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Qualcosa che so di aggettivi e di Parlamenti #manipolazionedelleparole
Di tanto in tanto qualcuno (più di uno) che ha modo di esprimere frequentemente le sue opinioni in pubblico si lamenta dello povertà, faziosità, inutilità del dibattito pubblico. Anche di quello, che non c’è, sul “suo” Corriere della Sera”? Oh, yes.
Ecco un esempio non proprio minore: mia lettera a Aldo Cazzullo, responsabile della rubrica, spedita il 6 novembre
Referendum confermativo? No, e poi No.
Il referendum sulle revisioni costituzionali non ha aggettivi. La previsione dei Costituenti era che a chiederlo sarebbero stati gli oppositori della revisione approvata che, altrimenti, dopo tre mesi entrava in vigore. Dunque, referendum oppositivo. Comunque, confermativo è aggettivo che riguarda l’esito, non il referendum in quanto tale. Naturalmente, l’esito può anche essere “cancellativo”, abrasivo di quella revisione. Un referendum costituzionale richiesto da un governo sulle sue revisioni costituzionali approvate dalla sua maggioranza parlamentare si chiama plebiscito.
Cestinata la lettera; destinato a rimanere il grave errore manipolativo, con numerose altre occasioni per ripresentarsi imperterrito, non dobbiamo rassegnarci. Continuons le combat.
“La Stampa” non è stata da meno. Quasi settant’anni di scontri sulle istituzioni e ancora c’è chi pensa e scrive che le leggi le deve fare il Parlamento. Da una premessa sbagliata consegue la solita, non meno sbagliata e pericolosa, critica che sfocia nell’antiparlamentarismo ben nota malattia italiana. Servirà a qualcosa la lettera che ho spedito il 7 novembre a Andrea Malaguti, Direttore del quotidiano torinese?
Caro Direttore,
nell’articolo intitolato “Le ferie perenni dei parlamentari: perché ora lavorano due giorni a settimana” (sottotitolo) Il governo ha divorato l’attività legislativa, viaggio nelle Camere esautorate
Alessandro De Angelis commenta alcuni dati interessanti. Fino ad oggi il Parlamento italiano ha prodotto 257 leggi, delle quali 96 sono decreti, 94 sono provvedimenti del governo e “soltanto” 67 leggi di iniziativa parlamentare. Ne deduce, temo sbagliando molto, che il Parlamento italiano è stato esautorato. No, non è così. Il primo dato importante è che il Parlamento italiano produce meno leggi che in passato. Il dato è positivo, significa che sono diminuite le “leggine” e che stiamo raggiungendo i Parlamenti virtuosi: Camera dei Comuni inglese, Bundestag tedesco, Riksdag svedese. Il secondo dato, circa il 75 per cento delle leggi sono di origine governativa, non deve né sorprendere né scandalizzare. La coalizione al governo ha vinto le elezioni e ha il diritto(/dovere) di attuare il suo programma. Lo fa attraverso la sua maggioranza parlamentare. Sulla base della conformità delle sue leggi alle promesse elettorali, e della loro “bontà”, sarà poi valutato dagli elettori. La sua maggioranza parlamentare fa un buon lavoro discutendo, eventualmente emendando e migliorando, infine, approvando le leggi formulate dal suo governo. A loro volta le opposizioni parlamentari dovranno opporsi motivatamente controllando l’attività governativa, ma anche con proposte/promesse alternative. Tough life direbbero e sanno i parlamentari anglosassoni, compito difficile, che non è “fare le leggi”, che caratterizza le democrazie parlamentari. Eppure, il libro di Walter Bagehot (1867)nel quale è scritto a chiarissime lettere che il compito più importante del Parlamento non è quello di fare le leggi, ma di dare vita ad un governo, è stato da tempo tradotto in italiano: La Costituzione inglese (il Mulino 1995). Insomma.
