Home » Posts tagged 'Cgil'

Tag Archives: Cgil

Al fronte del sì serve più unità e leadership @DomaniGiornale

A fronte di “dure difficoltà”, sconfitte elettorali comprese (quella, brutta, dei cinque referendum lo è), chi ha vocazione per la politica, risponde con le parole di Max Weber: “Non importa, continuiamo!” Però, affinché lo “squoraggiamento” non diventi fenomeno diffuso e paralizzante s’impone l’obbligo di un’analisi realistica della situazione in grado di indicare prospettive percorribili. Sbagliato è sostenere che nei referendum sul lavoro (e sulla cittadinanza) si è manifestata una qualsivoglia crisi della democrazia. Al contrario, milioni di italiani hanno fatto uso di uno strumento proprio della democrazia, il referendum abrogativo, che contempla il non voto come modalità per incidere sull’esito. Il problema, semmai, consiste nel prendere atto che nella struttura sociale del paese, già da qualche tempo, i lavoratori dipendenti sono una, per quanto non trascurabile, minoranza. Né i quesiti né i loro sostenitori né la campagna elettorale sono stati in grado di convincere i moltissimi lavoratori autonomi a sostenere una pur nobile battaglia in grado di dare vita a una coalizione sociale e politica potenzialmente maggioritaria.

   Certo, nei referendum le poste in gioco possono essere molte, al di là degli specifici quesiti. Cercare di coinvolgere il governo di destra quasi fosse possibile sfiduciarlo dandogli una spallata è stato fin da subito un errore, comunque, non la modalità giusta per portare elettori aggiuntivi alle urne.  Al contrario, potrebbe avere convinto i sostenitori di quel governo a starsene comodamente e efficacemente a casa.

Gli elettori meritano sempre rispetto. Hanno mostrato interesse per il referendum. Si sono informati e hanno scelto con la loro cognizione di causa, come dimostrano i “no” al quesito inteso a rendere più facile il conseguimento della cittadinanza italiana. La loro affluenza alle urne ha implicato qualche costo in termini di tempo e di energie, forse anche di spese. Meglio, sempre, a mio parere, gli elettori che partecipano degli astensionisti. Il rispetto per i votanti non significa affatto che debbano, in questa circostanza, contare di più dei non votanti consapevoli. Di più, il rispetto anche degli elettori che hanno preferito non votare non implica affatto che commentatori, politici, gli altri cittadini debbano astenersi dal criticarli sul modo e sulla sostanza. Insistere sull’obiettivo di una democrazia partecipata è raccomandabile e positivo.

   Magari i politici del “sì” e i sindacalisti potrebbero utilmente interrogarsi sui loro errori di comunicazione e sulle loro inadeguatezze di mobilitazione. Per fare tornare i conti, anzi, per migliorarli, non sarà sufficiente concordare con Weber e continuare le battaglie senza cambiare molto. Costruire una coalizione politica potenzialmente maggioritaria richiede l’individuazione dei settori sociali ai quali mandare una pluralità di messaggi che spieghino in cosa quella coalizione non soltanto differisce, ma è preferibile al governo in carica. Esige visibile coesione di intenti e non prese di distanza furbesche e frequenti. Per lo più gli elettorati democratici preferiscono la stabilità a qualsiasi prospettiva di ricambio che si presenti all’insegna dell’incertezza e del conflitto.

Max Weber ricorderebbe a tutti quanto importante, mediaticamente e politica, è la leadership. Senza controproducenti ipocrisie è tempo di riconoscere che Meloni ha saputo esaltare il suo profilo di leader, di partito e di governo, anche nella sceneggiata minore della visita al suo seggio elettorale. I contenuti, ovvero, le priorità programmatiche, continueranno a contare, ma senza una leadership alternativa, credibile, emersa/scelta tempestivamente, per tempo, le opposizioni italiane non andranno da nessuna parte. Non riusciranno a ottenere il voto di quel 10 per cento circa che fa sempre la differenza in tutte le elezioni democratiche. Non perché gli elettori non le hanno capite, ma proprio perché, come e più che nel referendum, ne vedono le contraddizioni e le carenze.

