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Rifare l’Ulivo … prima si riporti il timone a sinistra
Intervista raccolta da Francesco Lo Dico
Dopo il flop al referendum, il Nazareno è in piena fibrillazione. Lungo la faglia del sisma del 4 dicembre, i maggiorenti del Pd misurano oggi la distanza che separa la segreteria democrat dalle istanze giovanili e dalle tante, troppe periferie del Paese. Sicché, ha destato umori contrastanti la proposta dell’ex sindaco di Milano, Giuliano Pisapia. Il quale guarda al “soccorso rosso della sinistra, senza trattino, come alla soluzione per restituire un orizzonte politico credibile a quel centro sinistra renziano, via via scivolato verso il Partito della Nazione, sulla spinta del celebre 40 per cento raccolto alle Europee.
La voglia di inumare di nuovo il seme dell’Ulivo nel campo del Pd, è insomma tanta, e ha trovato anche ieri in queste pagine la solidarietà di Cesare Damiano “Ma reinnestare l’Ulivo nello schema del Nazareno renziano, è un’operazione destinata allo smacco”, riflette Gianfranco Pasquino. “Pensare di restaurare l’antico quadro d’azione messo in atto nel’96 – ragiona il professore di Scienze politiche all’Università di Bologna – è in questo momento semplicemente surreale”.
Il voto sembra avvicinarsi a grandi passi professore. Troppo poco tempo per ragionare su uno schema di centrosinistra, come quello realizzato ormai 20 anni fa?
Ho sentito Prodi sostenere che il parroco non torna mai nella stessa chiesa dove diceva messa. E d’altra parte, della parrocchia dell’Ulivo in molti hanno detto di non aver più bisogno. Lo ha ribadito anche Parisi: dell’Ulivo non c’era più bisogno, perché l’Ulivo era diventato il Pd. Ora invece si invoca un ritorno all’antico. Francamente non capisco, credo che al Nazareno più di qualcuno sia frastornato.
Dopo il 40% delle europee, si pensava all’autosufficienza. Comunali e referendum hanno evidenziato che viviamo in uno schema tripolare.
Quello dell’autosufficienza è stato un mito coltivato senza fortuna. Non esiste partito d’Europa che può ambire a tanto, eccezion fatta per la Gran Bretagna che conta su caratteristiche peculiari. Il Pd sperava di appoggiarsi all’Italicum del doppio turno e del premio di maggioranza per regalarsi l’autarchia. Ma nella realtà dei fatti ha dovuto imbarcare Verdini e i centristi di Ncd per governare, salvo poi scoprire man mano che aveva spianato la strada all’autosufficienza degli altri, i grillini.
C’è da preparare il futuro, in un modo o nell’altro. Il Pd deve guardare al modello Pisapia per ripartire?
Mi incuriosisce la sua apertura. Aveva fatto sapere che era stanco, e non sentiva di avere forze adeguate per un secondo mandato a Milano. Salvo ora aver ritrovato energie per tentare di rimettere insieme le forze a sinistra del Pd. Se il tentativo possa funzionare, lo si potrà desumere soltanto dai termini dell’eventuale accordo individuato. Ma la cosa certa è che se si fa del mondo a sinistra del Pd, una sorta di sidecar per tentare di imbarcare qualche voto in più, l’operazione è destinata al fallimento.
Quali sarebbero le precondizioni per fare funzionare il progetto?
Innanzitutto il tempo e la riflessione. Inutile precipitare la data del voto, se non si comprende in quale direzione andare, e come invertire la rotta. Occorre tracciare una mappa precisa, prima di fare un lungo viaggio: comprendere quali politiche attuare per ridurre le diseguaglianze e far ripartire lo sviluppo,ad esempio.
Renzi e gli altri spingono per il voto. L’impulsività della politica nuoce alla politica?
Il premier contava di realizzare il Partito della Nazione, convinto di ancorare il partito al centro invece che a sinistra. Non è andata bene. E ha detto che se avesse perso il referendum, avrebbe lasciato la politica. Non voglio sostenere che dopo dieci anni il Pd debba ricominciare da zero. Ma che debba ripensare se stesso, certamente sì. Specie nell’ottica di riaccreditarsi come una forza di centrosinistra.
Per resuscitare l’Ulivo, serve quindi un cambio della guardia al Nazareno?
Non c’è alcun dubbio. Occorre una nuova leadership che guardi a sinistra, se si pensa che la soluzione sia a sinistra. Il Pd dovrebbe individuare per la guida del Paese, da qui alle elezioni, una figura da testare sul campo e sulla quale puntare eventualmente anche per le politiche. Un uomo capace di ridare voce e spazio agli altri, nell’ottica di una leadership inclusiva che si riconcili con tutte le anime della sinistra, e soprattutto con il Paese.
