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Un altro PD è possibile, ma nessuno sa cosa sia @DomaniGiornale


“Faremo un’opposizione dura, senza sconti, intransigente. Costruiremo un partito aperto, inclusivo, plurale.” Sono questi i propositi, nient’affatto originali, dei dirigenti del Partito Democratico. Alcuni di loro, poi, candidandosi alla carica di segretario del partito, aggiungono, forse soprattutto per scaramanzia e per non “bruciarsi”, che non è il momento di fare i nomi. Sbagliato. I nomi comunicano molto, a cominciare dalla biografia politica (raramente c’è anche una biografia professionale), dall’appartenenza correntizia (pluralismo di “sensibilità”) e da quanto detto e fatto nel passato. Quello che dai nomi che “scendono in campo” non è possibile sapere sono le idee, le prospettive, le visioni, non del mondo che verrà, ma del tipo di partito che ciascuno/a degli aspiranti ha in cuor suo. Il fatto è che nessuno è in grado di definire che cosa è oggi il Partito Democratico. Certamente, non è mai diventato quello che i suoi frettolosi fondatori, fra lacrime e sogni, annunciarono nel lontano 2007: il luogo dove si incontravano le migliori culture riformiste del paese, dal gramscismo al cattolicesimo democratico, dall’ambientalismo all’antifascismo. Che mancasse il socialismo e che i loro migliori interpreti fossero assenti da queste grandi contaminazioni e ibridazioni sembrò non preoccupare più di tanto. D’altronde, i successori del comunismo all’italiana avevano dichiarato inadeguate, inefficaci, in crisi, logore tutte le esperienze socialdemocratiche che avevano dato un contributo grandioso alla politica e alle società dell’Europa non solo del Nord. Però, esperienze laiche che non piacevano neanche ai cattolici, non avevano cambiato e meno che mai abolito il capitalismo (sic). Ne seguì un organismo sostanzialmente privo di una cultura politica, che non è mai soltanto una bussola per orientarsi nella folla dei partiti. Una cultura politica è lo strumento per mettere insieme una comunità di persone intorno a principi e valori non solo costituzionali, e per offrire all’elettorato la certezza o quantomeno l’indicazione affidabile del tipo di società che quel partito si impegna costruire, con chi, ad esempio, con le altre democrazie europee, con quale visione di giustizia sociale. Chi, se non un partito democratico, può assumersi questo nobile obiettivo politico? Stati generali, primarie delle idee, agorà e altre modalità di incontro (no, elaborazione non posso proprio scriverlo) non hanno mai preso di petto la necessità di formulare, certo in un mondo che cambia, una cultura politica progressista. Il professore suggerirebbe, da un lato, che esistono molti libri da leggere e, dall’altro, molte esperienze da studiare. Cinque anni di opposizione offrono il tempo adeguato per studiare. Lo potrebbero, anzi, dovrebbero fare, se ne hanno le capacità, i (non)candidati e le (non)candidate alla segreteria del PD. Se non ora, quando?
Pubblicato il 29 settembre 2022 su Domani
Perché Draghi accetterà il rischio di rimanere @DomaniGiornale


“Il governo c’è fin quando fa”. Le dimissioni di Draghi la scorsa settimana erano motivate dalla convinzione che le convulsioni di quel che rimane del Movimento 5 Stelle impedissero la prosecuzione dell’azione di governo. Sbagliano tutti colore che attribuiscono grande, addirittura decisiva importanza ad uno scontro di personalità Draghi contro Conte (incidentalmente, non c’è partita). Probabilmente, l’assolutamente straordinaria mobilitazione in Italia e all’estero a favore della permanenza di Draghi a Palazzo Chigi, che ha certamente e comprensibilmente lusingato il Presidente del Consiglio, non è che uno dei fattori di cui tenere conto per uscire da questa brutta situazione. Da un lato, molto conteranno le risposte al discorso con il quale Draghi spiegherà ai parlamentari e all’opinione pubblica italiana e straniera la sua posizione. Ai fatti che elencherà e alle interpretazioni che con sobrietà e precisione accompagneranno quei fatti, i capipartito non potranno contrappore solo retorica e mozioni di irricevibili e ipocriti amorosi sensi. La soluzione della crisi sta anche negli impegni che, in modo credibile, i capipartito e i loro rappresentanti sono disposti ad assumersi. Quella di Draghi non sarà affatto una richiesta di pieni poteri, ma di assunzione condivisa, nel rispetto dei ruoli, della responsabilità a portare a compimento tutto il programma concordato, anche alcuni dei punti formulati dai Cinque Stelle, già in stato di attuazione. Credo sia legittimo che Draghi mantenga più di una perplessità su quanto i leader dei partiti prometteranno e che nutra qualche preoccupazione sulla possibilità che qualcuno di loro intenda comunque procedere a episodi di guerriglia parlamentare e mediatica.