Pubblicato il 11 giugno 2025 su Domani

Come battere l’astensione cronica sui referendum @DomaniGiornale

I riferimenti troppo frequenti, poco precisi e incompleti al referendum sulla preferenza unica del 9 giugno 1991 sono in parte inappropriati in parte inutili per illuminare tutte le problematiche concernenti i prossimi referendum, per brevità, sul lavoro e sulla cittadinanza. Apparentemente faccenda puramente tecnica, il referendum sulla preferenza unica colpiva il sistema di potere, in particolare democristiano, che si era costruito sulle “cordate” di parlamentari e sulle loro correnti. Era anche il grimaldello per una riforma più incisiva delle leggi elettorali proporzionali, come subito capì Giuliano Amato, vicesegretario del Partito Socialista Italiano, che cercò di bloccarla sul nascere dichiarando incostituzionalissimi i referendum elettorali. Gli inviti all’astensione vennero, certo sulla scia di Craxi e del suo andare al mare quella domenica (peraltro al Nord il tempo non fu buono), ma anche da altri leader politici come Bossi che dichiarò che avrebbe fatto una lunga passeggiata nei boschi padani, da De Mita che sarebbe rimasto a casa a giocare a carte, e, a proposito delle autorità istituzionali, dal democristiano Antonio Gava, Ministro degli Interni preposto ai procedimenti elettorali, che annunciò di trascorrere la domenica con gli “amici”. Quel 95 per cento dei 62,5 per cento di italiani che recatisi all’urne votò sì alla preferenza unica segnalarono non solo di volere una riforma elettorale che permettesse loro di scegliere i parlamentari, ma misero in evidenza quanto quella classe politica del pentapartito avesse perso contatto con la società.

I quattro quesiti referendari attuali sul lavoro invitano piuttosto a riflettere su un altro importantissimo referendum, per brevità, sul taglio della scala mobile (9-10 giugno 1985), molto controversa riforma voluta e ottenuta dal Presidente del Consiglio Bettino Craxi e molto contrastata dal segretario del Partito Comunista Italiano che volle il referendum appoggiato soltanto da una parte della CGIL, segretario generale Luciano Lama. Per qualche tempo, Craxi intrattenne l’idea di fare fallire il referendum chiamando l’elettorato all’astensione. Venne fortemente sollecitato in quel senso, è opportuno ricordarlo, dal leader radicale Marco Pannella. Alla fine decise di accettare la sfida che vinse (partecipazione 77,85 per cento, no all’abrogazione 54,3) mettendo in gioco la sua stessa carica. Un minuto dopo la eventuale vittoria degli abrogatori avrebbe lasciato la Presidenza del Consiglio. Una lezione di accountability, di accettazione di responsabilità politica e istituzionale seguita da Matteo Renzi nel 2016 e da segnalare a Giorgia Meloni quando il suo premierato arriverà al vaglio del referendum costituzionale.

Da queste esperienze discendono due importanti lezioni. Prima, se il contenuto politico della legge è effettivamente significativo gli elettori vanno alle urne. Seconda, nella misura in cui i partiti si attivano la partecipazione elettorale supera il quorum giustamente richiesto per abrogare leggi approvate da una maggioranza dei parlamentari.

Se il tasso di astensione fosse conseguenza del disagio, come troppi sbagliando ritengono, ai promotori del referendum basterebbe convincere i “disagiati” che l’abrogazione di alcune leggi sul lavoro migliorerà le loro condizioni di vita. Sappiamo che non è così poiché il tasso medio di astensionismo è cresciuto a livelli che i Costituenti non potevano neppure lontanamente immaginare. Parte non piccola di quell’astensionismo è cronica, strutturale, non recuperabile. Conferisce un vantaggio iniziale immeritato agli oppositori di qualsiasi quesito referendario. Esistono convincenti proposte per sterilizzare questo vantaggio e per premiare, invece, i cittadini che si interessano, si informano, partecipano. Queste proposte potrebbero essere utilmente esposte e dibattute anche durante l’attuale, un po’ sonnecchiante, campagna elettorale. Le strade della democrazia sono molte. Bisogna trovarle, aprirle, percorrerle.

Pubblicato il 21 maggio 2025 su Domani

Uno sciopero necessario, ma il sindacato deve combattere con modalità nuove @DomaniGiornale

Chiunque ritenga che è importante, doveroso, giusto migliorare le condizioni di lavoro e di vita dei lavoratori dipendenti è obbligato a chiedersi se lo sciopero e ancor più uno sciopero generale sia lo strumento più adeguato e efficace per conseguire l’obiettivo. CGIL e UIL hanno scelto come indicatore di successo l’alta adesione dei lavoratori, all’incirca il 70 per cento. Lamentando la non partecipazione allo sciopero della CISL, interpreto il dato come segno di una buona relazione identitaria fra i lavoratori e i due sindacati CGIL e UIL. Che sia stato anche conferito a Maurizio Landini il mandato di “rivoltare l’Italia come un calzino” mi pare più problematico sostenerlo. Se uno sciopero di questo genere venisse interpretato come la premessa, ancora nelle parole del segretario generale della CGIL, di una “rivolta sociale” di cui l’Italia avrebbe bisogno, sarei, certamente non da solo, molto preoccupato. Nessuna democrazia ha mai bisogno di una rivolta sociale, che è qualcosa da lasciare, forse auspicandola, ai regimi autoritari, ma con frasi come questa si alimentano illusioni che sfoceranno malamente in delusioni. Non è del tutto fuori luogo, in questi tempi di brutte guerre, ricordare con le parole di un grande sociologo, Alessandro Pizzorno, che negli anni settanta frange di terrorismo rosso furono espressione di un surplus di militanza anche sindacale.

