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“Una democrazia parlamentare, se saprete conservarla” Dagli Atti dell’Accademia Nazionale dei Lincei Anno CDXVIII 2021

Si racconta che un giorno del settembre 1787 quando i Padri Fondatori uscivano dalla Convenzione di Filadelfia che aveva appena approvato la Costituzione USA, una signora si rivolse in maniera aggressiva a Benjamin Franklin, il più anziano componente della Convenzione, chiedendogli: “Che cosa ci avete dato?” La risposta immediata e pacata di Franklin fu: “una Repubblica, signora, se saprete conservarla”. Allora, Repubblica, che ovviamente stava in netto contrasto con la monarchia inglese, era sinonimo di democrazia. Molti Padri Fondatori nutrivano preoccupazioni, espresse nella laconica risposta di Franklin, sul futuro di quella inusitata Repubblica presidenziale. Potremmo cercare molti test di sopravvivenza superati dalla Repubblica, ma, forse, il più complesso e pericoloso è dato dalla Presidenza Trump e da come finirà.

Nella Commissione dei 75 che si occupava della forma di governo italiano, nell’ampio dibattito che si tenne, fece la sua comparsa, ancorché minoritaria, la Repubblica presidenziale sostenuta dal molto autorevole giurista del Partito d’Azione, Piero Calamandrei. Fu respinta e una ampia e composita maggioranza della Commissione si espresse a favore del governo parlamentare, già operante in Gran Bretagna, madre di tutte le democrazie parlamentari e in tutte le altre, poche, democrazie dell’Europa Occidentale, tutte monarchie ad eccezione della Francia della Quarta Repubblica (1946-1958). Al momento del voto Tomaso Perassi, professore di Diritto Internazionale nell’Università di Roma, costituente eletto per il Partito Repubblicano, propose un ordine del giorno discusso nelle sedute del 4 e 5 settembre del 1946 e approvato.

«La Seconda Sottocommissione, udite le relazioni degli onorevoli Mortati e Conti, ritenuto che né il tipo del governo presidenziale, né quello del governo direttoriale risponderebbero alle condizioni della società italiana, si pronuncia per l’adozione del sistema parlamentare da disciplinarsi, tuttavia, con dispositivi costituzionali idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di Governo e ad evitare le degenerazioni del parlamentarismo».

Immagino che se una signora italiana, che aveva esercitato per la prima volta il suo diritto di voto nel referendum Monarchia/Repubblica e per l’elezione dell’Assemblea costituente, avesse chiesto all’on. Perassi “Che cosa ci avete dato?”, Perassi avrebbe sicuramente risposto “una democrazia parlamentare, se saprete conservarla”. Siamo riusciti a conservarla, fra forzature, strattonamenti, parole d’ordine pericolose, riforme elettorali balorde, proposte di modelli istituzionali controproducenti ma, purtroppo, senza avere davvero cercato e meno che mai trovato, come saggiamente suggerito da Perassi, dei “dispositivi costituzionali idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di Governo e ad evitare le degenerazioni del parlamentarismo”. Da tempo, però, avremmo dovuto imparare che un dispositivo costituzionale rispondente alle preoccupazioni di Perassi esiste e potrebbe essere molto facilmente “importato” nella Costituzione italiana con un minimo di adattamenti. Quel dispositivo, non magico, ma molto intelligente, è il voto di sfiducia costruttivo inserito nella Grundgesetz del 1949 della Repubblica Federale Tedesca e rimasto intatto nella Costituzione della Germania riunificata.

Con il voto di sfiducia costruttivo, nessuna crisi al buio, cioè senza esito precostituito, fa la sua comparsa e non si è avuta nessuna instabilità governativa. Eletto/a da una maggioranza assoluta del Bundestag (quindi, davvero primus/a super pares a soddisfare le accorate richieste di molti commentatori italiani) il cancelliere può essere sconfitto/ da un voto a maggioranza assoluta e sostituito/a purché una maggioranza assoluta si esprima a favore di un altro/a candidato/a entro 48 ore (tempo tecnico affinché tutti i parlamentari riescano a farsi trovare al Bundestag e, al tempo stesso, tempo troppo breve per trame e complotti improvvisati). Quando gli spagnoli scrissero la Costituzione della loro democrazia, 1977-78, memori della loro passata propensione all’instabilità governativa, consapevoli che il problema non era stato risolto né dai francesi della Quarta Repubblica né dalla democrazia parlamentare italiana, congegnarono una variante del voto di sfiducia costruttivo tedesco. Il loro Presidente del governo, titolo ufficiale, può essere sconfitto e sostituito da un voto a maggioranza assoluta della Camera dei deputati espresso su una mozione di sfiducia il cui primo firmatario diventa automaticamente capo del governo. È la procedura che ha consentito al socialista Pedro Sanchez di andare al Palazzo della Moncloa il 2 giugno 2018 al posto del popolare Mariano Rajoy.

Non ho dubbi che Tomaso Perassi considererebbe entrambi i “dispositivi”, tedesco e spagnolo, rispondenti alle sue preoccupazioni e provatamente in grado di “tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di Governo e ad evitare le degenerazioni del parlamentarismo”. I numeri lo conforterebbero ulteriormente. Nel periodo 1949-2020 ci sono stati molti meno capi di governo in Germania che in Gran Bretagna, tradizionalmente considerata il regno della stabilità dei Primi ministri. Nel periodo 1978-2020 ci sono stati meno capi di governo in Spagna che in Gran Bretagna nonostante la longue durée di Margaret Thatcher (1979-1990) e Tony Blair (1997-2007. I due capi di governo delle democrazie parlamentari europee che sono durati più a lungo in carica sono rispettivamente, l’attualmente detentore del record Helmut Kohl (1982-1998), che, però, sente il fiato sul collo di colei che fu un tempo la sua pupilla, Angela Merkel (2005- potenzialmente settembre 2021), e Felipe Gonzales (1982-1996).

