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Contro Meloni meritiamo un’opposizione migliore @DomaniGiornale

Gli abitualmente molto affidabili sondaggi di Nando Pagnoncelli danno Fratelli d’Italia al 30 per cento delle preferenze, in significativa crescita rispetto al 25 settembre. Due mesi dopo le elezioni si può forse ancora parlare di luna di miele. Credo sarebbe una interpretazione consolatoria per le opposizioni, ma sbagliata. Giorgia Meloni si è definita underdog. Il fatto è che è stata underestimated da quasi tutti, dentro il suo partito, tranne da pochi fedelissimi e fuori anche perché donna. I presunti continuatori dell’agenda Draghi non hanno mai dato abbastanza peso al sobrio riconoscimento da parte dello stesso Draghi della coerenza e della serietà dell’opposizione di Meloni. Non danno altrettanto prova di serietà e di coerenza gli oppositori di Meloni, alcuni preferendo offrire generosa disponibilità a collaborare, altri, in una tradizione lunga e non nobile, proseguendo per pigrizia e ignoranza, nella strada della demonizzazione che non porta da nessuna parte.

   Invece, i dati sono chiari. Cito la Presidente del Consiglio nell’intervista di ieri al Corriere: esistono “una maggioranza chiara, un programma comune e un mandato popolare”. C’è un governo che ha “il dovere … di garantire un equilibrio complessivo” e all’estero “c’è grande attenzione nei confronti dell’Italia”. Non spetta a Meloni darsi la zappa sui piedi e riconoscere un esordio non proprio felice, a partire dalla disciplina del rave party e qualche “sparata” sull’omofobia del suo capogruppo al Senato che preferisce l’antico testamento alla Costituzione, e sui matrimoni in chiesa da incoraggiare a suon di migliaia di euro. Meloni ha anche imparato che non deve cercare nessun colpo ad effetto, ma attuare una strategia incrementale: poco per volta, che ha il doppio vantaggio di lasciare tempo e modo per la correzione degli eventuali errori, ciò che non funziona, e di potere accelerare e approfondire se l’intervento iniziale ha prodotto esiti positivi.

   Nessuno, meno che mai i navigatissimi politici di mestiere e i coltissimi commentatori della sinistra debbono sorprendersi e indignarsi se Giorgia Meloni fa politiche di destra. Ciò che sorprende è che le opposizioni non abbiano finora capito che debbono attrezzarsi per un’azione di lungo periodo che sappia collegare la protesta di piazza, ampia e ordinata, con gli emendamenti e le proposte alternative in Parlamento. Questo è il governo che gli italiani, quelli che hanno votato e quelli astenuti, si meritano. Qualcuno, a cominciare da chi scrive e dal quotidiano sul quale scrive, forse si merita un’opposizione migliore, per dirla giornalisticamente, “sul pezzo”. Il testo da correggere già esiste. Si chiama Legge di Bilancio. Cambiarla in meglio, che per me significa a favore di coloro che hanno meno di tutto, compreso meno opportunità, si può. Il tunnel che conduce al 2027 è lunghissimo.  

Pubblicato il 30 novembre 2022 su Domani

Due o tre cosine che so sulle presidenziali in Francia. Firmato Pasquino @formichenews

Il semipresidenzialismo francese con il sistema elettorale a doppio turno è un grande dispensatore di opportunità politiche. Ma soltanto a chi, conoscendolo, sa come utilizzarlo. L’analisi del professor Gianfranco Pasquino

“Una riconferma non scontata” è il titolo dell’editoriale del “Corriere della Sera”. In effetti, nessuno, meno che mai la maggior parte dei commentatori italiani, ha fatto degli sconti a Emmanuel Macron. Pochissimi, poi, si sono curati di fare due conti, ad esempio, sul numero dei voti. Nelle elezioni questi numeri assoluti danno molte più informazioni delle percentuali. Comincerò dal famigerato problema dell’astensione, secondo troppi, giunta a livelli elevatissimi. Ecco: al primo turno il 10 aprile votarono 35 milioni e 923 mila 707 francesi (73,69%); al ballottaggio 35 milioni 96mila 391 (71.99%): una diminuzione quasi impercettibile e, per di più facilmente spiegabile. Non pervenuto al ballottaggio il candidato da loro votato al primo turno circa 900 mila elettori hanno comprensibilmente pensato “fra Macron e Le Pen ça m’est égal” e se ne sono andati à la mer. I paragoni sono sempre da fare con grande cautela, ma nello scontro Trump/Biden novembre 2020 votò il 66,7% degli americani che festeggiarono l’alta affluenza e l’esito.

   Nelle due settimane trascorse dal primo turno Macron è passato da 9milioni 783 mila 058 voti a 18.779.642 quindi quasi raddoppiando il suo seguito, mentre Marine Le Pen è passata da 8milioni 133mila 828 voti a 13 milioni 297 mila 760, 5 milioni di voti in più. L’aumento dei voti per Macron va spiegato soprattutto con la confluenza degli elettori di Mélenchon (più di 7 milioni al primo turno), variamente e erroneamente catalogati come populisti, più quelli comunisti (800 mila) e socialisti (di Anne Hidalgo, 600 mila). La crescita di Le Pen è dovuta agli elettori di Zemmour (2 milioni 485 mila 226). Entrambi hanno tratto beneficio dallo sfaldamento dei repubblicani già gollisti che avevano votato Valérie Pécresse : 1.679.001 elettori alla ricerca del meno peggio. Insomma, una elezione presidenziale nient’affatto drammatica, con esito largamente prevedibile (parlo per me e per fortuna scrivo quindi posso essere controllato e verificato), decisivamente influenzato dalle preferenze calcolate (che significa basate su valutazioni e aspettative) degli elettori francesi.

   Honni soit colui che contava su una vittoria di Marine Le Pen per fare aumentare le vendite del giornale su cui scrive e per dichiarare il crollo dell’Unione Europea. Tuttavia, un crollo, in verità, doppio, c’è stato e meriterà di essere esplorato anche con riferimento all’esito delle elezioni legislative di giugno: ex-gollisti e socialisti sono ridotti ai minimi termini anche se con Mélenchon stanno non pochi elettori socialisti.