Un bella domenica italiana al Corriere #ParadoXaForum

Il “Corriere della Sera” di domenica 26 ottobre 2025 nelle pagine della Cultura con risalto riferisce annuncia che una giuria presieduta da Aldo Cazzullo, che cura la pagina quotidiana “Lo dico al Corriere” e molto altro molto spesso scrive, ha premiato un libro scritto da Massimo Gramellini, responsabile per il “Corriere” della rubrica di prima pagina “Il Caffè”. Sabato 25 ottobre Aldo Cazzullo è stato ospite della trasmissione “In altre parole” condotta da Massimo Gramellini per rete televisiva La7. Urbano Cairo è il presidente del Gruppo Cairo Communication, proprietario de La7, e di RCS MediaGroup che controlla diverse testate giornalistiche fra le quali il “Corriere della Sera”.
Soltanto facendo mostra di molta ipocrisia, di cui, più che un merito, è un semplice fatto, non sono possessore, potrei limitarmi a dire: primo, sono tutti bravi e si meritano premi e partecipazioni; secondo, si tratta di coincidenze casuali. Ho citato alcuni pochi casi perché si sono presentati tutti insieme in nemmeno quarant’otto ore. Da attento lettore del “Corriere” sono in grado di assicurare che nel corso dell’anno questo fenomenale incrocio di scambi è frequentissimo. Comporta come prima tangibile conseguenza che per vincere un premio letterario bisogna fare in qualche modo parte di quello che un giornalista del “Corriere” definisce “circoletto”. Sarebbe utile, forse doveroso esplorare le presenze, contarle, classificarle. Compito tanto importante quanto deprimente.
Seconda considerazione: i giornalisti del “Corriere” si recensiscono a vicenda e le loro reciproche recensioni occupano grande spazio, qualche volta hanno addirittura il richiamo in prima pagina. Non ricordo di avere mai letto recensioni critiche né, meno che mai, stroncature dei libri dei componenti il “circoletto”. Più in generale, la regola che mi è stata autorevolmente riferita è che le firme del Corriere debbono astenersi nella maniera più assoluta dal criticarsi l’un altro. Persino, Giovanni Sartori a malincuore vi si uniformò. Quelle recensioni elogiative a piena pagina costituiscono spesso il biglietto da visita per gli inviti ai Festival dei libri nonché l’anticamera dei premi. Vale a dire che fanno parte integrante del problema dello strapotere del quotidiano di Via Solferino.
Non sta a me, comunque, non in questa sede, trovare soluzioni a problemi di etica professionale che, evidentemente i giornalisti del “Corriere” non considerano per niente tali. Mi limito a suggerire che, quantolmeno nel caso delle recensioni incrociate, si potrebbe operare diversamente. I recensori dei libri delle firme del Corriere siano tutti esterni, non collaboratori e non aspiranti a diventare tali.
Coda. Nel 50esimo anniversario dell’uccisione di Pier Paolo Pasolini, l’attuale direttore del “Corriere” Luciano Fontana scrive nelle pagine de La Lettura con grande vanto che scandalo non fu l’arrivo di PPP (“reclutato” dall’allora direttore Piero Ottone). “Lo scandalo è considerare il giornale come un fortino in cui si ospitano soltanto le opinioni che si condividono”. Già.
Pubblicato il 27 ottobre 2025 su ParadoXaforum
Democrazia, non melassa #paradoXaforum

Gli editorialisti del “Corriere della Sera” continuano a inquietarmi, anzi, ad irritarmi. Lo fanno con grande nonchalance. Spesso annunciano solennemente grandi verità, ad esempio, contrariamente a quel che (non) ha (mai) scritto Francis Fukuyama “la storia non è finita”. Avessero mai letto il libro! Qualche volta, poi, le enunciazioni sono non solo fattualmente sbagliate, ma pericolose poiché annegano differenze cruciali e conducono in melasse e paludi dalle quali non si esce più (e, infatti, lì rimangono a dibattersi).
