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Cambiare ora il conducente è stupido e costoso @DomaniGiornale


“Quando il tram arriva al capolinea” disse memorabilmente Claudio Martelli, vice-segretario del PSI “scendono tutti, anche il conducente” (che, maggio 1989, era Ciriaco De Mita). Certamente, Conte, al quale manca la verve politica di Martelli, non ricorda questa frase, ma, peggio, non ha neppure il coraggio di chiedere che il guidatore Draghi scenda dal tram del suo governo. Peraltro, il governo non è affatto arrivato al capolinea e non è proprio il caso di cambiare l’unico conducente che conosce tutto il percorso e sa quali sono le fermate intermedie importanti. A nessuna di quelle fermate corrisponde il segnale “verifica”, ma, ovviamente, al conducente deve essere riconosciuta la possibilità, a fronte di un qualsiasi ostacolo, di fermarsi per valutarlo e rimuoverlo. Il tram può arrestare temporaneamente la sua corsa se un gruppo di passeggeri ha deciso di scendere prima della fermata che avevano indicato all’inizio del viaggio.
Il conducente non deve mai fare balenare la sua indisponibilità a continuare il servizio prima della fine del suo turno. Per Mario Draghi, pienamente consapevole della difficoltà del percorso, il turno, d’accordo con il Supervisore massimo Sergio Mattarella, ha come termine prefissato marzo 2023. Sono molti i passeggeri che desiderano arrivare al capolinea. Alcuni vorrebbero già da adesso che l’attuale conducente accetti l’impegno a continuare alla guida anche nella corsa successiva. Forse, il Supervisore ha suggerito al conducente di non abbandonare il tram fintantoché c’è un numero di passeggeri tale da giustificare i costi, non solo monetari, della continuazione del servizio. Altrove, in Europa, costantemente sorpresi dalla numerosità dei conducenti che si susseguono in Italia, ha già fatto immediato capolino la preoccupazione sia per un eventuale nuovo non sperimentato conducente (anche donna) che non sappia assumere il comando rapidamente sia per la sua (in)affidabilità nel riconoscere le fermate a ciascuna delle quali corrisponde un impegno da rispettare.
Senza esagerare con paragoni che sollevino l’Italia dalle responsabilità del mal funzionamento della rete dei poteri e degli attori della democrazia parlamentare, è vero che anche altrove, ad esempio, in Israele e addirittura in Gran Bretagna, altri tram sono arrivati al capolinea e i rispettivi conducenti sono scesi in maniera più meno turbolenta. Non potevano fare altrimenti. Comunque, i costi dei rispettivi disservizi sembrano meno elevati di quelli italiani. Facciano due conti gli italiani sul tram attuale, anche coloro che prenderanno il prossimo tram che si troverà ad aumentare e non di poco il prezzo del biglietto. Stupidi sono, scrisse elegantemente il grande storico dell’economia Carlo Cipolla, coloro che causano danno agli altri senza trarre nessun vantaggio per se stessi. Sursum corda.
Pubblicato il 13 luglio 2022 su Domani
Craxi e dopo: battaglie necessarie, da combattere #unpassodietroCraxi
Contributo pubblicato nel libro di Federico Bini, Un passo dietro Craxi, Edizioni WE, s.d. (ma 2021), pp. 67-73

L’ideatore di questo libro, Federico Bini, invita a valutare “meriti e demeriti” di Craxi. Lo farò con grande impegno sfruttando al mio meglio quello che considero un vantaggio di prospettiva rispetto a tutti gli intervistati. Non ho avuto modo di incontrare Craxi tranne in un paio di frettolose occasioni. Quella che ricordo meglio è la commemorazione di Lelio Basso al Senato nel decimo anniversario della morte (dicembre 1988) quando, arrivato leggermente in ritardo, Craxi si sedette proprio di fianco a me e come se sapesse chi ero pronunciò con grande familiarità un paio di commenti politici molto critici sul modo con il quale l’oratore principale veniva descrivendo il percorso politico di Basso (incidentalmente, condividevo le osservazioni di Craxi). Per quel che può contare, mi sono sempre considerato socialista senza aggiunte, favorevole ad una democrazia nella quale l’alternanza è praticabile e praticata, che ritiene che buone politiche sono quelle che seguono, rincorrono la stella polare, come scrisse memorabilmente il mio maestro Norberto Bobbio, dell’eguaglianza, nella mia personale concezione, l’eguaglianza non di esiti, ma di opportunità, non soltanto all’inizio, ma per tutta la vita delle persone: dalla culla alla tomba. Ai tempi di Craxi ero Senatore della Sinistra Indipendente e, fra l’altro, feci parte della Commissione parlamentare per le riforme istituzionali (Novembre 1983-1 febbraio 1985) presieduta dal deputato liberale Aldo Bozzi.
Quando lascia l’Italia per Hammamet, Craxi, senza giri di parole, è politicamente sconfitto, e lo sa. Cercherà, invano, di preparare la riscossa. Chi gli voleva bene avrebbe dovuto allora e per tutti gli anni successivi ricordargli che, ad ogni buon conto, aveva ottenuto alcune importanti incancellabili conquiste che stanno nei libri della storia d’Italia. Aveva significativamente contribuito all’ascesa alla Presidenza della Repubblica di Sandro Pertini (anche se il suo candidato preferito era Giuliano Vassalli). Era stato il primo socialista a diventare Presidente del Consiglio. Con il decreto di San Valentino (14 febbraio 1984) e, poi, con la sua coraggiosa posizione sul referendum “scala mobile” (giugno 1985) era riuscito ad arrestare la corsa dell’inflazione. Grazie al sostegno da lui convintamente dato all’Atto Unico (1985) aveva riaperto la strada verso un’Unione più stretta. Ma, come argomenterò, aveva scoperchiato e lasciati irrisolti alcuni problemi decisivi per il Partito socialista e per il sistema politico italiano. In una (in)certa misura quei problemi, che hanno notevolmente inciso su tutta la storia e la politica italiana dal 1994 ad oggi, rimangono tali, forse aggravati.