Dall’altro lato, Draghi è perfettamente consapevole che è stato chiamato a risolvere con le sue competenze, la sua autorevolezza e il suo prestigio internazionale compiti che nessuno dei politici italiani era minimamente in grado di affrontare. Incidentalmente, all’ombra del governo Draghi quei politici avrebbero dovuto dedicarsi alla rivitalizzazione delle loro organizzazioni e al ripensamento delle loro culture politiche. Non essendo avvenuto nulla di tutto questo, Draghi teme giustamente che se dovesse porre termine alla sua esperienza di governo adesso, il paese intero, il “sistema paese” tornerebbe indietro e non riuscirebbe neppure a mettere a buon frutto le riforme fatte, meno che mai completare quelle già lanciate. Non sarà, dunque, soltanto il senso dello Stato che lo spingerà a mantenere le redini del governo, ma senza esagerazioni (che lo farebbero sorridere) la convinzione che nelle condizioni date, in Italia e in Europa, ha il dovere “repubblicano” di non destabilizzare, ma di consolidare. Pertanto, consapevolmente, accetterà il rischio di rimanere a Palazzo Chigi. Per fare.
Pubblicato il 20 luglio 2022 su Domani
Cosa resta delle culture politiche #7dicembre #Torino 9cento Storie. La forza delle idee
Le culture politiche oggi
martedì 7 Dicembre | 15.30
Centro Studi Piero Gobetti
via del Carmine 14
Sala ‘900
Ingresso libero con prenotazione obbligatoria
PRENOTA
Evento in diretta anche sui canali
Facebook e YouTube del Polo del ‘900
Gianfranco Pasquino,
Cosa resta delle culture politiche
Introduzione di Luisa Riberi

Il progetto integrato 9cento Storie. La forza delle idee coordinato dal Centro studi Piero Gobetti si conclude con un seminario che si concentrerà sull’analisi del ruolo delle culture politiche nel contesto contemporaneo, con particolare riferimento alla società italiana, indagandone crisi, permanenze e nuove configurazioni.
La proposta è di riflettere sulle trasformazioni del ruolo e dell’articolazione delle culture politiche negli ultimi decenni a partire dall’analisi degli spazi che le hanno caratterizzate (sezioni di partito, assemblee, riviste, piattaforme digitali ecc). Nello specifico, ci si occuperà dei luoghi di elaborazione delle pratiche e dei discorsi politici e di come le mutazioni di queste abbiano inciso sul rapporto tra società e politica.
