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Confermativo, oppositivo o abrasivo. Il referendum e il potere degli aggettivi @DomaniGiornale

In principio era il verbo, cioè la parola (un sostantivo). Poi arrivarono gli aggettivi e fu tutta una Babele. C’era chi beatamente continuava a definire perfetto il bicameralismo italiano commettendo due errori gravi. Primo: l’uso di un aggettivo valutativo invece dell’indispensabile aggettivo descrittivo,  per un Parlamento in cui le due camere hanno grosso modo gli stessi poteri e svolgono le stesse attività, paritario o simmetrico. Poi, con grandissimo sprezzo del pericolo, e del ridicolo, se ne annuncia l’imprescindibile necessità della riforma epocale: rendere imperfetto il bicameralismo perfetto. Riforma bocciata dagli elettori.

Poi vennero quelli che il premierato … L’aggettivo chiave è forte, ma subito è il caso di osservare che il premierato è il premierato è il premierato. Forte e debole sono qualità che riguardano semmai i premier, i capi di quella forma di governo, vale a dire, specialmente le loro capacità e la loro autonomia. Lanciato più di un quarto di secolo fa con il contributo di alcuni benpensanti moderatamente di sinistra, il premierato ha come fondamento essenziale l’elezione popolare diretta del capo del governo. Non è sufficiente la “quasi” elezione diretta, come arditamente veniva affermando un professore comunista di diritto poi approdato alla Presidenza della Corte Costituzionale. Ironia o sbeffeggio della storia, proprio in quel periodo i conservatori inglesi reclutavano dai loro ranghi parlamentari quattro primi ministri uno dei quali, Liz Truss, occupò la carica addirittura per quasi 50 giorni. Non succederà così con il disegno di legge costituzionale di Giorgia Meloni, “madre” [non Giorgia, ma l’elezione popolare] di tutte le riforme” poiché una sostituzione dell’eletto/a è consentita. Non consentito è l’aggettivo “forte”, uomo forte evocando i tempi in cui capo del governo era Lui, Sua Eccellenza il Cav. Benito Mussolini (v. in materia l’analisi di Ruth Ben-Ghiat, Strongmen. How They Arise. Why They Succeed. How They Fall, London, Profile Books, 2021).

Troppo facile, poi, notare che non pochi capi di governi parlamentari, non eletti direttamente, Margaret Thatcher (1979-19909 e Tony Blair (1997-2007); Felipe Gonzales (1982-1996); Helmut Kohl (1982-1998), Angela Merkel (2005-2021), sono stati forti, duratori, autorevoli. A loro volta per non pochi Presidenti di Repubbliche presidenziali (Argentina, Raul Alfonsin 1983-1987; molti boliviani e peruviani; George H. Bush (1988-1992), Joe Biden (2020-2024), l’elezione popolare non servì affatto a renderli forti. Il Presidente semipresidenziale francese Emmanuel Macron costituisce un caso interessante che contiene una risposta più che soddisfacente. Grazie al solido sostegno di un’ampia maggioranza parlamentare, è stato molto forte nel corso del suo primo mandato (2017-2022). Pur rieletto dal “popolo”, ma, perduta quella maggioranza, Macron appare debole e ha scarso potere decisionale nell’attuale secondo mandato che finirà inesorabilmente nel 2027.  

Giunti al termine della stesura di un testo limpido, ma articolato e necessariamente complesso come la Costituzione italiana, i Costituenti non ebbero dubbi. Uno o più articoli del testo, non soltanto quelli, peraltro non molti, sui quali si erano manifestate perplessità e tenute votazioni, avrebbero alla prova dei fatti forse trovato/meritato altre soluzioni. Il tempo e l’attuazione della Costituzione erano destinati a evidenziare inconvenienti e a sollevare problemi. Dunque, era più che auspicabile stabilire modalità sufficientemente precise con le quali addivenire a adeguate revisioni costituzionali. 

Per l’approvazione di una revisione costituzionale (art. 138) sono richieste in ciascuna Camera due letture a distanza minima di tre mesi. La doppia lettura e il tempo servono a tutti i protagonisti per imparare. I parlamentari avranno modo di ascoltare le motivazioni dei revisionisti e degli oppositori e le eventuali proposte alternative. Mass media e commentatori potranno narrare gli sviluppi e informare i cittadini, l’opinione pubblica L’elettorato avrà la possibilità più che in una elezione normale di farsi un’idea approfondita e raffinata quanto vorrà. La ragione per la quale i referendum costituzionali non hanno quorum è proprio perché i costituenti intesero premiare i cittadini interessati, informati e partecipanti e impedire che coloro che per qualsiasi motivo scelgono di non votare risultino distrattamente decisivi.

   Il referendum costituzionale è facoltativo, vale a dire che una revisione costituzionale approvata secondo le procedure descritte entra in vigore se non è sfidata nei tre mesi successivi la sua approvazione. Non si può avere nessun referendum se la revisione è stata approvata in seconda lettura dai due terzi dei parlamentari di entrambe le camere. La ratio di questa statuizione è tanto semplice quanto importante. In un paese nel quale l’antiparlamentarismo è un sentimento molto diffuso, incomprimibile, talvolta alimentato faziosamente, è saggio non offrire un’occasione di delegittimazione del parlamento espressosi con una maggioranza dei due terzi.    Detto e ribadito che il referendum deve essere richiesto, i costituenti stabilirono che richiedenti potessero essere “un quinto dei membri di una Camera o 500 mila elettori o cinque consigli regionali”. Dunque, non è previsto che il referendum costituzionale sia chiesto dalle autorità di governo meno che mai se quella particolare revisione è stata formulata dal governo con addirittura il capo del governo che se la intesta. Il referendum si trasformerebbe in plebiscito come successe al referendum voluto da Renzi sulle “sue” riforme. Infine, poiché logicamente dovrebbero essere, e, per lo più sono stati, gli oppositori della revisione a chiedere il referendum l’aggettivo confermativo è assolutamente sbagliato. Contiene anche un elemento sottilmente manipolatore: l’invito alle urne per confermare quanto fatto dalla maggioranza parlamentare. No, il referendum costituzionale non ha nessun aggettivo. Confermativo, comunque, sarebbe l’eventuale esito. Pertanto, se chiesto da chi s’oppone alla revisione, il referendum sarebbe più corretto definirlo oppositivo, contro la revisione. Quanto all’esito, se la revisione viene sconfitta e cancellata, la mia preferenza va all’aggettivo abrasivo. Preciso e definitivo.