Prima il partito socialista. Quando Craxi ne divenne segretario nel 1976 il PSI era un partito diviso in correnti in lotta fra di loro, ciascuna, a differenza delle correnti democristiane, con scarso radicamento sociale. Nel mensile “Mondoperaio” era aperto da qualche anno, e continuerà ancora fino all’inizio degli anni Ottanta, la riflessione, ampia, articolata, approfondita, sul Parti Socialiste di François Mitterrand nato nel 1971, in particolare, sulla sua strutturazione. Di quelle riflessioni Craxi non tenne nessun conto. Scelse una strada molto diversa, quella della concentrazione del potere al vertice, nelle sue mani, e della personalizzazione della politica, attuata con indubitabilmente grande efficacia, lasciando troppo spazio ad alcuni signori delle tessere dalla Toscana al Veneto, dal Piemonte alla Sicilia, dalla Puglia alla Calabria. Quando Craxi se ne andò, i signori delle tessere cercarono di salvare le loro posizioni politiche, non il partito socialista. Alcuni di loro trovarono accoglienza in altri schieramenti. Il partito scomparve.
Il rinnovamento del Partito socialista doveva, secondo Craxi, passare anche attraverso una ridefinizione della cultura politica socialista: primum vivere deinde philosophari. Sinceramente, non sono riuscito a capire come si potesse pensare che il pensiero di Pierre-Joseph Proudhon potesse essere contrapposto a quello di Karl Marx. Potesse dare vita a una nuova cultura politica fermamente socialista. In quello che rimane il migliore dei discorsi riformisti di quel periodo all’insegna dei “meriti e bisogni” (Rimini, giugno 1982), Claudio Martelli non fa nessun riferimento all’inutile Proudhon, mettendosi in sintonia con il pensiero socialista nel resto dell’Europa e, in parte, con quello progressista degli USA. Se Craxi voleva davvero portare non solo il PSI, ma la sinistra italiana, comunisti naturalmente inclusi, avrebbe dovuto guardare al pensiero e all’azione dei partiti socialdemocratici e, subito aggiungerebbe Valdo Spini, laburisti in Europa. Praticamente, nulla di tutto questo avvenne nel quindicennio craxiano.
Naturalmente, è lecito sostenere che quelli furono gli anni nei quali cominciava un po’ dappertutto il declino dei socialisti come partito di governo, ma non veniva affatto meno l’elaborazione teorica o, quantomeno, il riconoscimento delle nuove sfide sociali e culturali prima ancora che politiche. La bibliografia in materia è persino troppo ampia perché si possa citarla e non voglio privilegiare nessuno studioso in particolare. Alla vivida illuminante luce del senno di poi, tutti sono in grado di constatare che in Italia la cultura politica socialista è sostanzialmente scomparsa e che l’inizio di quella scomparsa può essere collocato nel periodo di Craxi. A scanso di equivoci, mi affretto ad aggiungere che, in modi diversi, anche i comunisti italiano non seppero trasformare la loro cultura politica e, sostanzialmente, vi rinunciarono. Quel Partito Democratico di Sinistra fondato il 1 febbraio 1991 era sostanzialmente alla ricerca di fondamenta culturali che non trovò mai e che, di conseguenza, non furono trasferite nel Partito Democratico.
Per diventare più influente il Partito socialista doveva ovviamente crescere. Poteva farlo attraendo nuovi elettori al loro primo voto, ma anche elettori che ritenessero inadeguata la rappresentanza politica offerta loro sia dai democristiani sia dai comunisti. A mio parere c’erano molte diversamente buone ragioni a giustificazione dell’abbandono da parte di molti elettori di entrambi i grandi partiti-chiesa, per usare il termine inventato da Francesco Alberoni, e della loro ricerca di una rappresentanza laica e progressista. Però, Craxi, da un lato, continuò a rimanere in alleanza con la DC a livello nazionale, dall’altro, sfidò il PCI, anche su tematiche importanti, come quella del sostegno da dare ai dissidenti dei paesi comunisti. Lo fece in maniera molto ostile, ma soprattutto senza mai esprimere il suo aperto, esplicito sostegno all’alternativa di sinistra. Quello che molto correttamente Giuliano Amato e Luciano Cafagna definirono Duello a sinistra. Socialisti e comunisti nei lunghi anni ’70 (Bologna, il Mulino, 1982), finì per indebolire entrambi, certo anche per responsabilità del PCI, dei suoi dirigenti e delle loro inadeguatezze, ma, soprattutto, disorientò l’elettorato. Da allora, la “sinistra” italiana non ha smesso il suo declino che, a mio modo di vedere, non è né inevitabile né irreversibile.