Programma
- Apertura di Marta Vicari
- Marica Tolomelli, Eclissi delle culture politiche. Introduzione di Marco Dal Pozzolo
- Gianfranco Pasquino, Cosa resta delle culture politiche. Introduzione di Luisa Riberi
- Paolo Gerbaudo, Nuove forme di organizzazione della politica. Introduzione di Otello Palmini
- Dibattito
- Conclusioni di Pietro Polito
L’Europa, memoria e futuro #Bologna #22ottobre @MOVFEDEUROPEO @BolognaMfe
In occasione del XXIX Congresso nazionale del Movimento Federalista Europeo, Bologna 18-20 ottobre 2019, l’Istituto Storico Parri propone una
Discussione sulle culture politiche europee e europeiste all’inizio di una nuova legislatura europea
22 ottobre 2019 ore 17:30
Istituto Storico Parri, sala ex Refettorio, via Sant’Isaia 20
Saluto di
Giacomo Manzoli
partecipano
Giancarla Codrignani
Gianfranco Pasquino
Elly Schlein
introduce e conduce
Luca Alessandrini
Rileggete Huntington. Segnalò rischi reali @La_Lettura #vivalaLettura
A circa un quarto di secolo dalla sua pubblicazione qual è la validità della tesi di Samuel P. Huntington contenuta nel libro The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order (1996, trad. it. Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti 1997)? Per rispondere correttamente bisogna preliminarmente chiarire qual’era effettivamente la tesi del grande politologo di Harvard scomparso ottantunenne nel 2018. Infatti, la maggior parte dei molti, spesso faziosi, critici di Huntington sembra essersi fermata alla prima parte del titolo e non avere mai letto la seconda. Per di più, molti di loro hanno fatto di Huntington una specie di sostenitore e cantore della necessità dello scontro fra le civiltà, non solo inevitabile, ma addirittura auspicabile. Al contrario, Huntington intendeva mettere in rilievo gli elementi e gli sviluppi che sembravano portare a un possibile scontro fra le civiltà proprio affinché i policy makers, con i quali aveva avuto frequenti e controversi rapporti nella sua attività accademica e di consulente, ne fossero consapevoli e approntassero opportuni rimedi. Come per l’altrettanto giustamente famoso libro del suo allievo Francis Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo (1991, trad. it. 1992), ugualmente letto male e peggio interpretato, è il crollo del muro di Berlino e del comunismo a stare a fondamento dell’interrogativo/obiettivo che si pone Huntington. La ricostruzione di un ordine mondiale sarebbe stata resa più facile dalla fine dello “scontro” fra le liberal-democrazie contro i comunismi realizzati e dalla vittoria delle prime? “Il futuro non sarà più dedito ai grandi, vivificanti scontri di ideologie, ma piuttosto a risolvere concreti problemi economici e tecnici”, che è la sintesi del libro di Fukuyama proposta da Huntington (p. 29), oppure altro si affacciava all’orizzonte e le sue premesse erano già visibili a chi disponeva di adeguati strumenti conoscitivi?
Il contenuto del libro di Huntington richiede ai lettori, ai critici, agli “interpreti” la capacità di combinare elementi di cultura politica in senso lato (cultura è una traduzione migliore di “civiltà”) con conoscenze di relazioni internazionali. Non può stupire che la recensione del libro di Huntington pubblicata sulla prestigiosa “American Political Science Review” (16 mila abbonati in tutto il mondo) fu affidata a un prestigioso studioso di Relazioni Internazionali , Richard Rosecrance. Infatti, Huntington non è interessato alle “civiltà” (o culture politiche) in quanto tali, ma al loro impatto sulla (ri)costruzione di un ordine mondiale. “Finita la storia” della Guerra Fredda durante la quale l’ordine mondiale, seppure con molte anche sanguinose slabbrature, era stato mantenuto dal bipolarismo USA/URSS, in che modo e da chi e che cosa sarebbe emerso un nuovo ordine mondiale? È in atto un’intensa discussione sull’esistenza durante la Guerra Fredda, di un ordine politico internazionale liberale fatto da istituzioni come il Fondo Monetario Internazionale, la Banca mondiale, le Nazioni Unite, con regole e procedure comunque rispettate fino a tempi recenti, ma che il presunto, reale, relativo declino degli USA non riuscirebbe più a garantire.
Le distinzioni che contavano negli anni Novanta non erano già più quelle su basi ideologiche, ma, per l’appunto culturali. Le liberaldemocrazie potevano anche avere vinto la Guerra Fredda, ma nel frattempo avevano fatto la loro comparsa i fondamentalismi e nella visione di Huntington alcune grandi religioni stavano a fondamento delle civiltà che prendevano coscienza delle loro peculiari identità per organizzarsi. Intese come “ampie entità culturali”, secondo Huntington esistono nel mondo contemporaneo sette civiltà (l’ordine è mio): occidentale, latino-americana, giapponese, indù, islamica, cinese (confuciana), africana. Molti critici si sono esercitati a smentire l’esistenza delle “civiltà” come definite da Huntington e, comunque, a negarne l’unitarietà, preferendo sottolinearne le differenziazioni interne. Huntington non nega le possibili differenze, ma il suo punto è che, a ogni buon conto, le differenze fra le civiltà sono molto più grandi e più rilevanti delle differenze all’interno delle stesse civiltà. A proposito dei critici (ai quali la più brillante risposta è contenuta nel densissimo articolo di Francesco Tuccari, “il Mulino”, n. 3/2015, pp. 588-594), è interessante notare che sostanzialmente ciascuno di loro è uno specialista, conoscitore di una civiltà, come i francesi studiosi dell’Islam, come Amartya Sen e la sua India, come l’orientalista di origine palestinese Edward Said, come alcuni intellettuali latino-americani, e le loro obiezioni sono tutte particolaristiche. Praticamente nessuno guarda, come direbbero gli anglosassoni, alla “big picture”.