   Uno dei pregi delle democrazie è che la storia (oops, dovrei scrivere “narrazione”?) non finisce -lo sa persino Fukuyama autore di alcuni bei libri proprio sulle democrazie- e che le democrazie e, persino (sic) gli elettorati continuano a imparare. Marine Le Pen ha annunciato che mira a conquistare la maggioranza parlamentare. Non ci riuscirà. Il doppio turno in collegi uninominali, che non è affatto un ballottaggio, come leggo sul “Corriere della Sera” 25 aprile, p. 3, offre a Mélenchon l’opportunità di “trattare” con Macron a sua volta obbligato a trovare accordi più a sinistra che al centro. Presto, avremo la possibilità di contare quei voti tenendo conto delle mosse e delle strategie politiche formulate per conquistarli e combinarli. Il semipresidenzialismo francese con il sistema elettorale a doppio turno è, come scrisse più di 50 anni fa Domenico Fisichella, un grande dispensatore di opportunità politiche, ma soltanto a chi, conoscendolo, sa come utilizzarlo.

Pubblicato il 25 aprile 2022 su Formiche.net

“Il politologo con la spider” di Ferruccio de Bortoli #recensione Tra Scienza e politica @7Corriere @Corriere @UtetLibri @DeBortoliF

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Tra scienza e politica Una autobiografia (UTET)

I nodi dell’epoca post-materialista @La_Lettura @Corriere #6febbraio

Gianfranco Pasquino (1942), torinese, allievo di Norberto Bobbio e Giovanni Sartori, è professore emerito di Scienza politica nell’Università di Bologna e socio dell’Accademia nazionale dei lincei. È autore di numerosi libri, i più recenti dei quali sono Minima politica. Sei lezioni di democrazia (2019) e Libertà inutile. Profilo ideologico dell’Italia repubblicana (2021), entrambi UTET. A marzo arriverà in libreria Tra scienza e politica. Una autobiografia (UTET 2022).

What is Left? All’incirca all’inizio degli anni novanta del XX secolo con persino troppo grande pensosità e delusione, gli intellettuali di sinistra di qua e di là dell’Atlantico si interrogavano dolorosamente sullo stato di salute dei loro punti di riferimento partitici e politici. L’intraducibile gioco di parole, in inglese left è sia “sinistra” sia “rimasto”, prendeva le mosse da molte sconfitte elettorali, a cominciare dall’ennesima subita dai laburisti nel 1992 e a continuare con quella inflitta da Berlusconi nel 1994 a quel che, appunto, era rimasto della sinistra italiana. Già allora, alquanto insofferente alle autoflagellazioni senza attenzione comparata alla “realtà effettuale”, replicai in varie sedi che c’era ancora molto di sinistra nel mondo, in Europa (e negli USA). Infatti, erano “rimasti” numerosi milioni di elettori, centinaia di migliaia di eletti dai comuni ai Parlamenti, decine di partiti di sinistra. Successivamente, mentre commentatori e studiosi si attardavano e crogiolavano pigramente nelle loro superficiali analisi, in pochi anni, già nella seconda metà degli anni novanta, la situazione si era, se non totalmente ribaltata, significativamente trasformata.

   Nel 1996 l’Ulivo, almeno in parte costituito da pezzi di sinistra, vinse le elezioni italiane. Nel 1997 il New Labour di Tony Blair tornò in forza al governo del Regno Unito dal quale mancava dal lontano 1979. Nel 1998 la coalizione socialdemocratici-verdi guidata da Gerhard Schröder (e Joschka Fischer) pose termine alla più lunga esperienza di governo della Germania del dopoguerra: 16 anni del democristiano Helmut Kohl. Fra i grandi paesi europei mancava all’appello soltanto la Francia dopo quattordici lunghi anni, tuttora il record probabilmente insuperabile, della Presidenza di François Mitterrand (1981-1995). Altrove, in particolare nei paesi scandinavi, socialdemocratici e laburisti continuavano a essere partiti capaci di andare al governo. Insomma molto di sinistra era rimasto, risultava competitivo, vinceva e, come avviene nei regimi democratici, talvolta perdeva le elezioni a quel punto garantendo una opposizione in grado di controllare i governi in carica e di presentarsi come alternativa credibile all’elettorato che variamente premiava partiti e leader di sinistra.

   Non c’è nessun dubbio, però, che quello che il grande sociologo liberale tedesco Ralf Dahrendorf aveva definito il “secolo socialdemocratico” si era chiuso. La sinistra, socialdemocratici e laburisti, rimase competitiva. Altre vittorie elettorali sarebbero arrivate. Altri governi sarebbero stati formati, in Germania, addirittura due Grandi Coalizioni a guida democristiana 2005-2009 e 2017-2021 con indispensabile partecipazione socialdemocratica. Negli USA la clamorosa epocale affermazione di Obama (2008) sembrò avere aperto la strada ad un altro New Deal. Non è stato così, ma non mi spingerei a sostenere che, invece, lastricò la strada per Trump. Nel mondo in senso lato di sinistra qualcosa era, però, davvero finito. I due grandi pilastri economico e sociale costruiti dai socialdemocratici e da loro sperimentati e tradotti in scelte concrete quando andavano, erano e rimanevano al governo: il keynesismo e le politiche di welfare, furono attaccati e, il keynesismo, relegato ai margini. In qualsiasi modo si definissero e qualsiasi ruolo svolgessero, neo-(vetero)liberisti e neo-conservatori si misero alacremente all’opera per smantellare il secolo socialdemocratico. Non era più questione di numeri, ma di cultura economica e ancor più di cultura politica, di visione del mondo.

   Quando liberismo e “revisione” (è un eufemismo) del welfare si affermarono anche a livello dell’Unione Europea, inevitabilmente, poiché sostenuti e proposti dalla maggioranza dei governi degli stati-membri, la situazione complessiva di salute dei socialdemocratici, della sinistra europea sembrò ancora più grave di quella dell’inizio degli anni novanta. La riflessione sui motivi di quello che appariva un declino gravissimo tardarono. Nessuno può dubitare che il welfare e il keynesismo abbiano cambiato per il meglio la vita di centinaia di milioni di europei, in maniera in larga parte irreversibile. Sentendosi più sicuri nel quotidiano e più fiduciosi per il loro futuro milioni di cittadini hanno pensato di potere fare a meno della protezione economica e promozione sociale che veniva loro offerta e garantita dai partiti di sinistra. La comparsa di quelli che in una illuminante ricerca comparata su molte nazioni occidentali, il docente di Scienza politica Ronald Inglehart definì cittadini post-materialisti, stava cambiando o aveva già cambiato in maniera irreversibile aspettative e pratiche. Interessati alla loro autorealizzazione personale molto più che alla collaborazione e alla solidarietà collettiva e convinti non solo di potere fare a meno della politica, ma che la politica e lo Stato siano ostacoli di cui sbarazzarsi, i cittadini post-materialisti con il loro fare da soli indebolivano in special modo tutti i partiti socialdemocratici, vecchi e nuovi, vale a dire, quelli dei paesi di recente accesso alla democrazia. Di più, interessati ai temi etici e portatori di soluzioni spesso controverse in termini di libertà di scelta e opposte al conservatorismo sociale di non pochi settori delle classi popolari, i post-materialisti hanno creato tensioni nell’elettorato potenzialmente socialdemocratico (dal quale molti di loro provengono) tanto sulle priorità quanto sulla combinabilità dei temi etici con le politiche più propriamente sociali e economiche.