Pubblicato il 4 novembre 2025 su Domani

Gridare al lupo è stucchevole. Ma il rischio illiberale esiste @DomaniGiornale

Non sono persona che cede facilmente agli allarmismi. Non credo all’esistenza di una troppo sbandierata crisi della democrazia. I dati oramai ampiamente disponibili, provenienti da più fonti e da diverse agenzie di ricerca evidenziano che nessun sistema politico diventato democratico nel secondo dopoguerra ha perso la sua democrazia, con l’eccezione del Venezuela. Vedo, però, che fanno spesso la loro comparsa una pluralità di problemi di funzionamento, di maggiore o minore gravità, un po’ in tutte le democrazie contemporanee. Nessuno di quei problemi è insuperabile; nessuno ha portato al crollo del regime democratico. Tuttavia, in un (in)certo numero di casi, è facile constatare e comprovare che ne risulta ridotta la qualità di quelle specifiche democrazie. Dalla storia (sic) ho anche imparato che troppo spesso i democratici, politici e studiosi, hanno sottovalutato i problemi, si sono dimostrati troppo permissivi, non hanno reagito tempestivamente e con adeguato vigore. Proprio per tutte queste ragioni, ritengo opportuno non gridare “al lupo al lupo”, ma esplorare se esistano tracce dell’avvicinarsi del lupo qui in Italia.

Mi attenderei che questa esplorazione si giovasse in particolare del contributo degli studiosi, dei commentatori, dei politici che si definiscono liberali e che chiedono a tutti prove di liberalismo. Se viene colpito il principio fondamentale delle democrazie liberali che si chiama separazione delle istituzioni per cui a qualche istituzione si consente di invadere e occupare la sfera di autonomia delle altre, c’è un grosso rischio democratico. Nessun governo dovrebbe mai piegare il parlamento, assemblea nella quale ha la maggioranza, attraverso l’eccesso di decretazione d’urgenza per di più accompagnato dalla micidiale richiesta del voto di fiducia che non solo vanifica qualsiasi emendamento, ma impedisce la discussione sul merito. So che questa pratica ha radici profonde, mai adeguatamente recise. So anche che alcuni Presidenti della Repubblica e qualche sentenza della Corte Costituzionale hanno vanamente cercato rimedio. Però, constato che nei suoi due anni di vita il governo Meloni vi ha già fatto ricorso in maniera smodata, superiore a quella di tutti i suoi predecessori. Aggiungo che non è compito del parlamento “fare” le leggi, ma controllare, emendare, migliorare le leggi del governo, tutto questo reso impossibile dalla tagliola “decreto più voto di fiducia”.

Cinque giudici costituzionali sono eletti dal parlamento, che, ancora una volta, può significare, senza scandalo alcuno, dalla maggioranza parlamentare. Il discorso diventa inevitabilmente valutativo ovvero incentrato sul curriculum e sulla competenza delle candidature. Il solo pensare di eleggere chi ha avuto il ruolo fondamentale nella stesura di un disegno di legge costituzionale sul quale molto probabilissimamente vi sarà una richiesta di referendum per “proteggerlo”, mi pare riprovevole. Gli inglesi affermerebbero “it’s simply not done”. Poiché lampante è il conflitto di interessi, semplicemente non s’ha da fare. Ricordo anche che il premierato, “madre di tutte le riforme”, espressione di Giorgia Meloni sulla quale meditare, ridimensiona significativamente i poteri del Presidente della Repubblica di agire come “freno e contrappeso”, compito cruciale nell’ottica liberale, all’esercizio del potere di governo.

Nelle democrazie da tempo esiste un quarto potere, in senso lato, i mass media. Attraverso di loro, i cittadini si informano e, in generale, ma anche di volta in volta, nasce, si manifesta, opera l’opinione pubblica. Governi che querelano giornali e giornalisti, che li intimidiscono, come più volte fatto dal governo Meloni, mirano a rendere più difficoltosa la formazione di un’opinione pubblica adeguatamente informata. Ancora peggio, naturalmente, quando la maggioranza governativa va ad occupare armi e bagagli l’azienda RAI che in quanto pubblica dovrebbe offrire informazione imparziale e pluralista. Ho segnalato quello che, a mio parere, è l’inizio di un percorso illiberale. Può certamente essere rallentato e addirittura fermato anche grazie ai liberali coerenti. Così, sperabilmente, sia.

Pubblicato il 9 ottobre 2024 su Domani

Un’elezione per soddisfare gli istinti populisti indebolendo i contrappesi istituzionali #DemocraziaFutura @Key4biz

Pubblicato il 2 Novembre 2023 su Key4biz

I due punti cruciali del disegno di legge costituzionale presentato dal governo, secondo Gianfranco Pasquino: “da contrastare tramite referendum oppositivo”.

Nell’editoriale scritto per l’undicesimo fascicolo in chiusura di Democrazia futura, Gianfranco Pasquino commenta il disegno di legge costituzionale[1]  presentato dal governo evidenziandone i due punti cruciali. Secondo il noto scienziato politico “L’elezione popolare diretta del Primo ministro” presenta numerosi rischi di incostituzionalità e sarebbe – così recita il titolo dell’articolo – “Un’elezione per soddisfare gli istinti populisti indebolendo i contrappesi istituzionali, da contrastare tramite referendum oppositivo”. 

Secondo Pasquino “Da rimarcare e da criticare sono i due punti cruciali dell’elezione popolare diretta concernenti proprio le modalità dell’elezione: primo, per vincere non è necessaria la maggioranza assoluta dei voti/votanti; secondo, non è neppure specificato se esiste una soglia minima per l’attribuzione al (la coalizione del) vincitore/trice il 55 per cento dei seggi”. L’Accademico rileva da un lato l’assenza di un ballottaggio, giustificato per impedire ammucchiate nel fronte avverso di centrosinistra, dall’altro “L’espediente per evitare in caso di crisi il ricorso a governi tecnici o ribaltoni”. Ne uscirebbe un Presidente della Repubblica privo non solo del potere di nomina del Premier ma anche di quello di scioglimento del Parlamento “ridotto a figura cerimoniale dai contorni vaghi e sbiaditi”. 