Le critiche più severe, qualche volta addirittura violente, riguardarono il trattamento, certamente tutt’altro che ossequioso, che Huntington fa dell’Islam e della sua civiltà. Due furono le obiezioni rivoltegli. Primo, l’Islam non è monolitico; secondo, lo scontro di civiltà è talvolta interno proprio ai paesi islamici. Sono entrambe obiezioni malposte poiché Huntington riconosce le differenziazioni all’interno di tutte le civiltà e la possibilità di scontri. Nel caso del mondo islamico la mancanza più preoccupante è quella di una potenza egemonica (core) in grado di imporre l’ordine e di diventare guida. I tentativi di Al Quaeda e dell’Isis sembrano falliti così come le primavere arabe. Nel mondo islamico stanno tutti i fattori di rischio per la costruzione e stabilizzazione di un ordine mondiale, in particolare, le guerre civili in Siria, Libia, Yemen. Né si vede come, nella latitanza egoistica della leadership autoritaria, compromessa e corrotta dell’Arabia Saudita, possa fare la sua comparsa una potenza egemone riconosciuta e accettata come tale.
Da qualche tempo, ha fatto la sua comparsa, inquietante, ma inevitabile, per ragioni territoriali, demografiche, di coesione intorno al confucianesimo e grazie alla possente guida del Partito Unico, la Cina Comunista. Ha potenzialità enormi e persino la pazienza di attendere che maturino le condizioni per una sua espansione comunque già in atto. In maniera premonitrice, poiché da un’analisi solida conseguono previsioni non campate in aria, Huntington scrisse che “gli scontri più pericolosi del futuro nasceranno probabilmente dall’interazione tra l’arroganza occidentale, l’intolleranza islamica e l’intraprendenza sinica” (cinese, p. 265). Quegli scontri, surrogati da episodi violenti di vario genere, sono tuttora un’eventualità, mentre il nuovo ordine mondiale è molto di là da venire.
Pubblicato il
La rivista di un tempo che fu #Mondoperaio
Pubblicato in “Mondoperaio”, dicembre 2018 (pp. 39-42)
Quando un partito smette di elaborare idee, la sua funzione complessiva praticamente si esaurisce. A riprova, i partiti-non partiti italiani contemporanei, da qualche tempo privi di qualsiasi elaborazione culturale, si aggrappano a brandelli di potere, a Fondazioni e a oscure piattaforme soltanto per stare a galla. Non dipende solo dal fatto che nessun non-partito può permettersi una (non)scuola di partito. È che i protagonisti della scena politico-parlamentare italiana non hanno nessuna cultura politica, nessuna idea politica guida da trasmettere. Non faccio eccezione neanche per il Movimento Cinque Stelle poiché nessuna delle loro esperienze Meet up e altro ha il compito di formare una cultura politica. Forse, ma è un suggerimento al limite dell’oltraggio, invece di affidarsi alla Piattaforma Rousseau, potrebbero leggere sia Rousseau sia qualche altro illuminista. Questa breve digressione è necessaria per affermare un principio fondativo. Le idee vanno elaborate con riferimento alla visione della società che si desidera costruire, per negazione e per affermazione, ma anche nello scontro politico, nella orgogliosa rivendicazione di identità e di autonomia. Nella Repubblica italiana le riviste in qualche modo, con poche eccezioni, collegate ai partiti, sono state il luogo preminente di elaborazione politica. Senza dubbio “Mondoperaio” ha occupato, seppur con alti e