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Cultura politica e nuove forme di partecipazione VIDEO @RadioRadicale

Nell’ambito del convegno organizzato da “Sinistra Anno Zero”, dal network “Ripensare la Sinistra” e dalla “Treccani. La Cultura Italiana”

Nelle grandi fratture. Un confronto tra generazioni

Roma – Piazza della Enciclopedia italiana
13 luglio 2018

 

Gianfranco Pasquino
“Cultura politica e nuove forme di partecipazione”

coordina Giacomo Bottos

Registrazione a cura di Radio Radicale

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È possibile immaginare un altro PD

Detto che Maurizio Martina è diventato il settimo segretario del Partito Democratico dal 2007 e detto che il due volte ex-segretario Renzi ha fatto un intervento rancoroso tutto rivolto al passato minacciando un futuro vendicativo, che cosa si può e si deve aggiungere a quanto avvenuto nell’Assemblea del PD? Una sola, vera decisione è stata presa: il prossimo segretario sarà eletto nel febbraio 2019. Saranno gli iscritti e i simpatizzanti a scegliere fra, sembra, almeno tre candidati: lo stesso Martina, il governatore del Lazio Zingaretti, forse un renziano a tenere alta la bandiera delle battaglie perse e di un partito che non ha funzionato. Nell’Assemblea è mancata, ma dovrà pur emergere nel corso della campagna per l’elezione del prossimo segretario, una riflessione su due punti qualificanti: che tipo di partito, che tipo di opposizione. Martina ha indicato quattro elementi indispensabili: idee, persone, strumenti, progetti. Nessuno è entrato nei dettagli, ma è stato facile riscontrare una battaglia fra persone tutta all’interno del partito, con Renzi in testa a criticare il falso nueve Gentiloni, da lui incoronato, ma al quale spesso proprio lui non ha passato il pallone; l’ex-capogruppo al Senato Luigi Zanda; l’ex-capo della minoranza interna Gianni Cuperlo. È stata, in troppo larga misura, una resa dei conti che non serve in nessun modo a ristrutturare il partito. Martina ha almeno sottolineato che un partito di sinistra -ma vogliono il PD e i suoi elettori costruire un partito effettivamente di sinistra?-deve preoccuparsi delle diseguaglianze. Nessuno ha detto, però, con quali idee, con quali persone, con quali strumenti, con quale progetto. Per dirla in politichese, sul territorio il Partito Democratico è presente a macchioline di leopardo. Qualcuno, le Cinque Stelle e la Lega, l’hanno, per richiamare un infausto detto di Bersani, ampiamente smacchiato. Sul territorio si riproducono quasi le stesse divisioni personalistiche del centro, con qualche eccezione di donne e uomini ambiziosi e manovrieri che hanno abbandonato lo schieramento renziano. Nessuno ha parlato di cultura politica che, oramai svelatasi totalmente fallita la contaminazione fra pallide e esangui culture riformiste del passato, dovrebbe scaturire, almeno in parte, dalle riflessioni di intellettuali sbeffeggiati dai renziani e certamente non ascoltati e meno che mai “corteggiati” dagli oppositori interni. Nessuno, infine, ha detto che una cultura politica può trovare modo di formarsi e di esprimersi proprio nel fuoco di una sana battaglia parlamentare di opposizione. È nel “respingimento” dei disegni di legge improntati a repressione, populismo, anti-politica, anti-parlamentarismo e, nient’affatto, per ultimo, da anti-europeismo, che un partito di sinistra deve cercare di ridefinire la sua cultura per sé, per i suoi quadri, i suoi dirigenti, i suoi parlamentari e, persino, ma qui sta la funzione nazionale di quel partito, per l’elettorato. Non sarebbe poco.