“L’obiezione [alle critiche ai suoi comportamenti balordi] che Trump sia stato democraticamente eletto (come del resto Putin o Xi Jinping o Orbán o Erdogan, sorvolando sull’affidabilità di certe votazioni) non sposta di un millimetro che [la democrazia] sia entrata in una fase clinica delicatissima” (Carlo Verdelli, La democrazia archiviata, “il Corriere della Sera”, 6 marzo 2025, p. 1 e 36).
Questa frase, il cui tenore è simile a molte altre che vengono periodicamente pubblicate da “il Corriere” più spesso che da altri, è assolutamente diseducativa, nei fatti e nelle implicazioni. In primo luogo è sbagliato “sorvolare sull’affidabilità di certe votazioni”. Elezioni libere, segrete, periodiche stanno al cuore delle democrazie, ma le democrazie si fondano su diritti e Costituzioni. Si può discutere del quantum di manipolazione venga effettuato in crescendo in Ungheria, Turchia e Russia, ma di elezioni politiche democratiche in Cina non è proprio il caso di parlare. Secondo, chi scrive di politica ha l’obbligo di documentarsi, di controllare i fatti, di fare riferimenti verificabili e verificati. Il fact-checking non è un gioco di società; è un esercizio utilissimo, pedagogicamente importante, altamente democratico. Consente di aprire e svolgere dibattiti e confronti in pubblico combinando dati e interpretazioni, facendo crescere la quantità e la qualità delle conoscenze, affinando le spiegazioni.
Chi andasse, come dovrebbero sempre fare i giornalisti, gli opinionisti e, naturalmente, gli studiosi, ad analizzare le migliori serie statistiche sulle democrazie, Freedom House, Economist Intelligence Unit, V-Dem, riscontrerebbe un notevole aumento del numero dei sistemi politici democratici nel secondo dopoguerra e troverebbe traccia di alcune difficoltà e problemi di funzionamento spesso seguiti da soluzioni, e nessun crollo, tranne il Venezuela Nessun ingresso dei regimi democratici attualmente esistenti in, qualsiasi cosa significhi, “una fase clinica delicatissima”. A qualche affannato commentatore, mi sento di dire: Medice cura te ipsum.
In giro per il mondo, dall’Iran al Myanmar, sono molti gli oppositori, uomini, donne, studenti, intellettuali, che mettono regolarmente consapevolmente continuativamente a rischio la loro personale salute proprio per conquistare i fondamenti della democrazia. Questa, dove, quando, chi e come, lottano proprio per la democrazia, sarebbe una bella ricerca. Ho molte idee in materia. Quanto alla morte della/e democrazia/e non avviene per cause naturali, ma per mano di sicari e criminali. Le democrazie non muoiono. Vengono uccise, per lo più dalle elite, economiche, militari, politiche, burocratiche, religiose. Proprio mentre completo questo sintetico post, l’autorevole, come si usa dire, “New York Times”, riferendosi ad una serie di improvvisate decisioni del Presidente Trump (e del consigliere Musk), titola Democracy Dies in Dumbness: “nessun presidente è stato così ignorante delle lezioni della storia, così incompetente nell’attuare le sue proprie idee”. Ma, molto resiliente, la democrazia tollera anche la stupidità del Presidente USA. Chi vivrà vedrà.