Bisognava cambiare anche le regole del gioco, ma non perché la Costituzione italiana fosse “superata” o costituisse un ostacolo ai cambiamenti quanto perché un gioco almeno in parte nuovo avrebbe offerto sfide e opportunità non soltanto ai protagonisti partitici (e sociali), ma soprattutto agli stessi cittadini. La proposta di Craxi di una Grande Riforma fu, al tempo stesso, importante, ma anche indefinita. Mirava esplicitamente a scuotere il “bipolarismo” DC/PCI, ma anche a trasformare le modalità della competizione politica e di governo. Non so se con il suo pregevole libro Una Repubblica da riformare (Bologna, il Mulino, 1980) Giuliano Amato si ponesse anche l’obiettivo di precisare contorni e contenuti di una Grande Riforma che portasse a una forma di governo semi-presidenziale non dissimile da quella della Quinta Repubblica francese (che continuo a ritenere un obiettivo da perseguire). So, però, che non fu quella la strada intrapresa da Craxi. In Commissione Bozzi i socialisti frenarono praticamente su tutto. Oggi, quasi dimenticata, l’unica riforma per la quale Craxi si batté con successo fu l’abolizione del voto segreto nelle aule parlamentari, una riforma regolamentare importante che avrebbe potuto anche condurre a più democrazia nei partiti e a migliore rappresentanza politica. In seguito, quando arrivò l’opportunità di scuotere il sistema politico italiano in uno dei suoi gangli costitutivi, la legge elettorale proporzionale, Craxi commise un errore politico letale non solo opponendosi, ma finendo per apparire il capofila dei conservatori istituzionali proprio mentre, a fatica e non senza divisioni interne, gli ex-comunisti approdavano alla spiaggia della preferenza unica e si apprestavano ad andare nel mare aperto di una legge elettorale non più proporzionale.
Insomma, sono convinto che si possa legittimamente concludere che Craxi non seppe condurre fino in fondo le importanti battaglie che aveva iniziato. Non ha bisogno di nessuna riabilitazione poiché la sua figura politica ha effettivamente dominato gli anni Ottanta. Neppure, però, servono gli elogi incondizionati che impediscono di predisporre gli strumenti indispensabili per una strategia riformista: partito, cultura politica, istituzioni. Continuons le combat.
Gianfranco Pasquino, Professore Emerito di Scienza politica dell’Università di Bologna, è stato Senatore della Sinistra Indipendente dal 1983 al 1992 e dei Progressisti dal 1994 al 1996. Il suo libro più recente è Minima Politica. Sei lezioni di democrazia (UTET 2020). In corso di stampa Libertà inutile. Profilo ideologico dell’Italia repubblicana (UTET, febbraio 2021).
Craxi Sine ira ac studio @Mondoperaio
Da Mondoperaio 3/4, 2020, pp. 81-85
Non ho mai “odiato” Craxi, ma neanche l’ho esaltato. Nel 1987 quando mi candidai a capogruppo della Sinistra Indipendente del Senato una schiacciante maggioranza dei colleghi mi votò contro perché, dissero, ero filo-socialista. In verità, ero (e continuo a essere) irrimediabilmente a favore di un’alternativa di sinistra che, allora, come oggi, richiede un forte partito socialista. Non dissi e non scrissi mai che Craxi aveva prodotto una “mutazione genetica” del Partito Socialista Italiano. Ho incontrato Craxi tre volte. La prima all’inizio del 1978 in un hotel di Roma. Invitato da Luigi Covatta stavamo preparando il Progetto Socialista che il segretario avrebbe illustrato al Congresso di Torino nell’aprile di quell’anno. Facendo una visita improvvisa Craxi chiese “chi è Pasquino?” Non perché io fossi particolarmente importante, ma perché ero l’unico di quel piccolo gruppo che non conosceva. La seconda volta fu nel dicembre 1988 alla commemorazione nella Sala Zuccari del Senato in occasione del decimo anniversario della morte di Lelio Basso. Ero seduto in prima fila, ma molto defilato rispetto agli oratori. Nell’unico posto libero di fianco a me si sedette Craxi arrivato all’ultimo momento, appena affannato. Notai che era elegantemente vestito con una camicia bianca impeccabile. Come se ci conoscessimo da tempo (e/o mi avesse subito riconosciuto), in poche parole mi ricordò che aveva conosciuto Basso negli anni quaranta nello studio di avvocato di suo padre a Milano e sbuffò che quel Rodotà lo irritava alquanto e non solo per il suo eloquio. La terza volta, non ricordo precisamente l’anno, forse il 1990, ma il mese e il giorno sì: giugno, sabato mattina. Doveva esserci una qualche votazione eccezionale in Senato. Saranno state le 9 e mezza. Entrai in Piazza Navona provenendo da Via Zanardelli (cioè, dal Tevere). Lo facevo regolarmente perché la vista dell’intera piazza senza turisti mi affascinava. All’altezza dell’edicola, che da oramai troppo tempo non esiste più, notai un uomo alto in camicia bianca le maniche appena arrotolate. In una mano aveva un pacco di giornali, con l’altra teneva affettuosamente un bambino (oggi direi il nipotino) con il quale parlava camminando lentamente e piegandosi per ascoltarne le domande. Era un Craxi assolutamente inaspettato e imprevedibile in questo quadretto di famiglia. Non lo vidi più.