Che lo sciopero è un diritto costituzionalmente previsto e garantito è persino fastidioso sentirlo ripetere da coloro che, poi, si affrettano ad aggiungere che deve svolgersi nel rispetto di alcuni criteri prestabiliti e soprattutto che va criticato quando è politico. In una (in)certa misura tutti gli scioperi, specialmente se generali, sono politici, vale a dire riguardano la polis, la comunità sociale e politica, e la coinvolgono. Infatti, quegli scioperi, come nel caso in discussione, sono indirizzati contro l’atto politico più importante di qualsiasi governo: la legge finanziaria che stabilisce l’assegnazione e la distribuzione delle risorse disponibili. Sbagliato, dunque, e irrilevante, criticare la politicità di uno sciopero generale. Più opportuno e molto più significativo metterne in evidenza la problematicità e le criticità.

Come molti sindacalisti sono da tempo acutamente consapevoli, lo sciopero generale è una ultima ratio. Dovrebbe essere attuato quasi esclusivamente quando tutte le altre modalità di azione e di intervento sono state esperite e sono state rigettate, per di più senza essere state prese in seria considerazione dal governo e dai suoi ministri e forse neppure dall’opposizione. Certo l’attuale governo non è propriamente amico dei sindacati e non particolarmente interessato ai lavoratori dipendenti. Molti sono i contratti di lavoro scaduti da tempo e non ancora rinnovati sui quali fare leva con la protesta e la proposta, dentro e fuori il parlamento. Quantomeno è ipotizzabile che i sindacati non abbiano saputo esercitare le pressioni più opportune sul ministro del lavoro mettendo in campo i loro rappresentanti e i loro consulenti. La pratica dell’obiettivo, vecchia, ma incisiva terminologia, è da riprendere in seria considerazione. Sicuramente, è meno luccicante dello sciopero, ma, altrettanto sicuramente, è più promettente. Consentirebbe di mettere in piena luce le inadempienze del governo, della Confindustria, dei datori di lavoro. Fornirebbe informazioni utili e abbondanti all’opinione pubblica. Potrebbe persino contribuire a reclutare nuovi iscritti che sentissero il sindacato più vicino ai loro interessi e alle loro necessità e condizioni di vita.

Opposizioni frammentate e, in verità, incapaci di andare oltre qualche proposta specifica, peraltro, assolutamente condivisibile, come il salario minimo, più fondi alla sanità e all’istruzione, non sanno offrire altro che una sponda acritica ai sindacati che, spesso, a loro volta, non sanno se e come interloquire con quelle opposizioni. Le opposizioni in Parlamento non sono certamente la cinghia di trasmissione di sindacati divisi anche sulle proposte. Ma qualche forma di interazione non occasionale e di coordinamento di proposte e di azioni è non solo auspicabile, ma fattibile purché perseguita nella chiarezza e con concretezza.

L’unica informazione vera che uno sciopero generale comunica al governo, alle opposizioni, all’opinione pubblica è, nel migliore dai casi, lo stato di insoddisfazione dei lavoratori che vi partecipano. Può essere un punto di partenza, e lo vedremo. Però, rimane legittimo e particolarmente opportuno chiedere ai sindacati e ai loro dirigenti, da un lato, di riflettere sull’utilità dello sciopero, dall’altro, di individuare modalità innovative più efficaci e feconde dello sciopero generale e anche degli scioperi settoriali. Fin d’ora.

Pubblicato il 2 dicembre 2024 su Domani

PRIMO MAGGIO 2024 Costruiamo insieme un’Europa di Pace, Lavoro e Giustizia sociale #Modena #CGIL #CISL #UIL

1°MAGGIO 2024
Festa di lavoratrici e lavoratori
ore 10.00 in Piazza Grande

Costruiamo insieme un’Europa di Pace, Lavoro e Giustizia sociale

Il Governo e quella ferita a un diritto costituzionale @DomaniGiornale

Qualsiasi sciopero che coinvolga settori importanti, come è quello dei trasporti, e che riguardi non soltanto un grande numero di addetti, ma anche più in generale di lavoratori, finisce per configurarsi come uno sciopero generale. Diventa rapidamente anche uno sciopero politico se e nella misura in cui l’obiettivo di fondo è contrastare, cambiare, bocciare la legge finanziaria e se e quando contro quello sciopero intervengono i governanti più o meno legittimati dall’essere responsabili specifici del settore chiamato a scioperare. Insomma, lo sciopero generale indetto da CGIL e UIL (troppo spesso, a mio parere, la CISL prende le distanze) e dichiarato improponibile nei tempi annunciati da una Commissione di nomina governativa si è inevitabilmente trasformato in uno scontro fra il segretario generale della Cgil Maurizio Landini e il Ministro dei Trasporti Matteo Salvini.