   Da alcuni anni, prima la crisi economica, poi la pandemia sembrano avere almeno in una (in)certa misura cambiato il vento delle aspettative e delle emozioni, ma gli spezzoni di nuove culture progressiste, il neo-femminismo e l’ambientalismo, non hanno dato vita a nessun rilancio consistente e duraturo della sinistra e delle sue politiche. Anzi, si sono spesso rivelati sfidanti e trasformati in temibili concorrenti elettorali. In verità, indebolitosi e molto screditatosi il liberismo nelle sue varie manifestazioni e applicazioni, anche gli sfidanti della sinistra si trovano in difficoltà e ricorrono a tematiche “negative”, in senso lato “nazional-culturali”, in particolare esprimendosi contro l’immigrazione e contro l’Europa, ruotanti intorno ad una non sempre modica dose di populismo. Ne sono derivati partiti come i Democratici svedesi, i Veri finlandesi, patrioti di varia estrazione, sedicenti democratici orgogliosamente “illiberali” che fanno tutti appello, con qualche successo, ai settori popolari altrimenti elettorato potenziale delle sinistre.

   Avendo saputo accogliere e talvolta significativamente promuovere le donne e le loro tematiche, molti partiti di sinistra con alla testa socialdemocratici e laburisti norvegesi, svedesi, finlandesi e danesi si trovano attualmente al governo. Comunque, si presentano sempre in grado di essere considerati affidabili partiti di governo. Nel resto del continente, socialisti spagnoli e portoghesi hanno saputo dare vita a pur complicate e complesse coalizioni di governo [con la sua clamorosa affermazione elettorale del 30 gennaio 2022, il Partito Socialista Portoghese di Antonio Costa potrebbe anche farne a meno], mentre avvenimento molto rilevante è la riconquista nel 2021 della cancelleria ad opera dei socialdemocratici tedeschi pure lontani dai loro esiti elettorali migliori. In questo panorama, i punti deboli, anzi, debolissimi sono rappresentati da Italia e Francia, sistemi politici nei quali i socialisti sono sostanzialmente assenti oppure ridotti a percentuali irrilevanti, privi, affermerebbe Giovanni Sartori, di qualsiasi potenziale di coalizione. Sullo sfondo si affacciano, più per errori e comportamenti inadeguati dei conservatori, i laburisti inglesi che stanno all’opposizione oramai da dodici anni, ma senza avere finora saputo individuare tematiche e modalità di rinnovamento della loro offerta programmatica post-Brexit (sulla quale hanno pagato il prezzo della ambiguità).

    Una rapida panoramica rivela che i partiti socialisti europei, molti dei quali debbono fare i conti con concorrenti che si situano alla loro sinistra, non riescono più ad andare oltre il 30 per cento dei voti, tranne per l’appunto in Portogallo. Le loro percentuali elettorali oscillano dal 24-28 per cento dei voti, nell’ordine Austria, Danimarca, Norvegia, Spagna e Svezia, spesso sufficienti, però, a farne una componente dei governi dei rispettivi sistemi politici, quando non addirittura il partito del capo del governo. Tuttavia, le loro politiche devono essere costantemente negoziate con gli alleati prevalentemente centristi. Manca cioè la possibilità di imporre una impronta effettivamente e visibilmente “socialista” alle politiche di governo e manca anche il tempo per tentare un’ambiziosa operazione di elaborazione e formulazione di una cultura progressista per il XXI secolo. Soprattutto o semplicemente in aggiunta, si manifesta con grande evidenza l’assenza di leadership attraenti e affascinanti come furono il tedesco Willy Brandt, il portoghese Mario Soares, lo spagnolo González, lo svedese Olof Palme, l’inglese Tony Blair (e persino di intellettuali come è stato il sociologo politico Anthony Giddens, influentissimo teorico della Terza Via). L’ultimo leader che è riuscito ad “appassionare” in qualche modo la sinistra, non strettamente socialista, europea è stato il giovane greco Alexis Tsipras alla guida della coalizione chiamata Syriza (sinistra, movimenti, ecologia), attualmente con più del 30 per cento dei voti, peraltro non vista con grande simpatia dai socialdemocratici/laburisti europei.

  In definitiva, è rimasto ancora molto di sinistra nel continente europeo, anche, ma scarsissima presenza a livello di governo, nei paesi dell’Europa centro-orientale. I problemi da affrontare sono quelli delle società contemporanee avanzate. In estrema sintesi, solo in parte, data la difficoltà del compito, sorprende, anche se può preoccupare, che non si intraveda nell’ambito della sinistra una visione nuova e trascinante, un cultura politica che sappia dare risposte europeiste anche al tema, più che emergente, delle diseguaglianze sociali, culturali prima e più di quelle economiche (alle quali i populisti offrono risposte viscerali tremendamente semplificatrici spesso di fluttuante successo), che siano in grado di dettare le politiche nel futuro prossimo. Hic Europa hic salta.

Da La Lettura del Corriere della Sera 6 febbraio 2022

L’ossessione per la scelta diretta dei presidenti @DomaniGiornale

Ancora una volta dalle pagine del “Corriere” giunge una lezione di politica e di democrazia che non ha nessun fondamento nella teoria e nella pratica proprio delle democrazie. Paolo Mieli ci aveva già raccontato, senza nessun riscontro empirico, che l’alternanza è la norma nelle democrazie occidentali e che, in assenza di alternanza, l’Italia è destinata a restare nel caos.

Per lo più, invece, nelle democrazie europee assistiamo, con l’eccezione della Gran Bretagna, non alla sostituzione in toto di un governo ad opera di una opposizione, ma alla ridefinizione, uno o due partiti escono, uno entra, della coalizione di governo. Così sta avvenendo in Germania.

Adesso Mieli sostiene, forse addirittura invoca, ispirato, ma non so quanto sostenuto, dal vescovo Ambrogio, l’elezione popolare diretta dei capi di governo e dei capi di Stato.