bassi, un posto di rilievo fra le riviste di cultura politica. La sua storia e la sua incidenza non possono essere ridotte unicamente al conflitto con i comunisti, dotati di un considerevole apparato di strumenti di comunicazione politica. Mi limito a segnalare il settimanale “Rinascita” e il trimestrale “Critica marxista”, più tardi anche “Democrazia e diritto”. Quando sia il PSI sia “Mondoperaio” si “arrotolarono” intorno a Craxi, ho iniziato a collaborare su loro richiesta con notevole frequenza tanto a “Rinascita” quanto a “Democrazia e diritto”. Quando Covatta me lo chiederà potrei persino scrivere qualche nota comparata. La storia di “Mondoperaio” è anche quella di un partito che era convinto che gli intellettuali dovessero avere spazio di elaborazione e di intervento e che sapeva ascoltarli e, entro (in)certi limiti valorizzarli. L’elaborazione e la valorizzazione non poterono più continuare quando Craxi recuperò Proudhon (si noti che ho evitato il verbo riesumare), con il quale non era sicuramente possibile andare verso il rinnovamento del socialismo. Infatti, da nessuna parte in Europa, tantomeno in Francia, si guardò a Proudhon (per una discussione approfondita di quel recupero, delle sue motivazioni e delle sue conseguenze utilissimo è il volume curato da Giovanni Scirocco, Il vangelo socialista. Rinnovare la cultura del socialismo italiano, Torino, Nino Aragno Editore, 2018, che riporta il testo di Craxi e il carteggio fra un socialista milanese Virgilio Dagnino e Luciano Pellicani).
Non è banale iniziare sottolineando che certamente e inevitabilmente il contrasto con le idee comuniste e con le prassi del PCI, non riducibile esclusivamente alla giusta e doverosa, quanto difficile, ricerca da parte del PSI di maggiore spazio politico, fu frequente e rilevante sulle pagine di ”Mondoperaio”. Tuttavia, soprattutto, sotto la direzione di Federico Coen, nei difficili anni settanta, quando il PSI toccò il punto più basso del suo consenso elettorale e della sua presenza culturale, fu “Mondoperaio” a tentare e sostenere un’ambiziosa operazione di rilancio e di formulazione di una moderna culturale politica. Giusto fu ingaggiare quello che Amato e Cafagna definirono Duello a sinistra: socialisti e comunisti nei lunghi anni ‘settanta (Bologna, Il Mulino, 1982). Giusta, ma forse non sufficiente, fu l’attenzione ai socialisti spagnoli, portoghesi e del PASOK: l’ascesa del socialismo mediterraneo conteneva insegnamenti che non abbiamo sfruttato adeguatamente. Giusto fu anche prendere ispirazione da François Mitterrand che si era proposto di erodere il consenso del Partito comunista francese (non solo filo-sovietico, ma sostanzialmente ancora stalinista), al tempo stesso, però, cercando di ampliare l’area complessiva della sinistra. Troppi, invece, pensarono, alcuni anche sulle pagine di “Mondoperaio”, che sarebbe stato sufficiente, sottovalutandone l’enorme difficoltà e la grande improbabilità, un travaso di elettori dal PCI, “esploso” quantitativamente grazie alla sua proposta di compromesso storico della quale per qualche tempo era rimasto prigioniero, per poi entrare in grande confusione strategica orientato a una mai meglio definita “alternativa democratica” (forse, percependosi, autocriticamente, ma ci vorrebbe uno psicanalista lacaniano, sì come alternativa, ma non proprio/non del tutto “democratica”?).