   Poiché Landini ottiene prontamente e opportunamente il sostegno della segretaria del Partito Democratico Elly Schlein e di buona parte degli oppositori e a Salvini, anche per non lasciarlo lucrare da solo i frutti della contrapposizione, si accodano altri governanti, quello che è in atto deve essere considerato un vero importante scontro fra l’opposizione sociale e parlamentare, da un lato, e il governo Meloni, dall’altro. Non credo che lo scontro socio-politico possa essere derubricato a semplici divergenze sulle interpretazioni della normativa che regola gli scioperi. Comunque, non solo le molto impegnative dichiarazioni dei protagonisti da entrambe le parti sono andate parecchio oltre un confronto in punta di diritto, ma lo schieramento intorno a Landini e gli alleati di Salvini mirano ad ottenere qualcosa di molto differente da una soluzione salomonica.

   Infatti, quelli che chiamerò gli ambienti governativi si sono incamminati lungo la strada scivolosa e compromettente del ridimensionamento del diritto di sciopero o quantomeno della valutazione discrezionale caso per caso della sua legittimità. A maggior ragione, Landini, Bombardieri, le opposizioni ritengono indispensabile, quasi imperativo procedere allo sciopero per ribadire il suo essere un diritto non sopprimibile. Non so se il Direttore mi consentirà di esprimere su questo giornale le mie riserve sulla efficacia pratica di alcuni scioperi. Da tempo, non da solo, auspico un ripensamento delle forme sindacali di lotta tali da andare oltre la componente talvolta poco più che simbolica della partecipazione dei lavoratori al fine di conseguire risultati concreti e duraturi senza creare danni e disagi alla cittadinanza.

   Adesso, però, è in ballo un diritto costituzionale contestato, compromesso, a rischio di essere conculcato. Pertanto, lì bisogna ballare. Probabilmente, agli inizi il “conculcamento” del diritto di sciopero non era all’ordine del giorno del governo Meloni, ma nell’arco delle alternative disponibili è oramai considerato una eventualità tutt’altro che sgradita, nient’affatto da escludere. Poiché la narrazione governativa è che, nelle condizioni socio-economiche ereditate e date l’operato di Meloni e dei suoi ministri è stato positivo e ancor più lo risulterà nei prossimi mesi/anni, coloro che si oppongono, che remano e agiscono contro le scelte del governo: finanziaria e altro, premierato e autonomie differenziate, preferisco il plurale, vanno contro gli interessi e il futuro radioso della Nazione. Pertanto, se il prezzo da pagare è quello di essere criticato e insultato per avere ridimensionato lo sciopero, anche procurando una ferità al diritto di sciopero, il governo prenderà atto e andrà avanti. Non è ricattabile. Ma non è affatto detto che sia invincibile.

Pubblicato il 15 novembre su Domani

Forza Nuova va sciolta qui e ora. E se rinasce la sciogliamo ancora @DomaniGiornale

Quando si tratta di leggere e interpretare la Costituzione, non possono e non debbono mai essere invocate valutazioni di opportunità politica. Le disposizioni della Costituzione vanno applicate con riferimento assoluto e coerente alla loro lettera e al loro spirito. Questa coerenza si estende anche alla lettera della XII disposizione: “è vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista”. Scritta da Costituenti che avevano sperimentato in una pluralità di forme il regime fascista, la sua nascita, le sue modalità di governo, lo spirito è lampante. Bisogna bloccare sul nascere tutte le manifestazioni, massime la violenza, che si richiamino al fascismo e che configurino tentativi di ricomparsa. Qui e adesso, in particolare dopo l’assalto alla sede della CGIL e al pronto soccorso del Policlinico Umberto I, nonché il progettato attacco a Palazzo Chigi, è corretto ritenere che Forza Nuova miri alla ricostituzione di un’organizzazione fascista? Dunque, se ricade nella fattispecie delineata dalla XII disposizione va sciolta. All’eventuale scioglimento non si possono contrapporre argomentazioni di errori e inadeguatezze del passato e neppure più o meno fondati timori di ripercussioni future.

   Il Movimento politico “Ordine Nuovo” fondato e guidato da Pino Rauti fu sciolto con sentenza della magistratura nel novembre 1973 e i suoi beni furono confiscati. Lo scioglimento avvenne nella fase già iniziata degli anni di piombo. Non ricordo opposizioni alla sentenza che applicava la legge Scelba (Ministro degli Interni) del 1952 di attuazione della XII disposizione che sollevassero il problema dell’eventuale esacerbarsi del terrorismo di destra, al quale Ordine Nuovo contribuiva significativamente. Non ricordo neppure che venisse posto il problema delle prospettive occupazionali di dirigenti e dei militanti, dove sarebbero andati, che cosa avrebbero fatto. Nessuno si chiese se quei terroristi che operavano in nome del fascismo sarebbero diventati ancora più violenti e pericolosi una volta disciolta e bandita la loro organizzazione. Le democrazie si difendono applicando la Costituzione e le leggi (d’obbligo è il rimando alla bella ricerca di Giovanni Capoccia, “cervello” fuggito e meritatamente e felicemente approdato a Oxford: Defending Democracy: Reactions to Extremism in Interwar Europe, Johns Hopkins University Press, 2005) , non misurando con bilancini opportunistici i pro e i contro delle decisioni che trovano il loro fondamento nella Costituzione e nelle leggi che ne traducono concretamente i dispositivi.