Pubblicato AGL 10 luglio 2018

Cultura politica e nuove forme di partecipazione #Roma #13luglio

Nell’ambito del convegno organizzato da “Sinistra Anno Zero”, dal network “Ripensare la Sinistra” e dalla “Treccani. La Cultura Italiana”

Nelle grandi fratture. Un confronto tra generazioni

Roma – Piazza della Enciclopedia italiana, 4
13 luglio 2018 ore 9.30

Cultura politica e nuove forme di partecipazione

coordina Giacomo Bottos

relazioni
Alfonso Musci
Gianfranco Pasquino

interventi di Nicolò Carboni, Domenico Cerabona, Rosa Fioravante, Tommaso Giuntella, Nadia Urbinati

Caro PD, diffida dai guaritori!

Ripensare, andare oltre, superare, addirittura approfondire, prima che sprofondi del tutto: sono questi alcuni dei suggerimenti di più o meno improvvisati guaritori del PD, fino a poco tempo fa impegnati non a criticare gli errori, tanti, fatti, ma giustificarli. Nessuna di quelle strade potrà essere intrapresa se non si pensa a quale cultura politica dovrà avere il partito che verrà. Il PD non ne ha avuta nessuna.

L’opposizione non basta

Come un pugile ancora suonato dalla potente botta elettorale che lo ha portato al punto più basso di sempre del suo consenso elettorale, il Partito Democratico barcolla, esita, pensa di trovare rifugio nell’angolo. Ma, per rimanere in metafora, i secondi gli danno consigli contraddittori. Qualcuno voleva gettare la spugna nel corso dell’elezione dei Presidenti delle Camere votando sempre scheda bianca. Poi, inopinatamente e senza nessuna possibilità di influenzare l’esito, a quel punto già deciso, sono state avanzate due deboli candidature di bandiera. La strategia di rimanere sdegnosamente e pregiudizialmente all’opposizione, lanciata dall’ex-segretario Renzi, e da lui, subito contraddetta con la richiesta della presidenza di due commissioni parlamentari per suoi strettissimi collaboratori, ottiene consensi a parole, ma non sembra essere condivisa da tutti nei gruppi parlamentari del PD. Comunque, solo una volta formata la coalizione di governo, che potrebbe anche essere un governo di minoranza, si saprà chi è all’opposizione e potrà rivendicare la presidenza delle Commissioni dette di controllo. Con qualche unità d’intenti e con qualche proposta specifica, il Partito Democratico potrebbe addirittura sfruttare il suo peso parlamentare per decidere quale coalizione di governo si formerà. I suoi voti sono indispensabili sia per il centro-destra sia per il Movimento 5 Stelle.

In altri tempi, quando le sinistre perdevano le elezioni, come è capitato molto spesso, dopo qualche ipocrita lamentazione, i suoi dirigenti, che avevano comunque mantenuto il posto in parlamento, la poltrona, continuavano come se niente fosse (stato). Chi ci rimetteva davvero erano i ceti popolari, disagiati la cui condizione non sarebbe certo migliorata con qualsiasi governo di centro-destra. Adesso sappiamo da molte credibili ricerche che l’elettorato del PD e di Liberi/eUguali è maggioritariamente composto da persone benestanti che non hanno praticamente nulla o quasi da perdere da nessuno dei governi che si prospettano. A questo punto, non si tratta più soltanto di proteggere i ceti popolari, che non l’hanno votato, anche se, qualora il PD non riuscisse più a raggiungerli, le sue sconfitte elettorali si moltiplicherebbero. Si tratterebbe di svolgere molto concretamente il compito dell’opposizione parlamentare che significa non soltanto andare puntigliosamente a vedere le carte di chi governa, ma controllare sistematicamente tutte le attività dei governanti , contrastando in maniera argomentata quelle inaccettabili, articolando le domande sociali che il governo trascuri e avanzando controproposte fattibili.