Curiosamente, tanto in Germania quanto in Spagna, il dispositivo “sfiducia/nomina” è stato innescato soltanto due volte. La prima, Germania 1972, Spagna 1987, non ebbe successo. La seconda, Germania 1982, aprì l’era Kohl, Spagna 2018, ha riportato i socialisti al governo. Proprio il fatto che il dispositivo per la stabilità sia stato usato con enorme parsimonia è un elemento di pregio. Significa che ha operato da deterrente scoraggiando crisi di governo la cui conclusione non appariva né rapida né sicura.

La strada italiana per stabilizzare gli esecutivi e evitare le degenerazioni del parlamentarismo è stata pervicacemente un’altra, molto diversa e neppure adombrata nell’odg Perassi. È consistita nella manipolazione della legge elettorale al fine di confezionare artificialmente, di fabbricare una maggioranza parlamentare a sostegno di un potenziale capo del governo ma, inevitabilmente a scapito della rappresentanza in un presunto, mai provato trade-off con la presunta e indefinita governabilità. Questo fu il tentativo sconfitto della legge truffa nel 1953, legge che merita l’appellativo per le sue molte e gravi implicazioni anche sulla eventuale riforma della Costituzione. Nell’ambito di un’ampia riforma che toccava 56 articoli della Costituzione su 138, Berlusconi e i suoi alleati introdussero un premio in seggi, di entità variabile, potenzialmente cospicuo, nella legge elettorale di cui fu primo firmatario il sen. Roberto Calderoli. Con una formula diversa, ma non per questo migliore, un notevole premio in seggi fu previsto per il disegno di legge noto come Italicum, sponsorizzato dal governo Renzi e smantellato dalla Corte Costituzionale. Degno di nota è che nella ampia riscrittura della Costituzione, poi bocciata in un referendum costituzionale svoltosi il 4 dicembre 2016, il rafforzamento della figura e dei poteri del capo di governo non era limpidamente affidato a specifici dispositivi costituzionali (di voto di sfiducia costruttivo proprio non si discusse mai), ma esclusivamente agli effetti indiretti della legge elettorale e del depotenziamento del ruolo del Senato e della trasformazione dei suoi compiti. Ho trattato tutto questo in maniera molto più articolata e esauriente nel mio libro Cittadini senza scettro. Le riforme sbagliate (Milano, UniBocconi Editore, 2015).

Da nessuna parte nel mondo delle democrazie parlamentari esiste l’elezione popolare diretta del capo del governo (per una approfondita panoramica mi permetto di rimandare al volume da me curato Capi di governo (Bologna, il Mulino, 2005). È stata effettuata tre volte di seguito in Israele, 1996, 1999 e 2001, ma poi, proprio nel 2001 abbandonata poiché non portava nessun beneficio in termini di stabilità delle coalizioni al governo e di efficacia del capo del governo. Qualche cattivo maestro di diritto costituzionale ha sostenuto che in Gran Bretagna esiste l’elezione “quasi diretta” del Primo ministro. Non è vero. Nessun elettore/trice inglese ha la possibilità di votare per colui/colei che diventerà Primo Ministro tranne coloro che lo eleggono parlamentare nel suo collegio uninominale. Poiché il principio cardine di una democrazia parlamentare è che il Primo ministro deve godere della fiducia esplicita o implicita del Parlamento, ciascuno e tutti i Primi ministri possono essere sconfitti in e dal Parlamento e in e dal Parlamento, come è avvenuto frequentemente, quattro volte dal 1990 al 2019, a Westminster, un nuovo Primo ministro può essere individuato e “incoronato”.

Inserire il nome del candidato alla carica di capo del governo nel simbolo del partito utilizzato per la compagna elettorale è un deplorevole escamotage che può ingannare gli elettori, ma che, come argomentò severamente fin da subito Giovanni Sartori, non dovrebbe essere permesso, e del quale, ovviamente, mai nessun Presidente della Repubblica ha tenuto conto. Incidentalmente, non costituisce una prassi in nessun’altra democrazia parlamentare.

Periodicamente, da una ventina d’anni si affaccia la proposta, non argomentata con sufficiente precisione, di procedere ad una riforma delle modalità di formazione del governo italiano applicando la legge utilizzata per l’elezione del sindaco: il “sindaco d’Italia”. Lasciando da parte che un conto è il governo delle città un conto molto diverso è il governo di uno Stato sovrano, l’elezione popolare diretta del capo del governo, che è quanto succede nelle città, significa un vero e proprio cambiamento della forma di governo: da una democrazia parlamentare a una democrazia presidenziale sui generis. Obbligherebbe alla revisione di un notevole numero di articoli della Costituzione e alla predisposizione di accurati freni e contrappesi della cui assenza a livello locale molti consigli/eri comunali si lamentano da tempo. Soprattutto, significherebbe privare la democrazia parlamentare del suo pregio maggiore: la flessibilità che consente di cambiare il capo del governo, divenuto, per qualsiasi ragione, imbarazzante, e le coalizioni di governo in Parlamento senza ricorrere a nuove, frequenti elezioni (soluzione indispensabile nelle crisi comunali che coinvolgano il sindaco) che logorerebbero elettori e istituzioni.