Elezione popolare diretta del Primo ministro è il titolo del disegno di legge costituzionale del governo che cambierebbe in maniera profonda e “originale” il modello di governo parlamentare delineato nella Costituzione italiana. Sappiamo della esistenza di molti giuristi favorevoli che già consigliarono Matteo Renzi quando formulò le sue riforme, poi sonoramente bocciate dal referendum (quindi, non confermativo!) e la sua legge elettorale Italicum che mezza Europa avrebbe apprezzato e imitato, ma che fu smantellata dalla Corte Costituzionale.

Il richiamo è doppiamente opportuno perché, primo, il disegno di legge innegabilmente si ispira al modello “sindaco d’Italia”; secondo, ha immediatamente ricevuto il sostegno di Renzi e di Maria Elena Boschi, la sua ex-ministra delle Riforme Istituzionali. L’obiettivo è garantire la stabilità del Primo Ministro nella carica in modo da migliorare l’efficienza/efficacia della sua azione.

Non solo stabilità nella durata nel tempo ma capacità politiche e solidità della coalizione. Da cosa dipende l’efficacia operativa di un capo di governo in una democrazia parlamentare

A proposito della stabilità alcune osservazioni comparate sulla durata in carica dei capi di governo e di Presidenti “presidenzialisti” e “semipresidenzialisti” possono essere utili. Il recordman assoluto di durata in carica come capo di un governo parlamentare è il socialdemocratico svedese Tage Erlander, 23 anni (1946-1969). Al secondo posto il Cancelliere democristiano tedesco Helmut Kohl, 16 anni (1982-1998), seguito, con una differenza di un paio di settimane, dalla democristiana Angela Merkel (2005-2021). Quarto il socialista spagnolo Felipe Gonzalez, 14 anni (1982-1996). Quinto, il socialista francese François Mitterrand, 14 anni (1981-1995), semipresidenzialista. Da ultimo, va collocato il più duraturo dei presidenti presidenzialisti, il Democratico statunitense Franklin Delano Roosevelt, 12 anni (1933-1945). Dunque, è possibile che nelle democrazie parlamentari i capi di governo siano significativamente stabili nella loro carica. La stabilità politica è una importante precondizione per l’efficacia operativa, ma questa efficacia dipende non dalla durata nel tempo, ma soprattutto dalle capacità politiche e personali del capo di governo e dalla solidità della coalizione.

I due punti controversi su cui sono probabili le obiezioni della Corte Costituzionale

Da rimarcare e da criticare sono i due punti cruciali dell’elezione popolare diretta concernenti proprio le modalità dell’elezione:

  • primo, per vincere non è necessaria la maggioranza assoluta dei voti/votanti;
  • secondo, non è neppure specificato se esiste una soglia minima per l’attribuzione al (la coalizione del) vincitore/trice il 55 per cento dei seggi.

Le probabilità che la Corte Costituzionale, sulla base della sua stessa giurisprudenza, obietti mi paiono elevatissime.

L’assenza di un ballottaggio per evitare ammucchiate

Praticamente, ovunque laddove il titolare della più alta carica viene eletto dai cittadini, in assenza di una maggioranza assoluta, è prevista la procedura del ballottaggio attraverso il quale il candidato vittorioso risulterà eletto dalla maggioranza assoluta dei votanti. Avrà, dunque, maggiore legittimazione politica, democratica. Il centro-destra teme e vuole scongiurare la formazione di schieramenti a lui contrari di tipo occasionale, opportunistico, eterogenei, puramente negativi. Tuttavia, è evidente che, in assenza di ballottaggio, quegli schieramenti, elegantemente le “ammucchiate” del centro-sinistra sarebbero costrette a formarsi prima delle elezioni. Invece, il ballottaggio renderebbe più trasparente il procedimento della loro formazione e consentirebbe all’elettorato di giudicare a maggior ragion veduta.

L’espediente per evitare in caso di crisi il ricorso a governi tecnici o ribaltoni

Anche se eletto dal popolo, il Primo ministro può essere sostituito senza nessun ritorno al popolo, ma in Parlamento purché la sua sostituzione venga effettuata dalla e nella sua maggioranza e con un parlamentare già appartenente a quella stessa maggioranza. L’espediente mira a rendere impossibile sia l’assunzione/ascensione di un “tecnico” al vertice del governo sia un cambio di maggioranza, cosiddetto ribaltone, fenomeni entrambi tanto rari quanto possibili in tutte le democrazie parlamentari et pour case: non demandare all’elettorato con il ritorno anticipato alle urne, quindi logorandolo, la soluzione di problemi prodotti dai politici. Qualora il sostituto prescelto non ne ottenesse la fiducia il Presidente della Repubblica ha l’obbligo di sciogliere il Parlamento.

Un Presidente della Repubblica ridotto a figura cerimoniale dai contorni vaghi e sbiaditi

Mi pare evidente che questo esito può essere procurato ad arte dalla maggioranza anche qualora sia in corso la sua disgregazione. Comunque, in questo modo relativamente soffice, avendo già perso il potere di nomina del Primo ministro, il Presidente della Repubblica si vede sottrarre anche il potere di scioglimento del Parlamento. Poiché il disegno di legge abolisce i senatori a vita per meriti sociali, artistici, scientifici e culturali, il Presidente della Repubblica italiana, da protagonista nel complesso intreccio di freni e contrappesi istituzionali e democratici, diventa figura cerimoniale dai contorni vaghi e sbiaditi, finendo confinato fra i passacarte irrilevanti

Dell’abolizione dei Senatori a vita non scrivo nulla poiché mi trovo in lampante conflitto d’interessi avendo presentato nel 1987 un disegno di legge intitolato “Soppressione dei senatori a vita art. 59” includendovi, dunque, anche gli ex-Presidenti della Repubblica. Costoro potrebbero giustamente continuare a fregiarsi del titolo di Presidente Emerito. I cittadini che hanno eccelso mei campi sociale, artistico, scientifico e letterario dovrebbero essere opportunamente onorati in altro modo.