Non basterà, dunque, che l’Assemblea del PD convocata per metà aprile decida con spiegazioni convincenti di stare all’opposizione. Sarà imperativo che chiarisca le modalità con le quali definisce il compito della sua opposizione indicando gli obiettivi che vuole perseguire. Tutto questo s’incrocia con l’assoluta necessità per il partito come struttura e come comunità di analizzare quello che è successo negli anni di Renzi, riflettendo sull’assenza di una cultura politica effettivamente riformista, della quale il PD è carente fin dalla sua nascita, assolutamente indispensabile per rifondare e rilanciare l’azione di un partito di centro-sinistra. “Rottamati”, di conseguenza, dovranno essere tutti/e coloro che non si ritrovino nella nuova cultura politica e che non mostrino nessuna capacità di rinnovamento. Un’opposizione del PD, fatta per incapacità di meglio definire il ruolo del partito, non condivisa, già se ne vedono le avvisaglie, non attrezzata, priva di una cultura politica, non va da nessuna parte. Peggio, rischia di acuire rapidamente in alcuni settori dell’elettorato il desiderio di trovare una migliore rappresentanza politica per le sue preferenze e per i suoi interessi, spingendo verso la ricerca di alternative una delle quali è già il Movimento 5 Stelle.

Pubblicato AGL il 27 marzo 2017

In memoriam: Partito Democratico (2007-2018)

Da una fusione a freddo fra spezzoni di classe politica che avevano perso qualsiasi cultura nacque, con endorsement di Romano Prodi, un partito che dopo dieci anni è giunto alla sua più bassa percentuale di sempre nonostante un altro endorsement. Nessuna analisi del voto, nessuna autocritica, nessun riflessione sulla necessità di elaborare una cultura politica, meglio mettersi all’opposizione di tutti i critici. Il PD degli attuali dirigenti costituisce l’ostacolo principale alla (ri)costruzione di una sinistra plurale.

Sì a proposte senza più preconcetti #direzionePd

Le premesse della riunione della Direzione del Partito Democratico di oggi non sembrano buone. Sarebbe stato opportuno che Renzi presentasse di persona le sue dimissioni ai componenti della Direzione spiegando perché sono andati perduti 2 milioni e mezzo di voti dal 2013 ad oggi, chiarendo anche quali sono i motivi per i quali il PD dovrebbe andare e rimanere all’opposizione. Invece, la lettera di dimissioni sarà letta dal Presidente del partito, Matteo Orfini e la relazione la farà il vicesegretario Martina. I problemi aperti, a cominciare dai numeri della sconfitta logica conseguenza dei comportamenti del segretario e dei suoi troppo ossequienti collaboratori, meritano una discussione approfondita e senza reticenze. La Direzione dovrebbe chiedersi perché il partito non ha saputo sfruttare al meglio gli esiti positivi, ancorché migliorabili, conseguiti dal governo Gentiloni. Sarà stata l’ambiguità della formula a “due punte”, troppo spesso utilizzata dal sovraesposto segretario e che a molti ha probabilmente segnalato la volontà di Renzi di tornare a Palazzo Chigi? Anche se l’esito elettorale della lista Liberi e Uguali è stato assolutamente deludente, chiunque voglia guidare un partito di centro-sinistra deve sapere prevenire scissioni sulla sua sinistra. Un bravo segretario tiene all’unità del suo partito, accetta il dissenso interno, vi si confronta, non lo schiaccia, anzi, mira a valorizzarlo. Comunque, qualsiasi rilancio del Partito Democratico passa attraverso il recupero sicuramente degli elettori, probabilmente anche di molti dirigenti di Liberi e Uguali. Una qualche sperimentazione di accordi potrebbe già cominciare sulla valutazione delle proposte programmatiche del Movimento Cinque Stelle per una molto eventuale formazione del prossimo governo. La Direzione non dovrebbe partire da una posizione preconcetta “stare [più precisamente “andare”, poiché il governo Gentiloni è tuttora costituzionalmente in carica] all’opposizione”. Un partito che dalla segreteria di Veltroni (2007) in poi si definisce “a vocazione maggioritaria” viola uno dei suoi precetti fondanti se si colloca pregiudizialmente fuori del gioco di formazione del governo. Potrebbe essere chiamato ad un atto di grande responsabilità politica nei confronti del paese che ha bisogno di un governo (relativamente, sic) stabile, effettivamente operativo. La Direzione dovrebbe evitare di disperdere il suo tempo a discutere delle date e delle modalità per l’elezione del prossimo segretario a scapito dei più importanti temi politici. Sono giuste le ambizioni personali, persino benvenute, se accompagnate da elaborazioni relative a che tipo di partito dovrà diventare il Partito Democratico e di quale cultura politica dovrà dotarsi. Con Renzi non c’è praticamente stata nessuna attenzione alle strutture del Partito che dovessero sostenerne le politiche, creare e mantenere rapporti e legami con l’elettorato, divulgare quanto fatto e, eventualmente, cambiare linea. Una riflessione autocritica dei molti che hanno assecondato Renzi nella trascuratezza dell’organizzazione del partito è assolutamente raccomandabile. All’inizio del 2017 le minoranze interne del PD, compresi i due candidati alternativi a Renzi alla segreteria del partito, vale a dire Orlando e Emiliano, chiesero una conferenza programmatica, che è un modo per discutere non soltanto le politiche, ma anche il veicolo grazie al quale farle camminare. Quella conferenza appare oggi ancora più necessaria, forse prioritaria. Infine, c’è il problema dei problemi vale a dire come dotare il Partito Democratico di una cultura politica convintamente e efficacemente riformista. Criticando i “professoroni”, Renzi e la sua più stretta collaboratrice mandavano anche il messaggio che della fusione del meglio delle culture riformiste italiane a loro non importava nulla. Però, senza una cultura politica riformista (che si traduce anche nel migliorare le proposte di altri) il Partito Democratico non soltanto è destinato a continuare a perdere voti, ma perderà il senso della sua stessa esistenza.