L’eventuale introduzione del modello del “sindaco d’Italia” non corrisponderebbe affatto alle esigenze poste da Perassi di “disciplinare” il sistema parlamentare. Al contrario, ne comporterebbe una trasformazione/deformazione radicale, addirittura il suo abbandono, per andare in una direzione non sufficientemente nota. Sono convinto che, ammonendoci che ci aveva messi in guardia, l’on. Perassi, si sentirebbe pienamente giustificato nell’affermare che, con furbizie, errori, inganni, molti italiani continuano a dimostrare di non essere in grado di fare funzionare la democrazia parlamentare che i Costituenti diedero loro e rischiano di non riuscire a conservarla.

Nota presentata il 25 giugno 2020

L’Assemblea costituente dei migliori

Da qualche tempo, numerose sono le lamentele sulla bassa qualità della classe dirigente italiana, in particolare, della classe politica. Naturalmente, ciascuno dei critici, a sua volta, membro della classe dirigente, esclude se stesso e la maggioranza dei suoi colleghi dalle critiche. Proprio la presenza di Mario Draghi al vertice del governo certifica e accentua l’inesistenza di una classe politica adeguata. Non è sempre stato così. Anzi, una riflessione sui componenti dell’Assemblea costituente offre la possibilità di capire come si possa reclutare una buona classe politica capace di rappresentare al meglio un paese.

   In totale i Costituenti furono 556 dei quali soltanto 21 donne: 9 della Democrazia cristiana, 9 del Partito comunista, 2 del Partito socialista e 1 dell’Uomo qualunque. Anche se non è giusto sostenere che erano tutti uomini e donne di partito, qualifica che sarebbe subito stata respinta dai 30 rappresentanti del Fronte dell’Uomo Qualunque, i Costituenti erano stati selezionati dai dirigenti dei rispettivi partiti e del Fronte e eletti anche, forse, soprattutto, in quanto rappresentanti di quelle liste. Dunque, vi si trovavano dirigenti di partito: Alcide De Gasperi, Lelio Basso, Pietro Nenni, Palmiro Togliatti, Ugo La Malfa, che avrebbero avuto una lunga carriera politica. C’erano molti che avevano combattuto il fascismo, finendo in carcere anche per diversi anni, come Vittorio Foa e Umberto Terracini poi presidente dell’Assemblea Costituente. Altri avevano avuto un ruolo importante nella Resistenza: Ferruccio Parri, Antonio Giolitti, Luigi Longo. Alcuni erano stati esuli come Leo Valiani in Francia e diversi comunisti in Unione Sovietica.

   Le biografiche politiche dei Costituenti segnalano anche che un certo numero di loro, fra i quali Meuccio Ruini, presidente della Commissione dei 75 incaricata di redigere il testo costituzionale, era stato eletto in Parlamento per alcuni anni prima dell’avvento del fascismo. La componente della Democrazia cristiana era molto variegata. Accanto ai professorini, Fanfani, Lazzati, Dossetti, Moro, alcuni dei quali provenienti dalla Federazione Universitaria Cattolici Italiani, si trovarono esponenti delle professioni, avvocati e banchieri, persino alcuni notabili locali, cioè persone note e apprezzate nelle loro comunità. Poiché bisognava scrivere una Costituzione democratica, tutti i partiti decisero di fare eleggere nelle loro fila autorevoli professori capaci di dare un apporto scientifico altrimenti non disponibile: Piero Calamandrei per il piccolo Partito d’Azione, oltre ai professorini Costantino Mortati indipendente nella Democrazia Cristiana, Concetto Marchesi per il Partito Comunista, Francesco De Martino per il PSI, Tomaso Perassi per il Partito repubblicano.

   Non socialmente rappresentativi, per estrazione sociale, titolo di studio, esperienze di vita, i Costituenti sono un esempio difficilmente imitabile di come si crea una classe politica. Nient’affatto specchio della società italiana, offrirono la migliore rappresentanza politica possibile: indicarono una strada e delinearono come intraprenderla.

Pubblicato AGL il 3 giugno 2021

Una democrazia parlamentare, se saprete conservarla

Una volta per tutte: questa è una democrazia parlamentare. Leggano quelli che … “il governo eletto direttamente dal popolo” e altre affermazioni approssimative e sbagliate. La mia predicazione continua.

Si racconta che un giorno del settembre 1787 quando i Padri Fondatori uscivano dalla Convenzione di Filadelfia che aveva appena approvato la Costituzione USA, una signora si rivolse in maniera aggressiva a Benjamin Franklin, il più anziano componente della Convenzione, chiedendogli: “Che cosa ci avete dato?” La risposta immediata e pacata di Franklin fu: “una Repubblica, signora, se saprete conservarla”. Allora, Repubblica, che ovviamente stava in netto contrasto con la monarchia inglese, era sinonimo di democrazia. Molti Padri Fondatori nutrivano preoccupazioni, espresse nella laconica risposta di Franklin, sul futuro di quella inusitata Repubblica presidenziale. Potremmo cercare molti test di sopravvivenza superati dalla Repubblica, ma, forse, il più complesso e pericoloso è dato dalla Presidenza Trump e da come finirà.

Nella Commissione dei 75 che si occupava della forma di governo italiano, nell’ampio dibattito che si tenne, fece la sua comparsa, ancorché minoritaria, la Repubblica presidenziale sostenuta dal molto autorevole giurista del Partito d’Azione, Piero Calamandrei. Fu respinta e una ampia e composita maggioranza della Commissione si espresse a favore del governo parlamentare, già operante in Gran Bretagna, madre di tutte le democrazie parlamentari e in tutte le altre, poche, democrazie dell’Europa Occidentale, tutte monarchie ad eccezione della Francia della Quarta Repubblica (1946-1958). Al momento del voto Tomaso Perassi, professore di Diritto Internazionale nell’Università di Roma, costituente eletto per il Partito Repubblicano, propose un ordine del giorno discusso nelle sedute del 4 e 5 settembre del 1946 e approvato.