La strada del referendum oppositivo in caso di approvazione della riforma

La valutazione complessiva del disegno di legge costituzionale del governo di centro-destra è senza esitazioni negativa. Il modello di governo parlamentare viene scombussolato non da un nuovo, coerente modello, ma da un’elezione che può soddisfare gli appetiti populisti indebolendo, se non sostanzialmente sconvolgendo i freni e i contrappesi istituzionali e democratici. Ciò detto, dando per scontato che il centro-destra ha i numeri e l’intenzione di approvare la sua riforma, rimane aperta e praticabile la strada del referendum costituzionale, ovviamente non confermativo, ma oppositivo.


[1] Le sue idee e proposte in materia sono esposte nel libro Cittadini senza scettro. Le riforme sbagliate, Milano, Università Bocconi Editore-Egea, 2015, 204 p.

Con la riforma Meloni il capo dello Stato diventa una specie di orpello #intervista @ildubbionews

Intervista raccolta da Giacomo Puletti

Il professore emerito Gianfranco Pasquino al Dubbio: «La maggioranza fa un grave errore nel non volere la sfiducia costruttiva. Ed è quasi sorprendente che il centrodestra non la voglia. Basti pensare che tra i governi più longevi in Europa ci sono quelli tedeschi di Khol e Merkel e quello spagnolo di Felipe Gonzales»

Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza Politica a Bologna, sulla riforma costituzionale della maggioranza spiega che «la logica vorrebbe che se chi viene eletto direttamente dal popolo poi perde la carica, allora si torna al voto, senza passare dal Parlamento» e che «la figura del presidente della Repubblica rimane una specie di orpello e di certo non sarà più una figura di garanzia come è ora».

Professor Pasquino, la convince la riforma per cui il presidente della Repubblica non nominerà più il presidente del Consiglio ma gli conferirà l’incarico, sulla base del voto dei cittadini?

Il presidente della Repubblica sarà obbligato a dare l’incarico al primo ministro eletto dai cittadini e non avrà spazio di discrezionalità. Se poi quel primo ministro viene meno per dimissioni, sfiducia o altro, a quel punto il capo dello Stato può indicare un altro capo del governo purché sia un parlamentare appartenente alla stessa maggioranza. Ma questo implica che la seconda volta non siamo più di fronte a un’elezione popolare diretta.

Secondo la maggioranza andrà comunque bene agli elettori che hanno votato una certa coalizione: non crede sarà così?

Che vada bene politicamente è un conto, ma nei fatti non è più un’elezione popolare diretta. Deciderebbe la maggioranza attraverso un accordo al suo interno ma a quel punto diventerebbe capo del governo qualcuno o qualcuna che non ha vinto le elezioni. La logica vorrebbe che se chi viene eletto direttamente dal popolo poi perde la carica, allora si torna al voto, senza passare dal Parlamento. E infatti il modello da cui tutto questo parte è il sindaco d’Italia. Se un sindaco perde la fiducia del suo consiglio comunale si torna a elezioni. In questo modo invece non dico che la logica istituzionale è stravolta ma certamente non lineare.

L’obiettivo è evitare i cosiddetti “ribaltoni”…

Si scrive che deve essere un parlamentare della maggioranza perché non si vogliono più tecnici o non parlamentari, come i vari Ciampi, Monti, Draghi, Renzi. Tecnicamente è un presidenzialismo, e la figura del presidente della Repubblica rimane una specie di orpello. Lo si lascia soltanto per non dare fiato alla critica di averlo eliminato, ma di certo non sarà più una figura di garanzia come è ora.

La riforma parla di un premio di maggioranza del 55% ma non si è ancora parlato di legge elettorale. Cosa implica questo?

Tanto per cominciare l’elemento cruciale è che vince chi ha un voto più dell’altro. Ma questo significa che chi vince potrebbe benissimo non avere la maggioranza assoluta dei votanti. Questo è un punto delicato e che ritengo importante. A questa “non maggioranza” viene dato un premio in seggi, anche se resta da vedere se poi la Corte costituzionale riterrà che questo premio sia accettabile. Non sapendo quale percentuale ha avuto la maggioranza, il premio potrebbe essere enorme. Supponiamo che ci siano due schieramenti attorno al 40 per cento e gli altri voti: in questo caso un premio del 15% sarebbe molto consistente. E quindi molto criticabile. Di certo ci deve essere un’indicazione di legge elettorale e di quale legge serve per eleggere il primo ministro. Non si può rimanere silenziosi su questo.

Quale impatto avrà il disegno proposto rispetto all’attuale sistema dei partiti?

Questa è una domanda difficile. Di fronte al pericolo di perdere le elezioni contro un centrodestra attorno al 42- 44 per cento, il centrosinistra dovrebbe unirsi. L’ammucchiata, come la chiamano a destra, in questo caso è chiaramente necessaria. Insomma bisogna che si faccia una coalizione a sostegno di qualcuno che non deve essere né del Pd né del M5S e che tenga unita la coalizione mostrandosi al tempo stesso convincente per gli elettori.

Insomma questa riforma potrebbe favorire il bipolarismo?

Non userei il verbo favorire, preferisco incoraggiare, suggerire, spingere verso quella direzione. Di certo è un incentivo alla sinistra a mettersi insieme.

Questa riforma “mette in guardia” le coalizioni rispetto alla necessità di compattarsi, mentre i piccoli partiti dovrebbero rendersi conto che a loro conviene entrare in una coalizione, così da risultare decisivi. Entrerebbero in Parlamento grazie al premio di maggioranza e potrebbero chiedere ruoli di ministro. Insomma tutto quello che il centrodestra dice di rifuggere, cioè inciuci, accordicchi e via dicendo, è favorito da questo disegno.

A proposito di piccoli partiti: Renzi sostena la riforma, differenziandosi dal resto delle opposizioni.