   Atteggiamenti di mal posta comprensione di un presunto “disagio” che non può comunque mai sfociare in violenza politica mirata, comportamenti incoerenti e al di sotto della sfida rivelano la debolezza di uno Stato e dei suoi apparati, delusi e umiliati. Aprono ulteriori spazi psicologici, sociali e politici a chi intende fare uso della simbologia e della strumentazione verbale e fisica del fascismo, e sa come farlo. Una volta sciolta Forza Nuova i suoi dirigenti non finiti in carcere oppure uscitine si adopereranno per costituire un’altra organizzazione il più simile possibile? Non è da escludersi nella consapevolezza, da un lato, che nessun fascismo si batte soltanto con l’istruzione e la cultura (non una buona ragione per tralasciare una intensa opera di educazione civica e storica), dall’altro, che il fascismo è parte della nostra storia e può ripresentarsi con una pluralità di volti. Bisognerà, allora, ricorrere nuovamente alla Costituzione, alla sua applicazione e alle conseguenze che ne derivano. Però, nessuno potrà più sollevare la obiezione/giustificazione della colpevole sottovalutazione e degli errori gravi commessi nel passato più o meno recente.

Pubblicato il 16 ottobre 2021 su Domani

INTERVISTA Più circoli e nuove alleanze. I consigli di Pasquino a Zingaretti @formichenews

Intervista raccolta da Francesco De Palo

Il noto politologo punta sulla gestione autonoma di circoli e federazioni, in antitesi al piglio renziano. E sul futuro prossimo crede che la prospettiva di alleanze piddine sarà sì a sinistra, ma saldandosi con il sindacato. E su Calenda, Sala e Letta dice che…

Meglio andare a vedere le carte dei grillini oppure quelle della Lega? È il quesito che il prof. Gianfranco Pasquino, politologo di fama internazionale e professore emerito di Scienze Politiche all’Università di Bologna, porrà nel prossimo futuro al neo segretario del Pd.

Perché, all’indomani delle primarie, a Nicola Zingaretti non basterà tornare all’antico di circoli e federazioni, ma “farsi moderno mostrandosi aperto a rilievi e critiche”. E condurre il partito a saldarsi con il sindacato e con il popolo della piazza milanese, che ha manifestato contro il razzismo. E su Calenda, Sala eLettadice che…

Il Pd con Nicola Zingaretti segretario torna all’antico di circoli e federazioni, dopo la parentesi renziana?

Sarebbe antico se tornasse a circoli e federazioni come sono stati trattati da Renzi, se invece li lasciasse autonomi, facendoli lavorare ed esprimere allora no. Se li frequenterà e al tempo stesso si mostrerà aperto a rilievi e critiche allora compierà un grande passo, che prende il nome di modernità.

Zingaretti ha chiuso ad un accordo col M5S: ma per essere alternativa al governo gialloverde basterà solo dialogare a sinistra?

Difficile rispondere ora, perché non ci troviamo in una fase dove si presentano prospettive del genere. Ma non c’è dubbio che, quando si giungerà alla composizione del prossimo Parlamento, il Pd dovrà porsi il problema dei numeri e quando vedrà che i numeri non saranno sufficienti dovrà decidere: negoziare con la Lega o con il M5s? Stando così le cose il sistema è, come minimo, tripolare, per cui con qualcuno bisognerà confrontarsi. A quel punto chiederò a Zingaretti e agli altri se meglio andare a vedere le carte dei grillini oppure quelle della Lega che le squaderna quotidianamente.

Un milione e seicentomila votanti, che sono molto meno di quelli del 2007, 2009, 2013 e 2017, crede siano un segno di vera testimonianza oppure solo un residuo di apparato?

Intanto direi che sono un buon segno per il Pd, lo dimostra il fatto che inizialmente l’asticella era stata posizionata attorno al milione. Significa che esiste ancora una spinta alla partecipazione, nonostante la delusione e la rassegnazione di molti dem al cattivissimo andamento del partito. Se, come io penso, il Pd dovrà essere fulcro di un’alleanza più ampia, allora bisognerebbe aggiungere a quei numeri i cittadini che sono scesi in piazza a Milano contro il razzismo, e anche quelli a sostegno dei sindacati lo scorso 9 febbraio. Non sono tutti ovviamente del Pd, li definirei culturalmente di sinistra, se cultura significa rapportarsi ad altre persone anche se straniere, ma tutti sono in opposizione al governo. Questo lo peso come un segnale di vivacità.

Ha citato i sindacati: come farà Zingaretti a sanare la ferita del jobs act?