Pubblicato AGL il 12 marzo 2018

Caro Berlinguer, il Pd è fallito perché non ha cultura

Intervista raccolta da Giulia Merlo per Il Dubbio

«Ritroviamo un minimo di lezione gramsciana! Il consenso non è soltanto la forza dei numeri elettorali ma la capacità di plasmare una visione diversa del mondo. Può anche essere che i dem vincano, ma a che servirebbe?»

Sorride, poi quasi ruggisce il suo dissenso. Gianfranco Pasquino, politologo allievo di Norberto Bobbio e senatore dal 1983 al 1994 per la Sinistra Indipendente, affronta punto per punto le tesi esposte da Luigi Berlinguer nella sua intervista a questo giornale dal titolo «Basta gufi e nostalgici, il Pd è forte e vincerà». Uno scontro tra due anime della sinistra post- comunista sul futuro del partito che proprio quella tradizione si era proposto di incarnare.

Professore, Luigi Berlinguer dice che al Pd «serve ancora tempo e chi ne predica il fallimento fa il vate del malaugurio». Lei non è d’accordo?

Guardi, qualsiasi partito ha bisogno di tempo per arrivare a qualcosa. Sinceramente, però, io non capisco a che cosa dovrebbe arrivare il Pd, secondo Berlinguer. Non può ignorare che moltissimi dirigenti di quel partito dicono che qualcosa nel Pd non va e alcuni se ne sono anche andati. Insomma, esiste uno stato di profonda insoddisfazione complessiva e lui dice che basta un po’ di tempo?

Lei, invece, che cosa dice?

Che il Pd è nato male e sta andando peggio.

Si riferisce alla famigerata “fusione fredda”?

Non solo alla fusione fredda, che è talmente scontata come problematica da non meritare altre parole. La questione vera è che nel Pd non esiste cultura politica, anzi è un partito che è nato avendo abbandonato le culture politiche.