Renzi ha detto che questa riforma gli piace e quindi si candida a far parte della coalizione di destra. Lui voleva il sindaco d’Italia, ma pur essendo stato molto critico su questo punto riconosco che almeno in quel caso il presidente del Consiglio veniva eletto dalla maggioranza assoluta dei votanti tramite ballottaggio, mentre in questo caso non c’è nemmeno quello. Il ballottaggio è un sicuro dispensatore di opportunità politiche perché consente agli elettori di dare un voto decisivo e acquisire ulteriore informazioni tra primo e secondo turno, obbligando i candidati a trovare alleati e affinare la propria proposta.

L’opposizione resta ferma sull’idea di sfiducia costruttiva, presente in Germania e Spagna, che però non piace alla maggioranza: che ne pensa?

La maggioranza fa un grave errore nel non volere la sfiducia costruttiva. Ed è quasi sorprendente che il centrodestra non la voglia. Basti pensare che tra i governi più longevi in Europa ci sono quelli tedeschi di Khol e Merkel e quello spagnolo di Felipe Gonzales. Cioè i due paesi dove c’è la sfiducia costruttiva. Di per sé quindi la misura stabilizzerebbe il capo del governo nella sua carica.

Un altro punto è l’abolizione dei senatori a vita: che idea si è fatto?

È un istituto anziano di cui si può fare certamente a meno ma bisogna capire come onorare al massimo alcune figure di spicco della società. Ad esempio negli Usa c’è la medaglia alla libertà, ma di certo dei senatori a vita è stato fatto un cattivo uso perché alcuni capi dello Stato hanno nominato dei politici e questo non si doveva fare.

Pubblicato il 2 novembre 2023 su Il Dubbio

 I referendum abrogativi servono a qualcosa? @DomaniGiornale

Sono anni che il dibattito politico italiano si agita in maniera carsica fra una molteplicità di poli lungo una linea che va dall’assoluta importanza del referendum come strumento di democrazia diretta alla assoluta inutilità del referendum come modalità per il miglioramento della legislazione e la soluzione di problematiche complesse. Per una volta mi calerò nel ruolo, per me inappropriato e scomodissimo, di cerchiobottista, e argomenterò che entrambe le posizioni estreme corrispondono alla realtà effettuale.

In generale, il referendum è uno strumento di partecipazione efficace corroborato da molti esempi italiani: divorzio, interruzione di gravidanza, scala mobile (1985), leggi elettorali. Informati dai proponenti e, in parte, mobilitati dagli oppositori, i cittadini italiani si sono spesso fatti un’idea e la hanno riversata con efficacia nelle urne. È una storia abilmente e convincentemente ripercorsa nei dettagli dal costituzionalista (anche protagonista) Andrea Morrone, La Repubblica dei referendum. Una storia costituzionale e politica (1946-2022) (il Mulino 2022). Di contro, il fallimento per mancanza di quorum, cioè della indispensabile maggioranza assoluta dei votanti, di un numero considerevole di referendum soprattutto negli ultimi vent’anni, sembrerebbe segnalarne l’inutilità, la perdita, secondo alcuni, irrimediabile, di incisività. Di qui alcune proposte per superare il requisito del quorum. La più convincente è quella che lo vorrebbe calcolato con riferimento alla percentuale di coloro che hanno votato nelle più recenti elezioni politiche.

Non è, però, solamente con i numeri e le percentuali che il referendum deve fare i conti. Per quanto sgradevole, in special modo per chi crede, come il sottoscritto, che il voto davvero “è dovere civico” (art. 48), e che in nessun modo una democrazia deve premiare gli apatici e gli astensionisti, sembrerebbe inoppugnabile che una legge approvata dalla maggioranza assoluta dei parlamentari, rappresentanti del popolo, non possa essere abrogata da una minoranza di elettori per quanto “intensi”. Soprattutto, deprecabile è che a incitare all’astensionismo siano, senza dimenticare il leggendario Cardinale Ruini (referendum sulla procreazione assistita, 2005) e alcuni giornalisti/opinionisti d’assalto, proprio i politici che, poi, frequentemente, piangono calde lacrime da coccodrilli sulla bassa partecipazione alle elezioni, in particolare, quelle politiche.

Molto più comprensibile e spesso anche condivisibile è la critica, non tanto al referendum in sé, ma alle materie alle quali lo applicano i promotori. Di questo difetto sono stati passibili non soltanto i radicali i quali portano la responsabilità di avere ecceduto con le loro “raffiche” di referendum. So che la replica ne sostiene la liceità anche alla luce della quantità di firme raccolte, indicanti una “necessità” sentita. Piuttosto, in definitiva, la mia critica va, non tanto alle materie sulle quali è costituzionalmente possibile promuovere un referendum, ma al fatto che l’abrogazione di una legge o di sue parti non garantisce quasi mai una soluzione immediatamente accettabile. Il cerino acceso torna, come nel caso di tutt’e cinque i quesiti sull’amministrazione della giustizia, nelle mani degli stessi parlamentari che non hanno saputo trovare soluzioni condivise, convincenti. Toccherà poi a loro interpretare il senso del verdetto referendario, talvolta con l’aiuto della Corte Costituzionale. Con (non) buona pace dei promotori e degli elettori.

Pubblicato il 8 giugno 2022 su Domani

A cosa servono i referendum nelle democrazie parlamentari @DomaniGiornale

Non so quanti altri peli i giudici costituzionali troveranno nelle otto uova referendarie sottoposte alla loro attenta e decisiva disamina giuridica. L’inammissibilità del cosiddetto “omicidio del consenziente” è un’enormità. La maggioranza della Corte non si è lasciata convincere da Giuliano Amato, l’autorevolissimo, per dottrina e storia personale, loro Presidente. Da non esperto, per di più con qualche propensione referendaria, la giurisprudenza della Corte Costituzionale in materia di referendum mi è frequentemente sembrata tenere in smodato conto alcuni criteri politici. Poi li nobilitava con riferimenti alla necessità di non aprire/acuire scontri, di non mettere a rischio la stabilità politica, già di per sé inferma, di non creare situazioni difficili. Dall’altro lato, i radicali hanno troppo spesso usato i referendum come clava contro i pur precari equilibri politici, come raffiche per abrogare la classe politica (eh, sì, qualche striscia di populismo nella concezione radicale della democrazia ha spesso fatto capolino). Nella stagione dei referendum elettorali, Giuliano Amato, allora vice-segretario del PSI, usò del suo prestigio di grande professore di Diritto Costituzionale, per denunciarli come “incostituzionalissimi”. La Corte l’accontentò soltanto in parte, ma commise quello che interpretai come un grave errore politico. Consentì all’abrogazione, non della legge nella sua interezza, ma di una o più frasi, con l’esito di una riscrittura del testo e della comparsa di una legge differente da quella che non s’era potuta abrogare. Si affermarono gli esperti del ritaglio.