La posizione renziana era di disintermediazione, se quella di Zingaretti sarà di aggregazione allora i sindacati saranno della partita. Se il Pd è divenuto il partito delle zone a traffico limitato e intende ritrovare i lavoratori, allora dovrà spostarsi in periferia. Nessuna sinistra sarà mai forte se non avrà un rapporto vero e non organico con il sindacato: nel senso di confronto e di contrasto, ma finalizzato a stare nella stessa barca e adoperarsi affinché si muova.

In questo senso l’elezione di Maurizio Landini al vertice della Cgil può essere elemento di trade union?

Direi di sì. Nonostante le sue asprezze e le sue impuntature, Landini è un utile soggetto nella sinistra.

I renziani adesso restano senza una prospettiva?

Sono andati molto male e particolarmente il renzianissimo Giachetti. Non credo sia interessante sapere dove andranno ora, ma in teoria Zingaretti dovrebbe fare il possibile per tenere tutti uniti ed evitare che escano, incentivandoli a partecipare attivamente e non a ostacolare in modo sgradevole il funzionamento del partito.

Come farà il Pd a dialogare con quegli elettori, anche di centro, che il 4 marzo 2018 hanno scelto il M5S ma che ad esempio in Abruzzo e Sardegna hanno fatto marcia indietro?

Bisognerà fare un’offerta a quel 30% di elettorato che nel 2018 ha votato M5S e che, presumibilmente, nel 2023 potrebbe cambiare idea. Gli elettori grillini insoddisfatti si trovano alle prese con dei rappresentanti che non sanno che pesci prendere e, quando li pescano, non sanno come cucinarlo. Inoltre il Pd dovrà sperare che il sistema italiano si ristrutturi in maniera bipolare, perché a quel punto tutti coloro che non vogliono la destra si coaguleranno in un unico interlocutore.

Quale il ruolo dell’operazione civica di Calenda?

Se Calenda sceglierà di farsi una sua lista per le europee, gli farò i miei auguri. Così come la leggo io, quella è un’operazione molto confusa, perché in realtà non rafforza il centrosinistra e neanche gli europeisti. Credo occorra altro, come ad esempio dei capilista che siano uomini e donne della politica che possano vantare competenze europee, non giornalisti, scrittori o attrici.

Le faccio due nomi, Beppe Sala ed Enrico Letta: come potranno intrecciarsi con il lavoro di Zingaretti? Consigli, sussurri o con ruoli di primo piano?

Secondo me Sala dovrebbe continuare a fare il sindaco di Milano, anche perché il consenso del capoluogo lombardo è di primaria importanza. Una volta terminato il suo mandato, poi, deciderà come proseguire. Mi auguro che Zingaretti stabilisca un buon rapporto di collaborazione con lui. Su Letta non scelgo la strada del politichese, che mi porterebbe a dire che è una riserva dello Stato e una risorsa. Per cui mi limito a osservare che si tratta di una persona di grande competenza, che parla splendidamente sia inglese che francese, dotato di una cultura europea. Se qualcuno sta cercando un capolista per una circoscrizione, allora è il nome giusto. Aggiungo che ha un suo prestigio personale a livello europeo, il nome giusto se Zingaretti vorrà cercare profili all’altezza.

Pubblicato il 5 marzo 2019 su formiche.net

 

Galeotto è il Centotrentotto. Referendum o plebiscito? Risponde Gianfranco Pasquino

testataviaBorgogna3

Professor Pasquino, lei ha provocato un confronto intenso e aspro con un tweet in cui sostiene che il referendum costituzionale che Renzi ha ribadito di volere chiedere è in realtà un plebiscito. Vuole spiegare la differenza che a molti, evidentemente, sfugge?

Secondo l’art. 138 il referendum su modifiche costituzionali può, non deve, essere richiesto da un quinto dei parlamentari oppure da cinque consigli regionali oppure da 500 mila elettori. Non può essere chiesto se in seconda lettura le due Camere hanno approvato le modifiche con la maggioranza dei due terzi. Di governo non si parla. I governi e i loro capi non chiedono il referendum che, incidentalmente, non deve essere definito “confermativo”, ma “oppositivo”. Infatti, l’aspettativa dei Costituenti era che si attivassero essenzialmente gli oppositori delle modifiche. Invece, sia il Ministro Boschi sia il capo del governo Renzi hanno ripetutamente rassicurato o minacciato che alla fine del percorso chiederanno il referendum. Da ultimo, nella conferenza stampa di fine d’anno, Renzi ha detto chiaramente che se perdesse se ne andrebbe. Dunque, chiede un plebiscito ‘sì’-‘no’ praticamente sulla sua persona.

Le è stato obiettato che anche in passato alcuni referendum, quello sul divorzio 1974 e quella sulla scala mobile 1985, finirono sostanzialmente per diventare plebisciti, ovvero giudizi su persone, rispettivamente Fanfani e Craxi.