«La Seconda Sottocommissione, udite le relazioni degli onorevoli Mortati e Conti, ritenuto che né il tipo del governo presidenziale, né quello del governo direttoriale risponderebbero alle condizioni della società italiana, si pronuncia per l’adozione del sistema parlamentare da disciplinarsi, tuttavia, con dispositivi costituzionali idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di Governo e ad evitare le degenerazioni del parlamentarismo».

Immagino che se una signora italiana, che aveva esercitato per la prima volta il suo diritto di voto nel referendum Monarchia/Repubblica e per l’elezione dell’Assemblea costituente, avesse chiesto all’on. Perassi “Che cosa ci avete dato?”, Perassi avrebbe sicuramente risposto “una democrazia parlamentare, se saprete conservarla”. Siamo riusciti a conservarla, fra forzature, strattonamenti, parole d’ordine pericolose, riforme elettorali balorde, proposte di modelli istituzionali controproducenti ma, purtroppo, senza avere davvero cercato e meno che mai trovato, come saggiamente suggerito da Perassi, dei “dispositivi costituzionali idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di Governo e ad evitare le degenerazioni del parlamentarismo”. Da tempo, però, avremmo dovuto imparare che un dispositivo costituzionale rispondente alle preoccupazioni di Perassi esiste e potrebbe essere molto facilmente “importato” nella Costituzione italiana con un minimo di adattamenti. Quel dispositivo, non magico, ma molto intelligente, è il voto di sfiducia costruttivo inserito nella Grundgesetz del 1949 della Repubblica Federale Tedesca e rimasto intatto nella Costituzione della Germania riunificata.

Con il voto di sfiducia costruttivo, nessuna crisi al buio, cioè senza esito precostituito, fa la sua comparsa e non si è avuta nessuna instabilità governativa. Eletto/a da una maggioranza assoluta del Bundestag (quindi, davvero primus/a super pares a soddisfare le accorate richieste di molti commentatori italiani) il cancelliere può essere sconfitto/a da un voto a maggioranza assoluta e sostituito/a purché una maggioranza assoluta si esprima a favore di un altro/a candidato/a entro 48 ore (tempo tecnico affinché tutti i parlamentari riescano a farsi trovare al Bundestag e, al tempo stesso, tempo troppo breve per trame e complotti improvvisati). Quando gli spagnoli scrissero la Costituzione della loro democrazia, 1977-78, memori della loro passata propensione all’instabilità governativa, consapevoli che il problema non era stato risolto né dai francesi della Quarta Repubblica né dalla democrazia parlamentare italiana, congegnarono una variante del voto di sfiducia costruttivo tedesco. Il loro Presidente del governo, titolo ufficiale, può essere sconfitto e sostituito da un voto a maggioranza assoluta della Camera dei deputati espresso su una mozione di sfiducia il cui primo firmatario diventa automaticamente capo del governo. È la procedura che ha consentito al socialista Pedro Sanchez di andare al Palazzo della Moncloa il 2 giugno 2018 al posto del popolare Mariano Rajoy.

Non ho dubbi che Tomaso Perassi considererebbe entrambi i “dispositivi”, tedesco e spagnolo, rispondenti alle sue preoccupazioni e provatamente in grado di “tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di Governo e ad evitare le degenerazioni del parlamentarismo”. I numeri lo conforterebbero ulteriormente. Nel periodo 1949-2020 ci sono stati molti meno capi di governo in Germania che in Gran Bretagna, tradizionalmente considerata il regno della stabilità dei Primi ministri. Nel periodo 1978-2020 ci sono stati meno capi di governo in Spagna che in Gran Bretagna nonostante la longue durée di Margaret Thatcher (1979-1990) e Tony Blair (1997-2007). I due capi di governo delle democrazie parlamentari europee che sono durati più a lungo in carica sono rispettivamente, l’attualmente detentore del record Helmut Kohl (1982-1998), che, però, sente il fiato sul collo di colei che fu un tempo la sua pupilla, Angela Merkel (2005- potenzialmente settembre 2021), e Felipe Gonzales (1982-1996).

Curiosamente, tanto in Germania quanto in Spagna, il dispositivo “sfiducia/nomina” è stato innescato soltanto due volte. La prima, Germania 1972, Spagna 1987, non ebbe successo. La seconda, Germania 1982, aprì l’era Kohl, Spagna 2018, ha riportato i socialisti al governo. Proprio il fatto che il dispositivo per la stabilità sia stato usato con enorme parsimonia è un elemento di pregio. Significa che ha operato da deterrente scoraggiando crisi di governo la cui conclusione non appariva né rapida né sicura.