Nelle democrazie parlamentari, tali sono tutti i sistemi politici dell’Europa occidentale, nessun Primo ministro/Cancelliere è mai stato eletto dal “popolo”, per molte buone ragioni a cominciare dal consentire cambi di persone e cariche in caso di necessità senza tornare alle urne. Quanto ai capi di Stato, mi limito a ricordare che in Europa occidentale esistono otto monarchie (Belgio, Danimarca, Gran Bretagna, Lussemburgo, Olanda , Norvegia, Spagna e Svezia) nelle quali, naturalmente, non c’è nessun bisogno di nessuna elezione.

Nulla osta a proporre il cambiamento della forma di governo italiana da parlamentare a presidenziale o semipresidenziale, sapendo che esistono differenze profonde fra questi due modelli. Sapendo anche che l’elezione popolare diretta apre la strada a outsider che, da Trump a, ipoteticamente, Zemmour, non sembrano costruttori di buona politica.

Secondo Mieli, dare la parola al popolo nel silenzio dei “presidenziabili” italiani ri-avvicinerebbe gli italiani alla politica. Dalle pagine del Corriere qualsiasi lettore può notare che da qualche mese i “presidenziabili” parlano, eccome. Alcuni di loro sono frequenti ospiti di programmi televisivi nei quali presentano libri e raccontano storie. Insomma, le informazioni circolano e, comunque, nessuno di coloro che ha raggiunto la più alta carica della Repubblica italiana era uno sconosciuto, privo di carriera politica e biografia professionali.

Il “direttismo”, come lo definì Giovanni Sartori, a lungo editorialista del Corriere, non migliora necessariamente la politica. A riportare gli italiani alle urne e a riavvicinarli alla politica, dalla quale espressioni come “casta” e “razza poltrona” contribuiscono a demotivarli e a confermarli nei loro pregiudizi, debbono essere i partiti, magari con una legge elettorale, ne esistono diverse, che garantisca competizione e elimini la cooptazione. Nel frattempo, sono molto fiducioso che per riavvicinare i cattolici alla politica e per fuoruscire dalle “vie tortuose e imperscrutabili” dei Conclavi, ma anche dalla tutt’altro che democratica acclamazione, Papa Francesco stia formulando le regole affinché il suo successore sia eletto direttamente dal popolo cattolico.

Pubblicato il 21 novembre 2021 su Domani

Legge elettorale: tutti ne parlano senza sapere @fattoquotidiano

Si è detto che i partiti avrebbero approfittato dell’interludio garantito dal governo Draghi per procedere ad una loro raccomandabile ristrutturazione politica e programmatica. Ingenuamente ho sperato che anche i parlamentari e i giornalisti utilizzassero questo tempo per leggere e per imparare. Invece, leggo sul “Corriere della Sera” (29 ottobre), un occhiello in bella evidenza: “Berlusconi è il padre del maggioritario, è lui che ha creato il sistema bipolare. La legge elettorale deve restare maggioritaria”. Questa frase, non commentata, in buona parte riflette il pensiero politico-istituzionale di Antonio Tajani, ma anche di chi ha scelto di evidenziarla. Contiene almeno quattro errori gravi e fuorvianti. Il primo è che il padre dell’unico sistema elettorale quasi maggioritario, vale a dire la Legge Mattarella, fu il referendum elettorale del 18 aprile 1993 (osteggiato dagli amici politici di Berlusconi). Mai davvero gradita a Berlusconi poiché attribuiva tre/quarti dei seggi in collegi uninominali nei quali i candidati di Forza Italia, spesso poco conosciuti (ah, già: i “civici”), non ottenevano prestazioni brillanti, la Legge Mattarella venne sostituita dalla Legge Calderoli nel 2005. Una legge elettorale proporzionale con un più o meno ingente premio di maggioranza non è, secondo errore, un “maggioritario”. Nel migliore dei casi, che non è quello della Legge Calderoli, è un sistema misto a chiara prevalenza proporzionale. No, terzo errore, non è Berlusconi che ha “creato” il sistema bipolare. Il bipolarismo, al quale se, seguendo gli accorati appelli dei commentatori del Corriere, Direttore incluso, facesse la sua comparsa un centro di buone dimensioni, non arriveremmo mai, è stato incoraggiato e quasi conseguito dalla Legge Mattarella. Vero è che i premi di maggioranza incentivano una competizione bipolare, ma il rischio in questo caso è che, invece di due poli, si facciano strada due coalizioni eterogenee (qualcuno ha usato il termine “ammucchiata”, ma non mi permetterei mai espressioni così antipolitiche!) nelle quali i piccoli, ma indispensabili contraenti farebbero valere il loro potere di ricatto, che sperimenterebbero non pochi problemi di governo.

   Il quarto errore consiste nel sostenere che la legge elettorale vigente, Legge Rosato, sia maggioritaria e, peggio, che debba restare. Tanto per cominciare, a prescindere da qualsiasi altra considerazione, la Legge Rosato dovrà comunque essere ritoccata e molto poiché il numero dei parlamentari da eleggere è stato ridotto di un terzo. Inoltre, da qualsiasi parte la si rigiri, la Legge Rosato non è maggioritaria. Infatti, poco più di un terzo dei parlamentari sono eletti in collegi uninominali, mentre quasi due terzi sono eletti con riferimento proporzionale alle percentuali di voti ottenute dai loro partiti che abbiano superato una bassa soglia percentuale di accesso alla Camera e al Senato. Dunque, ripeto: la Legge Rosato non è maggioritaria. Per la precisione, in tutti i testi sui sistemi elettorali solo due di loro vengono definiti maggioritari: l’inglese applicato in collegi uninominali dove vince la candidata che ottiene un voto più dei concorrenti, e il francese, dove, nei collegi uninominali vince al primo turno chi ottiene il 50 per cento più uno dei voti espressi, e al secondo turno chi ottiene la maggioranza relativa.