Ho citato questi tre episodi poiché, seppure in maniera diversa, gli autori dei due libri che danno spunto alle mie riflessioni (Claudio Martelli, L’antipatico. Bettino Craxi e la Grande Coalizione, Milano, La nave di Teseo, 2020, pp. 223, e Fabio Martini, Controvento. La vera storia di Bettino Craxi, Soveria Mannelli, 2020, pp. 202) evidenziano e sottolineano che Craxi era, volente o nolente, antipatico, spesso facendo dell’antipatia che suscitava anche un elemento politicamente rilevante, uno strumento di percussione. Non sono del tutto convinto che l’antipatia sia stata la cifra dominante del suo modo di fare politica, ma, certo, Craxi non mirò a conquistare il potere e il consenso attraverso affermazioni melense e comportamenti ossequiosi. In qualche modo, la sua durezza naturale costituisce un elemento centrale, consapevolmente e deliberatamente utilizzato da Craxi, primo leader italiano a fare ricorso a quella che in seguito è stata definita la personalizzazione della politica. Ma Craxi aveva un partito. Lo aveva conquistato. Ne fu il legittimo sostanzialmente incontrastato leader dal 1976 al 1993. Sia Martini sia, soprattutto, Martelli mettono in grande evidenza la storia (e la lealtà) di partito di Craxi, il suo percorso dentro il partito, ma anche la sua scelta (obbligata) di agire per rafforzare, anche economicamente, l’organizzazione del partito. Di fronte a quello che Craxi stesso definì “bipolarismo” di due partiti grandi e ben finanziati con metodi che sappiamo essere stati più che riprovevoli, tutto quello che serviva a potenziare il suo PSI gli sembrò accettabile.
Al proposito, però, mi pare che entrambi gli autori trascurino due aspetti molto importanti. Da un lato, Craxi non acquisì mai pieno controllo sul PSI. Anzi, lasciò, ma, forse, non poteva fare diversamente, che alcuni “luogotenenti” si imponessero come padroni dei partiti socialisti locali: dal Piemonte al Veneto, dalla Toscana alla Puglia, dalla Campania alla Sicilia, facendo il bello (per loro) e il cattivo (per la reputazione del PSI) tempo. Dall’altro, non solo non tollerò mai il dissenso interno, considerandolo elemento di divisione e pensando di saperne di più, ma accettò pratiche, come l’acclamazione a segretario al Congresso di Verona nel 1984, che non soltanto agli occhi degli avversari ne accreditarono le critiche di autoritarismo (respinte come assurde sia da Martini sia da Martelli). Credo sia tuttora opportuno ricordare che la democrazia nei partiti, già difficile da definire, non costituì certamente il tratto dominante del PCI né, ancorché in misura inferiore, della DC, partito di oligarchie competitive. Anche il vantato “decisionismo” di Craxi fu interpretato come inevitabile conseguenza di pulsioni autoritarie. Sul punto ho sempre dissentito asserendo che il decisionismo accompagnato dalla assunzione di responsabilità si colloca pienamente nel funzionamento delle procedure democratiche. In questa luce, ho valutato molto positivamente la affermazione di Craxi che in caso di vittoria degli abrogazionisti nel referendum sul taglio di alcuni punti della scala mobile, il Presidente del Consiglio si sarebbe dimesso “un minuto dopo” (Martini, p. 91).
Un partito non è soltanto organizzazione sul territorio e coesione interna. La sua forza dipende anche dalla capacità di esprimere una visione del mondo (“tu chiamala, se vuoi, ideologia”) e della società in cui agisce per conquistare il potere necessario per cambiarla e per migliorarla. Sfidare la DC, ma soprattutto i comunisti contrapponendo al loro fatiscente marxismo e al gramscismo ritualizzato, certamente non adatto all’interpretazione (e al governo) di una democrazia relativamente affluente un Vangelo socialista che aveva le sue fondamenta nel pensiero di Pierre-Joseph Proudhon (1809-1865) fu una scelta provocatoria, ma certamente non felice e, comunque, del tutto inadeguata all’obiettivo. Un partito che voleva essere più moderno dei suoi due maggiori antagonisti non avrebbe in nessun modo dovuto cercare dei riferimenti culturali in un pensatore della prima metà del XIX secolo, soprattutto quando il gruppo degli intellettuali socialisti era già andato molto più avanti nelle elaborazioni presentate sulle pagine di “Mondoperaio” (si veda il capitolo del libro di Martini intitolato “Gli intellettuali disorganici”). Quel “Vangelo” cadde rapidamente nell’oblio, superato da quella che rimane la più alta elaborazione socialista di quei tempi: il discorso su “meriti e bisogni” di Claudio Martelli alla conferenza programmatica di Rimini, 31 marzo-4 aprile 1982, quanto di più vicino si potesse avere alle promesse, alle esperienze e alle prestazioni delle socialdemocrazie scandinave.
Elegantemente, Martelli non si auto-elogia, mentre lapidariamente Martini intitola l’apposito paragrafo “I meriti e i bisogni, ma Bettino non applaude” (pp. 102-103). Comunque, in seguito, logoratosi il rapporto con gli intellettuali che avevano molto contribuito alla Conferenza Programmatica di Rimini, 31 marzo-4 aprile 1982, anche i meriti e i bisogni scomparvero dall’agenda di Craxi e del PSI. In verità, qualche “bisognoso” venne molto concretamente aiutato da Craxi. Furono i dissenzienti dei paesi comunisti e non pochi oppositori dei regimi autoritari del Terzo Mondo. Questa è una pagina dell’attività di Craxi lasciata alquanto in ombra che, invece, per giungere ad un bilancio equilibrato della sua opera politica deve essere illuminata proprio come fanno Martini e Martelli. Il primo intitola tutto un pregevole capitolo “Il finanziatore dei diritti umani”. Il secondo si esprime senza mezzi termini: “Non c’è, non è mai esistito un leader politico dell’Italia repubblicana che abbia difeso con tanto coraggio e tanta coerenza, a Est e a Ovest, la libertà degli uomini e i diritti dei popoli come Craxi ha fatto per tutta la sua vita” (Martelli, p. 84).