Pubblicato il 7 marzo 2025 su ParadoXaforum
Dove porta l’antiparlamentarismo di sinistra. Scrive Pasquino @formichenews

Persino opinion-makers di lungo e onorevole corso non conoscono a sufficienza come funzionano il Parlamento e i parlamentari. Inoltre, non saprei quanto inconsapevolmente, quegli opinionisti gettano immeritato discredito non soltanto sui parlamentari, tacciandoli tutti di assenteismo, troppo pagati che lavorano troppo poco, ma anche sull’istituzione nel suo complesso, l’istituzione che, in una democrazia parlamentare, è programmaticamente centrale. Il commento di Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza politica, accademico dei Lincei, già senatore della Sinistra Indipendente
Tristo è l’antiparlamentarismo, anche quello di sinistra. “L’aula del Senato che, durante il dibattito sulle violenza, alcune foto immortalano desolatamente vuota”. Comincio con le parole di Massimo Gramellini (Corriere della Sera, 24 novembre, p. 1) che ripetono stancamente la condanna al presunto assenteismo dei parlamentari. Per quel che ne so, il processo all’aula (tutt’altro che sorda e certamente neppure grigia) comincia con la foto postata, l’ho vista sul mio X, dalla senatrice del Pd, già segretaria generale della Cgil, Susanna Camusso. Replicai subito “solo a causa della mia incurabile malattia di predicatore istituzionale. Non contano le presenze in aula a questo stadio. Gli uffici dei parlamentari hanno radio e TV [anche a circuito interno]. Conteranno i voti. Questa foto è #antiparlamentarismo di piccolo cabotaggio”. Poi è arrivato Giovanni Valentini, già direttore de L’Espresso e a lungo editorialista de la Repubblica citando Camusso e la sua foto: “Prova visibile di grande partecipazione e sensibilità” del Senato. Ritwittai con queste parole: “Prova provata. Le disposizioni contro la violenza di genere e il femminicidio sono state approvate all’unanimità dai 157 [su 200] presenti”.
Nel frattempo, Massimo Giannini, già direttore de La Stampa, editorialista de la Repubblica, aveva scritto: “Si parla di femminicidi, il Senato è deserto: ecco cos’è il potere patriarcale”. Al Senato ci sono 71 senatrici donne, tutte succubi del potere patriarcale? Poi, incurante, ma non me ne dolgo più di tanto, della mia replica, Giannini ha ripetuto lo stesso concetto in un Podcast. Forse repetita iuvant, ma non quando si tratta di errori: perseverare diabolicum. Nel frattempo, il Corriere della Sera aveva pilatescamente pubblicato la foto a colori senza commenti. Nessuno dei molti giornalisti ha cercato di scovare dov’erano tutti i senatori e tutte le senatrici assenteisti: nei loro uffici, alla buvette, in Piazza Navona? Che, per caso s’intende, fossero al corrente del contenuto del testo, che lo avessero letto, dibattito compreso, negli accurati resoconti dei lavori in Commissione, che si fidassero di chi fra loro ne sa di più? Fatto sta che al momento giusto, da qualsiasi luogo provenissero, si sono trovati al punto giusto, in aula a votare, ma, ahiloro, il fotografo se n’era già andato!
Sarebbe “bello” poter dire che questo neanche tanto sottile antiparlamentarismo di sinistra non porta da nessuna parte. Invece, primo segnala che persino opinion-makers di lungo e onorevole corso non conoscono a sufficienza come funzionano il Parlamento e i parlamentari. Punto da approfondire anche con riferimento al diritto/dovere del governo che i suoi parlamentari approvino la legge finanziaria come arriverà al voto. Another time. Secondo, non saprei quanto inconsapevolmente, quegli opinion-makers gettano immeritato discredito non soltanto sui parlamentari, tacciandoli tutti di assenteismo, troppo pagati che lavorano troppo poco, ma anche sull’istituzione nel suo complesso, l’istituzione che, in una democrazia parlamentare, è programmaticamente centrale. Difendere ruolo e prerogative del Parlamento a fronte del premierato prossimo (av)venturo diventerà molto più difficile e persino contraddittorio: perché “aspettare” il voto di parlamentari assenteisti e non auspicare e accettare rapidamente la decisione formulata e presa senza tanti fronzoli dal(la)Premier eletto direttamente dal popolo?