Temo che fare chiarezza sulla definizione dei sistemi elettorali, pur assolutamente indispensabile, non sia sufficiente, non lo è stato finora, per influenzare la necessaria stesura di una nuova, sperabilmente buona a duratura, legge elettorale. L’ossessione, intrattenuta dai politici, alimentata dai commentatori, non contrastata dagli studiosi, alcuni dei quali, anzi, ne sono complici, è che la legge elettorale serva/debba servire a eleggere il governo (meglio se la sera stessa del voto). Invece, come tutte le democrazie parlamentari del continente europeo, alcune da più di cent’anni, e lo stesso Regno Unito confermano con la forza dei dati, il compito delle leggi elettorali consiste nell’eleggere bene un Parlamento, nel dare buona rappresentanza politica all’elettorato, alla società. Poiché l’ho già detto e scritto una pluralità di volte sono certo di essermi salvato l’anima. Vorrei, però, che i legislatori andassero nella direzione giusta che è quella, non di governi di larghe intese al massimo ribasso, ma della rappresentanza politica degli italiani, con i parlamentari che rispondono in maniera responsabile ai loro elettori (non ai dirigenti dei partiti che li hanno nominati in collegi sicuri o collocati ai vertici delle liste elettorali) di quanto fanno, non fanno, fanno male e con gli elettori che hanno la possibilità di premiarli e di punirli con il loro voto. Guardando fuori dei confini dello stivale si può fare. Questo è il momento.

Pubblicato il 2 novembre 2021 su Il Fatto Quotidiano           

Democrazia Futura. Mario Draghi fra Presidenza del Consiglio e Presidenza della Repubblica @Key4biz #DemocraziaFutura

Un bilancio della sua presenza a Palazzo Chigi e una previsione sul suo futuro istituzionale.

Un bilancio della presenza di Mario Draghi a Palazzo Chigi e una previsione sul suo futuro istituzionale richiedono alcune premesse. Per fin troppo tempo, in maniera affannata e ripetitiva, il direttore del Corriere della Sera Luciano Fontana e alcuni editorialisti di punta (Aldo Cazzullo, Paolo Mieli, persino Ferruccio de Bortoli) hanno criticato i governi e i capi di governo non eletti (dal popolo), non usciti dalle urne (Antonio Polito) (1).

La nomina di Mario Draghi alla Presidenza del Consiglio li ha finora zittiti tutti nonostante la sua non elezione popolare e il suo non essere uscito da nessuna urna.

Forse, però, siamo già entrati, sans faire du bruit, in una nuova fase del pensiero costituzionale del Corriere. Draghi vive e opera in “una sorta di semipresidenzialismo sui generis”, sostiene Ernesto Galli della Loggia (2) non senza lamentarsi per l’ennesima volta della sconfitta delle riforme renziane che avrebbero aperto “magnifiche sorti e progressive” al sistema politico italiano senza bisogno di semipresidenzialismo e neppure del voto di sfiducia costruttivo German-style. Fermo restando che le forme di governo cambiano esclusivamente attraverso trasformazioni costituzionali mirate, esplicite, sistemiche, la mia tesi è che Draghi è il capo legittimo di un governo parlamentare che, a sua volta, è costituzionalmente legittimo: “il Governo deve avere la fiducia delle due Camere” (art. 94).Tutti i discorsi sull’operato, sulle prospettive, sui rischi del governo Draghi si basano su aspettative formulate dai commentatori politici  da loro variamente interpretate e criticate.

Sospensione della democrazia o soluzione costituzionale flessibile del parlamentarismo?

Lascio subito da parte coloro che hanno parlato di sospensione della democrazia poiché, al contrario, stiamo vedendo all’opera proprio la democrazia parlamentare come saggiamente delineata nella Costituzione italiana. Sono la flessibilità del parlamentarismo Italian-style e l’importantissima triangolazione fra Presidenza della Repubblica, Governo e Parlamento che per l’ennesima (o, se si preferisce, la terza volta dopo Dini 1995-1996; e Monti 2011-2013) volta ha prodotto una soluzione costituzionale a problemi politici e istituzionali.

Il discorso sulla sospensione della politica merita appena più di un cenno. Infatti, nessuno dei leader politici ha “sospeso” le sue attività e le elezioni amministrative si svolgono senza nessuna frenata né distorsione. Aggiungo che non soltanto Draghi è consapevole che quel che rimane dei partiti ha la necessità di ingaggiare battaglie politiche, ma anche che, da un lato, prende atto di questa “lotta” politica, dall’altro, la disinnesca se non viene portata nel Consiglio dei Ministri.

Sbagliano, comunque, coloro che attribuiscono a Draghi aspettative e preferenze del tipo “non disturbate il manovratore”. Al contrario, se volete disturbare è imperativo che le vostre posizioni siano motivate con riferimento a scelte e politiche che siano nella disponibilità del governo e dei suoi ministri. Chi ha, ma so che sono pochissimi/e, qualche conoscenza anche rudimentale del funzionamento del Cabinet Government inglese (certo, costituito quasi sempre da un solo partito), nel quale può manifestarsi la supremazia del Primo ministro, dovrebbe apprezzare positivamente la conduzione di Draghi.

I veri nodi da sciogliere: ristrutturazione del sistema dei partiti e accountability

A mio modo di vedere rimangono aperti due problemi: la ristrutturazione del sistema di partiti e la accountability. Il primo si presenta come un wishful thinking a ampio raggio, privo di qualsiasi conoscenza politologica. Il secondo è, invece, un problema effettivo di difficilissima soluzione.

Non conosco casi di ristrutturazione di un sistema di partiti elaborata e eseguita da un governo, dai governanti. Fermo restando che in nessuna delle sue dichiarazioni Draghi si è minimamente esposto e impegnato nella direzione di una qualsivoglia (necessità di) ristrutturazione, facendo affidamento sull’essenziale metodo della comparazione la scienza politica indica tre modalità attraverso le quali un sistema di partiti potrebbe ristrutturarsi: leggi elettorali; forma di governo; emergere di una nuova frattura politica.

Leggi elettorali, forma di governo, emergere di fratture politiche o sociali

Quanto alle leggi elettorali, pur tecnicamente molto perfezionabile, la legge Matttarella, grazie ai collegi uninominali nei quali venivano eletti tre quarti dei parlamentari, incoraggiò la competizione bipolare e la formazione di due coalizioni, che, più a sinistra che a destra, fossero coalizioni molto composite,  è responsabilità dei dirigenti dei partiti. Fu un buon inizio. Oggi ci vuole molto di più per ristrutturare il sistema dei partiti. Non può essere compito di Draghi e del suo governo, ma i dirigenti dei partiti e i capicorrenti tutto desiderano meno che una legge elettorale che offra più opportunità agli elettori e più incertezza e rischi per candidati e liste. 