Obiezione sbagliata sul metodo e sul merito. Infatti, non furono né Fanfani né Craxi a chiedere i referendum, ma, nel primo caso, milioni di cattolici e, nel secondo caso, il PCI di Berlinguer e buona parte della CGIL. Inoltre, in gioco erano due leggi ordinarie da abrogare. Fra l’altro, la legge per regolamentare il referendum fu il prodotto di uno scambio alla luce del sole, pardon, del Parlamento. La vollero i democristiani che non fecero ostruzionismo contro l’approvazione del divorzio. Infine, Fanfani non era capo del governo né quando il divorzio fu approvato né quando si tenne la campagna referendaria alla quale partecipò attivamente con grande gusto. L’inutile referendum voluto dal centro-sinistra nel 2001, che già allora criticai frontalmente, costituisce un pessimo precedente, ma almeno non era in gioco nessuna carriera personale. Non fu un plebiscito, ma una grossa stupidaggine costituzionale e un brutto precedente da non ripetere. C’è, poi, anche un’altra ragione per opporsi al referendum renziano.

Un’altra ragione? Quale?

Sono sempre disposto a pagare i costi della democrazia, ma alcuni referendum sono davvero inutili e dispendiosi, non soltanto quanto al costo della loro organizzazione, ma anche in termini di energie e di tempo politicamente meglio utilizzabile. Chi giustifica la riforma del Senato anche perché si risparmieranno dei soldi, ne vuole buttare una barca con un solo reale obiettivo: rafforzare la sua traballante popolarità? Se saranno le opposizioni, come è loro facoltà costituzionale, a chiedere il referendum contro le riforme renziane, valuterò le argomentazioni oppositive, ma vorrò ascoltare anche le loro motivazioni a favore di riforme necessarie, ma migliori.

Insomma si può sapere perché i Costituenti introdussero il referendum costituzionale e a quali condizioni?

Contrariamente ad alcuni uomini e donne politiche di recente conio, i Costituenti ritenevano: primo, di non essere infallibili e, secondo, che le trasformazioni della società e del sistema politico avrebbero potuto rendere necessarie alcune modifiche della Costituzione. Una parte dei parlamentari, per l’appunto, un quinto (frazione facilmente conseguibile dall’opposizione); cinque consigli regionali magari perché schiacciati da un ritorno sotto varie forme al centralismo; 500 mila elettori interessati, informati, partecipanti, organizzati in associazioni, dovevano essere autorizzati ad opporsi a quanto una maggioranza parlamentare aveva (mal)fatto. Se, però, la maggioranza che aveva approvato le modifiche era addirittura dei due terzi, allora, pensarono i Costituenti, non bisognava tenere nessun referendum. Il rischio, che i Costituenti giustamente paventavano, a maggior ragione in un paese nel quale, anche oggi (come si è purtroppo ascoltato nelle male indirizzate critiche al Parlamento che non eleggeva i giudici costituzionali, mentre responsabili erano i capi partito e i capi gruppo della maggioranza) l’antiparlamentarismo è vivo, vitale e vivace, era di una contrapposizione fra Parlamento e popolo con la possibile delegittimazione del Parlamento.

Lo si sente accennare sommessamente, ma è vero che i referendum su materie tanto importanti come le modifiche costituzionali non hanno quorum ovvero per essere validi non richiedono che vada a votare la maggioranza assoluta dei cittadini?

Proprio così, ed è un’altra perla di saggezza dei Costituenti. Non è giusto che coloro che non sono interessati alle modifiche sottoposte al referendum (lasciamo da parte le motivazioni fra le quali comunque c’è sempre una buona dose di apatia) rendano nullo il referendum consentendo che le modifiche restino anche se, faccio un esempio estremo, ha votato il 48 per cento degli elettori e il 40 per cento si è espresso contro. I Costituenti decisero che dovevano contarsi e contare oppositori e sostenitori, vale a dire coloro che sono interessati alle riforme e informati su quanto fatto. Spetta agli oppositori fare opera di informazione e mobilitazione, se vogliono vincere. Ecco perché credo che l’aggettivo più corretto per definire il referendum costituzionale è “oppositivo”.

Situazione brutta e ingarbugliata anche a causa dell’annunciata fuoriuscita di Renzi, se sconfitto. Come se ne esce, professor Pasquino?

Se ne esce applicando la Costituzione. Il capo del governo smette di fare lo sprezzante e di minacciare. Coloro che non vogliono le riforme costituzionali Renzi-Boschi si contano in Parlamento e eventualmente si danno da fare raccogliendo le firme. Magari ne approfittano anche per spiegare, sperando che ne siano capaci e che i mass media non combinino pasticci confezionando talkshow tipo marmellate, il significato di quelle brutte riforme e argomentando le alternative possibili una delle quali non è stare fermi, ma fare riforme migliori.

A.A.