È arcinoto che il giusto e ammirevole sostegno ai dissidenti nei paesi comunisti serviva anche, ma perché no?, per mettere in evidenza le contraddizioni del Partito Comunista Italiano. D’altronde, Craxi non poteva che mirare a sottrarre voti al PCI con l’obiettivo di sorpassarlo. Quando il Parti Socialiste di Mitterrand superò in voti il Partito Comunista francese si poté permettere il lusso di includerlo nella coalizione di governo. Dunque, quello che Giuliano Amato e Luciano Cafagna chiamarono Duello a sinistra (sottotitolo Socialisti e comunisti nei lunghi anni 70, Bologna, Il Mulino, 1982) era assolutamente inevitabile. Avrebbe persino potuto essere produttivo. Invece, divenne uno scontro esageratamente personalizzato “Craxi contro Berlinguer”, con i comunisti che non smisero mai il loro, peraltro largamente ingiustificato, atteggiamento di superiorità politica, etica, personale. L’episodio che fece maggiormente scalpore, l’ho ancora nelle orecchie, furono i fischi con i quali, in maniera del tutto irrituale, ma non organizzata, i delegati socialisti accolsero al Congresso di Verona nel 1984 il segretario del Partito Comunista. Ricordo di avere ascoltato alla radio il racconto, monco, dell’avvenimento, vale a dire soltanto la frase di Craxi “non mi sono unito a questi fischi solo perché non so fischiare”. Opportunamente, Martini ricorda che Craxi aveva premesso che l’ostilità dei delegati socialisti non era diretta a una persona, “ma a una politica profondamente sbagliata” e che “se i fischi erano un segnale politico contro questa politica”, allora Craxi aveva più di un motivo per condividerli (p. 123). Quel duello a sinistra condotto senza regole e senza esclusione di colpi avrebbe travolto sia il PCI non più di Berlinguer sia Craxi e il PSI, terminando con la morte della sinistra in Italia. Non credo che riflettere su quegli avvenimenti porti alla resurrezione, ma penso che sia comunque un dovere di onestà intellettuale ricordarli.
Inevitabilmente, la valutazione dell’uomo politico Craxi continua ad essere tuttora affidata a due insiemi di avvenimenti: primo, il finanziamento illecito del Partito Socialista che ha preso il sopravvento sul secondo, vale a dire l’esito della sua attività politica. Continuo a ritenere scandaloso il silenzio, solo parzialmente imbarazzato, dei dirigenti degli altri partiti alla Camera dei Deputati quando (3 luglio 1992) Craxi denunciò la corruzione del sistema nel quale tutti i partiti operavano (erano “costretti” a operare). Sia Martelli sia Martini (paragrafo intitolato “il discorso-verità”) si soffermano sul discorso di Craxi che vale la pena di riportare nel suo punto centrale: “Buona parte del finanziamento politico è irregolare o illegale” e “se gran parte di questa materia deve essere considerata materia puramente criminale, allora gran parte del sistema sarebbe un sistema criminale. Non credo che ci sia nessuno in quest’aula, responsabile politico di organizzazioni importanti, che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo” (Martini, p. 152). E nessuno si alzò. Nessuno prese la parola. Martini commenta “quel silenzio [fu] il preannuncio di un rito collettivo: il capro espiatorio” (p. 153). Concordo in larga misura con l’interpretazione di Martini e di Martelli (pp. 208-209) che a Craxi fu riservato il ruolo di capro espiatorio in special modo perché aveva tentato di scardinare equilibri consolidati fra DC e PCI e tutti i loro numerosi sostenitori di riferimento i quali, certo, non volevano che si spalancassero i loro altarini. Martini scrive di un “complotto”; Martelli fa i nomi di uno schieramento impressionante che si attivò contro Craxi. Ripetutamente fa cenno ad un “partito del potere e del denaro” scivolando in una visione complottistica della politica che non mi pare del tutto convincente. Penso anche che da allora la situazione è soltanto parzialmente cambiata (non mi avventuro a scrivere migliorata), ma che il problema di come fare sì che il denaro non conti più dei voti, spesso, peraltro, acquisiti proprio con il ricorso al denaro e allo scambio di risorse improprie, non è affatto stato risolto nella politica italiana.