La strada italiana per stabilizzare gli esecutivi e evitare le degenerazioni del parlamentarismo è stata pervicacemente un’altra, molto diversa e neppure adombrata nell’odg Perassi. È consistita nella manipolazione della legge elettorale al fine di confezionare artificialmente, di fabbricare una maggioranza parlamentare a sostegno di un potenziale capo del governo ma, inevitabilmente a scapito della rappresentanza in un presunto, mai provato trade-off con la presunta e indefinita governabilità. Questo fu il tentativo sconfitto della legge truffa nel 1953, legge che merita l’appellativo per le sue molte e gravi implicazioni anche sulla eventuale riforma della Costituzione. Nell’ambito di un’ampia riforma che toccava 56 articoli della Costituzione su 138, Berlusconi e i suoi alleati introdussero un premio in seggi, di entità variabile, potenzialmente cospicuo, nella legge elettorale di cui fu primo firmatario il sen. Roberto Calderoli. Con una formula diversa, ma non per questo migliore, un notevole premio in seggi fu previsto per il disegno di legge noto come Italicum, sponsorizzato dal governo Renzi e smantellato dalla Corte Costituzionale. Degno di nota è che nella ampia riscrittura della Costituzione, poi bocciata in un referendum costituzionale svoltosi il 4 dicembre 2016, il rafforzamento della figura e dei poteri del capo di governo non era limpidamente affidato a specifici dispositivi costituzionali (di voto di sfiducia costruttivo proprio non si discusse mai), ma esclusivamente agli effetti indiretti della legge elettorale e del depotenziamento del ruolo del Senato e della trasformazione dei suoi compiti. Ho trattato tutto questo in maniera molto più articolata e esauriente nel mio libro Cittadini senza scettro. Le riforme sbagliate (Milano, UniBocconi Editore, 2015).

Da nessuna parte nel mondo delle democrazie parlamentari esiste l’elezione popolare diretta del capo del governo (per una approfondita panoramica mi permetto di rimandare al volume da me curato Capi di governo (Bologna, il Mulino, 2005). È stata effettuata tre volte di seguito in Israele, 1996, 1999 e 2001, ma poi, proprio nel 2001 abbandonata poiché non portava nessun beneficio in termini di stabilità delle coalizioni al governo e di efficacia del capo del governo. Qualche cattivo maestro di diritto costituzionale ha sostenuto che in Gran Bretagna esiste l’elezione “quasi diretta” del Primo ministro. Non è vero. Nessun elettore/trice inglese ha la possibilità di votare per colui/colei che diventerà Primo Ministro tranne coloro che lo eleggono parlamentare nel suo collegio uninominale. Poiché il principio cardine di una democrazia parlamentare è che il Primo ministro deve godere della fiducia esplicita o implicita del Parlamento, ciascuno e tutti i Primi ministri possono essere sconfitti in e dal Parlamento e in e dal Parlamento, come è avvenuto frequentemente, quattro volte dal 1990 al 2019, a Westminster, un nuovo Primo ministro può essere individuato e “incoronato”.

Inserire il nome del candidato alla carica di capo del governo nel simbolo del partito utilizzato per la compagna elettorale è un deplorevole escamotage che può ingannare gli elettori, ma che, come argomentò severamente fin da subito Giovanni Sartori, non dovrebbe essere permesso, e del quale, ovviamente, mai nessun Presidente della Repubblica ha tenuto conto. Incidentalmente, non costituisce una prassi in nessun’altra democrazia parlamentare.

Periodicamente, da una ventina d’anni si affaccia la proposta, non argomentata con sufficiente precisione, di procedere ad una riforma delle modalità di formazione del governo italiano applicando la legge utilizzata per l’elezione del sindaco: il “sindaco d’Italia”. Lasciando da parte che un conto è il governo delle città un conto molto diverso è il governo di uno Stato sovrano, l’elezione popolare diretta del capo del governo, che è quanto succede nelle città, significa un vero e proprio cambiamento della forma di governo: da una democrazia parlamentare a una democrazia presidenziale sui generis. Obbligherebbe alla revisione di un notevole numero di articoli della Costituzione e alla predisposizione di accurati freni e contrappesi della cui assenza a livello locale molti consigli/eri comunali si lamentano da tempo. Soprattutto, significherebbe privare la democrazia parlamentare del suo pregio maggiore: la flessibilità che consente di cambiare il capo del governo, divenuto, per qualsiasi ragione, imbarazzante, e le coalizioni di governo in Parlamento senza ricorrere a nuove, frequenti elezioni (soluzione indispensabile nelle crisi comunali che coinvolgano il sindaco) che logorerebbero elettori e istituzioni.

L’eventuale introduzione del modello del “sindaco d’Italia” non corrisponderebbe affatto alle esigenze poste da Perassi di “disciplinare” il sistema parlamentare. Al contrario, ne comporterebbe una trasformazione/deformazione radicale, addirittura il suo abbandono, per andare in una direzione non sufficientemente nota. Sono convinto che, ammonendoci che ci aveva messi in guardia, l’on. Perassi, si sentirebbe pienamente giustificato nell’affermare che, con furbizie, errori, inganni, molti italiani continuano a dimostrare di non essere in grado di fare funzionare la democrazia parlamentare che i Costituenti diedero loro e rischiano di non riuscire a conservarla.

Accademia Nazionale dei Lincei, Nota presentata il 25 giugno 2020

Lelio Basso, passioni e contraddizioni

Articolo pubblicato in

 FILOSOFIA E SPAZIO PUBBLICO 
viaBorgogna3 il magazine della Casa della Cultura, anno II n 5

Non nutro nessun dubbio sulla grandezza della figura di Lelio Basso nella storia del socialismo italiano e nella politica. Mi rallegro, pertanto, della pubblicazione di due importanti libri (Chiara Giorgi, Un socialista del Novecento. Uguaglianza, libertà e diritti nel percorso di Lelio Basso, e Giancarlo Monina, Lelio Basso, leader globale. Un socialista nel secondo Novecento, entrambi pubblicati da Carocci, rispettivamente, 2015, pp. 276, Euro 30,00 e 2016, pp. 439, Euro 39,00) che ricostruiscono in maniera approfondita e simpatetica tutto il lungo, complicato, fecondo percorso personale, culturale, politico di Basso. Rimando i lettori ai dettagli e alla visione d’insieme che troveranno nei due densi testi. Qui, vorrei svolgere un’opera più ristretta e più focalizzata dedicandomi a enucleare quello che ho imparato da Basso facendo riferimento non soltanto ai suoi successi, ma anche alle sue sconfitte, che neppure lui avrebbe trascurato e che sono ricche di insegnamenti, fra contraddizioni e discriminazioni. Lo farò, in maniera irrituale, ripercorrendo i miei incontri, una sola volta di persona, con i suoi scritti e le sue molteplici attività, e collegandoli a quanto ho letto e imparato nella biografia dedicatagli.

