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E dopo il trasloco? @pdnetwork

Un milione e mezzo circa di simpatizzanti ha partecipato all’elezione del segretario del PD. Nicola Zingaretti. Delle sue idee di quale PD vorrebbe (ri)costruire poco si sa. In campagna elettorale non ne ha parlato. Adesso sappiamo che vuole “sbaraccare”. Il suo primo atto sarà un trasloco. Il quarto in una decina d’anni. Dal centro alla periferia. Lasciando soli gli elettori piddini che in centro abitano. Alla ricerca degli elettori perduti o mai pervenuti. Nelle periferie. Giusto. Da partito che fu centrale negli allineamenti politici a partito diventato periferico. Per “ribaraccare” lo spazio al pianterreno sarà affidato ai giovani. Reclutati come? Selezionati come? Formati con quale cultura politica? Certo, un partito è un’associazione di uomini e di donne. Anche giovani (ma non “meglio se giovani”). Per presentare candidature. Scelte con le primarie. Anche per le cariche di parlamentari nazionali, e europei. Che cercano di ottenere voti. Con quale programma e sotto quale etichetta se le elezioni sono quelle del Parlamento Europeo? Al nuovo segretario spetta di rivitalizzare l’organizzazione. Pensa di farlo chiedendo nuove elezioni. Subito? Su quale base e con quali prevedibili conseguenze? Con la legge elettorale Rosato? Che esista nel Partito Democratico anche un problema di regole, procedure, compiti, “democratici”? Zingaretti non vi ha fatto cenno alcuno. Per fortuna potrebbe impararlo, non facilmente, ma applicandosi. La lettura del libro di Floridia, Un partito sbagliato, gli sarebbe sicuramente utile. Potrebbe anche servire a distinguere meglio ruoli e potere. A cosa servono gli iscritti? O se ne può fare a meno? Anche rendendoli irrilevanti. Nessun tentativo di trasformare in iscritti coloro che lo hanno eletto segretario? Partito di massa no more vuole dire che conteranno solo i notabili? Pardon, i dirigenti. Regressione a un tempo che fu. Che sappiamo migliore dell’attuale. Conteranno solo gli eletti alle varie cariche? Dove si esprimeranno? Nei gruppi parlamentari? Verranno convocati gli spesso nominati e mai radunati Stati generali? Qualcuno si ricorda più della Conferenza programmatica? PD non più partito personale. Personalistico. Personalizzato. Se non partito fatto di persone, gli iscritti, allora partito degli elettori “primari”? Quali canali avranno questi elettori per esprimersi? Per esercitare influenza. Per valutare le scelte. Fatte, non fatte, malfatte. Come faranno valere la virtù democratica della responsabilizzazione dei decisori, dei detentori delle cariche? A partire dal segretario? Fatte le domande, chi risponderà? E come, e quando? Attendo la narrazione.