Eppure il Pd è nato con la vocazione di unire gli eredi delle grandi tradizioni del centrosinistra.

Ci avevano raccontato che il Pd nasceva dalla contaminazione del meglio delle culture politiche del Paese, quella cattolico- democratica e quella marxista- gramsciana. Si sono dimenticati la cultura socialista, e non a caso nessun socialista è entrato nel Pd. Ma dove sarebbe oggi questa contaminazione con cui ci hanno ammaliato? Qualcuno oggi sa dire quale sia la cultura politica del Pd? Io credo nessuno sia in grado.

Lei come descriverebbe, oggi, l’essere di sinistra?

Chi si sente di sinistra elabora la sua posizione in riferimento ad alcuni valori. Ci si può dire di sinistra se si è laici; se si pensa, come scriveva Norberto Bobbio, che le disuguaglianze debbono essere contenute e ridotte; se si crede che un Paese debba garantire a tutti i cittadini uguaglianza di opportunità non solo in ingresso, ma in ogni passaggio della vita, dalla scuola al lavoro. Si è di sinistra, insomma, se si ha come cardine la giustizia sociale.

E questi riferimenti valoriali li ritrova in un qualche partito fuori dal Pd?

La risposta è no, e infatti bisognerebbe costruire un contenitore che conquisti questo spazio. Il punto, però, è che questo contenitore non è certamente il Pd di oggi.

Berlinguer ha usato parole dure contro le scissioni, definendole «il male storico della sinistra, che alimentano il pulviscolo di forze politiche». Lei come valuta invece la scissione di Mdp?

Io concordo sul fatto che la scissione sia un male per ogni partito, ma nel caso del Pd ritengo che sia stata resa inevitabile e che sia addirittura giunta tardivamente. Attenzione, non penso che le scissioni risolvano problemi, ma ritengo anche che, quando esse avvengono, il gruppo dirigente del partito abbia l’obbligo di chiedersi che cosa è stato fatto per evitarle. Invece ricordo che nel Pd gli atti di dissenso venivano castigati, anzichè affrontati con risposte politiche.

E quindi guarda all’esperienza di Campo progressista e degli scissionisti del Pd?

Guardi, la mia idea di sinistra non è il “ campo progressista” che si delimita o ha dei confini. Per descrivergliela recupero Achille Occhetto, a cui forse la sinistra dovrebbe ricordarsi di dovere qualcosa: la sinistra è una carovana. Ci si deve mettere in cammino, decidendo magari la meta, si raccoglie chi vuole salire e si lascia scendere chi vuole andarsene. La mia sinistra è aperta nei confronti di chi vuole unirsi e dialoga con chi vuole invece lasciarla per capire le sue ragioni.

Esiste un partito che rispecchia la sinistra di cui lei parla?

(Esita un momento e poi scoppia a ridere ndr) La socialdemocrazia tedesca di Willy Brandt. La sinistra italiana ha fatto di tutto per farsi del male da sola e arrivare nelle condizioni in cui versa oggi. A partire dall’estremo conformismo del Pci e dall’eccesso di personalizzazione del Psi.

Lei non ha ancora nominato la leadership, ma il centrosinistra è ormai avviluppato in un dibattito che torna sempre a quella questione.

Io stavo con coloro che dicevano che prima del Congresso serviva una conferenza programmatica, in cui parlare di che tipo di Italia e soprattutto di Europa vogliamo. Ricordo la frase di Altiero Spinelli (scritta durante il confino, negli anni quaranta), secondo il quale la distinzione destra- sinistra non esisterà più, ma ci sarà una distinzione tra chi vuol costruire un’Europa politica federale, ovvero i progressisti, e quelli che invece vogliono resistere con il potere nazionale. Ecco, a me piacerebbe vedere un partito che si pone come partito europeo, perché lì è il futuro. La leadership sarebbe dovuta venire dopo e invece c’è stata molta fretta, perché lo scopo di Renzi era quello di venire confermato segretario, far cadere il governo e tornare a fare il premier vincendo le elezioni sull’onda del congresso.