La prima volta che mi sono imbattuto in Lelio Basso risale all’inizio della mia vita di studente universitario. Fu nel 1962 all’Istituto di Scienze politiche di Torino la cui piccola biblioteca aveva appena acquistato una copia del grosso volume Le riviste di Piero Gobetti, a cura di Lelio Basso e Luigi Anderlini, Milano, Feltrinelli 1961. Mi fu concesso in prestito limitato a pochi giorni. Ne divorai l’introduzione che mi incoraggiò anche a leggere La rivoluzione liberale di Gobetti, fra l’altro, uno degli autori preferiti da Norberto Bobbio, il cui corso di Scienza politica stavo seguendo. A quelle letture e a quell’insegnamento, certo rafforzato anche da altri docenti in quello che, allora, era soltanto il Corso di laurea in Scienze Politiche, scaturì gran parte della mia ammirazione per il Partito d’Azione (che ebbe anche Basso). Sono molto d’accordo con quanto scrive Giorgi: “l’attenzione e l’amicizia di Basso nei confronti di Gobetti rappresentano un aspetto molto importante della biografia bassiana, è lo stesso Basso a riprendere e sottolineare in modo diretto molte delle pagine gobettiane, così come a far propri, ma perché comuni, alcuni dei precetti, ma anche degli aspetti umani di Gobetti ” …: “un atteggiamento ‘eroico’ nei confronti della vita, una tensione etica, un’intransigenza morale … l’impegno per la costruzione di ‘una nuova cultura politica’” (Giorgi, p. 33). Tutti questi tratti si ritrovano nella attività culturale e nella vita politica di Lelio Basso e sono messi a durissima prova nelle moltissime difficoltà che Basso incontrò.

La nuova cultura politica alla cui costruzione Basso si dedicò in maniera indefessa non fu, però, innestata unicamente nel solco del pensiero gobettiano, inevitabilmente appena accennato. Consistette soprattutto nella riflessione sul marxismo, in buona parte riletto con gli occhiali eterodossi di Rosa Luxemburg, certamente la teorica marxista da lui preferita, con l’obiettivo di trovarvi o di pervenire ad una “scienza della rivoluzione”. Il rimando bibliografico è, ovviamente, alla sua curatela e alla lunga introduzione a Gli scritti politici di Rosa Luxemburg (Roma, Editori Riuniti 1967, tradotti in varie lingue). Faccio un salto temporale, proprio per seguire la riflessione concettuale poiché Basso, in uno scambio con Bobbio, “che si ripeterà nel tempo in una rispettosa e amichevole distanza di idee” (Monina, p. 194), avrebbe poi dovuto confrontarsi con l’interrogativo posto nel 1975 dal filosofo torinese, in primis, ai comunisti, ma anche a tutti coloro che si dichiaravano marxisti, sull’esistenza di una teoria marxista dello Stato. Nonostante numerose e, rilette oggi, imbarazzanti capriole dell’intelligentsia comunista italiana che, narcisisticamente, si esibì sul tema, non venne nessuna risposta. Però, neppure il marxismo di Basso, incentrato com’era su trasformazioni sociali, fu in grado di dare una risposta alla domanda di Bobbio. Anzi, scrivendo che “quel che deve interessare il marxista è perciò lo svolgimento del processo [rivoluzionario] e il fatto che in esso si affermino valori e istituti a connotazione socialista” (corrispondenza privata, maggio-giugno 1978, citata da Monina, p. 415), Bassi evadeva alla grande l’interrogativo. Enfaticamente, potrei aggiungere che la risposta l’ha data la storia dei regimi comunisti con il loro tonfo.

Il mio secondo “incontro” con Basso avvenne in occasione del mio debutto quale elettore della Repubblica italiana nel 1963. Telefonai alla Federazione del Partito Socialista Italiano di Torino (Corso Valdocco) per sapere quali erano i candidati “vicini” a Antonio Giolitti e quali i “bassiani” ai quali avrei voluto dare i miei voti di preferenza. Mi fu riposto che non c’erano correnti nel PSI. Ricordo questo avvenimento poiché ripetutamente Monina sottolinea quanto difficile era la vita politica dei sostenitori di Basso dentro il partito, soprattutto, ovviamente, in vista di quelle elezioni che avrebbero aperto la strada al centro-sinistra “organico” il cui primo governo vide la partecipazione di Antonio Giolitti come ministro del Bilancio.

Il terzo incontro avvenne una decina d’anni dopo. Purtroppo, non ne ricordo appieno i particolari. Dopo i sanguinosi colpi di Stato dei militari in America latina (nell’ordine, Brasile, Uruguay e Cile), Basso aveva dato vita al Tribunale Russell II proprio per giudicare, che, in sostanza, significava gettare maggiore luce informativa sulle organizzazioni militari di quei paesi e soprattutto sui crimini commessi e, ovviamente, impuniti dei governi militari. Immediatamente dopo il golpe cileno avevo pubblicato, grazie ai buoni uffici di Giorgio Galli, sulla rivista “Critica Sociale” diretta da Giuseppe Faravelli, due non brevi articoli sul Cile: Militarismo e imperialismo contro Unidad Popular. Inoltre, insegnavo Storia e istituzioni dell’America latina all’Università di Firenze. Qualcuno deve avere suggerito il mio nome a Basso fatto sta che mi venne chiesto di scrivere un testo sul ruolo politico dei militari brasiliani, quasi un position paper, direbbero gli americani, sullo stato delle conoscenze in materia. So che il testo fu pubblicato in qualche forma (mi rammarico di non averne copia) dal Tribunale Russell e che ne fu fatta un’ampia diffusione. In parte lo ripresi per pubblicarlo, con l’autorizzazione del Tribunale, sulla rivista “il Mulino” nel 1974.

