Home » Posts tagged 'Cgil'

Tag Archives: Cgil

Forza Nuova va sciolta qui e ora. E se rinasce la sciogliamo ancora @DomaniGiornale

Quando si tratta di leggere e interpretare la Costituzione, non possono e non debbono mai essere invocate valutazioni di opportunità politica. Le disposizioni della Costituzione vanno applicate con riferimento assoluto e coerente alla loro lettera e al loro spirito. Questa coerenza si estende anche alla lettera della XII disposizione: “è vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista”. Scritta da Costituenti che avevano sperimentato in una pluralità di forme il regime fascista, la sua nascita, le sue modalità di governo, lo spirito è lampante. Bisogna bloccare sul nascere tutte le manifestazioni, massime la violenza, che si richiamino al fascismo e che configurino tentativi di ricomparsa. Qui e adesso, in particolare dopo l’assalto alla sede della CGIL e al pronto soccorso del Policlinico Umberto I, nonché il progettato attacco a Palazzo Chigi, è corretto ritenere che Forza Nuova miri alla ricostituzione di un’organizzazione fascista? Dunque, se ricade nella fattispecie delineata dalla XII disposizione va sciolta. All’eventuale scioglimento non si possono contrapporre argomentazioni di errori e inadeguatezze del passato e neppure più o meno fondati timori di ripercussioni future.

   Il Movimento politico “Ordine Nuovo” fondato e guidato da Pino Rauti fu sciolto con sentenza della magistratura nel novembre 1973 e i suoi beni furono confiscati. Lo scioglimento avvenne nella fase già iniziata degli anni di piombo. Non ricordo opposizioni alla sentenza che applicava la legge Scelba (Ministro degli Interni) del 1952 di attuazione della XII disposizione che sollevassero il problema dell’eventuale esacerbarsi del terrorismo di destra, al quale Ordine Nuovo contribuiva significativamente. Non ricordo neppure che venisse posto il problema delle prospettive occupazionali di dirigenti e dei militanti, dove sarebbero andati, che cosa avrebbero fatto. Nessuno si chiese se quei terroristi che operavano in nome del fascismo sarebbero diventati ancora più violenti e pericolosi una volta disciolta e bandita la loro organizzazione. Le democrazie si difendono applicando la Costituzione e le leggi (d’obbligo è il rimando alla bella ricerca di Giovanni Capoccia, “cervello” fuggito e meritatamente e felicemente approdato a Oxford: Defending Democracy: Reactions to Extremism in Interwar Europe, Johns Hopkins University Press, 2005) , non misurando con bilancini opportunistici i pro e i contro delle decisioni che trovano il loro fondamento nella Costituzione e nelle leggi che ne traducono concretamente i dispositivi.

   Atteggiamenti di mal posta comprensione di un presunto “disagio” che non può comunque mai sfociare in violenza politica mirata, comportamenti incoerenti e al di sotto della sfida rivelano la debolezza di uno Stato e dei suoi apparati, delusi e umiliati. Aprono ulteriori spazi psicologici, sociali e politici a chi intende fare uso della simbologia e della strumentazione verbale e fisica del fascismo, e sa come farlo. Una volta sciolta Forza Nuova i suoi dirigenti non finiti in carcere oppure uscitine si adopereranno per costituire un’altra organizzazione il più simile possibile? Non è da escludersi nella consapevolezza, da un lato, che nessun fascismo si batte soltanto con l’istruzione e la cultura (non una buona ragione per tralasciare una intensa opera di educazione civica e storica), dall’altro, che il fascismo è parte della nostra storia e può ripresentarsi con una pluralità di volti. Bisognerà, allora, ricorrere nuovamente alla Costituzione, alla sua applicazione e alle conseguenze che ne derivano. Però, nessuno potrà più sollevare la obiezione/giustificazione della colpevole sottovalutazione e degli errori gravi commessi nel passato più o meno recente.

Pubblicato il 16 ottobre 2021 su Domani

INTERVISTA Più circoli e nuove alleanze. I consigli di Pasquino a Zingaretti @formichenews

Intervista raccolta da Francesco De Palo

Il noto politologo punta sulla gestione autonoma di circoli e federazioni, in antitesi al piglio renziano. E sul futuro prossimo crede che la prospettiva di alleanze piddine sarà sì a sinistra, ma saldandosi con il sindacato. E su Calenda, Sala e Letta dice che…

Meglio andare a vedere le carte dei grillini oppure quelle della Lega? È il quesito che il prof. Gianfranco Pasquino, politologo di fama internazionale e professore emerito di Scienze Politiche all’Università di Bologna, porrà nel prossimo futuro al neo segretario del Pd.

Perché, all’indomani delle primarie, a Nicola Zingaretti non basterà tornare all’antico di circoli e federazioni, ma “farsi moderno mostrandosi aperto a rilievi e critiche”. E condurre il partito a saldarsi con il sindacato e con il popolo della piazza milanese, che ha manifestato contro il razzismo. E su Calenda, Sala eLettadice che…

Il Pd con Nicola Zingaretti segretario torna all’antico di circoli e federazioni, dopo la parentesi renziana?

Sarebbe antico se tornasse a circoli e federazioni come sono stati trattati da Renzi, se invece li lasciasse autonomi, facendoli lavorare ed esprimere allora no. Se li frequenterà e al tempo stesso si mostrerà aperto a rilievi e critiche allora compierà un grande passo, che prende il nome di modernità.