Perdere voti, come successe per tutti gli anni ottanta, non sarebbe bastato al PCI per cambiare linea. Aveva, naturalmente, ragione Norberto Bobbio, e doppiamente. Primo, bisognava dialogare con i comunisti e persuaderli a “socialdemocratizzarsi” (Quale socialismo? Discussione di un’alternativa, Torino, Einaudi, 1976), ma neppure Bobbio andò a fondo su questa auspicabile trasformazione, anteponendole la davvero complessa formazione di un partito unico dei lavoratori. Secondo, era indispensabile ripensare la sinistra. Qui si colloca un mio personale “coming out”. Dall’inizio degli anni settanta mi trovavo proprio lì: fra il PSI di De Martino, e il PCI di Berlinguer per due ragioni. Ero, prima ragione, analiticamente e politicamente convinto che bisognasse costruire una alternativa alla DC attraverso un’alleanza fra PSI e PCI entrambi trasformati. Seconda ragione, pensavo che, sfidato e portato sul piano dell’alternativa, il PCI sarebbe stato costretto a abbandonare la sua linea pro-sovietica diventando un plausibile partito di governo. Nel 1976 e 1979 fui molto lieto quando il PCI candidò e fece eleggere Altiero Spinelli al Parlamento Europeo, ma non bastava. Lo dirò meglio, ma anche più ingenuamente: ero schierato sulla frontiera dell’scelta di sinistra. Quella frontiera si poté allora, per cinque–sei anni, difendere e fare avanzare con qualche prospettiva, seppur non grande, di successo scrivendo, dialogando, polemizzando, elaborando idee sulle pagine di “Mondoperaio”. Senza nessun pentimento da allora sono stato un compagno di strada, promiscuo, disposto a fare tutta la strada necessaria in compagnia di coloro che volessero e operassero per l’alternativa. Oggi, la strada appare tutta in salita, qualcuno è giunto alla conclusione che in cima non c’è neppure più l’alternativa. Sostengo, l’ho letto da qualche parte (probabilmente nelle pregevoli memorie di Sisifo) che quello che conta è il viaggio, ovviamente fatto in buona compagnia. In quegli anni, la compagnia dei collaboratori di “Mondoperaio” era probabilmente la migliore trovabile in Italia. Poi si è dispersa e alcuni hanno preso una strada che non potevo percorrere se volevo, e lo volevo, restare fedele alla mia certa idea di “alternativa di sinistra”.
Furono numerosi gli articoli pubblicati su “Mondoperaio” intesi a cogliere l’essenza della sinistra vincente di Mitterrand: plurale, federata, con forte presenza sul territorio, dotato di una cultura politica moderna, capace di attrarre e di valorizzare un non piccolo mondo intellettuale e di grands commis. Anche il sistema istituzionale della Quinta Repubblica francese, semi-presidenzialismo e legge elettorale a doppio turno contribuì significativamente al successo di Mitterrand (“le istituzioni della Quinta Repubblica non sono state fatte per me, ma me ne servirò”–cito a memoria la sua dichiarazione subito dopo la prima elezione alla Presidenza nel 1981). Alla Francia guardò l’allora già molto autorevole collaboratore della rivista Giuliano Amato, com’è facile notare rileggendo il suo libro: Una Repubblica riformare (Bologna, Il Mulino, 1980). Vi fece riferimento esplicito anche Giuseppe Tamburrano, Perché solo in Italia no (Roma-Bari, Laterza, 1983). Per quanto non sempre con la precisione necessaria –infatti, tuttora, non sono pochi coloro che accomunano, sbagliando alla grande, il presidenzialismo USA al semipresidenzialismo francese e non sanno cogliere le grandi opportunità politiche, non solo elettorali, del doppio turno in collegi uninominali, i socialisti e “Mondoperaio” posero la questione istituzionale al centro del dibattito. Sottolineo qui la centralità del doppio turno in collegi uninominali (nulla a che vedere con l’Italicum) nel consentire, anzi , imporre a socialisti e comunisti francesi di giungere ad accordi al primo o, molto più frequentemente, al secondo, turno, ma aggiungo che, come congegnato in Francia, il doppio turno per le elezioni parlamentari offre grandi opportunità ai (candidati dei) partiti non estremi, garantendo anche un ruolo insostituibile, quindi da premiare ai (candidati dei) partiti estremi disposti a formare coalizioni. Purtroppo, l’azione dei parlamentari socialisti nella Commissione per le riforme istituzionali (novembre 1983-febbraio 1985) presieduta da Aldo Bozzi, non andò affatto in direzione “francese”.