Sul secondo insieme di avvenimenti né Martini né Martelli offrono quanto ritengo sarebbe necessario e, quel che più conta, non vanno abbastanza a fondo. È possibile e giusto sostenere che quando Craxi lasciò l’Italia per Hammamet, la sua politica era stata sconfitta? Se il suo obiettivo dominante era quello di spaccare il bipolarismo DC/PCI, nei fatti era stato conseguito, ma non grazie alla azione e alla determinatezza del PSI quanto, piuttosto, a causa della caduta del Muro di Berlino e del successivo disfacimento della DC. Se, invece, il suo obiettivo era costituito dalla formazione di un governo progressista imperniato sul PSI, allora nulla di tutto questo abbiamo visto né allora né dopo. Provocatoriamente, scrivo che il Partito Democratico è la riaffermazione in forme diverse, più deboli, ma largamente rappresentative, del bipolarismo fra post-comunisti e post-democristiani. Il sistema partitico italiano è sostanzialmente destrutturato. Da qualche tempo nessuno parla più di alternanza e meno che mai di “alternativa”. Se il test dell’opera di uno statista consiste nella sua eredità, cioè nel lasciare il sistema politico in condizioni migliori di quando lo ha governato, Craxi non ha superato il test. Lo scrive con nettezza Martelli: “voleva e ha perseguito una grande riforma della repubblica e delle sue istituzioni, ma ha mancato l’obiettivo” (p. 216). Martelli attribuisce la sconfitta all’ ”l’insuperabile e irresponsabile rifiuto di quasi tutte le altre forze politiche” (ibidem), ma si può legittimamente affermare che quella Grande Riforma rimase sempre vaga (con una terminologia appropriata Martini intitola il suo paragrafo in materia “La Grande Riforma, un’araba fenice”, pp. 115-118), e che, presto, Craxi smise persino di perseguirla. Si adeguò in attesa di tempi che non sono venuti. La verità è che il grande giocatore di poker aveva bluffato e non ebbe il coraggio di rischiare, di andare a vedere le carte altrui per timore di perdere.
Curiosamente, sia Martelli sia Martini concludono il loro libro con un riferimento-paragone fra Aldo Moro e Bettino Craxi. Sobriamente, Martelli nota che “come quella di Moro, anche la famiglia di Craxi ha rifiutato i funerali di Stato offerti da un’ipocrita nomenklatura” (p. 217). Martini va oltre aggiungendo che “tutti e due vollero riposare per sempre in cimiteri appartati” (p. 191). Premesso che, contrariamente a una imponente letteratura apologetica, ritengo che neppure Aldo Moro è in grado di superare il test dello stato del sistema politico che contribuì a plasmare in trent’anni ai vertici del potere, ovvero del suo miglioramento, non mi parrebbe inopportuno procedere ad una valutazione “tra luci e inevitabili ombre” del loro rispettivo contributo che, però, non centrerei e neppure limiterei, come suggerisce Martini (p. 192) al “consolidamento della democrazia in Italia” e “alla conquista della libertà in tanti Paesi oppressi dalla dittatura”. Temo che nella valutazione complessiva di entrambi questi leader politici, sicuramente di alta statura, un po’ tutti gli analisti, non solo Martini e Martelli, si facciano troppo influenzare dalle loro più che infelici morti. Per entrambi i leader chiederei maggiore equanimità che non rinunci alla critica della loro politica. I due libri che ho qui discusso vanno positivamente in questa direzione, ma rimane ancora molto da fare.
Primum vivere, deinde scribere l’autobiografia
Recensione del libro di Claudio Martelli, Ricordati di vivere, Bompiani, Milano, 2013, pp. 594
Il titolo dell’autobiografia politica di Claudio Martelli mi ha molto incuriosito. Però, giunto alla fine di una lettura sempre molto interessante confesso di non averlo capito. Deve essere un monito per altri, non identificati personaggi, forse per quei troppi dirigenti socialisti dei suoi anni ruggentissimi che, oltre che alla politica, si dedicavano alla ricerca di mezzi per stare in politica, per crescere nelle cariche e per arricchimento personale (“convento povero, frati ricchissimi” nella valutazione del socialista Rino Formica)? Certamente, a giudicare da quello che scrive lo stesso Martelli, lui non ha avuto bisogno di nessuno che gli ricordasse di vivere. Tralasciando per il momento il suo arrembante percorso politico, durato poco meno di trent’anni, quindici dei quali in ruoli importanti (quattro legislature alla Camera dei deputati, a lungo vice-segretario del PSI, Ministro della Giustizia e vice-Presidente del Consiglio, infine, dal 1999 al 2004 Europarlamentare), ha “goduto di generosi benefit del partito, spese di segreteria, affitto di appartamenti, macchine, viaggi, alberghi, ristoranti”. Tutto questo gli è servito per “fare politica onestamente e anche godere di agi e vantaggi” grazie “a Craxi e al Partito socialista, che [lo] hanno messo al riparo dai rischi di dover[s]i procurare le risorse necessarie per [lui], per i [suoi] collaboratori, per le campagne elettorali, per i continui trasferimenti di un piccolo apparato” (p. 578). Anche nel privato Martelli non si è affatto dimenticato di vivere: belle e avventurose vacanze dalla California al Kenya e una pluralità di rapporti sentimentali più che soddisfacenti e, se posso permettermi, molto variegati: due mogli, quattro figli da tre diverse compagne. Ce n’è abbastanza per riempire la vita anche di un uomo irrequieto, alla ricerca di qualcosa di non specificato, forse non soltanto di potere politico, ma di riconoscimento, che plachi la sua irrequietezza.
Dev’essere davvero difficile (vedo in giro molti esempi, di gran lunga meno interessanti di Martelli) per gli uomini che hanno avuto potere e che lo hanno per le più diverse ragioni, spesso soprattutto per loro demerito, perduto, rassegnarvisi graziosamente e intraprendere una second life. Se non hanno avuto altro interesse e altro scopo nella vita che quel potere politico, ahi ahi, la privazione diventa insopportabile poiché non sanno come occupare il loro tempo. Continuano a strusciare, finché possono, i piedi nel Transatlantico di Montecitorio, cercano di farsi citare dai giornalisti, vanno alla ricerca di qualche comparsata televisiva da ex. I più fortunati si fanno ficcare in qualche Commissione per la revisione di qualsiasi cosa non funzioni nello Stato italiano (e spesso vi riescono): patetici. Martelli, no. Questa autobiografia può essere letta non soltanto come il tentativo di riscrivere un pezzetto, importante, di storia italiana, socialista, personale, ma come una catarsi.