Zingaretti ha chiuso ad un accordo col M5S: ma per essere alternativa al governo gialloverde basterà solo dialogare a sinistra?

Difficile rispondere ora, perché non ci troviamo in una fase dove si presentano prospettive del genere. Ma non c’è dubbio che, quando si giungerà alla composizione del prossimo Parlamento, il Pd dovrà porsi il problema dei numeri e quando vedrà che i numeri non saranno sufficienti dovrà decidere: negoziare con la Lega o con il M5s? Stando così le cose il sistema è, come minimo, tripolare, per cui con qualcuno bisognerà confrontarsi. A quel punto chiederò a Zingaretti e agli altri se meglio andare a vedere le carte dei grillini oppure quelle della Lega che le squaderna quotidianamente.

Un milione e seicentomila votanti, che sono molto meno di quelli del 2007, 2009, 2013 e 2017, crede siano un segno di vera testimonianza oppure solo un residuo di apparato?

Intanto direi che sono un buon segno per il Pd, lo dimostra il fatto che inizialmente l’asticella era stata posizionata attorno al milione. Significa che esiste ancora una spinta alla partecipazione, nonostante la delusione e la rassegnazione di molti dem al cattivissimo andamento del partito. Se, come io penso, il Pd dovrà essere fulcro di un’alleanza più ampia, allora bisognerebbe aggiungere a quei numeri i cittadini che sono scesi in piazza a Milano contro il razzismo, e anche quelli a sostegno dei sindacati lo scorso 9 febbraio. Non sono tutti ovviamente del Pd, li definirei culturalmente di sinistra, se cultura significa rapportarsi ad altre persone anche se straniere, ma tutti sono in opposizione al governo. Questo lo peso come un segnale di vivacità.

Ha citato i sindacati: come farà Zingaretti a sanare la ferita del jobs act?

La posizione renziana era di disintermediazione, se quella di Zingaretti sarà di aggregazione allora i sindacati saranno della partita. Se il Pd è divenuto il partito delle zone a traffico limitato e intende ritrovare i lavoratori, allora dovrà spostarsi in periferia. Nessuna sinistra sarà mai forte se non avrà un rapporto vero e non organico con il sindacato: nel senso di confronto e di contrasto, ma finalizzato a stare nella stessa barca e adoperarsi affinché si muova.

In questo senso l’elezione di Maurizio Landini al vertice della Cgil può essere elemento di trade union?

Direi di sì. Nonostante le sue asprezze e le sue impuntature, Landini è un utile soggetto nella sinistra.

I renziani adesso restano senza una prospettiva?

Sono andati molto male e particolarmente il renzianissimo Giachetti. Non credo sia interessante sapere dove andranno ora, ma in teoria Zingaretti dovrebbe fare il possibile per tenere tutti uniti ed evitare che escano, incentivandoli a partecipare attivamente e non a ostacolare in modo sgradevole il funzionamento del partito.

Come farà il Pd a dialogare con quegli elettori, anche di centro, che il 4 marzo 2018 hanno scelto il M5S ma che ad esempio in Abruzzo e Sardegna hanno fatto marcia indietro?

Bisognerà fare un’offerta a quel 30% di elettorato che nel 2018 ha votato M5S e che, presumibilmente, nel 2023 potrebbe cambiare idea. Gli elettori grillini insoddisfatti si trovano alle prese con dei rappresentanti che non sanno che pesci prendere e, quando li pescano, non sanno come cucinarlo. Inoltre il Pd dovrà sperare che il sistema italiano si ristrutturi in maniera bipolare, perché a quel punto tutti coloro che non vogliono la destra si coaguleranno in un unico interlocutore.

Quale il ruolo dell’operazione civica di Calenda?

Se Calenda sceglierà di farsi una sua lista per le europee, gli farò i miei auguri. Così come la leggo io, quella è un’operazione molto confusa, perché in realtà non rafforza il centrosinistra e neanche gli europeisti. Credo occorra altro, come ad esempio dei capilista che siano uomini e donne della politica che possano vantare competenze europee, non giornalisti, scrittori o attrici.

Le faccio due nomi, Beppe Sala ed Enrico Letta: come potranno intrecciarsi con il lavoro di Zingaretti? Consigli, sussurri o con ruoli di primo piano?

Secondo me Sala dovrebbe continuare a fare il sindaco di Milano, anche perché il consenso del capoluogo lombardo è di primaria importanza. Una volta terminato il suo mandato, poi, deciderà come proseguire. Mi auguro che Zingaretti stabilisca un buon rapporto di collaborazione con lui. Su Letta non scelgo la strada del politichese, che mi porterebbe a dire che è una riserva dello Stato e una risorsa. Per cui mi limito a osservare che si tratta di una persona di grande competenza, che parla splendidamente sia inglese che francese, dotato di una cultura europea. Se qualcuno sta cercando un capolista per una circoscrizione, allora è il nome giusto. Aggiungo che ha un suo prestigio personale a livello europeo, il nome giusto se Zingaretti vorrà cercare profili all’altezza.

Pubblicato il 5 marzo 2019 su formiche.net

 

Galeotto è il Centotrentotto. Referendum o plebiscito? Risponde Gianfranco Pasquino

testataviaBorgogna3

Professor Pasquino, lei ha provocato un confronto intenso e aspro con un tweet in cui sostiene che il referendum costituzionale che Renzi ha ribadito di volere chiedere è in realtà un plebiscito. Vuole spiegare la differenza che a molti, evidentemente, sfugge?