Pubblicato il 9 dicembre 2016
Brancaleone e il “no” che risuona argentino
di Gianfranco Pasquino e Marco Valbruzzi
Messo da parte, almeno temporaneamente, l’elisir plebiscitario al quale quasi tutti i sostenitori del “sì” si sono abbeverati, adesso la discussione è tornata sul merito. Almeno così affermano i corifei del “sì”. Dopo che Giorgio Napolitano, seppure molto tardivamente, ha denunciato in maniera felpatissima la propaganda di Renzi, caratterizzata “forse, da un eccesso di personalizzazione politica”, i sostenitori del disegno di revisione costituzionale hanno beatificato il loro statista Renzi perché – udite udite – si è corretto. Pazzesco. Vedremo fino a quando. Ancora inebriati da quel potente elisir, o forse ricordando un esemplare articolo, definibile solo come character assassination, scritto da una coppia di professori di scienza politica a Bologna, Sergio Fabbrini cerca, ricorrendo a qualche mediocre sarcasmo, di fare di meglio. Scopre che i sostenitori del “no” sono un’Armata Brancaleone (quale originalità!). Continuando la discussione sul merito, scrive, ma non è il primo, che i “no” sono degli irresponsabili anti-italiani che non hanno fatto nulla di buono nel passato e che scasserebbero il paese se vincessero. Della stupefacente omogeneità dello schieramento del Sì (Il Foglio e Civiltà Cattolica, il Corriere e Il Sole 24 Ore, la Confindustria e i suoi pregevoli algoritmi, Arturo Parisi e Denis Verdini, Marcello Pera e Cesare Damiano, con la ciliegina di JP Morgan sulla quale vale la pena di soffermarsi) nulla ci dice il professore della LUISS. Pazienza.
Il merito, come hanno capito prima di tutti i notissimi professoroni della JP Morgan, riguarda la trasformazione delle Costituzioni socialiste dell’Europa meridionale. Cestinarle, dicono quei professoroni anonimi, senza curarsi del punto, effettivamente di merito, che nell’Assemblea Costituente italiana c’erano fior fiore di liberali, repubblicani, azionisti e socialisti né catto né comunisti. Naturalmente, sempre restando sul merito, ridimensionare il Senato (ma i comunisti volevano il monocameralismo: che non abbiano vinto allora, ma stiano per vincere adesso?), abolire il CNEL, introdurre qualche referendino in più, accentrare poteri nello Stato (ma non erano i comunisti quelli che miravano all’accentramento del potere politico?), è inoppugnabile che le riforme renzian-boschiane faranno diventare la Costituzione italiana un moderno palinsesto liberista applaudibile anche dall’allarmato/ista Ufficio Studi della Confindustria. Però, chiedere politiche keynesiane all’Unione Europea proponendo come vessillo una riforma sedicente liberista appare non propriamente convincente. Comunque, vorremmo fare sapere a JP Morgan che ha sbagliato bersaglio: il cattocomunismo non sta nella seconda parte della Costituzione, ma nella prima. Sono i diritti civili, politici e sociali, che Renzi e i suoi giurano di non toccare, la vera eredità del cattocomunismo, ovvero, meglio dell’elaborazione ampia e pluralista, condivisa dai nove decimi dell’Assemblea, che ha portato alla Costituzione italiana.
Non è chiaro in quale dei molti testi da lui compulsati, il Fabbrini abbia scoperto le ambizioni che lui attribuisce al molto composito schieramento del “no”: dare vita a un nuovo governo. Non è affatto così. Il NO vuole sconfiggere riforme di bassissimo profilo, ma dannose, che produrrebbero conseguenze molto negative sul funzionamento del sistema politico italiano e che inquinerebbero la vita politica italiana per anni e anni. Il “no” pensa che non esiste nessun uomo della provvidenza né oggi né domani e che il Parlamento italiano, se Renzi e i suoi non si metteranno di traverso (pazzesco), è in grado di dare vita a un nuovo governo a guida legittimamente espressa dal partito che ha la maggioranza parlamentare, il PD. Anche questo è il merito.
Infine, è sempre utile ricordare a tutti, soprattutto agli ulivisti della prima e della seconda ora, che da questo progetto di revisione costituzionale non emergerà alcuna fantomatica “democrazia governante” né, tantomeno, una democrazia maggioritaria e competitiva. Non saranno le elite negative, per di più argentine, evocate da Fabbrini, a riproporre un ritorno all’Italia proporzionalista. Anche perché questo nostalgico ritorno al passato lo dobbiamo, da ultimo, alle giovani élite fiorentine che, in compagnia dei loro gigli magici, hanno approvato una legge elettorale di ispirazione e stampo proporzionalista, che garantirà diritto di tribuna e di veto anche alle più piccole minoranze, disponibili (loro sì!) alla consociazione appena la maggioranza di turno darà segni di cedimento. Col “sì” si chiude la transizione istituzionale italiana riportando indietro le lancette dell’orologio di oltre venti anni. Col “no” si tiene aperta la porta a riforme migliori, provando a restituire al cittadino lo scettro e il fischietto (nostro omaggio a Roberto Ruffilli e al suo libro Il cittadino come arbitro).
Pubblicato il 21 ottobre 2016 su il Mulino online