Ho cercato di capire le motivazioni del fatidico ingresso di Martelli in politica. Potrei dire che ho intravisto molta, legittima, ambizione, forse anche gli incentivi del tempo, inizi anni sessanta, non so se fin da subito, ma sicuramente in seguito, anche il tentativo di cambiare la politica, più che a livello locale, dove pure ebbe qualche responsabilità pratica, soprattutto a livello nazionale. E’ l’incontro con Craxi che segna la svolta decisiva e, per Martelli, molto positiva. Sono le differenze d’opinione con Craxi che, ad avviso di Martelli, impedirono cambiamenti cruciali, ad esempio, quello della (auto)riforma del partito, proposta da Martelli quando Craxi era già arrivato a Palazzo Chigi, quindi dopo il 1983 (pp. 311-321). Sono, infine, le divergenze con Craxi sui tempi e sui modi di proseguire la politica socialista poco prima del crollo del muro di Berlino. “Ancora alla vigilia del crollo dei muri, l’apparenza sembrava giustificare la tattica attendista di Bettino, che saldo su se stesso e sul suo partito si limitava a regolare il gioco politico dividendo gli alleati, logorando gli avversari, aspettando che un nuovo ciclo gli restituisse lo scettro [sic] con il ritorno a Palazzo Chigi o magari, chissà ( anche di questo abbiamo ragionato e vagheggiato in certi momenti), gli aprisse la strada al Quirinale” (p.439), che segnano una profonda e dolorosa incomprensione. Molto diversa erano la diagnosi preveggente e la strategia suggerite a Craxi da Martelli: “Una stagione politica è finita e pensare di ripeterla è molto rischioso. Che cosa può dare di più di quello che ha già dato nei quattro anni in cui sei stato presidente del consiglio? L’alleanza con la DC è esaurita, la DC è esausta, rischiamo di farci trascinare nella sua decadenza. Prepariamo qualcosa di nuovo, prepariamo un nuovo ciclo, dedichiamoci a riunire e guidare una sinistra divisa, confusa. Bettino, non basta parlare di unità socialista, formularla come un diktat, come un prendere o lasciare. Dobbiamo essere pronti anche noi a rinunciare a qualcosa, persino al governo se è necessario per costruire qualcosa di grande. … Dobbiamo puntare alla presidenza della repubblica, perché è da lì che si guiderà la nuova fase politica” (pp. 511-512).
Pure essendo molto consapevole del ruolo molto influente svolto dai Presidenti: da Scalfaro (poi criticatissimo da Martelli), in misura inferiore, da Ciampi, in misura enormemente superiore da Napolitano (regolarmente descritto da Martelli come molto attento alle preferenze e alle esigenze del PSI), non intendo discutere della validità dell’asserzione di Martelli (guidare la nuova fase politica dal Quirinale), ma trovo curioso come nella sua autobiografia i rapporti Craxi-Berlusconi siano appena accennati e il potere successivo di Berlusconi non sia neppure preso in considerazione. Maliziosamente aggiungerò che parecchio spazio viene concesso, invece, a Gelli e agli incontri da Martelli avuti con il capo della P2. Ancora più curioso è che Martelli scriva della necessità di “riunire e guidare” la sinistra, divisa e confusa, praticamente cancellando quello che mi era sembrato l’impegno predominante del suo agire politico, oserei aggiungere, intellettuale e culturale: costruire una grande forza politica liberalsocialista. Affronterò questo importantissimo aspetto facendo riferimento a due nomi, diversamente molto significativi, e a un evento straordinariamente importante. La premessa, di cui Martelli potrebbe dolersi, sta in una sua frase: “La coerenza è una virtù che parla di noi ma ha poco a che fare con la realtà” (p. 499). Quindi, essere incoerenti non è soltanto giustificabile; diventa assolutamente indispensabile. Qui, entra in campo, preceduto da critiche durissime (che sono spesso molto condivisibili) al Sessantotto e alle sue manifestazioni, il capo di “Lotta Continua” (e il direttore dell’omonimo giornale) di uno dei movimenti di maggiore successo, allora e oggi: Adriano Sofri. Mi limito a registrare un siparietto svoltosi nel 1985 in occasione del loro primo incontro nelle sale della rivista socialista “Mondoperaio”. “A riunione conclusa, Sofri mi abbordò: ‘Mi avevano detto che ci assomigliamo, ma tu sei più bello’. Scherzo per scherzo, risposi: ‘Tu sei più intelligente’ ” (p. 329). Resisto, ma davvero con molta fatica, dal commentare quanto di questo scambio riveli delle personalità di entrambi. Registro, invece, le molte parole che Martelli spende per sottolineare un’ampia concordanza di vedute con Sofri, del quale non riesco a ricordare espressioni lontanamente avvicinabili al “liberalsocialismo”.