Secondo l’art. 138 il referendum su modifiche costituzionali può, non deve, essere richiesto da un quinto dei parlamentari oppure da cinque consigli regionali oppure da 500 mila elettori. Non può essere chiesto se in seconda lettura le due Camere hanno approvato le modifiche con la maggioranza dei due terzi. Di governo non si parla. I governi e i loro capi non chiedono il referendum che, incidentalmente, non deve essere definito “confermativo”, ma “oppositivo”. Infatti, l’aspettativa dei Costituenti era che si attivassero essenzialmente gli oppositori delle modifiche. Invece, sia il Ministro Boschi sia il capo del governo Renzi hanno ripetutamente rassicurato o minacciato che alla fine del percorso chiederanno il referendum. Da ultimo, nella conferenza stampa di fine d’anno, Renzi ha detto chiaramente che se perdesse se ne andrebbe. Dunque, chiede un plebiscito ‘sì’-‘no’ praticamente sulla sua persona.

Le è stato obiettato che anche in passato alcuni referendum, quello sul divorzio 1974 e quella sulla scala mobile 1985, finirono sostanzialmente per diventare plebisciti, ovvero giudizi su persone, rispettivamente Fanfani e Craxi.

Obiezione sbagliata sul metodo e sul merito. Infatti, non furono né Fanfani né Craxi a chiedere i referendum, ma, nel primo caso, milioni di cattolici e, nel secondo caso, il PCI di Berlinguer e buona parte della CGIL. Inoltre, in gioco erano due leggi ordinarie da abrogare. Fra l’altro, la legge per regolamentare il referendum fu il prodotto di uno scambio alla luce del sole, pardon, del Parlamento. La vollero i democristiani che non fecero ostruzionismo contro l’approvazione del divorzio. Infine, Fanfani non era capo del governo né quando il divorzio fu approvato né quando si tenne la campagna referendaria alla quale partecipò attivamente con grande gusto. L’inutile referendum voluto dal centro-sinistra nel 2001, che già allora criticai frontalmente, costituisce un pessimo precedente, ma almeno non era in gioco nessuna carriera personale. Non fu un plebiscito, ma una grossa stupidaggine costituzionale e un brutto precedente da non ripetere. C’è, poi, anche un’altra ragione per opporsi al referendum renziano.

Un’altra ragione? Quale?

Sono sempre disposto a pagare i costi della democrazia, ma alcuni referendum sono davvero inutili e dispendiosi, non soltanto quanto al costo della loro organizzazione, ma anche in termini di energie e di tempo politicamente meglio utilizzabile. Chi giustifica la riforma del Senato anche perché si risparmieranno dei soldi, ne vuole buttare una barca con un solo reale obiettivo: rafforzare la sua traballante popolarità? Se saranno le opposizioni, come è loro facoltà costituzionale, a chiedere il referendum contro le riforme renziane, valuterò le argomentazioni oppositive, ma vorrò ascoltare anche le loro motivazioni a favore di riforme necessarie, ma migliori.

Insomma si può sapere perché i Costituenti introdussero il referendum costituzionale e a quali condizioni?

Contrariamente ad alcuni uomini e donne politiche di recente conio, i Costituenti ritenevano: primo, di non essere infallibili e, secondo, che le trasformazioni della società e del sistema politico avrebbero potuto rendere necessarie alcune modifiche della Costituzione. Una parte dei parlamentari, per l’appunto, un quinto (frazione facilmente conseguibile dall’opposizione); cinque consigli regionali magari perché schiacciati da un ritorno sotto varie forme al centralismo; 500 mila elettori interessati, informati, partecipanti, organizzati in associazioni, dovevano essere autorizzati ad opporsi a quanto una maggioranza parlamentare aveva (mal)fatto. Se, però, la maggioranza che aveva approvato le modifiche era addirittura dei due terzi, allora, pensarono i Costituenti, non bisognava tenere nessun referendum. Il rischio, che i Costituenti giustamente paventavano, a maggior ragione in un paese nel quale, anche oggi (come si è purtroppo ascoltato nelle male indirizzate critiche al Parlamento che non eleggeva i giudici costituzionali, mentre responsabili erano i capi partito e i capi gruppo della maggioranza) l’antiparlamentarismo è vivo, vitale e vivace, era di una contrapposizione fra Parlamento e popolo con la possibile delegittimazione del Parlamento.

Lo si sente accennare sommessamente, ma è vero che i referendum su materie tanto importanti come le modifiche costituzionali non hanno quorum ovvero per essere validi non richiedono che vada a votare la maggioranza assoluta dei cittadini?

Proprio così, ed è un’altra perla di saggezza dei Costituenti. Non è giusto che coloro che non sono interessati alle modifiche sottoposte al referendum (lasciamo da parte le motivazioni fra le quali comunque c’è sempre una buona dose di apatia) rendano nullo il referendum consentendo che le modifiche restino anche se, faccio un esempio estremo, ha votato il 48 per cento degli elettori e il 40 per cento si è espresso contro. I Costituenti decisero che dovevano contarsi e contare oppositori e sostenitori, vale a dire coloro che sono interessati alle riforme e informati su quanto fatto. Spetta agli oppositori fare opera di informazione e mobilitazione, se vogliono vincere. Ecco perché credo che l’aggettivo più corretto per definire il referendum costituzionale è “oppositivo”.