Il Tribunale Russell, la cui attività iniziò per giudicare i crimini di guerra degli USA in Vietnam, costituì una delle innumerevoli attività internazionali di Lelio Basso negli anni sessanta e settanta. Monina ne dà un’accurata descrizione dalla quale emergono due elementi degni di nota: primo, l’enorme ampiezza dei contatti di Basso con dirigenti politici e studiosi di sinistra in Europa e in America latina, ma anche la loro disorganizzazione e disomogeneità; secondo, l’apprezzamento e la stima, testimoniata anche dalla miriade di inviti ricevuti,di cui godeva Basso la cui autorità, direi molto più intellettuale che politica, era unanimemente riconosciuta. Non posso trattenermi dall’aggiungere che nessuna di queste attività e nessuno di questi riconoscimenti avevano ricadute positive nella situazione politica italiana.

Al contrario, è la sua incisiva e appassionata attività all’Assemblea Costituente a rimanere uno dei lasciti più importanti, più apprezzati, più duraturi. Giorgi intitola il capitolo sul tema “La fantasia giuridica del costituente”. C’è molto di più, direi “La passione politica del democratico”. Basso fu, unitamente a Fanfani, l’autore di quello che è, a parere di molti (e, per quel che conta, anche mio), l’autore dell’articolo 3, spesso sbrigativamente definito l’articolo sull’eguaglianza. In quell’articolo c’è molto di più della statuizione dell’eguaglianza di fronte alla legge e del rifiuto delle discriminazioni di qualsiasi tipo e delle loro “giustificazioni”. Vi si trovano limpidamente indicate le culture politiche, liberale, cattolico-democratica, social comunista, ai cui principi e alla cui volontà di collaborazione reciproca siamo debitori della Costituzione e, soprattutto, c’è una innovativa e potente concezione, non dello Stato, ma della convivenza organizzata sotto forma di Repubblica. Sono gli italiani, siamo noi la Repubblica che deve “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale … che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese”. Basso fu giustamente orgoglioso del suo contributo alla stesura di questo articolo. Intervenendo in Assemblea Costituente, ebbe modo di argomentare (come opportunamente riportato da Giorgi, p. 176) che “la democrazia si difende […] non cercando di impedire o di ostacolare l’attività dei poteri dello Stato, ma, al contrario, facendo partecipare tutti i cittadini alla vita dello Stato […]. Solo se noi otterremo che tutti siano effettivamente messi in condizione di partecipare alla gestione economica e sociale della vita collettiva, noi realizzeremo veramente una democrazia”.

L’altro suo importantissimo contributo fu data alla scrittura dell’art. 49, quello noto in maniera un po’ riduttiva e persino fuorviante come l’articolo sui partiti. In verità, l’articolo riguarda il “diritto dei cittadini ad associarsi liberamente in partiti”. Per Basso i partiti sono “la più alta espressione della democrazia, perché consentono a milioni di cittadini di diventare ogni giorno partecipi della gestione politica del Paese” (Giorgi, p. 202). Molto giustamente Giorgi nota il nesso tra l’articolo 49, l’articolo 1 e l’articolo 3 e più avanti riporta uno scritto nel quale Basso sostiene che “la classe si dà un’organizzazione politica: questa è il partito”. Nello stesso periodo, Palmiro Togliatti affermava “i partiti sono la democrazia che si organizza”. Neppure vent’anni dopo Bobbio si interrogava se i partiti fossero ancora un tramite fra cittadini e potere politico oppure non si fossero trasformati in un diaframma. Quanto alla pratica, Basso uomo di partito ebbe enormi traversie. “Fermamente contrario all’ipotesi di scissione” (Monina, p. 199), se ne andò dal PSI nel gennaio 1964; convinto dell’importanza della disciplina di partito, terminò la sua esperienza politica come “indipendente anche nel gruppo [della Sinistra] indipendente” (Monina, p. 325). Fu talmente indipendente da votare il 6 agosto 1976 contro il primo governo Andreotti della solidarietà nazionale, quello sostenuto dall’esterno dai comunisti che lo avevano debitamente rieletto nelle elezioni del 20 giugno. Un anno dopo avrebbe poi anche contraddetto frontalmente la politica di Enrico Berlinguer affermando che “le parole d’ordine del ‘compromesso storico’ e dell”austerità’ non sono certo ‘adatte a suscitare entusiasmo e a convincere la gioventù d’oggi'” (Monina, p. 402).