La spinta forte alla ristrutturazione potrebbe sicuramente venire da un cambio nella forma di governo. Da questo punto di vista, il semipresidenzialismo di tipo francese è davvero promettente per chi volesse imprimere dinamismo al sistema politico italiano. Mentre mi pare di sentire da lontano le classiche irricevibili critiche alle potenzialità autoritarie della Quinta Repubblica, ricordo di averne fatto oggetto di riflessione e valutazione in più sedi (3) e respingo l’idea che all’uopo sia necessaria la trasformazione di Draghi in novello de Gaulle. Naturalmente, non sarà affatto facile per nessuno imporre una trasformazione tanto radicale se non in presenza di una non augurabile crisi di grande portata.

La terza modalità che potrebbe obbligare alla ristrutturazione del sistema dei partiti è la comparsa di una frattura sociale e politica di grande rilevanza che venga sfruttata sia da un partito esistente e dai suoi leader sia da un imprenditore politico (terminologia che viene da Max Weber e da Joseph Schumpeter).

La frattura potrebbe essere quella acutizzata e acutizzabile fra europeisti e sovranisti, sulla scia di quanto scrisse Altiero Spinelli nel Manifesto di Ventotene. Potrebbe anche manifestarsi qualora si giungesse ad una crescita intollerabile di diseguaglianze, non solo economiche, cavalcabile da un imprenditore che offra soluzioni in grado di riaggregare uno schieramento. In entrambi i casi, la ristrutturazione andrebbe nella direzione di un bipolarismo che taglierebbe l’erba sotto ai piedi di qualsiasi centro che, lo scrivo per i nostalgici, non è mai soltanto luogo di moderazione, ma anche di compromissione ovvero, come scrisse l’autorevole studioso francese Maurice Duverger, vera e propria palude.

I compiti ambiziosi su cui potremo valutare l’operato del governo Draghi e il futuro del premier in politica e nelle istituzioni

Il governo Draghi in quanto tale non può incidere su nessuno di questi, peraltro molto eventuali e imprevedibili, sviluppi. La sua esistenza garantisce lo spazio e il tempo per chi volesse e sapesse agire per conseguire l’obiettivo più ambizioso. Nulla di più, giustamente. Draghi e il suo governo vanno valutati con riferimento alle loro capacità di perseguire e conseguire il rinnovamento di molti settori dell’economia italiana, la riforma della burocrazia, l’ammodernamento della scuola e l’introduzione di misure che producano maggiore e migliore coesione sociale. Sono tutti compiti necessariamente ambiziosissimi.

Per valutarne il grado di successo bisognerà attendere qualche anno, ma fin d’ora è possibile affermare che il governo ha impostato bene e fatto molto.

Qui si situa il discorso che non può essere sottovalutato sul futuro di Draghi in politica e nelle istituzioni. I precedenti di Lamberto Dini e di Mario Monti dovrebbero scoraggiare Draghi a fare un suo partito, operazione che, per quel che lo conosco, non sta nelle sue corde e non intrattiene. Ricordando a tutti che Draghi è stato reclutato per un incarico specifico: Presidente del Consiglio (dunque, sì, in democrazia le autorità possono essere tirate per la giacca!), procedere alla sua rimozione per una promozione al Colle più alto, richiede convincenti motivazioni, sistemiche prima ancora che personali.

È assolutamente probabile, addirittura inevitabile, che, senza farsene assorbire e sviare, Draghi stesso stia già valutando i pro e i contro di una sua ascesa al Quirinale.

Non credo che il grado di avanzamento nell’attuazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza sarà già a fine gennaio 2022 tale da potere ritenere che viaggerà sicuro senza uscire dai binari predisposti dal governo. Però, è innegabile che esista il rischio che il prossimo (o prossima) Presidente non sia totalmente sulla linea europeista e interventista del governo Draghi. Così come è reale la possibilità che il successore di Mattarella sia esposto a insistenti e possenti pressioni per lo scioglimento del Parlamento e elezioni anticipate con la vittoria annunciata dei partiti di destra e dunque governo nient’affatto europeista, se non addirittura programmaticamente sovranista.

L’ipotesi plausibile di Draghi al Quirinale alle prese con la formazione del governo dopo le elezioni del 2023: verso una coabitazione all’italiana?

Non è, dunque, impensabile che negli incontri che contano Draghi si dichiari disponibile ad essere eletto Presidente della Repubblica.

A partire dalla data della sua elezione Draghi avrebbe sette anni per, se non guidare, quantomeno orientare alcune scelte politiche e istituzionali decisive.:

  • Anzitutto, non procederà a sciogliere il Parlamento se vi si manifesterà una maggioranza operativa a sostegno del governo che gli succederà.
  • Avrà voce in capitolo nella nomina del Presidente del Consiglio e di non pochi ministri.
  • Rappresenterà credibilmente l’Italia nelle sedi internazionali.

Qualora dopo le elezioni del 2023 si formasse eventualmente un governo di centro-destra Draghi Presidente della Repubblica ne costituirà il contrappeso non soltanto istituzionale, ma anche politico per tutta la sua possibile durata.

In questa chiave, forse, si può, ma mi pare con non grandi guadagni analitici, parlare di semipresidenzialismo di fatto nella versione, nota ai francesi, della coabitazione: Presidente versione europeista contrapposto a Capo del governo di persuasione sovranista. Il capo del governo governa grazie alla sua maggioranza parlamentare, ma il Presidente della Repubblica può sciogliere quel Parlamento se ritiene che vi siano problemi per il buon funzionamento degli organismi costituzionali (ed è probabile che vi saranno).

L’irresponsabilità del capo di governo non politico. Uno stato di necessità e un vulnus non attribuibile a Draghi.

Concludo con un’osservazione che costituisce il mio apporto “originale” alla valutazione dei governi guidati da non-politici.

Ribadisco che non vedo pericoli di autoritarismo e neppure rischi di apatia nell’elettorato e di conformismo.

Nell’ottica della democrazia il vero inconveniente del capo di governo non-politico è la sua sostanziale irresponsabilità. Non dovrà rispondere a nessuno, tranne con un po’ di sana retorica a sé stesso e alla sua coscienza, di quello che ha fatto, non fatto, fatto male.

Poiché la democrazia si alimenta anche di dibattiti e di valutazioni sull’operato dei politici, l’irresponsabilità, cioè la non obbligatorietà e, persino, l’impossibilità di qualsiasi verifica elettorale a meno che Draghi intenda, commettendo, a mio modo di vedere, un errore, creare un partito politico oppure porsi alla testa di uno schieramento, esistente o da lui aggregato,   rappresenta un vulnus. Non è corretto attribuire il vulnus a Draghi, ma a chi ha creato le condizioni che hanno reso sostanzialmente inevitabile la sua chiamata. Ne ridurremo la portata grazie alla nostra consapevolezza dello stato di necessità, ma anche se i partiti e i loro dirigenti sapranno operare per impedire la futura ricomparsa di un altro stato di necessità. È lecito dubitarne.