Situazione brutta e ingarbugliata anche a causa dell’annunciata fuoriuscita di Renzi, se sconfitto. Come se ne esce, professor Pasquino?

Se ne esce applicando la Costituzione. Il capo del governo smette di fare lo sprezzante e di minacciare. Coloro che non vogliono le riforme costituzionali Renzi-Boschi si contano in Parlamento e eventualmente si danno da fare raccogliendo le firme. Magari ne approfittano anche per spiegare, sperando che ne siano capaci e che i mass media non combinino pasticci confezionando talkshow tipo marmellate, il significato di quelle brutte riforme e argomentando le alternative possibili una delle quali non è stare fermi, ma fare riforme migliori.

A.A.

Intervista pubblicata il 4 Gennaio 2016

Save the date 14 giugno 2015 LA DEMOCRAZIA DISCUSSA

Banner_600x400

Salone dei Duecento – Palazzo Vecchio, Piazza della Signoria

ore 17,00 – 18,30

LA DEMOCRAZIA DISCUSSA

Interverranno:
Michele Ainis, Professore Università degli Studi di Roma Tre
Massimo Cacciari, Professore Università Vita-Salute San Raffaele di Milano
Gianfranco Pasquino, Professore Emerito di Scienza Politica Bologna

Modera: Alessandra Sardoni, Giornalista LA7

Banner_300x300

Un anno fra realtà e fanfare

Né Mussolini né Tony Blair, ma neppure De Gasperi, nessuna delle analogie usate per definire Matteo Renzi nel giorno in cui il suo governo ha compiuto un anno appare appropriata e illuminante. Sono fuori luogo anche le accuse rivoltegli in maniera polemica, spesso dettate da frustrazioni politiche, di essere “un uomo solo al comando”. Non forte come Mussolini, non brillante come Blair, non efficace come De Gasperi, Renzi non è affatto solo. Si è circondato di amici e collaboratori di vecchia data (il giglio più o meno magico) e può contare su un rapporto molto intenso sia con l’indispensabile sottosegretario Graziano Del Rio sia con il Ministro per le Riforme Istituzionali Maria Elena Boschi. Lui aggiungerebbe che lo sostengono milioni di elettori. Tuttavia, le sue regolarmente bellicose dichiarazioni servono a rafforzare la sua non granitica sicurezza poiché Renzi è consapevole di essere molto meno “al comando” di quello che desidererebbe. Per esempio, dall’Unione Europea gli hanno sempre fatto capire che, forse, qualche aggiustamento “europeo” sarà fattibile, ma che è opportuno che il capo del governo italiano i compiti a casa li faccia e li faccia con volenterosa applicazione.

In Europa, non soltanto Renzi non comanda, ma è meglio per (quasi) tutti gli italiani, che sono diventati un po’ troppo euroscettici, che obbedisca. In qualche misura, sapendo che il sistema italiano non è abbastanza efficiente e flessibile, Renzi cerca di ottemperare, ma, attenzione, tutti i dati macro-economici svelano che l’Italia non cresce abbastanza, anzi, quasi niente, e non cresce in fretta. Allora, l’uomo non solo e non al comando deve spostare l’attenzione da risultati finora non entusiasmanti a promesse ancora eclatanti, ma soprattutto va alla ricerca e alla demonizzazione dei colpevoli. Quanto più i presunti colpevoli gli sono vicini tanto meglio. Quindi, è la minoranza del Partito Democratico, la vecchia guardia non ancora rottamata, a offrirgli il destro, pardon, il bersaglio migliore e più facile. In altri tempi, l’accusa era (nell’espressione usata da Berlusconi) di “remare contro”. Adesso l’accusa oscilla dal gufare al rosicare, mentre Renzi, non diversamente da Berlusconi, ostenta ottimismo e lancia speranze.

Rimanendo nell’ambito di coloro che si muovono nell’ampia area di sinistra, gli altri responsabili, se le annunciate riforme non vanno abbastanza bene e non abbastanza in fretta, sono la CGIL e la FIOM. Colpito da improvvisa popolarità, conseguenza delle sue numerosissime prestazioni televisive, il segretario della FIOM Maurizio Landini è assurto al ruolo di bersaglio privilegiato di Renzi. La CGIL di Camusso è già stata liquidata, ovvero “disintermediata” che, nella neo-lingua renziana, significa non più da consultare. Non c’è bisogno di interloquire con il più grande sindacato italiano. Invece, è opportuno mettere nell’angolo Landini in previsione di un suo ingresso in politica (fin troppi sindacalisti sono già nelle file dei parlamentari del PD), magari alla guida di una lista Syriza all’italiana.

Nessuna di queste battaglie mediatiche è davvero necessaria a governare meglio (e di più) il paese e il suo sistema socio-economico, ma con la complicità di non pochi operatori dei massa media ogni battaglia serve a sviare l’attenzione. In occasione dell’anniversario è meglio non guardare alle riforme iniziate con grande fanfara, ma ancora non completate, ed è consigliabile non valutare approfonditamente contenuti e qualità delle riforme delle provincie, della legge elettorale e del Senato. In maniera beffarda, non da solo, ma sostenuto “senza se e senza ma” dai suoi due vicesegretari e dai suoi più stretti ministri, il capo del governo attacca un po’ tutti da posizioni di forza. Renzi dà l’impressione di essere effettivamente al comando, ma gli effetti positivi del suo comando sul sistema socio-economico tardano a vedersi. Quel che soprattutto manca è la costruzione di un consenso ampio e convinto, segno distintivo dell’azione politica degli statisti. L’Italia di Renzi non corre nessun rischio di derive autoritarie. Galleggia e le poche riforme finora completate sono servite in pratica a far sì che non vada a fondo.

