblee rappresentative né le compagini di governo, all’incirca il 30 per cento di coloro che vanno a votare continueranno a sostenere il Movimento Cinque Stelle. Pour cause.
Recensione pubblicata il 1 marzo 2018 su CasadellaCultura.it
VIDEO Europa, nonostante tutto, ancora in cammino #CasaCulturaMilano
Alessandro Cavalli, Lia Quartapelle e Gianfranco Pasquino
Venerdì 17 marzo 2017 ore 18
Casa della Cultura
via Borgogna, 3 Milano
in diretta diretta streaming sul sito casadellacultura.it
in occasione della presentazione del libro di Gianfranco Pasquino