Torniamo al presente, allora. Berlinguer dice che il Pd ha «l’imperativo morale di vincere». Lei crede invece che perderà?

Io mi trovo in disaccordo profondo con Berlinguer proprio su questo: lui dice che prima bisogna vincere le elezioni, io invece penso che prima bisogna convincere. Ritroviamo un minimo di lezione gramsciana! Il consenso non è soltanto la forza dei numeri elettorali ma la capacità di plasmare una visione diversa del mondo e di riuscire a creare cultura. Ecco, il Pd crea cultura? Non direi proprio. Detto questo, può anche essere che vinca le elezioni, attraverso qualche inghippo o premietto di maggioranza. Ma a che servirebbe questa vittoria?

Poniamo che il Pd riuscisse a proporre il dibattito che lei ha descritto. Riuscirebbe a convincerla e a recuperarla come elettore, oppure ormai è troppo tardi?

Guardi, aspetto la campagna elettorale. Sentirò i toni e le proposte, se queste mi faranno pensare che il Pd può essere un leale partito di governo, potrei anche votarlo. Altrimenti è chiaro che guarderò altrove, tendenzialmente a Mdp. Sa che cosa mi piacerebbe, però?

Che cosa?

Mi piacerebbe che il segretario del partito fosse interessato non alla sua carriera ma al suo partito. Vorrei che, se andrà alle consultazioni da Mattarella, dicesse: “il Pd è un partito di governo, ma se qualcuno non vuole me acconsento a che venga scelto un altro, al quale daremo sostegno convinto e senza guerriglia parlamentare”. Ecco, vorrei sentire queste parole da Renzi, ma anche da Guerini, da Lotti e dalla Boschi. Da queste specie di gendarmi vorrei sentire parole che riflettono la realtà di una democrazia parlamentare e la visione di un partito che si propone di cambiare il Paese. Ecco, questo per me farebbe la differenza.

Pubblicato il 17 agosto 2017

“Avanti”, ma anche Vade retro sinistra

Di tanto in tanto, gli estimatori di Matteo Renzi discettano sul modello di partito che l’ex-segretario ritornato segretario sull’ondina di un consenso più ristretto starebbe costruendo. Per un po’ di tempo, questi estimatori, quando i numeri sembravano promettenti, si erano appassionati all’idea del Partito della Nazione. Suonava, il termine, molto potente. Era quasi un programma, non è mai stato chiarito di cosa, forse di un’ipertrofica aggregazione al centro, con tutti gli altri contro “la nazione”. Poi, di tanto in tanto, ma senza troppa convinzione, il Partito di Renzi avrebbe rappresentato il nuovo Ulivo, ma, in tutta sincerità né le premesse né le azioni di Renzi giustificavano una qualsiasi costruzione di un qualsiasi Ulivo che avesse qualche riferimento al vecchio. L’assenza più evidente nella discussione, peraltro mai centrale, del nuovo partito (sì, dell’ultimo partito ancora esistente in Italia), era relativa proprio alla motivazione con la quale i DS e i Popolari della Margherita avevano troppo rapidamente proceduto a quella che fu criticata come “fusione fredda” e che ebbe come esito il Partito Democratico. Che dovesse contenere il meglio delle culture riformiste del paese fu detto troppe volte, ma, al di là del non coinvolgimento dei socialisti che, in fondo, non poca cultura riformista avevano formulato, avuto e espresso, le altre culture politiche erano già declinate, se non esauste al momento della fusione. Per questa assenza di fondo di qualsiasi cultura politica divenne fin troppo facile flirtare con definizioni di partiti immaginari, mai sostenuti da idee, quindi sempre mobili quanto serviva, per esempio, ad attrarre il riformista Verdini, sul continuum destra/sinistra.