 

Pubblicato AGL  25 febbraio 2015

Sbagliato far finta di niente

Chi cade dall’alto fa molto più rumore. Ecco perché il crollo dell’affluenza elettorale in Emilia-Romagna (dal 68 % del 2010 al 37 % del 2014, se ne sono andati a spasso più di un milione di elettori) fa più rumore del declino, pure significativo in Calabria (dal 58,5 % del 2010 al 44 % del 2014). Inaspettato nelle sue dimensioni, l’astensionismo emiliano-romagnolo è ancora più preoccupante per quello che esprime. In una regione da sempre caratterizzata da alti livelli d’impegno e di partecipazione politica, viene un segnale, non casuale, ma voluto dagli astensionisti, di rifiuto dei candidati, dei partiti, dei loro mediocri programmi, della politica espressa negli ultimi quattro anni. C’è anche del disgusto per i rimborsi spese gonfiati e ingiustificabili e per la condanna in primo grado del Presidente uscente. Anche in Calabria le elezioni anticipate sono state prodotte dalla condanna definitiva del Presidente. Però, in Calabria il comprensibile disgusto per la politica è la conseguenza del cattivo governo locale. Potrebbe, persino, esserci qualcosa di più nell’astensionismo: una dichiarazione di irrilevanza del livello regionale di governo. Insomma, hanno sicuramente pensato centinaia di migliaia di elettori, queste regioni e i loro governanti non migliorano la qualità della nostra vita. Non sanno svolgere compiti essenziali: dalla sanità, inquinatissima in Calabria, al lavoro, alle infrastrutture.

Nel suo approfondito commento affidato, come al solito, a un tweet mattutino, Renzi spinge sotto il tappeto della vittoria in entrambe le regioni tutti i problemi che il non-voto segnala. Chi si contenta gode, buon per lui, ma male per gli italiani, per il suo governo e per lo stesso Partito Democratico. In Calabria, vince un esponente della più vecchia guardia, mentre il candidato Bonaccini, renziano di strettissima osservanza, vince la Presidenza dell’Emilia-Romagna lasciando per strada 300 mila voti. La Lega Nord di Salvini gongola perché la sua OPA ostile (offerta pubblico d’acquisto) sulla deterioratissima Forza Italia ha avuto successo. Tuttavia, la Lega non guadagna voti, ma ne perde 50 mila rispetto al 2010 (Forza Italia in piena rottura ne perde 400 mila). Per quanto Grillo ne abbia fatte (espulsioni varie di coloro che avevano contribuito al notevole successo iniziale delle Cinque Stelle) e non fatte (nessuna presenza in campagna elettorale né in Calabria, dove sostanzialmente viene cancellato, né in Emilia-Romagna), nella regione “rossa”il Movimento guadagna addirittura più di 30 mila voti, ma la sua percentuale, tra il 12 e il 13, rimane molto al disotto delle politiche del 2013.

Per qualche giorno, i politici s’interrogheranno sull’astensionismo. Poi passeranno ad altro, alle tematiche che appassionano (sic) gli italiani: una o più soglie di accesso al parlamento, quale percentuale per ottenere il premio di maggioranza, da darsi alla lista o alla coalizione…. Incurante del fatto che i molti voti perduti dal suo partito segnalano inevitabilmente anche grande insoddisfazione per lo scarso operato del suo governo e per i toni delle sue critiche alle organizzazioni intermedie, come la CGIL, Renzi dirà che bisogna andare avanti in fretta. Invece, gli astensionisti hanno detto che di riforme non ne hanno finora viste, che di annunci ne hanno sentiti abbastanza, che, soprattutto in Emilia-Romagna, credono che la democrazia è anche fatta di pluralismo associativo. Non bastano gli uomini soli al comando, come Renzi, o all’opposizione, come Berlusconi. I partiti personalisti possono anche vincere qualche elezione, ma non hanno cambiato e non cambiano la politica. Il ciclo di Berlusconi è finito, ma la sua ostinazione impedisce il rinnovamento di quel che resta di Forza Italia. In attesa del ciclo di Salvini, quello di Grillo continua anche se ad andamento lento poiché il leader delle Cinque Stelle non sembra più avere un progetto strategico. Il ciclo di Renzi ha subito una seria battuta d’arresto. Per coloro che ritengono che l’Emilia-Romagna sia stata un laboratorio democratico, dovrebbe crescere la preoccupazione proprio per lo stato della democrazia in Italia. E dove la democrazia funziona male la crescita economica risulta molto difficile.

Pubblicato AGL 26 novembre 2014

Il partito post-Leopolda

Davvero è possibile parlare di due partiti democratici: uno che si è riunito alla Leopolda (il partito di governo) e uno che ha sfilato con la CGIL a Roma (il partito di lotta)? Sono due partiti incompatibili, destinati a lasciarsi in occasione del prossimo scontro parlamentare sulla legge che traduce i principi della delega al governo sul lavoro e sulla modifica dell’art.18? Dove andranno gli scissionisti i quali sono, per definizione, quelli che abbandonano il segretario del partito? Tuttavia, riflettendo un po’, si direbbe che è proprio Renzi, con i suoi entusiasti sostenitori, ad avere orgogliosamente creato un nuovo partito democratico. Il suo Partito della Leopolda è, dicono gli appassionati seguaci, il partito del 41 per cento (alle elezioni europee, 11 milioni e centomila voti), ma i “vecchi” avevano pur sempre ottenuto con Veltroni 12 milioni e centomila voti nelle elezioni politiche del 2008 (non il 25, come li accusa Renzi, ma il 33,2 per cento). Nello spappolamento della destra e nel declino più che fisiologico del partito di Berlusconi, il Partito Democratico di Renzi appare dominante ed è persino diventato punto di attrazione per alcuni parlamentari di SEL e per diversi espulsi da Grillo dei quali è difficile dire quanti voti porterebbero.