Il secondo nome è Norberto Bobbio, il relatore della mia tesi di laurea all’Università di Torino, ovviamente, non il più noto e il più rilevante dei suoi meriti intellettuali e dei suoi contributi alla cultura politica di un paese refrattario, per di più schiacciato fra il cattolicesimo e il comunismo. Bobbio, uno dei grandi maestri del liberalsocialismo, viene citato tre volte. Nella prima citazione incidentale viene collocato insieme con Federico Mancini (con il quale non aveva praticamente nulla in comune) fra i “maestri tradizionali” (p. 212). La seconda volta, ricorda Martelli, di essere incorso “nella censura, amichevole, ma severa, di Norberto Bobbio: ‘equità e eguaglianza sono sinonimi’ [ho i miei dubbi sulla veridicità dell’attribuzione di questa frase a Bobbio] e mi rimandò a una bibliografia, –piuttosto datata, a dire il vero–… Replicai che tutto ciò che chiamiamo e amiamo con il nome di liberalsocialismo ruota intorno al tentativo di conciliare libertà ed eguaglianza in una sintesi superiore, più comprensiva e più mobile” (p. 333-334, corsivo mio). Avrei sperato che, per quanto “maestro tradizionale” e antico, Bobbio avesse imparato la lezioncina. Invece, qualche tempo dopo, a Bobbio toccò di ricevere un’altra severa e sprezzante critica: “a definire destra e sinistra non basta” –scrive Martelli dall’alto della sua filosofia politica– “il rapporto che, rispettivamente, hanno l’una con la libertà e l’altra con l’eguaglianza, secondo la discutibile distinzione resa celebre da Norberto Bobbio in un libricino di successo” (p. 379, corsivi miei). Peccato che Martelli dimentichi di citare il titolo La democrazia dell’applauso, di un famoso (e “discutibile”?) articolo di Bobbio con il quale su “La Stampa” del maggio 1984 il filosofo torinese stigmatizzava l’acclamazione senza votazione con la quale Craxi fu riconfermato segretario del PSI nel Congresso di Verona. A quell’articolo vale la pena di citare anche l’immediata e sprezzante replica di Craxi: “i filosofi che hanno perso il senno”. Tutto l’episodio è omesso da Martelli. Il quesito, però, è come fare il liberalsocialismo in Italia relegando ai margini il più influente filosofo del liberalsocialismo stesso.
La risposta Martelli l’aveva già data. Questo è l’evento che ho preannunciato: il suo giustamente famoso discorso “sui meriti e sui bisogni” pronunciato alla conferenza programmatica “Governare il cambiamento” che il PSI tenne a Rimini (31 marzo-4 aprile 1982). Martelli ricorda ai lettori che quel discorso fu giudicato “da molti osservatori, dagli stessi comunisti e da un interlocutore ostico come De Mita – come “il momento più alto del nuovo corso socialista” (p. 291). Sottolinea che voleva “scrivere un manifesto del socialismo moderno”, “uscire dal discorso ideologico, dal confronto di dottrine e di esperienze politiche” … attingendo dagli esempi, dal metodo, dai percorsi e dai risultati del secolo socialdemocratico [questa è la caratterizzazione data al XX secolo da Ralf Dahrendorf], a cominciare dalla sua espressione più compiuta, quella svedese” (p. 291). Fu senza nessuna riserva un discorso efficacissimo, persino entusiasmante, che riuscì, almeno con le parole, a coniugare in maniera ispirata il liberalismo, premiare i meriti, con il socialismo, liberare dai bisogni. Proprio il liberalsocialismo che Bobbio aveva provveduto a teorizzare da almeno trent’anni. “Il discorso di Rimini fu interrotto da applausi ripetuti, intensi e da un’ovazione finale lunga cinque minuti, con tutti i delegati in piedi e non pochi con le lacrime agli occhi, come mostrano i video d’epoca. Solo Craxi rimase seduto” (p. 298, corsivo di commento mio). Il resto è storia. Il PSI non seppe, non volle, non cercò di applicare quei due principi. Martelli continuò a fare il delfino di Craxi e Craxi continuò a dedicarsi alle manovre per (ot)tenere il potere, alla fine rifiutandosi di cederlo per tempo a Martelli.
Tralascio qui due elementi che, invece, Martelli sottolinea: il suo intenso e meritorio rapporto con Giovanni Falcone e le sue alquanto logore e banali, a mio parere, spesso esagerate e non inoppugnabili, critiche alla magistratura. Un ex-Ministro della Giustizia dovrebbe saperne di più e avrebbe dovuto agire rapidamente e più a fondo nei confronti dei magistrati corporativi, politicizzati, carrieristi, inefficienti. Tutto questo vale per un bilancio della sua personale traiettoria politica. Quanto all’operato complessivo, “quel che Craxi ha fatto, quel che abbiamo fatto insieme e con tanti altri compagni merita ancora di essere studiato, discusso, compreso” (p. 591). Gli errori Martelli li attribuisce all’insistenza di Craxi su un anticomunismo obsoleto che, in verità, fu la cifra, 0quasi totalmente condivisa da Martelli, del suo agire politico. “Nettamente prevalenti sulle ombre”, le luci furono “la rinascita del PSI e di un riformismo moderno [peccato che di questo non vi sia più traccia con almeno due terzi dei socialisti confluiti in Forza Italia], la contestazione energica, democratica, vincente del comunismo italiano [che, però, ha infiacchito i rimanenti comunisti, ma non ne ha fatto dei ‘liberalsocialisti’], la prova di governo e di orgoglio nazionale, le battaglie per i diritti umani e l’indipendenza dei popoli” (p. 591). Ricordati di vivere è una storia politica di grandi successi personali la cui morale è che, alla fine, in politica, non si vince mai. Questo, forse, spiega perché nelle memorie di Martelli, la sua innegabile arroganza si combina con l’inconfessabile dolore per l’irreparabile incompiutezza della sua parabola politica.