La prima segreteria di Renzi non diede alcuno spazio a riflessioni di cultura politica. La grande occasione delle riforme costituzionali non fu neppure presa in considerazione per andare ad una esplicitazione della cultura, non solo costituzionale, che le sottintendeva, ma per aggiungervi anche quei principi e quei valori che esprimono e danno corpo ad una cultura più specificamente politica. Respinta la richiesta delle minoranze per una conferenza programmatica che precedesse le votazioni per il segretario tenutesi alla fine d’aprile 2017, il discorso sembra definitivamente chiuso. Il Partito Democratico è un partito vote and office-seeking, che cerca voti e cariche. Punto e basta. Qualche volta, però, un libro potrebbe essere il luogo dove riflettere sulla cultura di un partito, quello che si guida e quello che si vorrebbe. Invece, no. Non lo fece Veltroni nella sua cavalcata del 2007 (La nuova stagione. Contro tutti i conservatorismi, Rizzoli 2007) che delineò non un partito nuovo, ma un programma di governo, se non del tutto alternativo a quello del già traballante Prodi, sicuramente competitivo. Non lo fa affatto il libro di Renzi che il suo autore presenta come segue: “Questo libro non è solo un diario personale, una riflessione sulla sinistra o il programma del governo che verrà. Più di tutto, è la condivisione di idee, emozioni e speranze che spesso si sono perse nel racconto della comunicazione quotidiana. I risultati ottenuti e gli errori commessi. Il viaggio tra passato e futuro di un’Italia che non si ferma. Che vuole andare avanti.” Niente, dunque, che possa riguardare la cultura politica del PD di Renzi il quale si esprime semmai soltanto in critiche, talvolta offensive, a tutti coloro che si muovono nella sinistra e dintorni.

Per fortuna, ma certo non per virtù, i commentatori politici renziani, politologi (che sarebbe un’aggravante), e no (che è molto più di un’aggravante!), dalle Alpi alla Sicilia, l’hanno trovata loro la cultura politica del partito renziano. Certo, bisogna aguzzare la vista, cogliere anche gli indizi più labili, tuffarsi in un linguaggio che proprio non facilita la scoperta di elementi culturali appena malamente abbozzati. Soltanto ai, “diciamo”, meglio attrezzati apparirà allora che Renzi sta costruendo un partito di “sinistra liberale”. Gli opposti essendo sicuramente due: un partito di destra liberale (che non può certamente essere quello di Berlusconi in conflitto d’interessi permanente) e un partito di sinistra illiberale (quello del passato, di D’Alema e Bersani?, quello del futuro, nel campo di Pisapia?) Naturalmente, il paese attende di essere istruito sia sul sostantivo “sinistra”, secondo Renzi e non solo secondo Michele Salvati, che è il non-politologo che auspica instancabilmente la vittoria definitiva di Renzi, sia sull’aggettivo liberale per il quale, però, non ritengo che sia Salvati lo studioso meglio in grado di illuminarci. Peccato che nel libro di Renzi e nelle quarantasette anticipazioni non si trovi nulla né relativo alla sinistra né relativo al liberalismo.