Renzi sembra deciso, almeno questo è il messaggio, nel tono e nei contenuti del suo discorso forse fin troppo “caricato” dall’atmosfera torrida della Leopolda, a spingere fuori dal PD la vecchia guardia. Fermo restando che nient’affatto tutti quelli che dissentono da Renzi sono inclini ad andarsene, quali sarebbero le conseguenze politico-elettorali di una scissione? Per cominciare, bisogna chiedersi se chi se ne va riuscirà davvero a portare via voti al PD. E’ possibile intravedere tre dinamiche diverse nell’ambito dell’elettorato che ha votato Partito Democratico o che intrattiene l’idea di votarlo prossimamente. Primo, ci sono vecchi elettori, vale a dire, di lunga data, che ne hanno ingoiate di tutti i colori, ma che sempre e comunque votano il Partito, per l’appunto con la P maiuscola, a prescindere da qualsiasi cambiamento: uno zoccolo duro, ristretto, ma esistente. Secondo, ci sono elettori democratici mobili che sicuramente fornirebbero appoggio agli eventuali scissionisti, ma esclusivamente se chi se ne va dal PD è capace di darsi molto rapidamente una struttura organizzata su scala nazionale.

Curiosamente, è proprio l’andamento lento e debole delle iscrizioni al PD che costituisce un ostacolo alla comparsa di un partito degli scissionisti. Chi non si iscrive più lo fa perché non condivide il percorso di Renzi, ma probabilmente ha anche preso atto che non c’è più niente da fare, neppure con la vecchia guardia. Infine, ci sono gli elettori che, abbandonando il PD, si guardano intorno e vedono l’attivismo, non sempre brillante, ma già condiviso da persone che conoscono, delle Cinque Stelle. Per irritazione, per voglia di dare una lezione a Renzi, per obbligare il PD ad essere più “radicale”, questa parte di elettorato è pronta a votare il Partito di Grillo. Se no, l’astensione diventerà il luogo del loro rassegnato rifugio.

Quantitativamente, l’esito complessivo del deflusso degli elettori già democratici, non sarà rilevante. Anzi, Renzi potrebbe persino sostenere, come ha già annunciato alto e forte, che il suo nuovo Partito Democratico si lascia alle spalle la nostalgia, che è polvere e cenere, sostituendola con la speranza, con il futuro che è all’inizio. Però, se vuole rimanere convincente e governante, soprattutto in una fase nella quale in pratica nessuna riforma incisiva è stata approvata in via definitiva, il suo attivismo ha bisogno di essere continuamente alimentato con nuovi consensi. Anche soltanto una battuta d’arresto elettorale, per esempio, nelle elezioni regionali dell’Emilia-Romagna (fine novembre) potrebbe ridimensionare l’entusiasmo e rallentare la spinta al cambiamento. Emarginati i dissenzienti e svilito il loro apporto, confluito o no in un altro piccolo PD, tutto diventerebbe più difficile per il Partito Democratico di Renzi e della Leopolda.

Pubblicato AGL 28 ottobre 2014

I tre colori del governo

Sala verde, soccorso azzurro, delega in bianco: questi sono i colori dell’energica azione di governo intrapresa da Renzi per l’approvazione del Jobs Act, che va molto oltre la, pur non semplice e controversa, modifica dell’art. 18 sui licenziamenti. L’invito ai sindacati nella sala verde, tradizionalmente luogo di quella concertazione che Renzi non vuole più perseguire, è apparso sostanzialmente una sfida. Renzi ha espresso la sua posizione e, in quell’oretta loro riservata, i sindacati non hanno saputo, con gradazioni diverse, la CGIL molto più contraria di CISL e UIL, andare oltre il loro rifiuto ad intervenire sull’art. 18. Il capo del governo sembra essere riuscito a dimostrare la quasi totale irrilevanza dei sindacati nella ridefinizione del mercato del lavoro, nella trasformazione degli ammortizzatori sociali e nella elaborazione di una nuova politica economica. A fronte delle critiche provenienti dall’interno del Partito Democratico e delle preoccupazioni dell’alleato Nuovo Centro Destra, il capo del governo mira anche a dimostrare che la sua attuale maggioranza, piuttosto risicata al Senato, è autosufficiente, vale a dire non ha bisogno dei voti o dei marchingegni di Forza Italia.

