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Atto nel segno del populismo
Con un inusitato atto di violenza populista che ha colto di sorpresa il Presidente del Consiglio e il Ministro dell’Economia, quasi tutto il gruppo dei deputati del Partito Democratico ha approvato una mozione che sostanzialmente dichiara la contrarietà del segretario del loro Partito a rinnovare il mandato al Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco. La mozione è giunta sostanzialmente inaspettata mentre Renzi, che l’ha ispirata e avallata, iniziava il suo viaggio ferroviario pre-elettorale (e mentre una apposita Commissione parlamentare sta “investigando” lo status e l’attività delle banche italiane, Banca d’Italia compresa). Non si è fatta attendere, alquanto indispettita, nella misura in cui glielo consente la sua personalità, la reazione del Presidente della Repubblica che l’ha affidata all’agenzia internazionale Reuters quasi a volere informare soprattutto gli operatori economici stranieri. Se sapesse infuriarsi, il Presidente del Consiglio lo sarebbe moltissimo così come il Ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan. Senza indulgere in nessuna illazione, ad esempio, quella che Visco è divenuto malvisto a Renzi proprio perché Bankitalia indaga su misfatti di banche in qualche modo collegate con il segretario del PD, con la sua fidata sottosegretaria Maria Elena Boschi, con loro parenti, quella mozione va valutata da due prospettive. La prima è quella europea. Proprio mentre la politica dell’Unione nei confronti delle banche dei diversi Stati-membri annuncia rinnovato rigore, indebolire in qualsiasi modo la Banca Centrale di uno Stato-membro ad opera del partito di maggioranza manda un segnale pericoloso, di una discontinuità che difficilmente potrebbe essere considerata positiva e di apertura di un conflitto non destinato ad essere facilmente ricomposto. Ne va della credibilità del sistema Italia sulla scena europea, in particolare poiché il conflitto nasce e si situa nel cuore del governo contrapponendo il segretario del Partito democratico al Presidente del Consiglio espressione di quel partito. Per quel che riguarda la situazione nazionale, va rilevato come la mozione dei deputati del PD, più volte limata e depurata (secondo alcune fonti retrosceniste la prima versione era sostanzialmente equiparabile un voto di piena sfiducia nei confronti del Governatore in carica), sembra avere rincorso la mozione dei deputati del Movimento Cinque Stelle da tempo molto critici non solo di Ignazio Visco, ma della Banca d’Italia in quanto istituzione. Dunque, il partito che Renzi dichiara costituire l’argine contro i populisti, che, secondo lui, si trovano sia a destra sia dentro le Cinque Stelle, si sposta lui stesso su posizioni populiste. Notoriamente, quando i populisti elaborano un discorso sulle istituzioni, il cuore è costituito da una sequenza di affermazioni semplici, semplicistiche, trancianti: il potere deriva del popolo, dal popolo viene esercitato attraverso le elezioni, chi ottiene il mandato politico-elettorale dal popolo sta al di sopra delle istituzioni. Secondo loro, chi ha (avuto) più voti deve contare più del Parlamento, della Magistratura e, ovviamente, della Banca d’Italia. Fra i nemici del popolo i banchieri occupano regolarmente una posizione privilegiata. Attraverso il gruppo parlamentare dei suoi deputati, ai quali il segretario del PD ha forse ricordato che sta arrivando il tempo delle ri-candidature, Renzi pretende di dettare la linea della non riconferma di Visco interferendo pesantemente nei poteri del capo del suo governo e del Ministro dell’Economia, ai quali spetta, unitamente al Consiglio direttivo della Banca d’Italia, la designazione del Governatore, e nella prerogativa del Presidente della Repubblica al quale, ovviamente, consultato in precedenza, spetta di ratificare la nomina. Quando un partito tenta di imporre le sue preferenze alle istituzioni che svolgono compiti chiaramente definiti dalla legge non è possibile non cogliere un grave e pericoloso sconfinamento populista.