Intervista pubblicata il 4 Gennaio 2016

Save the date 14 giugno 2015 LA DEMOCRAZIA DISCUSSA

Banner_600x400

Salone dei Duecento – Palazzo Vecchio, Piazza della Signoria

ore 17,00 – 18,30

LA DEMOCRAZIA DISCUSSA

Interverranno:
Michele Ainis, Professore Università degli Studi di Roma Tre
Massimo Cacciari, Professore Università Vita-Salute San Raffaele di Milano
Gianfranco Pasquino, Professore Emerito di Scienza Politica Bologna

Modera: Alessandra Sardoni, Giornalista LA7

Banner_300x300

Un anno fra realtà e fanfare

Né Mussolini né Tony Blair, ma neppure De Gasperi, nessuna delle analogie usate per definire Matteo Renzi nel giorno in cui il suo governo ha compiuto un anno appare appropriata e illuminante. Sono fuori luogo anche le accuse rivoltegli in maniera polemica, spesso dettate da frustrazioni politiche, di essere “un uomo solo al comando”. Non forte come Mussolini, non brillante come Blair, non efficace come De Gasperi, Renzi non è affatto solo. Si è circondato di amici e collaboratori di vecchia data (il giglio più o meno magico) e può contare su un rapporto molto intenso sia con l’indispensabile sottosegretario Graziano Del Rio sia con il Ministro per le Riforme Istituzionali Maria Elena Boschi. Lui aggiungerebbe che lo sostengono milioni di elettori. Tuttavia, le sue regolarmente bellicose dichiarazioni servono a rafforzare la sua non granitica sicurezza poiché Renzi è consapevole di essere molto meno “al comando” di quello che desidererebbe. Per esempio, dall’Unione Europea gli hanno sempre fatto capire che, forse, qualche aggiustamento “europeo” sarà fattibile, ma che è opportuno che il capo del governo italiano i compiti a casa li faccia e li faccia con volenterosa applicazione.

In Europa, non soltanto Renzi non comanda, ma è meglio per (quasi) tutti gli italiani, che sono diventati un po’ troppo euroscettici, che obbedisca. In qualche misura, sapendo che il sistema italiano non è abbastanza efficiente e flessibile, Renzi cerca di ottemperare, ma, attenzione, tutti i dati macro-economici svelano che l’Italia non cresce abbastanza, anzi, quasi niente, e non cresce in fretta. Allora, l’uomo non solo e non al comando deve spostare l’attenzione da risultati finora non entusiasmanti a promesse ancora eclatanti, ma soprattutto va alla ricerca e alla demonizzazione dei colpevoli. Quanto più i presunti colpevoli gli sono vicini tanto meglio. Quindi, è la minoranza del Partito Democratico, la vecchia guardia non ancora rottamata, a offrirgli il destro, pardon, il bersaglio migliore e più facile. In altri tempi, l’accusa era (nell’espressione usata da Berlusconi) di “remare contro”. Adesso l’accusa oscilla dal gufare al rosicare, mentre Renzi, non diversamente da Berlusconi, ostenta ottimismo e lancia speranze.

Rimanendo nell’ambito di coloro che si muovono nell’ampia area di sinistra, gli altri responsabili, se le annunciate riforme non vanno abbastanza bene e non abbastanza in fretta, sono la CGIL e la FIOM. Colpito da improvvisa popolarità, conseguenza delle sue numerosissime prestazioni televisive, il segretario della FIOM Maurizio Landini è assurto al ruolo di bersaglio privilegiato di Renzi. La CGIL di Camusso è già stata liquidata, ovvero “disintermediata” che, nella neo-lingua renziana, significa non più da consultare. Non c’è bisogno di interloquire con il più grande sindacato italiano. Invece, è opportuno mettere nell’angolo Landini in previsione di un suo ingresso in politica (fin troppi sindacalisti sono già nelle file dei parlamentari del PD), magari alla guida di una lista Syriza all’italiana.

Nessuna di queste battaglie mediatiche è davvero necessaria a governare meglio (e di più) il paese e il suo sistema socio-economico, ma con la complicità di non pochi operatori dei massa media ogni battaglia serve a sviare l’attenzione. In occasione dell’anniversario è meglio non guardare alle riforme iniziate con grande fanfara, ma ancora non completate, ed è consigliabile non valutare approfonditamente contenuti e qualità delle riforme delle provincie, della legge elettorale e del Senato. In maniera beffarda, non da solo, ma sostenuto “senza se e senza ma” dai suoi due vicesegretari e dai suoi più stretti ministri, il capo del governo attacca un po’ tutti da posizioni di forza. Renzi dà l’impressione di essere effettivamente al comando, ma gli effetti positivi del suo comando sul sistema socio-economico tardano a vedersi. Quel che soprattutto manca è la costruzione di un consenso ampio e convinto, segno distintivo dell’azione politica degli statisti. L’Italia di Renzi non corre nessun rischio di derive autoritarie. Galleggia e le poche riforme finora completate sono servite in pratica a far sì che non vada a fondo.

 

Pubblicato AGL  25 febbraio 2015