Pubblicato il 12 marzo 2019 su larivistailMULINO

Sì a proposte senza più preconcetti #direzionePd

Le premesse della riunione della Direzione del Partito Democratico di oggi non sembrano buone. Sarebbe stato opportuno che Renzi presentasse di persona le sue dimissioni ai componenti della Direzione spiegando perché sono andati perduti 2 milioni e mezzo di voti dal 2013 ad oggi, chiarendo anche quali sono i motivi per i quali il PD dovrebbe andare e rimanere all’opposizione. Invece, la lettera di dimissioni sarà letta dal Presidente del partito, Matteo Orfini e la relazione la farà il vicesegretario Martina. I problemi aperti, a cominciare dai numeri della sconfitta logica conseguenza dei comportamenti del segretario e dei suoi troppo ossequienti collaboratori, meritano una discussione approfondita e senza reticenze. La Direzione dovrebbe chiedersi perché il partito non ha saputo sfruttare al meglio gli esiti positivi, ancorché migliorabili, conseguiti dal governo Gentiloni. Sarà stata l’ambiguità della formula a “due punte”, troppo spesso utilizzata dal sovraesposto segretario e che a molti ha probabilmente segnalato la volontà di Renzi di tornare a Palazzo Chigi? Anche se l’esito elettorale della lista Liberi e Uguali è stato assolutamente deludente, chiunque voglia guidare un partito di centro-sinistra deve sapere prevenire scissioni sulla sua sinistra. Un bravo segretario tiene all’unità del suo partito, accetta il dissenso interno, vi si confronta, non lo schiaccia, anzi, mira a valorizzarlo. Comunque, qualsiasi rilancio del Partito Democratico passa attraverso il recupero sicuramente degli elettori, probabilmente anche di molti dirigenti di Liberi e Uguali. Una qualche sperimentazione di accordi potrebbe già cominciare sulla valutazione delle proposte programmatiche del Movimento Cinque Stelle per una molto eventuale formazione del prossimo governo. La Direzione non dovrebbe partire da una posizione preconcetta “stare [più precisamente “andare”, poiché il governo Gentiloni è tuttora costituzionalmente in carica] all’opposizione”. Un partito che dalla segreteria di Veltroni (2007) in poi si definisce “a vocazione maggioritaria” viola uno dei suoi precetti fondanti se si colloca pregiudizialmente fuori del gioco di formazione del governo. Potrebbe essere chiamato ad un atto di grande responsabilità politica nei confronti del paese che ha bisogno di un governo (relativamente, sic) stabile, effettivamente operativo. La Direzione dovrebbe evitare di disperdere il suo tempo a discutere delle date e delle modalità per l’elezione del prossimo segretario a scapito dei più importanti temi politici. Sono giuste le ambizioni personali, persino benvenute, se accompagnate da elaborazioni relative a che tipo di partito dovrà diventare il Partito Democratico e di quale cultura politica dovrà dotarsi. Con Renzi non c’è praticamente stata nessuna attenzione alle strutture del Partito che dovessero sostenerne le politiche, creare e mantenere rapporti e legami con l’elettorato, divulgare quanto fatto e, eventualmente, cambiare linea. Una riflessione autocritica dei molti che hanno assecondato Renzi nella trascuratezza dell’organizzazione del partito è assolutamente raccomandabile. All’inizio del 2017 le minoranze interne del PD, compresi i due candidati alternativi a Renzi alla segreteria del partito, vale a dire Orlando e Emiliano, chiesero una conferenza programmatica, che è un modo per discutere non soltanto le politiche, ma anche il veicolo grazie al quale farle camminare. Quella conferenza appare oggi ancora più necessaria, forse prioritaria. Infine, c’è il problema dei problemi vale a dire come dotare il Partito Democratico di una cultura politica convintamente e efficacemente riformista. Criticando i “professoroni”, Renzi e la sua più stretta collaboratrice mandavano anche il messaggio che della fusione del meglio delle culture riformiste italiane a loro non importava nulla. Però, senza una cultura politica riformista (che si traduce anche nel migliorare le proposte di altri) il Partito Democratico non soltanto è destinato a continuare a perdere voti, ma perderà il senso della sua stessa esistenza.

Pubblicato AGL il 12 marzo 2018

Se son fiori sbocceranno

È lecito interrogarsi sulle politiche fatte dal Partito Democratico al governo e su come proseguirle, approfondirle, cambiarle? Lo ha fatto, in maniera un po’ sommaria e brutale, l’assessore Matteo Lepore. In un partito che non soltanto accetta, ma valorizza il dibattito e la circolazione delle idee e delle proposte, a Lepore dirigenti e autorità varie del PD avrebbero dovuto rispondere sul merito, non con critiche alla persona quasi invitandolo ad andarsene. Il sindaco Merola, da qualche tempo diventato “movimentista”, impegnato nel disegno di un (nuovo?) “campo progressista”, ha difeso il diritto di parola e di ricerca di un altro PD esercitato da Lepore. Che ci sia un qualche, limitato e abitualmente sopito, disagio nel PD bolognese e, probabilmente, anche emiliano-romagnolo, è accertato. Ci si potrebbe persino chiedere perché, dopo la pesante sconfitta nel referendum costituzionale e la scissione di una parte della “ditta”, grave poiché se ne sono andate due persone, Bersani ed Errani, con una storia lunga e importante, questo disagio sia in definitiva contenuto.

La riflessione, però, non deve rimanere “contenuta”. Un partito, soprattutto se di sinistra (oops), ha il dovere di porsi costantemente il compito di indicare prospettive che contemplino anche la riduzione delle diseguaglianze, spesso inevitabile conseguenza dello sviluppo. Al Lingotto non s’è sentito nulla di tutto questo. Se, invece, di una corsa in tempi raccorciati verso l’elezione del segretario, si fosse tenuta un’austera e densa conferenza programmatica, con qualche relazione dedicata alla riflessione sulla natura e sulla cultura politica di un partito (questa volta evito “di sinistra”) progressista, allora Lepore e addirittura Merola avrebbero potuto esprimere meglio le loro perplessità e le loro proposte. Esiste ancora un’opportunità: che le proposte siano formulate nelle mozioni congressuali e che vengano fatte circolare fra gli iscritti, molti dei quali si sono, purtroppo, già prevedibilmente schierati.