Pubblicato AGL il 19 ottobre 2017
Sopruso politico dei renziani
Sostituire i componenti di una Commissione non viola né il regolamento della Camera né, tantomeno, la Costituzione. Il titolare è malato oppure, come avviene abbastanza spesso, è impegnato in un’altra Commissione -quelle non permanenti prosperano. Oppure è bloccato da inconvenienti logistici, trasporti difficili e in ritardo, oppure è in missione ufficiale in Italia/all’estero. La sostituzione, riguardante uno al massimo due componenti di un gruppo, non soltanto è praticabile, abitualmente decisa dal capogruppo (che, lo dico subito, nel Partito Democratico al momento non esiste), è anche indispensabile per garantire il numero legale e la funzionalità della Commissione. Il caso estremo, ma molto importante, è dato dalla sostituzione temporanea, ad rem, vale a dire per un provvedimento specifico, affinché subentri un parlamentare particolarmente esperto della materia in discussione. Nulla di tutto questo si applica alla sostituzione di massa, addirittura dieci, degli esponenti della minoranza del Partito Democratico in Commissione Affari Costituzionali. Non risulta che i subentranti, il cui unico titolo è quello di essere renziani “spinti”, siano più competenti in materia elettorale di coloro che hanno sostituito né che posseggano expertise non altrimenti acquisibile né, quel che conta molto, abbiano seguito il dibattito, lungo, aspro, serrato e quindi siano particolarmente preparati e in grado di dare qualche contributo per migliorare l’Italicum. Anzi, i sostituti sono stati chiamati per stare zittissimi e votare la linea. Curioso che gli stessi renziani che sostengono che non esiste un sistema elettorale perfetto difendano l’Italicum come se fosse perfetto e non accettino, per principio, nessuna miglioria.
Da qualsiasi prospettiva la si guardi la sostituzione di massa dei Commissari della minoranza non è soltanto una forzatura. E’ un sopruso politico. Grave sarebbe se diventasse anche un precedente. Tutte le volte che un capogruppo subodora che un Commissario del suo gruppo/partito esprimerà riserve o, peggio, addirittura il suo esplicito argomentato dissenso (lasciando nei resoconti una traccia significativa) che potrebbe culminare in un voto contrario, voilà, procederà fulmineamente alla sua sostituzione, naturalmente, ad rem, solo per quella discussione e votazione. Renzi, Boschi, Guerini e Serracchiani, all’unisono con tutti i renziani della prima e delle prossime ore, ovvero le ore delle (ri-)candidature, dichiarano che un partito non è e non deve essere un’armata Brancaleone (che, lo ricordo, era variegata, ma anche molto divertente). Preferiscono fare del PD una caserma dove i soldati sono costretti all’obbedienza assoluta senza discussione dai sergenti di turno. La democrazia non abita nelle caserme anche se, qualche volta, per migliorarne la funzionalità persino i sergenti ascoltano i soldati che ne possono sapere di più su aspetti specifici della vita militare.
No, i pasdaran renziani non hanno questa volontà e neppure la capacità di ascolto. Sostengono, contro tutto quello che hanno scritto i teorici della democrazia da Hans Kelsen a Norberto Bobbio, che la democrazia è decisione a maggioranza “senza se e senza ma”. Imponendo di uniformarsi alla maggioranza del gruppo, adesso in Commissione, poi, lo hanno già annunciato, coartati dal voto di fiducia, anche in Aula, i renziani rischiano di calpestare l’art. 67 che prescrive ai parlamentari di esercitare le loro funzioni “senza vincolo di mandato”. Purtroppo, non posseggo la famosa e indispensabile sfera di cristallo per prevedere che Renzi voglia comunque utilizzare l’Italicum per andare subito, facendo saltare la riforma, peraltro non di spettacolare qualità, del Senato, a elezioni anticipate sia se approvato sia se bocciato. Sono sicuro che, comunque vada, la sostituzione dei dissenzienti in Commissione è il prodromo della loro non ricandidatura. Peccato, l’imperfetto Italicum rimarrà brutto e cattivo, il Partito Democratico darà dimostrazione che il suo aggettivo non è perfettamente attinente, i cittadini non avranno maggiore potere elettorale e le prossime elezioni non miglioreranno la qualità dei parlamentari (ancora nominati per circa tre quarti).
Pubblicato AGL 23 aprile 2015