Gli “azzurri” non avranno modo di vantarsi di essere essenziali per la sopravvivenza del governo al Senato e per l’approvazione di un importante disegno di legge poiché Renzi ha deciso di porre la fiducia sulla legge delega. Questa richiesta è molto irrituale e si configura, per l’appunto, come una delega in bianco poiché il testo del Jobs Act, ripetutamente rivisto negli ultimi giorni, non è ancora noto nei particolari che, come si sa, contano e molto. La fiducia mira a ricompattare forzosamente il PD e tenere lontana Forza Italia. Ha ragione la minoranza del partito, che pure, sulla base di quanto è noto, ha preparato alcuni emendamenti “irrinunciabili”. Proprio per questo, Renzi pone la fiducia, che fa cadere tutti gli emendamenti e che, se ottenuta, com’è probabilissimo, gli consentirà un’approvazione rapida e integrale di quanto desidera. La delega in bianco è anche una specie di biglietto da visita che Renzi vuole presentare all’incontro di Milano con i capi di governo dell’Unione Europea. Da qualche tempo accusato in Italia e criticato in Europa per frequenti annunci di riforme che non si materializzano (non soltanto perché hanno necessità di maturazione, ma anche perché appaiono dilettantescamente formulate), Renzi vuole arrivare a quell’incontro con qualcosa di concreto.

Difficile dire se i più critici fra i capi di governo dell’Unione (e fra i neo-commissari) si accontenteranno, ma certamente dovranno moderare le loro critiche. Quanto agli oppositori interni, sia nel PD sia in Forza Italia, i primi non potranno spingere la loro azione fino a negare la fiducia al governo e non riusciranno neppure ad argomentare in maniera solenne e incisiva le loro alternative al disegno di legge del governo. I secondi, vale a dire gli “azzurri”, in difficoltà a causa della sfida di Fitto a Berlusconi e indecisi sulla strategia, vengono privati proprio della possibilità di colmare un’eventuale mancanza di voti per il governo. Infatti, la scelta di un loro intrufolarsi a sostegno del governo non è praticabile in occasione di un voto di fiducia perché configurerebbe un cambio surrettizio di maggioranza tale da aprire problemi istituzionali e costituzionali. Ancora una volta, ma oggi più di ieri, Matteo Renzi gioca d’azzardo. Finora ha vinto e le probabilità che continui a vincere anche in questa importante occasione sono elevate. Tuttavia, il dissenso che serpeggia nel suo partito e alcuni segnali, fra i quali la vittoria nelle primarie calabresi di un esponente di quella che Bersani definirebbe ditta, le severe critiche di un renziano della prima ora e il crollo delle iscrizioni al Partito Democratico, suggeriscono che il cammino di Renzi non è ancora del tutto spianato e privo di ostacoli. Insomma, per ritornare ai colori, se il Prodotto Interno Lordo non cresce e la disoccupazione non diminuisce, il cammino non sarà roseo.

Pubblicato AGL 8 ottobre 2014

Art. 18 Date i numeri

E’ sbagliato definire le, pure fortissime, differenze di opinioni, fra Matteo Renzi, la sinistra del Partito Democratico e i sindacati (in verità, la CGIL più di CISL e UIL), scontro di ideologie. Nel tentativo di Renzi di riformare l’art. 18, all’interno di un più ampio e ambizioso Jobs Act, si trova anche, qualcuno direbbe soprattutto, la voglia di dimostrare che la sinistra del Partito Democratico non ha proposte e che i sindacati sono organizzazioni conservatrici e burocratiche. Dal canto loro, la sinistra del PD è alla ricerca di una base sociale nel mondo del lavoro per rafforzarsi e i sindacati vogliono dimostrare che senza il loro consenso, possibile frutto di una effettiva rappresentanza dei lavoratori, non è possibile fare riforme. Il capo del governo ha fatto pungentemente notare alla sinistra PD che anche i suoi esponenti avevano cercato, senza riuscirci, di riformare l’art.18 e ha accusato i sindacati di difendere i lavoratori che una volta si chiamavano “garantiti” tralasciando i precari e non occupandosi dei senza lavoro. Non di ideologie, quindi, si tratta, ma di potere politico e sociale che, incidentalmente, era la posta in gioco anche nello scontro epico fra i sindacati inglesi e il Primo ministro Margaret Thatcher. Per la storia, la Signora Thatcher vinse e cambiò, solo in parte in meglio, il suo paese.

A giudicare dalle affermazioni di Renzi e dalle reazioni dei suoi oppositori, sembra che nessuno padroneggi appieno il contenuto del Jobs Act per il quale il governo ha chiesto una legge delega al Parlamento. Proprio la natura dello strumento, sul quale il Parlamento interverrà sicuramente in maniera incisiva, nonostante gli eccessivi richiami dei vicesegretari di Renzi alla disciplina di partito,suggerisce che, al momento, è meglio evitare giudizi definitivi. Un punto, però, merita di
essere segnalato poiché riguarda le modalità con le quali si dovrebbero formulare, difendere e attuare le riforme in special modo nel settore socio-economico. Qualche volta, non sempre, le opinioni sono rispettabili, ma in materie delicate e complesse che coinvolgono milioni di persone, sarebbe di gran lunga preferibile che le opinioni si fondassero sui dati, sui numeri, su qualcosa di solido e, al limite, di inoppugnabile. Curiosamente, il solito maxiemendamento del governo (poiché i governi italiani fanno sempre le cose in grande) chiede al Parlamento, cito, di autorizzarlo a “individuare e analizzare tutte le forme contrattuali esistenti, ai fini di poterne valutare l’effettiva coerenza con il tessuto occupazionale e con il contesto produttivo nazionale e internazionale [che presumo implichi un sano confronto comparato con le esperienze europee di maggior successo], anche in funzione di eventuali interventi di semplificazione delle medesime tipologie contrattuali”.