No, non voglio trattare di schieramenti e di posizionamenti. Ancora una volta, però, temo che, dopo la fiammata di dichiarazioni e di richiami all’ordine (renziano), quasi tutti gli intervenuti si preoccupino delle loro carriere. Concludo facendo mia l’esortazione del Presidente Mao: che cento fiori sboccino, e affidandomi il compito a casa, ma accetto suggerimenti, di scoprire quando fu l’ultima volta che il Partito di Bologna formulò un’idea innovativa.

Pubblicato il 15 marzo 2017

Andare oltre la rimpatriata

Corriere di Bologna

È risultato gradualmente (e, per loro, dolorosamente) evidente che molti esponenti della vecchia ditta citata da Bersani non potevano più restare in un partito il cui leader, sempre spalleggiato dal suo giglio magico, li emarginava e li irrideva, delle cui idee non sapeva che farsene. Solo in piccola parte, però, lo scontro Renzi/Bersani (anche se Renzi preferisce avere D’Alema come nemico massimo), è stato sulle idee. In maniera nettamente prevalente, è stato sulle persone, sulla loro più o meno lunga storia, sulle loro, più o meno legittime, ambizioni. Consiglio sempre di diffidare dei politici che non hanno ambizioni. Il potere serve per tradurre le ambizioni in scelte e decisioni con le quali i politici ambiziosi tenteranno di acquisire ancora più consenso soddisfacendo le preferenze degli elettori. Purtroppo, lo scontro in atto dentro il PD e nei suoi dintorni è difficile da definire in termini di politiche: lavoro, scuola, diseguaglianze, migranti, Europa. Non è uno scontro fra culture politiche del passato (comunisti e cattolici democratici) di cui si poteva anche dubitare che fossero il meglio che l’Italia aveva prodotto, ma che nei dieci anni trascorsi dal varo del Partito Democratico non si sono né contaminate né, meno che mai, fuse. Semmai, confuse.

Esclusa dai renziani la conferenza programmatica che poteva essere il luogo del dibattito sulle culture politiche che mancò nella primavera del 2007, l’elezione del segretario sarà solo un modo, neanche il migliore, per contare le truppe. Il reclutamento delle truppe non può andare troppo per il sottile, soprattutto per coloro che tentano la costruzione di un “campo” nel quale fare confluire tutte le sparse membra degli oppositori di Renzi (che non cessa di personalizzare la sua politica). Nelle prime riunioni degli scissionisti, come riferite dalle cronache locali, fanno capolino molti che sono stati emarginati dai renziani, ma anche che erano usciti dalla politica poiché sconfitti, ritenuti inadeguati, qualche volta, per esauriti limiti delle loro capacità. Questa specie di rimpatriata con forti componenti generazionali è in un’incerta misura inevitabile quasi quanto il conformismo che, non nuovo nella storia del PCI e dei suoi successori, tiene insieme coloro che rimangono nel PD, pur avendo grandi differenze d’opinione. Chi se ne va ha il compito oneroso di presentare con chiarezza le alternative che propone. Sarebbe molto più credibile se quelle alternative non provenissero soltanto, per limitarmi all’Emilia-Romagna, da Bersani e da Errani. Se, poi, nelle affollate assemblee s’affacciano politici e sindacalisti di persin troppo lungo corso e latitano i giovani, allora un problema c’è.

Pubblicato il 1° marzo 2017

Ridefinire la Sinistra

Corriere di Bologna

La città di Bologna, perplessa e inquieta, s’interroga: quali saranno le prossime mosse politiche del sindaco Merola? dopo la scissione che, peraltro, avrà poco spazio nel PD conformista bolognese, davvero non andrà né da una parte né dall’altra? Si adopererà, come dichiara, per tentare, in maniera ambiziosa, di cambiare il mondo, chiedo scusa, il centro-sinistra (è fatta: il trattino l’ho messo)? Inevitabilmente, gli “antipolitici” non perderanno l’occasione di sostenere che, invece di partecipare a operazioni più grandi di lui che, nel passato, non ha mai neppure abbozzato, Merola farebbe meglio a impiegare il suo tempo cercando di governare la città. Condivido, ma, dal momento che il molto mobile sindaco prende posizioni politiche e le cambia con notevole frequenza: dalla Ditta a Renzi nello spazio di una notte, poi a Pisapia che, prima, lo ha snobbato, poi, lo ha sganciato–, è giusto cercare di capire perché e con quali conseguenze. Forse, il perché l’ha già detto candidamente lui stesso.