Note al testo

  • Ho criticato le loro analisi e proposte in un breve articolo: Cfr. Gianfranco Pasquino,Ma di cosa parlate, cosa scrivete?”, Comunicazione Politica, XXII, (1), gennaio-aprile, pp.103-108.
  • Ernesto Galli della Loggia, “Il sistema politico che cambia”, Il Corriere della Sera, 8 settembre 2021.  
  • Si vedano i miei contributi in: Stefano Ceccanti, Oreste Massari, Gianfranco Pasquino,  Semipresidenzialismo. Analisi delle esperienze europee, Bologna, il Mulino, 1996, 148 p. e il capitolo conclusivo: “Una Repubblica da imitare?” del libro da me curato insieme a Sofia Ventura, Una splendida cinquantenne: la Quinta Repubblica francese, Bologna, il Mulino, 2010, 283 p. [pp. 249-281].   

Pubblicato il 14 settembre 2021 su Key4biz

Abbiamo abbastanza democrazia per poterla esportare?

La democrazia che conosciamo non è “occidentale”. È universale. Non è nata in India e in nessun altro luogo del mondo non occidentale. Pratiche di accordi e compromessi, saltuarie rinunce alla violenza, scambi di ascolti e riunioni assembleari non configurano nessuna democrazia. La democrazia che conosciamo è il prodotto complesso del pensiero europeo, poi anglo-americano, combinato con le pratiche necessarie a riconoscere e mantenere il pluralismo dei dissidenti religiosi, aggiungendovi le riflessioni dei liberali sui diritti, a cominciare da one man, oops, one person one vote, sulla separazione delle istituzioni e sull’autonomia del potere politico da quello religioso. Tutte le altre interpretazioni che vengono date della democrazia sono il prodotto sbagliato e fuorviante, anche pericoloso per tutti, di un mix variabile di ignoranza e manipolazione, di cancel culture e buonismo inclusivo.

Esportare la democrazia, ha scritto nitidamente Giovanni Sartori, si può, subito aggiungendo: non dovunque e non comunque. Certo, la “esportazione” non potrà essere fatta da chi, come Arianna Farinelli in un troppo lungo articolo sul “Domani” (21 agosto), non ha un’idea chiara di che cosa è la democrazia. Galli della Loggia (“Corriere della Sera” 20 agosto) l’esportazione la farebbe persino portandola con la guerra, operazione che non sembra finora avere avuto successo. Anzi, è stata controproducente. No, in Italia nel 1945 la democrazia non fu portata dai carri armati americani e nella Germania sconfitta la democrazia poteva fare leva su democratici rimasti in patria e su esuli prestigiosi. Solo per il Giappone si può parlare di imposizione USA, ma una rondine non fa primavera (democratica).

   La democrazia ha bisogno di un luogo definito dove sperimentarsi. State-building, vale a dire l’esistenza di uno Stato con i suoi confini, con i suoi apparati, burocrazia e forze di polizia e militari, in grado di garantire l’ordine politico impedendo ai detentori di risorse soprattutto economiche di schiacciare gli altri abitanti, è la premessa di qualsiasi costruzione di democrazia. La democrazia ha bisogno anche di atteggiamenti e emozioni. Nation-building è il procedimento attraverso il quale si creano sentimenti di appartenenza condivisa, anche attraverso una rilettura della storia comune, di ridimensionamento delle fratture esistenti su base etnica, di concessione e protezione dei diritti basici: civili e, aprendo la strada alla democrazia, politici. Entrambi i procedimenti sono (stati) prodromici alla nascita di qualsiasi democrazia. Esemplarmente, per quel che ci riguarda: “fatta l’Italia bisogna fare gli italiani”. Per la Francia, il cui Stato esisteva da secoli, solo la prima guerra mondiale trasformò i “contadini in francesi” (è il titolo di un libro giustamente famoso di Eugen Weber, 1976). In un non piccolo numero di paesi sono (state) alcune confessioni religiose ad opporsi ad entrambi i procedimenti. Mi pare alquanto stucchevole continuare a sostenere che l’Islam non è in via di principio la religione monoteistica che maggiormente si oppone alla democrazia. Dove i proclami e i dettami dei mullah contano più dei voti, nessuna democrazia può affacciarsi. Inevitabilmente quei proclami e quei dettami lanciati contro i voti dei cittadini configurano uno scontro di (in)civiltà.

Nel mondo giorno dopo giorno che siano i monaci tibetani, gli studenti di Hong Kong, i seguaci della signora Aung San Suu Ky, le donne afghane, centinaia di migliaia di persone lottano per ottenere i diritti sui quali da tempo si fonda la democrazia in occidente, diritti che possono/debbono essere importati e sui quali e grazie ai quali nascono nuovi regimi democratici. Per nessun altro regime, mai, così tante persone di nazionalità, di cultura, di colore, di età e di genere diverso si sono impegnate allo stremo, spesso mettendo in gioco consapevolmente la loro vita. Quelle donne e quegli uomini, quei ragazzi si sentirebbero traditi da coloro che sostengono che bisogna tenere conto della loro storia, delle loro tradizioni, dei loro costumi (compreso quello di opprimere le donne) piuttosto di tentare di esportare la democrazia occidentale che, insomma a loro non è adatta, sarebbe una forzatura, verrebbe respinta. La tristissima conclusione è che la difficoltà di esportare la democrazia dipende anche dal fatto che troppi intellettuali, giuristi di più o meno oscura fama, opinion-makers, influencers occidentali non hanno un pensiero democratico. Per lo più non sanno esattamente di cosa parlano; spesso sono portatori malsani di alambiccatissimo e provincialissimo elitarismo con strisce di preoccupante razzismo: “eh, no, purtroppo, quei popoli non sono adatti/pronti per la democrazia. Triste.

Pubblicato il 2 settembre 2021 su PRADOXAforum

Chiedetevi perché tanti lottano per la democrazia. @DomaniGiornale

Sul “Corriere della Sera” (23 agosto) Sabino Cassese ha scritto, cito per esteso: “La democrazia è un insieme di istituzioni maturate nel mondo occidentale e non è corretto ritenerla migliore di altri reggimenti [sic] politici e cercare di trasferirla in paese che hanno tradizioni diverse”. Mi è stato subito riferito che le frasi di Cassese hanno già trovato diffusa accoglienza e suscitato grande tripudio in alcuni non imprevedibili ambienti.