Dal novembre 1983 al 1 febbraio 1985, fui tra i componenti della Commissione Bicamerale per le Riforme Istituzionali presieduta dall’on. Aldo Bozzi (PLI). Mi preparai leggendo una pluralità di testi di interpretazione e di valutazione della Costituzione. Oltre a quelli, fondamentali di Piero Calamandrei e di Costantino Mortati, lessi il libro di Basso, Il Principe senza scettro. Democrazia e sovranità popolare nella Costituzione e nella realtà italiana (Milano, Feltrinelli, 1958). Sono in grado di misurare le distanze fra la visione complessiva di Basso e le riforme, fra le quali quella della legge elettorale proporzionale che Basso aveva strenuamente difeso nel 1953 contro la legge “truffa”, che proposi in quella sede. Proprio per difendere la visione complessiva di una democrazia parlamentare fondata sui partiti ritenni che bisognasse ridefinire i rapporti “elettori-partiti-Parlamento-governo” con l’obiettivo di Restituire lo scettro al principe (il titolo del mio libro pubblicato da Laterza nel 1985), con la p minuscola poiché in quegli anni, ma ancora adesso, c’è qualcuno che, contro la lettera e lo spirito della Costituzione italiana, che non evidentemente conosce abbastanza, definisce Principe il capo del governo. Proseguendo le mie riflessioni decisi di approfondire l’attività di Basso Costituente con un articolo pubblicato nel 1987 in “Quaderni Costituzionali”. Nel frattempo, per uno degli strani casi della vita, Giuseppe Branca mi commissionò il commento all’art. 49 per il monumentale Commentario alla Costituzione da lui diretto.

Qui, il mio incrocio con Basso è ancora più tortuoso, ma davvero curioso. Nel 1971, alla scadenza del suo mandato alla Corte Costituzionale, di cui era diventato Presidente, Branca doveva essere sostituito da un giudice di area socialista la cui designazione spettava al PSI. Non sta a me giudicare con quanta convinzione i socialisti designarono Basso. È molto probabile che non si siano accertati del gradimento degli altri partiti, in particolare della DC, nella quale Andreotti esercitò un intollerabile veto che portò, dopo tre votazioni, alla inevitabile rinuncia di Basso. Pochi mesi dopo Basso fu candidato “come indipendente nelle liste unitarie social comuniste [meglio PSIUP-PCI] per il collegio senatoriale di Milano” (Monina, p. 324 congiuntamente dallo PSIUP e dal PCI a Milano. Ebbe il “pieno sostegno della Casa della Cultura” (Monina, p. 325) alle cui attività aveva molto frequentemente collaborato fin dagli inizi nel 1946. Vinse e entrò nel Gruppo della Sinistra Indipendente del Senato dove nel mandato successivo avrebbe trovato Anderlini e nel quale sarei entrato anch’io nel 1983. Curiosamente, ero stato eletto (e verrò rieletto) nel collegio di Portomaggiore-Ferrara quello rappresentato per due legislature proprio da Giuseppe Branca. Direi che almeno questo piccolo cerchio si era così chiuso.

Dieci anni dopo la morte di Basso se ne tenne una commemorazione in Senato. Avevo appena curato la raccolta dei Discorsi parlamentari di Lelio Basso (Senato 1988), compito affidatomi da Fanfani e confermato da Spadolini e, naturalmente, andai alla commemorazione. Seduto in prima fila, ma molto decentrato, vicino a me rimaneva un posto libero, presto occupato da un uomo alto, elegante, con una camicia bianca appena indossata. Era Bettino Craxi il quale, come se ci vedessimo tutti i giorni (dubito si ricordasse che ci eravamo incontrati dieci anni prima in occasione dell’elaborazione del programma della Alternativa socialista), mi confidò, da un lato, senza mezze parole di non apprezzare l’oratore del momento, dall’altro, con un leggero sentimento di nostalgia di avere conosciuto Basso nello studio d’avvocato di suo padre e di essere diventato socialista anche in seguito a quell’incontro.

In conclusione, potrei limitarmi, quasi d’ufficio, a sottolineare la complessità della personalità e della vita politica di Basso, ma credo sia giusto mettere in rilievo anche tre suoi punti deboli: primo, l’atteggiamento nei confronti dell’URSS e della sua involuzione, mai criticata a fondo tanto che dovette persino difendersi dai suoi critici dopo l’invasione della Cecoslovacchia, scrivendo “non ho niente di comune con i nostalgici dello stalinismo” (Monina, p. 290) e non può esserci dubbio che lo stalinismo era quanto di più distante ci fosse dalla sua concezione del comunismo plasmata dal pensiero e dagli scritti di Rosa Luxemburg; secondo, per l’appunto, il contrasto/contraddizione fra il suo voler essere “fedele allo spirito di Marx” offrendo attraverso la rivista “Problemi del socialismo” “una base ideologica” per aiutare il comunismo occidentale “a liberarsi dagli schemi ortodossi del marxismo-leninismo” (Monina, p. 406) e i residui di quell’ortodossia dai quali lui stesso fu talvolta influenzato; terzo, il suo meno che limpido atteggiamento nei confronti dello Stato d’Israele che spingono Monina, quasi del tutto alieno dal criticare affermazioni e comportamenti di Basso, a scrivere che, in particolare nel 1974, Basso inasprì i toni della sua denuncia di Israele “adombrando scivolosi paralleli tra la persecuzione subita dagli ebrei e quella da loro inflitta ai palestinesi oppure tra Israele e il regime di apartheid sudafricano” (Monina, p. 372).

L’epigrafe più veritiera e più limpida ad una vita ben vissuta la scrisse lui stesso in una lettera alla moglie nel gennaio 1975: “Ho sbagliato molte cose nella vita, ma credo di poter dire che ho sempre agito secondo le mie convinzioni e che non mi sono mai venduto per ambizione di successo, di potere, di denaro: Mi piacerebbe se di me rimanesse solo questo ricordo” (Monina, p. 389). Rimane, ovviamente, molto di più: una mole di scritti di grande valore, una Fondazione (con la quale ho variamente, ma non intensamente, collaborato), questa bella biografia in due volumi e, soprattutto, l’esemplarità di una vita fatta di battaglie, ma anche di sconfitte dalle quali ricominciare.

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