Le parole di oggi, ancorché alquanto appannate, democrazia maggioritaria, bipolare, alternanza, hanno radici in quel dibattito, in quegli anni, sulle pagine di quella rivista. Il compromesso storico non aveva nulla a che vedere con la prospettiva che sarebbe poi stata, non proprio felicemente, definita “compiuta” (quasi per definizione le democrazie non sono mai “compiute”, ma sempre in progress). Negava la prospettiva dell’alternanza, serviva, forse, a entrambi i potenziali contraenti, PCI e DC, per mantenere le loro rendite d’opposizione e di posizione piuttosto che per affrontare il loro rinnovamento, di persone e di idee. Non avrebbe mai condotto l’Italia nell’ambito delle democrazie dell’Europa occidentale e meno che mai nel solco delle socialdemocrazie. Nient’affatto auspicato, ma anzi spesso violentemente contrastato, l’esito socialdemocratico era il più temuto dai comunisti che ripetevano il loro mantra: le socialdemocrazie non hanno cambiato il capitalismo, le socialdemocrazie sono in crisi, le socialdemocrazie sono superate. Se ben ricordo, però, né il percorso né l’esito socialdemocratico furono difesi con molto vigore da tutti sulle pagine di “Mondoperaio”. Non pochi collaboratori avevano e mostrarono riserve, a mio modo di vedere, allora e oggi, non nobili e sbagliate. È troppo facile ironizzare adesso sui comunisti che odiavano le socialdemocrazie e che hanno, prima, dato vita al Partito Democratico, poi sono diventati renziani, sostenendo riforme costituzionali che nulla avevano in comune con il progetto, per quanto vago, della Grande Riforma, ma è doveroso ricordarlo e farlo. Certo, diventato Presidente del Consiglio Bettino Craxi non sostenne più la sua idea del cambiamento della forma di governo (e anche il “Mondoperaio” di quella fase l’abbandonò). Qualsiasi alleanza di governo con la DC, temporanea e di lungo respiro, contraddiceva alla radice tutte le ipotesi di cambiamento costituzionale, istituzionale, elettorale. Bastò un solo referendum su una piccola clausola della legge elettorale proporzionale, vale a dire, la preferenza unica, per mandare gambe all’aria tutto il sistema dei partiti che aveva costruito e accompagnato la storia della Repubblica (dei partiti. Evoluzione e crisi di un sistema politico: 1945-1966, titolo di un fortunato libro di Pietro Scoppola, Bologna, Il Mulino, 1991, scoperta tardiva della partitocrazia quando declinava il potere democristiano che di quella partitocrazia era stato il perno determinante) e aprire un percorso di cambiamenti quasi esclusivamente elettorali, con poche e molto discutibili, comunque, inadeguate riforme istituzionali che non hanno nulla a che vedere con la Grande Riforma, pure suscettibili di interpretazioni e di attuazioni molto diverse.
Non è questo, adesso, il luogo per procedere ad approfondimenti e precisazioni sul tema generale “quale Costituzione” anche perché non ho affatto voglia di rincorrere tutti i molto loquaci e verbosi opportunisti, vale a dire coloro che hanno cambiato idea a seconda delle opportunità. Due riflessioni sono, però, indispensabili proprio alla luce di quanto “Mondoperaio” ha fatto e ha prospettato. La prima riflessione riguarda la persistenza delle problematiche di allora che, in condizioni attualmente molto più difficili, continuano a richiedere soluzioni. Lascerò da parte la questione dell’alternanza poiché, da un lato, di alternanze ne abbiamo avute molte, nessuna da manuale, vale a dire con una coalizione di governo che dura tutta la legislatura e viene sostituita da una coalizione diversa che per tutta la legislatura ha svolto il ruolo dell’opposizione. Incidentalmente, alternanze di questo tipo sono molto rare anche nelle altre democrazie occidentali. Per le necessarie informazioni mi permetto di rimandare ai saggi contenuti in G. Pasquino e M. Valbruzzi, a cura di, Il potere dell’alternanza. Teorie e ricerche sui cambi di governo, Bologna, Bononia University Press, 2011). Dall’altro lato, mi corre l’obbligo scientifico di sottolineare che, per esempio, Sartori non ha mai ritenuto, e lo ha scritto e ripetuto, che l’alternanza abbia virtù taumaturgiche tali da sanare i vizi dei partiti, dei loro dirigenti, dei governanti. Operare soltanto sulle condizioni dell’alternanza non migliora affatto il funzionamento del sistema politico. Non vorrei, però, che i lettori si buttassero al polo opposto e pensassero che una maggioranza di governo artificialmente gonfiata da un premio, più o meno cospicuo, di seggi, sia la soluzione auspicabile e produca automaticamente la cosiddetta “governabilità” a scapito della rappresentanza. Al contrario, meno rappresentanza non equivale affatto a più e migliore governabilità.