Pubblicato il 24 novembre 2023 su Formiche.net
Contro Meloni meritiamo un’opposizione migliore @DomaniGiornale


Gli abitualmente molto affidabili sondaggi di Nando Pagnoncelli danno Fratelli d’Italia al 30 per cento delle preferenze, in significativa crescita rispetto al 25 settembre. Due mesi dopo le elezioni si può forse ancora parlare di luna di miele. Credo sarebbe una interpretazione consolatoria per le opposizioni, ma sbagliata. Giorgia Meloni si è definita underdog. Il fatto è che è stata underestimated da quasi tutti, dentro il suo partito, tranne da pochi fedelissimi e fuori anche perché donna. I presunti continuatori dell’agenda Draghi non hanno mai dato abbastanza peso al sobrio riconoscimento da parte dello stesso Draghi della coerenza e della serietà dell’opposizione di Meloni. Non danno altrettanto prova di serietà e di coerenza gli oppositori di Meloni, alcuni preferendo offrire generosa disponibilità a collaborare, altri, in una tradizione lunga e non nobile, proseguendo per pigrizia e ignoranza, nella strada della demonizzazione che non porta da nessuna parte.
Invece, i dati sono chiari. Cito la Presidente del Consiglio nell’intervista di ieri al Corriere: esistono “una maggioranza chiara, un programma comune e un mandato popolare”. C’è un governo che ha “il dovere … di garantire un equilibrio complessivo” e all’estero “c’è grande attenzione nei confronti dell’Italia”. Non spetta a Meloni darsi la zappa sui piedi e riconoscere un esordio non proprio felice, a partire dalla disciplina del rave party e qualche “sparata” sull’omofobia del suo capogruppo al Senato che preferisce l’antico testamento alla Costituzione, e sui matrimoni in chiesa da incoraggiare a suon di migliaia di euro. Meloni ha anche imparato che non deve cercare nessun colpo ad effetto, ma attuare una strategia incrementale: poco per volta, che ha il doppio vantaggio di lasciare tempo e modo per la correzione degli eventuali errori, ciò che non funziona, e di potere accelerare e approfondire se l’intervento iniziale ha prodotto esiti positivi.
Nessuno, meno che mai i navigatissimi politici di mestiere e i coltissimi commentatori della sinistra debbono sorprendersi e indignarsi se Giorgia Meloni fa politiche di destra. Ciò che sorprende è che le opposizioni non abbiano finora capito che debbono attrezzarsi per un’azione di lungo periodo che sappia collegare la protesta di piazza, ampia e ordinata, con gli emendamenti e le proposte alternative in Parlamento. Questo è il governo che gli italiani, quelli che hanno votato e quelli astenuti, si meritano. Qualcuno, a cominciare da chi scrive e dal quotidiano sul quale scrive, forse si merita un’opposizione migliore, per dirla giornalisticamente, “sul pezzo”. Il testo da correggere già esiste. Si chiama Legge di Bilancio. Cambiarla in meglio, che per me significa a favore di coloro che hanno meno di tutto, compreso meno opportunità, si può. Il tunnel che conduce al 2027 è lunghissimo.
Pubblicato il 30 novembre 2022 su Domani
Due o tre cosine che so sulle presidenziali in Francia. Firmato Pasquino @formichenews

Il semipresidenzialismo francese con il sistema elettorale a doppio turno è un grande dispensatore di opportunità politiche. Ma soltanto a chi, conoscendolo, sa come utilizzarlo. L’analisi del professor Gianfranco Pasquino
“Una riconferma non scontata” è il titolo dell’editoriale del “Corriere della Sera”. In effetti, nessuno, meno che mai la maggior parte dei commentatori italiani, ha fatto degli sconti a Emmanuel Macron. Pochissimi, poi, si sono curati di fare due conti, ad esempio, sul numero dei voti. Nelle elezioni questi numeri assoluti danno molte più informazioni delle percentuali. Comincerò dal famigerato problema dell’astensione, secondo troppi, giunta a livelli elevatissimi. Ecco: al primo turno il 10 aprile votarono 35 milioni e 923 mila 707 francesi (73,69%); al ballottaggio 35 milioni 96mila 391 (71.99%): una diminuzione quasi impercettibile e, per di più facilmente spiegabile. Non pervenuto al ballottaggio il candidato da loro votato al primo turno circa 900 mila elettori hanno comprensibilmente pensato “fra Macron e Le Pen ça m’est égal” e se ne sono andati à la mer. I paragoni sono sempre da fare con grande cautela, ma nello scontro Trump/Biden novembre 2020 votò il 66,7% degli americani che festeggiarono l’alta affluenza e l’esito.