Il citato comma della legge delega confessa candidamente che il governo e il Ministero del Lavoro non dispongono ancora didati certi. Oltre alle “forme e alle tipologie contrattuali”, sembrerebbe opportuno che il governo avesse o acquisisse i dati concernenti il numero di lavoratori attualmente protetti dall’art. 18 e offrisse alla riflessione anche un altro dato a mio parere decisivo. Dall’entrata in vigore dello Statuto dei Lavoratori, quanti sono stati i casi di lavoratori licenziati senza giusta causa e poi reintegrati dai magistrati nel loro posto di lavoro ed effettivamente rientrati? A loro volta, senza fare inutili e deboli barricate, i sindacati potrebbero chiedere ai loro ampi e potenti uffici studi (in quello della CGIL, curiosamente, ha lavorato molto tempo fa anche il sen. Pietro Ichino, il meglio attrezzato dei riformatori) di mettere a disposizione del governo, del Parlamento, dell’opinione pubblica i dati che rivelino che la protezione garantita dall’art. 18 è cruciale per i lavoratori che un posto ce l’hanno e non dannosa per coloro che un posto lo cercano. Se governo, sinistra del PD e sindacati “dessero i numeri” la riforma della quale il mercato del lavoro ha assolutamente bisogno nascerebbe più solida e sarebbe più facile da attuare.

Pubblicato AGL 23 settembre 2014

Tre o quattro cose che so sul #PD dell’Emilia-Romagna

FQ
Nel marzo 1999, le primarie per la scelta del candidato sindaco di Bologna non le voleva nessuno. Quando i veti incrociati bocciarono i primi quattro potenziali candidati e il segretario regionale Mauro Zani non accettò di “correre” senza il sostegno di tutto il partito, il Pds fu costretto ad organizzare le primarie. Con il poderoso apporto cammellato del sindacato pensionati della Cgil, ottenne la candidatura Silvia Bartolini la quale, poi, riuscì nell’impresa di consegnare la città a Giorgio Guazzaloca, da lei sempre appellato “macellaio” (ma anche Presidente della Camera di Commercio). Zani battezzò anche il nuovo segretario provinciale, tal Salvatore Caronna che, nel 2004, le primarie proprio non seppe e non volle organizzarle cosicché il partito si vide calato dall’alto Sergio Cofferati (“candidatura degna, anzi”, lunga p a u s a, “degnissima” secondo Romano Prodi), quasi sicuramente il peggior sindaco della città. Nel 2008, andatosene all’ultimo minuto verso buste paga più consistenti (europarlamentare) il Cofferati, fu giocoforza organizzare le primarie.

Però, prima ancora che ci fossero candidature ufficiali, fioccarono gli endorsement (dichiarazioni solenni di sostegno) a favore di Flavio Delbono da parte del Segretario del Pd Pierluigi Bersani e del padre nobile (sic) Romano Prodi il quale avrebbe poi portato in processione e a chiesa il candidato. Vice-Presidente della Regione Emilia-Romagna, consigliere regionale e, soprattutto Assessore al Bilancio (che non controllava né le sue allegre spese né quelle, appena meno allegre, dei consiglieri), Delbono era una manna: liberava tre caselle di pregio. Eletto dopo una mediocrissima campagna elettorale, il Delbono fu indagato e costretto a dimettersi (atto che, secondo Prodi, gli restituiva onorabilità) proprio per i suoi viaggi con amanti a spese della Regione. [Personalmente candidato in quelle elezioni, ne ho scritto in Quasi sindaco. Politica e società a Bologna, 2008-2010, Diabasis Edizioni 2010].

In seguito, il sindaco breve, poco più di otto mesi, patteggiò due volte, riconoscendo quindi la sua colpevolezza, ed è in attesa del terzo processo. Con lui caddero il capo della sua campagna elettorale buttato fuori dalla politica e il segretario provinciale, De Maria che dovette dimettersi. Relativamente giovane ma già sicuro esponente della vecchia guardia, il De Maria venne mandato a Roma dalla ditta, poi ricollocato in Parlamento. Adesso ha già espresso, insieme a tutti i lavoratori in carriera nella vecchia ditta, il suo sostegno per il segretario regionale Stefano Bonaccini, diventato renziano nella seconda ora e qualche minuto, ma subito ricompensato con un incarico, quello di responsabile degli Enti locali. Non sono i rimborsi per spese fraudolenti ad avere causato la rinuncia di un renziano della primissima ora, il deputato Matteo Richetti, fino al 2012 Presidente del Consiglio Regionale.

Infatti, sostenuto dalla vecchia guardia che ha assoluto bisogno di un candidato, Bonaccini, consigliere regionale egualmente inquisito, non seguirà le orme di Richetti. Sono gli “inviti” che vengono dal centro, pardon, dal Largo (del Nazareno) che contano e che hanno spinto fuori dalle primarie il Richetti. Il conformismo dei dirigenti locali, pronti ad ogni acrobazia e a qualsiasi ingoio, farà il resto. Però, non sarà facile convincere il candidato Roberto Balzani, che le primarie contro l’apparato le ha già vinte una volta, per diventare sindaco di Forlì, a lasciare il campo. Vecchia politica? Oh, yes. Bruttissima politica? Ancor più certamente yes. È questo il Partito Democratico di Renzi? La risposta la attendiamo, non proprio spasmodicamente, da un suo tweet: il punto più elevato della sua nuova politica.

Pubblicato 11 settembre 2014