Pubblicato il 15 luglio 2017

Il Lingotto degli sbadigli

C’era una volta un partito, autodefinitosi «democratico», il cui segretario aveva subito tre gravi sconfitte una dietro l’altra: le elezioni amministrative in giugno, un importante referendum in dicembre, un pezzo di dirigenti e militanti alla fine di febbraio. Il segretario, dimessosi dalla presidenza del Consiglio, come aveva promesso parecchio tempo prima, ma non ritiratosi dalla vita politica, come aveva egualmente promesso, lanciò il procedimento statutariamente previsto per l’elezione del nuovo segretario. Da posizione di forza, in quanto segretario uscente, organizzò la sua convention in un luogo simbolo (dove una volta c’erano gli operai metalmeccanici) all’insegna dello slogan «Tornare a casa per ripartire insieme». Trattandosi del lancio della candidatura a segretario di un partito organizzativamente disastrato (giungevano anche rumori di tesseramenti truffaldini e invalidati, di blocchetti di tessere comprate, fenomeni, peraltro, non nuovi), qualcuno si aspettava legittimamente un serrato dibattito sullo stato del partito, sulla sua conduzione, sulla sua presenza sul territorio, sul suo funzionamento, sul suo futuro. Fra gli «attendisti» non si trovavano i commentatori scafati e i giornalisti retroscenisti, troppo difficile per loro chiedersi che cosa è, può essere, dovrebbe diventare un partito in termini di strutture e di personale politico. Ancora più difficile andare a raccogliere numeri, magari in una anche corta serie storica (dal 2007 al 2017? oppure soltanto nel periodo renziano), relativi agli iscritti e al loro andamento, alle loro fasce d’età, alle loro attività lavorative. Quel che non fanno giornalisti e commentari faranno certamente, in un partito decente, i dirigenti, meglio se sono quelli «responsabili dell’organizzazione». Almeno così funzionava un partito predecessore, quello comunista. Talvolta, messi alle strette anche i dirigenti dell’altro partito predecessore, la Democrazia cristiana, raccoglievano e davano i numeri. Nei loro congressi entrambi parlavano dello stato del partito, consapevoli che le politiche sono variabili dipendenti dalla capacità di un’organizzazione di formularle, farle procedere nelle sedi opportune, a cominciare dal Parlamento, portarle ai loro iscritti e militanti che le pubblicizzino, non con uno/cento/mille tweet e like, ma discutendo con altre associazioni e con gli elettori.

Tecnicamente, anche dopo la scissione, il Partito democratico è l’unico organismo che merita in Italia l’etichetta di partito. Toccava al candidato segretario e ai suoi sostenitori cogliere l’occasione del Lingotto per disegnare, in un confronto di idee e di proposte, quale modello di partito desiderano costruire nel prossimo, vicino futuro. Sì, una riflessione autocritica sarebbe stata utile. Qualcosa, o molto, è andato storto proprio nelle attività del partito. Capire che cosa e sapere chi sono i responsabili servirebbe a evitare errori simili e a rimuovere dalle loro posizioni chi li ha commessi. Dopo tanti discorsi e annunci su Partito della Nazione e Partito di Renzi, ascoltare i pro e i contro di ciascuna opzione, magari aggiungendone altre, non già sorpassate, come il partito «leggero», e sentirle discutere, sarebbe stato doveroso. Infine, per tutti coloro che pensano, sulla base di buone letture e di analisi comparate, che un partito diventa e rimane tanto più solido quanto più si basa su una cultura politica condivisa in grado di interpretare la società e il mondo, ascoltare di quale cultura è fatto il Pd, che non è riuscito ad amalgamare le fatiscenti culture cattolico-democratica e comunista, e neppure altri riformismi deboli, sarebbe stato confortante.

Invece, al Lingotto si è eseguita l’unica operazione che Renzi conosce: combinare, sul facsimile delle Leopolde, proposte programmatiche con la passerella per ministri nessuno dei quali ha parlato né di partito né di cultura politica né di come ristrutturare, anche con l’apporto di una legge elettorale adeguata, il sistema dei partiti e le modalità della competizione, né di come dotarsi di un sistema di riferimenti e di valori che ricompattino una società slabbrata, confusa, corporativa: altro che ipocritamente lodata come più veloce della politica! Insomma, al Lingotto sono mancate tutte le riflessioni indispensabili sia per «tornare a casa» sia «per ripartire»: con quale veicolo? «Insieme» a chi? Con quale visione? Non resisto a non citare le parole conclusive del racconto di Marco Imarisio pubblicato sul «Corriere della Sera» (12 marzo, p. 6): «E pazienza per gli sbadigli».

Pubblicato il 15 marzo 2017 su la rivista il Mulino