Nelle due settimane trascorse dal primo turno Macron è passato da 9milioni 783 mila 058 voti a 18.779.642 quindi quasi raddoppiando il suo seguito, mentre Marine Le Pen è passata da 8milioni 133mila 828 voti a 13 milioni 297 mila 760, 5 milioni di voti in più. L’aumento dei voti per Macron va spiegato soprattutto con la confluenza degli elettori di Mélenchon (più di 7 milioni al primo turno), variamente e erroneamente catalogati come populisti, più quelli comunisti (800 mila) e socialisti (di Anne Hidalgo, 600 mila). La crescita di Le Pen è dovuta agli elettori di Zemmour (2 milioni 485 mila 226). Entrambi hanno tratto beneficio dallo sfaldamento dei repubblicani già gollisti che avevano votato Valérie Pécresse : 1.679.001 elettori alla ricerca del meno peggio. Insomma, una elezione presidenziale nient’affatto drammatica, con esito largamente prevedibile (parlo per me e per fortuna scrivo quindi posso essere controllato e verificato), decisivamente influenzato dalle preferenze calcolate (che significa basate su valutazioni e aspettative) degli elettori francesi.
Honni soit colui che contava su una vittoria di Marine Le Pen per fare aumentare le vendite del giornale su cui scrive e per dichiarare il crollo dell’Unione Europea. Tuttavia, un crollo, in verità, doppio, c’è stato e meriterà di essere esplorato anche con riferimento all’esito delle elezioni legislative di giugno: ex-gollisti e socialisti sono ridotti ai minimi termini anche se con Mélenchon stanno non pochi elettori socialisti.
Uno dei pregi delle democrazie è che la storia (oops, dovrei scrivere “narrazione”?) non finisce -lo sa persino Fukuyama autore di alcuni bei libri proprio sulle democrazie- e che le democrazie e, persino (sic) gli elettorati continuano a imparare. Marine Le Pen ha annunciato che mira a conquistare la maggioranza parlamentare. Non ci riuscirà. Il doppio turno in collegi uninominali, che non è affatto un ballottaggio, come leggo sul “Corriere della Sera” 25 aprile, p. 3, offre a Mélenchon l’opportunità di “trattare” con Macron a sua volta obbligato a trovare accordi più a sinistra che al centro. Presto, avremo la possibilità di contare quei voti tenendo conto delle mosse e delle strategie politiche formulate per conquistarli e combinarli. Il semipresidenzialismo francese con il sistema elettorale a doppio turno è, come scrisse più di 50 anni fa Domenico Fisichella, un grande dispensatore di opportunità politiche, ma soltanto a chi, conoscendolo, sa come utilizzarlo.
Pubblicato il 25 aprile 2022 su Formiche.net
“Il politologo con la spider” di Ferruccio de Bortoli #recensione Tra Scienza e politica @7Corriere @Corriere @UtetLibri @DeBortoliF
L’ossessione per la scelta diretta dei presidenti @DomaniGiornale


Ancora una volta dalle pagine del “Corriere” giunge una lezione di politica e di democrazia che non ha nessun fondamento nella teoria e nella pratica proprio delle democrazie. Paolo Mieli ci aveva già raccontato, senza nessun riscontro empirico, che l’alternanza è la norma nelle democrazie occidentali e che, in assenza di alternanza, l’Italia è destinata a restare nel caos.