Rapidamente, alcuni politici, ma anche i cardinali di Santa Romana Chiesa, sapendo che non potevano vincere contando i voti fecero appello all’astensione per fare fallire i referendum per mancanza di quorum. “Portare” alle urne il 50 per cento più uno degli italiani in epoca di disaffezione, declino dei partiti, polarizzazione politica, è diventato oramai un’impresa disperante. Triste, però, è vedere materie rilevanti per la vita degli italiani soppresse dal 20-25 per cento di astensionismo aggiuntivo a quello cronico con la sconfitta di quasi la metà dell’elettorato che si è mobilitato per conoscenza e convinzione.

   Di fronte alla divisione, partigianeria e, talvolta, inadeguatezza, non del parlamento, ma dei parlamentari, i referendum abrogativi continuano ad avere la possibilità di adempiere ad alcuni compiti, relativamente impropri, ma utili. Possono servire soprattutto da stimolo individuando un problema e imponendo un dibattito pubblico in pubblico. Talvolta, fanno opera di supplenza prospettando soluzioni persino in concorrenza con quelle formulate dal governo. In questa tornata è il caso dei quesiti sull’amministrazione della giustizia sottoposti dalla Lega. L’ultima parola può sempre averla il Parlamento anche contro, ma meglio di no, le preferenze espresse dagli elettori referendari. Nelle democrazie parlamentari, il referendum rimane strumento irrinunciabile. Consentirlo anche su materie delicate, come l’omicidio consenziente, continua a sembrarmi opportuno. 

Pubblicato il 16 febbraio 2022 su Domani

Lo SPID referendum fa bene alla democrazia @fattoquotidiano

La apparente facilità con la quale, grazie all’uso dello SPID, sembra essere diventato possibile raccogliere le firme per i referendum abrogativi finirà per svuotare la democrazia parlamentare? Il quesito, seppure posto in maniera molto semplicistica, è legittimo. Per rispondervi adeguatamente è necessaria una riflessione a tutto campo sulle caratteristiche fondamentali della democrazia parlamentare. Il punto di partenza è che in tutte le democrazie parlamentari, a partire dalla loro “madre”, la democrazia di Westminster, all’incirca almeno l’80 per cento delle leggi sono di iniziativa governativa. In un senso molto preciso, non è il Parlamento che “fa le leggi”. È giusto così. Infatti, i partiti e i parlamentari della coalizione che dà vita al governo hanno ricevuto voti e consenso anche con riferimento al programma che hanno sottoposto agli elettori. Quindi, hanno il dovere politico e istituzionale di cercare di attuare quel programma. In Parlamento la maggioranza sosterrà la bontà dei disegni di legge del “suo” governo, peraltro, mantenendo il potere di emendarli e migliorarli, mentre l’opposizione dovrà svolgere il suo compito di controllo, ma anche di emendamento, fino al possibile rigetto di quei disegni di legge.

   Dunque, è il controllo sull’operato del governo, non il “fare le leggi”, il compito più importante del Parlamento ed è anche la modalità con la quale l’opposizione può fare stagliare il suo profilo, dimostrare di essere influente, proporsi credibilmente come alternativa. Nessuna raffica di referendum sarà, da un lato, in grado di eliminare le leggi del governo, dall’altro, sostituire in toto la funzione di controllo del Parlamento. In effetti, quando i Costituenti italiani scrissero l’art. 75, oltre a mettere al riparo dal referendum alcune materie, “leggi tributari e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali”, stabilirono che il referendum ha come obiettivo “l’abrogazione, totale o parziale, di una legge”. Pertanto, nessun referendum riuscirà mai a sostituire la scrittura, l’esame e l’approvazione parlamentare dei disegni di legge. Il referendum abrogativo italiano interviene esattamente come strumento di controllo sulle leggi approvate dal parlamento.

   Nel corso del tempo abbiamo imparato che il taglio di alcun frasi e persino della punteggiatura di una legge finisce per produrre un testo nuovo, addirittura opposto alla legge “taglieggiata”. Sappiamo anche che il quesito referendario è sottoposto all’esame di ammissione/ammissibilità, prima della Corte di Cassazione, poi anche della Corte costituzionale. Infine, lo stesso Parlamento ha la facoltà di impedire che si tenga un referendum legiferando in materia e non soltanto, come spesso si sostiene, seguendo gli intenti perseguiti dai promotori del referendum. Anzi, potrebbe persino risultare che fra i loro intenti i referendari perseguano proprio quello di sollecitare il Parlamento a legiferare. In questo caso, i parlamentari godono della possibilità/opportunità di agire in tutta autonomia dal governo, che sia loro oppure no. Ne consegue che non è affatto vero che i referendum che, per brevità e scherzosamente chiamerò SPID, svuotano la democrazia parlamentare. Anzi, semmai la arricchiscono spingendo i cittadini ad attivarsi, diffondendo informazioni, creando una interlocuzione con il Parlamento (e con il governo).

   “Colpevolizzare” referendum e referendari con prospettive allarmistiche è sbagliato e finisce anche per allontanare l’attenzione dai problemi veri della democrazia parlamentare italiana. L’intasamento causabile dai referendum è poca, pochissima cosa rispetto al restringimento della funzione di controllo parlamentare sull‘operato del governo causato dai troppi decreti, derivanti spesso da inadempimenti del governo stesso, e dalle richieste di voti di fiducia, che fanno cadere tutti gli emendamenti, anche quelli sicuramente migliorativi. Le soluzioni sono state proposte da tempo: riforma dei regolamenti parlamentari, ma non a scapito dei tempi e dei poteri dell’opposizione, e delegificazione (al cui proposito mi sento di aggiungere che, più o meno direttamente, “ce lo chiede l’Europa”!).