   Seduti in un caffè parigino, una Gauloise fra le dita e un Pernod sul tavolino; rifugiatisi nella loro casetta per il fine settimana su un lago tedesco; raggruppati in vocianti tavolate che criticano aspramente uno qualsiasi dei governi latino-americani; ad un congresso in una ridente località balneare fra colleghi politologi, sociologi e persino studiosi di diritto costituzionale; nella riunione di redazione di un quotidiano romano orgogliosamente progressista, molti pensosi intellettuali lamentano con faccia triste che la democrazia è in crisi, è una causa persa, non può essere salvata. Danno tutti ragione a Cassese: la democrazia è un “reggimento” che non regge più. Poi, inopinatamente, mi giungono altre notizie. Rannicchiati e picchiati in qualche prigione cinese, agli arresti domiciliari nel Sud-Est asiatico, braccati dalla polizia in diversi Stati africani, nascosti sotto protezione perché è stata lanciata una fatwa contro di loro, malmenati/e in piazza Taksim, ricacciate in densi burqa, centinaia di migliaia di oppositori, uomini e donne, lottano in nome della democrazia – sì, proprio quella, occidentale, che hanno visto in televisione e nei film americani, e sperimentato come studenti a Oxford, Cambridge, Harvard, persino alla Sorbona, a Berlino e a Bologna (l’ateneo del quale è studente Patrick Zaki da più di un anno in una fetida cella egiziana), organizzano attività, reclutano aderenti, qualche volta mettono consapevolmente a rischio la loro vita. Lo ha confermato di recente, dal carcere nel quale è rinchiuso per insubordinazione, il leader degli studenti di Hong Kong, Joshua Wong: “Anche se siamo lontani, la nostra ricerca di democrazia e di libertà è la stessa”.

   Per nessun altro regime (reggimento?), mai, così tante persone di nazionalità, di cultura, di colore, di età e di genere diverso si sono impegnate anche rischiando (e perdendo) la vita. Ritengono che la democrazia, quell’insieme di regole, procedure e istituzioni che promuovono e proteggono più estesamente e concretamente i diritti civili, politici, persino sociali, è la forma migliore di governo. Sanno che sarà sempre sfidata in nome dei suoi stessi principi e valori. Come scrisse mirabilmente alcuni decenni fa Giovanni Sartori, professore di Scienza politica, esiste una democrazia “ideale”, quella che ciascuno di noi intrattiene nelle sue speranze ed esistono democrazie “reali” con inevitabili problemi di funzionamento e con enormi capacità di apprendimento e di autoriforma come, Churchill conferma, nessun altro “reggimento” politico.

Pubblicato il 25 agosto 2021 su Domani

Passettini, posizionamenti, e Presidenza. Riusciranno Conte e Letta a intestarsi qualche merito? @formichenews

L’elezione del Capo dello Stato e la gestione dei primi fondi europei saranno passettini nella direzione giusta, ma riusciranno Pd e Conte, Letta e il Movimento 5 Stelle a intestarsene qualche merito politicamente fruttuoso? Il commento di Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza politica e Accademico dei Lincei

Giustamente, nella sua intervista a Formiche.net, il mio amico di lunga data Giuliano Urbani critica le mosse dei dirigenti dei partiti del centrodestra. Sicuramente, il declino di Berlusconi e di Forza Italia suggerisce che non saranno i moderati/centristi a dettare tempi e modi della coalizione di centrodestra. Di tanto in tanto, quasi come in un gioco dei quattro cantoni, un editorialista del Corriere della Sera, talvolta persino il direttore, lamentano la mancanza di un centro, meglio di un partito di centro, nel variegato sistema dei partiti italiani. Non sempre i vagheggiatori hanno consapevolezza del fatto inesorabile che un partito di centro che avesse qualche successo elettorale renderebbe impraticabile qualsiasi competizione bipolare e manderebbe in soffitta la famigerata democrazia compiuta, dell’alternanza.

Sul versante che non chiamerò del centrosinistra, ma più propriamente del Partito democratico e delle 5 Stelle, l’unica opzione praticabile sembra essere quella di un’alleanza che da mesi tutti i sondaggi danno minoritaria e perdente nelle intenzioni di voto degli italiani. L’attesa, adesso che ha ottenuto il mandato che desiderava, è tutta su Conte e sulla sua strategia: spostare il baricentro del Movimento verso il Nord. Da quel che le analisi elettorali hanno scoperto da tempo, non è affatto probabile che nel Nord esista un ampio bacino di elettori orientabili verso le 5 Stelle. Continuo a pensare, ma i dati mi confortano, che parte tutt’altro che piccola dell’elettorato pentastellato sia stata mobilitata dalla protesta e dall’insoddisfazione nei confronti della politica e del funzionamento del sistema politico. Nel Nord protesta e insoddisfazione sono, da un lato, meno diffusi che nel Sud, dall’altro, hanno storicamente trovato accoglienza nei ranghi della Lega. Le ambiguità di Salvini rappresentano adeguatamente buona parte di questo elettorato.

Lasciando Conte alla sua difficile ricerca, continua a non essermi chiaro che cosa effettivamente ricerchi il Partito democratico di Letta. I segnali sul terreno, per me importante, dei diritti: legge Zan e cittadinanza ius soli o ius culturae, sono più che apprezzabili, ma chi li apprezza è già da tempo un’elettrice/tore del Pd. Forse verranno corroboranti vittorie democratiche nelle elezioni amministrative e probabilmente sventolerà il vessillo di Enrico Letta nel collegio uninominale di Siena. Nulla di questo, però, fa prevedere uno “sfondamento” elettorale prossimo venturo. Non intravedo indicazioni e mosse che riescano a mobilitare parti della società civile abitualmente in posizioni “wait and see” né innovazioni specifiche in materia, ad esempio, di lavoro e diseguaglianze.

Forse hanno ragione quelli che si concentrano sugli obiettivi ineludibili: una buona elezione del Presidente della Repubblica e un’efficace utilizzazione della prima, già considerevole, tranche dei prestiti e dei sussidi dell’Unione europea. Saranno passettini nella direzione giusta, ma riusciranno Pd e Conte, Letta e il Movimento 5 Stelle a intestarsene qualche merito politicamente fruttuoso? Sapremo l’ardua risposta molto prima dei posteri.

Pubblicato il 14 agosto 2021 su formiche.net