Giunto al secondo mandato, non potendo essere rieletto, si sente più libero. Quindi, si dedica a un’operazione, dai contenuti e dai contorni indefiniti, che, infatti, oscilla dal creare qualcosa alla sinistra del PD di Renzi fino all’ulivismo, ma su questa prospettiva vaghissima è subito stato bacchettato da una vestale dell’Ulivo del breve tempo che fu. Nell’indeterminatezza della sua operazione politica, Merola si trova, non solo poiché gli “indeterminabili” sono tantissimi, in mezzo ad un guado. L’altra sponda nessuno sa dove sia e come si configuri. Più concretamente, il PD bolognese ed emiliano-romagnolo si dedica a curare quello che c’è, le cariche (le “poltrone” nell’elegante terminologia populista renziano) presenti e future. Qualcuno, non solo gli assessori comunali Priolo e Lepore, ai quali aggiungerei il deputato De Maria, è anche già, alquanto prematuramente, in pista per la successione a Merola. Meno parlano di come ricostruire un partito, una coalizione, una politica, meglio è, per loro, ma certamente non per una sinistra che ha bisogno di ridefinirsi.

Nel lungo tragitto di amministratore di Merola non ricordo nessuna elaborazione politica sua (mi verrebbe da aggiungere, risultando provocatorio, “e dei suoi intellettuali di riferimento”). Quello che manca oggi, non soltanto al Partito Democratico nazionale, è una riflessione approfondita, forse attraverso quella Conferenza programmatica che Renzi e i suoi collaboratori hanno respinto, nella quale siano discusse e decise, non le ragioni dello stare insieme, ma gli obiettivi da perseguire. Per usare il logoro lessico della politica politicata, si parli non di schieramenti, ma di programmi, meglio di visioni. In questa direzione il Merolapensiero ha ancora moltissima strada da fare.

Pubblicato il 23 febbraio 2017

PD, un’ambizione fallita

l'Indro

Intervista raccolta da Marco Testino per L’INDRO

La storia della sinistra italiana continua ad essere segnata da divisioni e conflitti. Lo è stata sin dai suoi albori, dal quel 1892, quando a Genova nacque il partito socialista (allora Partito dei Lavoratori Italiani) e già con Carlo Dell’Avalle, il primo Segretario, iniziarono a manifestarsi le prime incertezze. La prima scissione, visto che oggi parliamo di questo, arrivò nel 1921, dopo scontri tra massimalisti e minimalisti che condussero alla creazione del Partito Comunista d’Italia. Poi, durante la Guerra Fredda, ecco arrivare lo scontro tra Giuseppe Saragat e Pietro Nenni, dal cui aspro confronto nasce un’altra costola, il Partito Socialista Democratico Italiano.

Altro evento choc per la sinistra nostrana il crollo del muro di Berlino, con il Partito Comunista che conclude il proprio percorso politico e la nascita, ad opera di Achille Occhetto, del Partito Democratico della Sinistra. Dall’altra però ecco arrivare la fondazione da parte di Armando Cossutta, Ersilia Salvato e Lucio Libertini del ‘radicale’ Partito della Rifondazione Comunista, che non avrà vita semplice, visto che nel 1998, in pieno marasma del Governo Prodi, subisce l’ennesima scissione che porta alla nascita dei Comunisti Italiani. Il Pds anche cambia pelle, arrivano i Democratici di Sinistra, con Massimo D’Alema e Walter Veltroni come primi segretari, poi dalla fusione dei Democratici di Sinistra ed alcuni membri della Margherita, arriva nel 2007 un altro passaggio storico, ossia la nascita dell’attuale Partito Democratico. Non ultima poi la scissione di una parte della sinistra con la creazione di Sinistra, Ecologia e Libertà (SEL). Ma la galassia della sinistra continua a muoversi ed ecco che una nuova scissione è pronta a sconvolgere il Pd, che ai più è sembrata solo una convivenza forzata tra elementi troppo diversi per trovare una sintesi vera.

Gianfranco Pasquino, politologo e accademico italiano, considerato tra i massimi esperti di scienza politica a livello internazionale, ci fa luce sulla questione:

Rispetto alle tante scissioni intestine alla Sinistra nel corso degli ultimi novant’anni, cosa c’è di diverso in quello che sta accadendo al Pd oggi?