   Una democrazia parlamentare non teme mai che i suoi cittadini si attivino, si organizzino, diventino influenti anche grazie a pratiche referendarie. Una democrazia parlamentare sa che il suo buon funzionamento e la sua efficacia dipendono dalle relazioni Governo/Parlamento. Con tutti i meriti che, personalmente di persona, sono disposto a riconoscere al governo Draghi, ritengo che il suo ricorso ai voti di fiducia, nel silenzio neppure imbarazzato dei commentatori che, con alto tasso di partigianeria lamentavano l’autoritarismo dei DPCM di Conte, sia eccessivo e per nulla consono al miglioramento della democrazia parlamentare e della politica in Italia.

Pubblicato il 29 settembre 2021 si Il Fatto Quotidiano

Per garantire la stabilità l’Italia dovrebbe imparare da Germania e Spagna @DomaniGiornale

Da qualche anno, il Direttore del Corriere della Sera, Luciano Fontana e quattro autorevoli editorialisti, Aldo Cazzullo, Paolo Mieli, Angelo Panebianco e Antonio Polito combattono due indefesse battaglie. La prima è quella per una legge elettorale maggioritaria. Però, il loro “maggioritario” preferito non è né quello inglese né quello francese entrambi caratterizzati dall’elezione dei candidati in collegi uninominali, ma un’imprecisata legge elettorale che offra un più o meno cospicuo premio di maggioranza. Tale era l’Italicum, ma in quanto leggi proporzionali con premio di maggioranza, che nessuno mai definì maggioritari, si collocherebbero in questa categoria anche la Legge Acerbo, utilizzata da Mussolini nel 1924, e la legge truffa del 1953. La seconda battaglia è per un governo eletto dal popolo, uscito dalle urne e non formato in parlamento. A loro si è finalmente aggiunto anche, last but tutt’altro che least, il più recente degli editorialisti: Walter Veltroni (“Corriere della Sera” 22 maggio, p. 1 e 36).

   La sua lancinante domanda è “come garantire all’Italia di avere governi scelti dai cittadini, che durino cinque anni, siano formati da forze omogenee per valori e programmi e che combattano l’avversario in ragione di questi”? La risposta necessariamente comparata è tanto semplice quanto drastica. Da nessuna parte al mondo esistono governi “scelti dai cittadini”. Nelle repubbliche presidenziali i cittadini eleggono il capo del governo che si confronterà con un Congresso/parlamento dove esistono forze disomogenee e si sceglierà i suoi ministri. Veltroni pone l’accento sulla necessità di un governo stabile, ma, come fece più volte rilevare Giovanni Sartori, la stabilità non è affatto garanzia di efficacia dei governi. Anzi, spesso la stabilità finisce per diventare immobilismo, stagnazione, rinuncia a prendere decisioni. Aggiungo che il governo che vorrebbe Veltroni, sulla scia degli altri editorialisti del Corriere, se fosse l’esito del premio di maggioranza innestato su una legge elettorale, sarebbe anche molto poco rappresentativo delle preferenze e degli interessi dell’elettorato. Potrebbe essere conquistato da un partito del 30 per cento con la conseguenza che il 70 per cento dei votanti sarebbero/si sentirebbero poco rappresentati.

   Certo, la Corte costituzionale potrebbe anche sancire che il premio non viene assegnato se il partito più forte non conquista almeno il 40 per cento dei voti espressi, ma allora il partito grande andrebbe alla ricerca di tutti i partitini possibili necessari per superare la soglia, a prescindere da qualsiasi omogeneità programmatica e valoriale. Ė una brutta storia che possiamo già vedere nella moltiplicazione delle liste e delle listine a sostegno delle candidature a sindaco. La pur impossibile elezione popolare diretta del governo dovrebbe anche comportare, ma Veltroni non ne fa cenno, che, se quel governo perde la maggioranza in parlamento, si torna subito alle elezioni poiché qualsiasi altra coalizione, pur numericamente possibile, non sarebbe legittimata dal voto. A sostegno della sua tesi, Veltroni cita, molto impropriamente, Roberto Ruffilli e Piero Calamandrei i quali, senza dubbio alcuno, avrebbero apprezzato governi stabili, ma, altrettanto certamente, si sarebbero opposti a qualsiasi premio di maggioranza. Per Calamandrei vale la sua campagna contro la legge truffa. E il maggioritario al quale si riferiva Ruffilli non prevedeva nessun premio in seggi.

   La proposta da citare fu quella avanzata il 4 settembre 1946 in Assemblea Costituente in un ordine del giorno dal repubblicano Tomaso Perassi, docente di diritto internazionale a La Sapienza, e che fu approvata da una ampia maggioranza:

«La Seconda Sottocommissione, udite le relazioni degli onorevoli Mortati e Conti, ritenuto che né il tipo del governo presidenziale, né quello del governo direttoriale risponderebbero alle condizioni della società italiana, si pronuncia per l’adozione del sistema parlamentare da disciplinarsi, tuttavia, con dispositivi costituzionali idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di Governo e ad evitare le degenerazioni del parlamentarismo» (c.vo mio, GP).

   In Italia non se ne è fatto niente, ma un anno dopo l’entrata in vigore della Costituzione italiana, i Costituenti tedeschi trovarono proprio il meccanismo stabilizzatore: il voto di sfiducia costruttivo. Il Bundestag elegge a maggioranza assoluta il Cancelliere. Può sfiduciarlo con un voto ugualmente a maggioranza assoluta e sostituirlo con un terzo voto a maggioranza assoluta per un nuovo Cancelliere. Se non vi riesce, il Cancelliere sconfitto può rimanere in carica, con l’approvazione del Presidente della Repubblica, fino ad un anno. Nel 1977-78 gli spagnoli, imitando i tedeschi, hanno introdotto nella loro Costituzione la mozione di sfiducia (costruttiva). Il Presidente del Governo può essere sfiduciato da una maggioranza assoluta dei deputati che automaticamente lo sostituiscono con il primo firmatario della mozione di sfiducia. In questo modo il 2 giugno 2018 è entrato in carica il socialista Pedro Sanchez. Non è casuale che Germania e Spagna siano i due sistemi politici europei che nel secondo dopoguerra hanno avuto il minor numero di governi e di capi del governo, dunque la più alta stabilità governativa. Il voto o la mozione di sfiducia rispondono all’esigenza, tanto accoratamente espressa da Veltroni, di un governo stabile. Richiedono una modifica costituzionale, sicuramente fattibile, di gran lunga preferibile e più promettente dei confusi e manipolatori dibattiti sulle leggi elettorali. Riuscirebbe persino a acquietare gli altri preoccupatissimi editorialisti del “Corriere”.