Per lo più, invece, nelle democrazie europee assistiamo, con l’eccezione della Gran Bretagna, non alla sostituzione in toto di un governo ad opera di una opposizione, ma alla ridefinizione, uno o due partiti escono, uno entra, della coalizione di governo. Così sta avvenendo in Germania.
Adesso Mieli sostiene, forse addirittura invoca, ispirato, ma non so quanto sostenuto, dal vescovo Ambrogio, l’elezione popolare diretta dei capi di governo e dei capi di Stato.
Nelle democrazie parlamentari, tali sono tutti i sistemi politici dell’Europa occidentale, nessun Primo ministro/Cancelliere è mai stato eletto dal “popolo”, per molte buone ragioni a cominciare dal consentire cambi di persone e cariche in caso di necessità senza tornare alle urne. Quanto ai capi di Stato, mi limito a ricordare che in Europa occidentale esistono otto monarchie (Belgio, Danimarca, Gran Bretagna, Lussemburgo, Olanda , Norvegia, Spagna e Svezia) nelle quali, naturalmente, non c’è nessun bisogno di nessuna elezione.
Nulla osta a proporre il cambiamento della forma di governo italiana da parlamentare a presidenziale o semipresidenziale, sapendo che esistono differenze profonde fra questi due modelli. Sapendo anche che l’elezione popolare diretta apre la strada a outsider che, da Trump a, ipoteticamente, Zemmour, non sembrano costruttori di buona politica.
Secondo Mieli, dare la parola al popolo nel silenzio dei “presidenziabili” italiani ri-avvicinerebbe gli italiani alla politica. Dalle pagine del Corriere qualsiasi lettore può notare che da qualche mese i “presidenziabili” parlano, eccome. Alcuni di loro sono frequenti ospiti di programmi televisivi nei quali presentano libri e raccontano storie. Insomma, le informazioni circolano e, comunque, nessuno di coloro che ha raggiunto la più alta carica della Repubblica italiana era uno sconosciuto, privo di carriera politica e biografia professionali.
Il “direttismo”, come lo definì Giovanni Sartori, a lungo editorialista del Corriere, non migliora necessariamente la politica. A riportare gli italiani alle urne e a riavvicinarli alla politica, dalla quale espressioni come “casta” e “razza poltrona” contribuiscono a demotivarli e a confermarli nei loro pregiudizi, debbono essere i partiti, magari con una legge elettorale, ne esistono diverse, che garantisca competizione e elimini la cooptazione. Nel frattempo, sono molto fiducioso che per riavvicinare i cattolici alla politica e per fuoruscire dalle “vie tortuose e imperscrutabili” dei Conclavi, ma anche dalla tutt’altro che democratica acclamazione, Papa Francesco stia formulando le regole affinché il suo successore sia eletto direttamente dal popolo cattolico.
Pubblicato il 21 novembre 2021 su Domani
Legge elettorale: tutti ne parlano senza sapere @fattoquotidiano

Si è detto che i partiti avrebbero approfittato dell’interludio garantito dal governo Draghi per procedere ad una loro raccomandabile ristrutturazione politica e programmatica. Ingenuamente ho sperato che anche i parlamentari e i giornalisti utilizzassero questo tempo per leggere e per imparare. Invece, leggo sul “Corriere della Sera” (29 ottobre), un occhiello in bella evidenza: “Berlusconi è il padre del maggioritario, è lui che ha creato il sistema bipolare. La legge elettorale deve restare maggioritaria”. Questa frase, non commentata, in buona parte riflette il pensiero politico-istituzionale di Antonio Tajani, ma anche di chi ha scelto di evidenziarla. Contiene almeno quattro errori gravi e fuorvianti. Il primo è che il padre dell’unico sistema elettorale quasi maggioritario, vale a dire la Legge Mattarella, fu il referendum elettorale del 18 aprile 1993 (osteggiato dagli amici politici di Berlusconi). Mai davvero gradita a Berlusconi poiché attribuiva tre/quarti dei seggi in collegi uninominali nei quali i candidati di