Di scissioni nella sinistra italiana ce ne sono state diverse, ognuna deve esser valutata in base al partito e in riferimento alle tematiche che hanno portato alla scissione stessa. Certo, paragonare la scissione del partito comunista nel 1921 con quella di coloro che oggi vanno via dal Pd lo trovo poco in linea, bisogna ricordare che anche altrove la sinistra perde ed ha perso pezzi, come per il partito socialista in Francia che al tempo perse un pezzo chiamato poi Partito Socialista Unificato, o come in Inghilterra con i laburisti che nel ’82 persero un pezzo che poi si chiamò Alleanza Socialdemocratica, o come in Germania laddove la Socialdemocrazia perse un pezzo che si è poi riconfigurato nascendo dalla fusione tra il Partito della Sinistra ed il movimento Lavoro e Giustizia Sociale chiamandosi Die Linke. Anche i socialisti spagnoli han perso un pezzo che poi ha preso il nome di Podemos; inevitabilmente, la sinistra subisce scissioni, specialmente laddove non si riesce a raggiungere un comune accordo.

Quali sono stati gli elementi che hanno determinato nel corso del tempo questa scissione?

La Sinistra guarda al cambiamento, una parte è disponibile a cambiare molto e l’altra invece tende ad esser meno propensa a farlo; talvolta il cambiamento può esser un successo ma in questo caso la sinistra si ritrova ad esser colpita, la sinistra deve esser analizzata considerandola di base volta al progresso. I Paesi che non hanno naturale propensione ad un progresso repentino e non lo pretendono dalla sinistra, mantengono un partito unito; i Paesi in costante cambiamento non potranno che avere una sinistra instabile di natura, vuoi per ragioni culturali e generazionali. Questo porterà a decidere se velocizzare o rallentare il processo di cambiamento, sia per andar più in fretta, sia per timore di perdere pezzi preziosi.

Qual’è stato il problema di fondo del Partito Democratico e in che modo si sta muovendo e configurando la sinistra italiana al riguardo?

Il problema del Partito Democratico è che non è diventato quello che i fondatori speravano diventasse, ovvero fin dagli inizi il Pd è stato un caso di ’fusione fredda’ tra una Margherita principalmente ex democristiana con una componente prodiana e gli ex comunisti, che in modo curioso mettevano assieme il meglio della cultura riformista senza pero riuscire a mantenere intatta una riflessione o tantomeno una produzione di cultura dal partito; quello che vediamo ad oggi è il parto di una leadership senza cultura, perché questo è Renzi e la sua amministrazione, o anche la Serracchiani, nessuna cultura politica. Da un lato abbiamo la gestione di Renzi, sprovvista di un’adeguata cultura politica, dall’altra parte quelli che non hanno saputo migliorare e rinnovare i brandelli di quel che un tempo poteva esser considerata cultura politica. Il problema è identificabile dall’inizio, ricordiamo che il Pd è un partito giovanissimo e non riuscendo a produrre alcun tipo di cultura, inevitabilmente ha portato ad una scissione tra la persona di Renzi, assolutamente divisiva e le altre personalità politiche, non aiutando la coesione del Pd stesso.

Parlavamo di Podemos, rispetto alle altre sinistre europee, cosa c’è di diverso rispetto alla nostra e cosa bisogna prendere come spunto per riuscire a progredire evitando ulteriori scissioni e problematiche?

La differenza principale è che la Sinistra italiana ha una componente ex comunista, in tutti gli altri Paesi la componente maggioritaria è socialista invece, come lo è stata in Francia, in Spagna, in Gran Bretagna. La grossa differenza è che qui non c’è stata una fase socialdemocratica. Chi ha messo su il Partito Democratico doveva assimilare la componente socialdemocratica, non riuscendoci e portando agli esiti che già conosciamo.

La minoranza ‘secessionista’ del Pd come si sta configurando? La questione di cultura politica riformista verrà abbandonata?

Se invece del porre attenzione all’urgenza drammatica del tenere il congresso in tempi brevi Renzi avesse preferito una conferenza programmatica, sicuramente ci sarebbe stata la base di un dibattito culturale; in assenza di tale presupposto, i rimanenti dovranno cercare di conquistare consenso ed essere presenti nella vita politica; in ogni caso il dibattito culturale è stato rimandato fin troppo. Tra gli interventi in assemblea ve ne sono stati solo due rilevanti dal punto di vista culturale, il primo da parte di Epifani che definiva un partito riformista di sinistra, l’altro invece da parte di Veltroni che ridefiniva quello che non è riuscito a fare nella fase di struttura del Pd.

Pubblicato il 22 febbraio 2017 su L’INDRO