Pubblicato il 25 maggio 2021 su Domani

Mattarella saggio che difende la carta #discorsodifineanno @Quirinale @fattoquotidiano

Dal Colle del Quirinale si vedono, oltre che la sede della Corte Costituzionale, anche i palazzi della politica. Naturalmente, per vedere meglio e capire di più quello che si guarda bisogna avere qualche conoscenza di base, altrimenti si rischiano svarioni e errori di valutazione. Non possono esserci dubbi che il Presidente Mattarella possegga molto di più che semplici conoscenze di base. Parlamentare per diverse legislature, più volte Ministro, per alcuni anni anche giudice costituzionale, Mattarella è persona notevolmente informata dei fatti, dei non fatti e dei malfatti. Inoltre, occupa una carica e svolge un ruolo che è al centro del sistema politico e, al tempo stesso, gli impone e gli consente di continuare a ricevere informazioni.

   Non concepita dai Costituenti come una carica di grande rilevanza politica, la Presidenza della Repubblica italiana ha acquisito una imprevista centralità a partire dall’inizio degli anni Novanta dello scorso secolo in concomitanza nient’affatto casuale con il declino dei partiti politici. Pur ancora scelto dai partiti, il Presidente della Repubblica si è trovato dotato di poteri istituzionali e politici significativi e costantemente sollecitato a utilizzarli anche a fronte delle debolezze e delle carenze dei partiti politici. Comprensibilmente, tanto più il Presidente conosce(va) le istituzioni e, in particolare, il Parlamento (e i parlamentari) tanto meglio è in grado di svolgere tutti compiti che gli affida la Costituzione. Alcuni critici di parte hanno accusato i due Presidenti di più lunga esperienza parlamentare, Oscar Luigi Scalfaro (1992-1999) e Giorgio Napolitano (2006-2013; 2013-2015) di avere ecceduto nell’esercizio dei poteri presidenziali, di avere talvolta operato, certo non contro la Costituzione, ma extra Constitutionem. Dissento, ma capisco che da questa critica possa discendere talvolta la richiesta/proposta che il Presidente venga eletto direttamente da popolo.

   Proprio perché per esperienza istituzionale e per cultura politica, Mattarella è perfettamente attrezzato sia a fare pieno ricorso ai poteri e alle prerogative presidenziali sia a evitare improduttivi scontri con quel che rimane dei partiti, finora la sua Presidenza è stata apprezzata da quasi tutti. Di recente, persino dal quotidiano progressista spagnolo “El Paìs”, ma, inevitabilmente, non è sfuggita alle critiche particolaristiche di coloro fra i politici che preferiscono muoversi in base ai loro interessi e vantaggi particolaristici. Il Presidente Mattarella non ha mai replicato direttamente, ma le sue azioni e le sue decisioni, sempre riferibili in maniera coerente alla Costituzione, parlano per lui. Che si trattasse di nominare il Presidente del Consiglio oppure di procedere o no allo scioglimento del Parlamento, Mattarella ha fatto costante e preciso riferimento alla Costituzione. Nei suoi messaggi di fine anno agli italiani, Mattarella, contrariamente ad alcuni suoi predecessori, non ha mai replicato ai critici, ma ha sempre lasciato trasparire le sue preferenze.

   Il Presidente, “arbitro” si è definito nel discorso di accettazione, ha, per l’appunto, regolamentato il gioco, spesso falloso, delle diverse parti politiche. Lo ha fatto con riferimento a due stelle polari: la rappresentanza dell’unità nazionale che gli compete a norma di Costituzione e l’equilibrio e la stabilità del sistema politico. In questa chiave, è possibile apprezzare appieno alcuni contenuti più propriamente politici del suo messaggio di fine anno. Il richiamo all’Unione Europea e alla sua capacità di imparare e migliorare rispetto a quanto (non) fatto più di dieci anni fa per contrastare la crisi economica e la valutazione positiva della scienza nell’affrontare la pandemia debbono fare fischiare le orecchie ai sovranisti e ai no-vax. L’annuncio tout court che il 2021 è l’ultimo anno della sua Presidenza indica la sua indisponibilità ad accettare una eventuale rielezione. Ricordo che Napolitano si sentì obbligato ad una rielezione a tempo a fronte di enormi pressione di parlamentari incapaci di trovare il suo successore.

   Due punti chiave che Mattarella ha sofficemente inserito nel suo discorso riguardano direttamente il governo e il suo futuro. Da un lato, sta l’invito a “non perdere tempo”. I ritardi e gli errori del passato, ricordati da Mattarella, solo in parte giustificabili, non debbono essere riprodotti. Dall’altro, ed è la frase più forte del suo discorso, “non vanno sprecate energie e opportunità per inseguire illusori vantaggi di parte”. Ciascuno, nella coalizione di governo e nei ranghi delle opposizioni, faccia, ma so che è un appello disarmato, il suo esame di coscienza. Comunque, grazie, Presidente Mattarella. 

Pubblicato il 2 gennaio 2021 su Il fatto Quotidiano

Le ragioni del NO #Referendum2020 #tagliodeiparlamentari #intervista @RadioRadicale #IoVotoNO

“Referendum sul taglio dei parlamentari, le ragioni del NO. Intervista al professor Gianfranco Pasquino” realizzata da Giovanna Reanda con Gianfranco Pasquino (professore emerito di Scienza Politica all’Università degli Studi di Bologna).
L’intervista è stata registrata giovedì 27 agosto 2020 alle 09:37.
La registrazione audio ha una durata di 13 minuti.

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