Forza Italia, spesso poco conosciuti (ah, già: i “civici”), non ottenevano prestazioni brillanti, la Legge Mattarella venne sostituita dalla Legge Calderoli nel 2005. Una legge elettorale proporzionale con un più o meno ingente premio di maggioranza non è, secondo errore, un “maggioritario”. Nel migliore dei casi, che non è quello della Legge Calderoli, è un sistema misto a chiara prevalenza proporzionale. No, terzo errore, non è Berlusconi che ha “creato” il sistema bipolare. Il bipolarismo, al quale se, seguendo gli accorati appelli dei commentatori del Corriere, Direttore incluso, facesse la sua comparsa un centro di buone dimensioni, non arriveremmo mai, è stato incoraggiato e quasi conseguito dalla Legge Mattarella. Vero è che i premi di maggioranza incentivano una competizione bipolare, ma il rischio in questo caso è che, invece di due poli, si facciano strada due coalizioni eterogenee (qualcuno ha usato il termine “ammucchiata”, ma non mi permetterei mai espressioni così antipolitiche!) nelle quali i piccoli, ma indispensabili contraenti farebbero valere il loro potere di ricatto, che sperimenterebbero non pochi problemi di governo.
Il quarto errore consiste nel sostenere che la legge elettorale vigente, Legge Rosato, sia maggioritaria e, peggio, che debba restare. Tanto per cominciare, a prescindere da qualsiasi altra considerazione, la Legge Rosato dovrà comunque essere ritoccata e molto poiché il numero dei parlamentari da eleggere è stato ridotto di un terzo. Inoltre, da qualsiasi parte la si rigiri, la Legge Rosato non è maggioritaria. Infatti, poco più di un terzo dei parlamentari sono eletti in collegi uninominali, mentre quasi due terzi sono eletti con riferimento proporzionale alle percentuali di voti ottenute dai loro partiti che abbiano superato una bassa soglia percentuale di accesso alla Camera e al Senato. Dunque, ripeto: la Legge Rosato non è maggioritaria. Per la precisione, in tutti i testi sui sistemi elettorali solo due di loro vengono definiti maggioritari: l’inglese applicato in collegi uninominali dove vince la candidata che ottiene un voto più dei concorrenti, e il francese, dove, nei collegi uninominali vince al primo turno chi ottiene il 50 per cento più uno dei voti espressi, e al secondo turno chi ottiene la maggioranza relativa.
Temo che fare chiarezza sulla definizione dei sistemi elettorali, pur assolutamente indispensabile, non sia sufficiente, non lo è stato finora, per influenzare la necessaria stesura di una nuova, sperabilmente buona a duratura, legge elettorale. L’ossessione, intrattenuta dai politici, alimentata dai commentatori, non contrastata dagli studiosi, alcuni dei quali, anzi, ne sono complici, è che la legge elettorale serva/debba servire a eleggere il governo (meglio se la sera stessa del voto). Invece, come tutte le democrazie parlamentari del continente europeo, alcune da più di cent’anni, e lo stesso Regno Unito confermano con la forza dei dati, il compito delle leggi elettorali consiste nell’eleggere bene un Parlamento, nel dare buona rappresentanza politica all’elettorato, alla società. Poiché l’ho già detto e scritto una pluralità di volte sono certo di essermi salvato l’anima. Vorrei, però, che i legislatori andassero nella direzione giusta che è quella, non di governi di larghe intese al massimo ribasso, ma della rappresentanza politica degli italiani, con i parlamentari che rispondono in maniera responsabile ai loro elettori (non ai dirigenti dei partiti che li hanno nominati in collegi sicuri o collocati ai vertici delle liste elettorali) di quanto fanno, non fanno, fanno male e con gli elettori che hanno la possibilità di premiarli e di punirli con il loro voto. Guardando fuori dei confini dello stivale si può fare. Questo è il momento.
Pubblicato il 2 novembre 2021 su Il Fatto Quotidiano