La seconda riflessione è a più vasto raggio. La mia interpretazione di quanto ha fatto “Mondoperaio”, specialmente quando fu diretto da Federico Coen, è quella di un tentativo forte di ridefinire, trasformare, modernizzare la cultura politica della sinistra, in particolare, sfidando i comunisti che la loro cultura politica non stavano affatto rinnovando, neppure con gli apporti di Gramsci (che fra i suoi pur grandi meriti non può sicuramente vantare quello di essere un teorico della democrazia né bipolare né compiuta ). Questa operazione, importante, degna di attenzione e di una valutazione complessivamente positiva, non è riuscita. Pertanto, rimane all’ordine del giorno. Invece, è successo che tutte le culture politiche italiane, a partire da quelle, la liberale, la cattolico-democratica, l’azionista, la socialista e la comunista, sono sostanzialmente scomparse (ho intitolato La scomparsa delle culture politiche in Italia, un fascicolo della rivista “Paradoxa”, Ottobre-Dicembre 2015,nella quale si trovano, fra gli altri, articoli di Giuliano Amato e Achille Occhetto, i quali non sorprendentemente solo in parte concordano con me).
Molte delle esigenze di allora, in particolare, da un lato, la costruzione di una democrazia decente, che non ha bisogno di altri aggettivi, dall’altro, la formazione di un partito di sinistra, permangono in condizioni molto più difficili. Quel partito di sinistra non è mai stato il Partito Democratico dal quale i socialisti si sono tenuti e sono stati tenuti lontani, quasi che il meglio delle culture riformiste del paese (nello slogan ripetuto fino alla noia dai Democratici e mai tradottosi in una qualsiasi cultura politica già largamente assente nell’Ulivo) potesse affermarsi escludendo proprio la cultura socialista (e qui, credo, che sarebbe opportuno rileggere la storia delle riforme del centro-sinistra), a sua volta, forse il meglio, gioco con le parole, non con la sostanza, delle culture politiche riformiste italiane. Naturalmente, mi si potrebbe obiettare che non sappiamo più neppure che cosa voglia dire sinistra. Dissento e sostengo che è tuttora possibile e fecondo definire sinistra lo schieramento che, da un lato, con riferimento a Bobbio, si batte a favore dell’eguaglianza o, se si preferisce, per ridurre, contenere, infine eliminare almeno le diseguaglianze di opportunità, dall’altro, protegge e promuove i diritti, quelli veramente tali, non le rivendicazioni, civili, politici e sociali. Vedo non poche coincidenze con le argomentazioni, pure non sistematiche, contenute negli articoli di “Mondoperaio” di quei tempi. Quello che, invece, non vedo è chi si stia attualmente impegnando su questo terreno. Addirittura temo che, prima di pensare alla formulazione di una cultura politica sia necessario creare una cultura di fondo, fatta di conoscenze e di interpretazioni della storia d’Itali e d’Europa (sì, lo so che ci sono anche la globalizzazione e il capitalismo, suvvia). C’è molto da fare (e quasi niente per cominciare).
INVITO Le culture politiche in Italia #23novembre2018 #Bologna #Democrazia #Cultura #Coesione #Partecipazione
Apprendere per partecipare è uno degli strumenti più idonei per tracciare una strada, per interpretare il cambiamento e per realizzare percorsi di cittadinanza attiva e consapevole.
2° seminario
LE CULTURE POLITICHE IN ITALIA
Sala dello Zodiaco, Palazzo Malvezzi
Sede della Città Metropolitana di Bologna
Via Zamboni, 13 Bologna
23 novembre 2018
Ore 10:30
Gianfranco Pasquino
Professore Emerito di Scienza politica Università di Bologna
“Le culture politiche in Italia”
La Costituzione è ancora il Patto fondamentale che lega tutti i cittadini e le Istituzioni? #6settembre #Cesena
Alcune parole chiave: Sovranità, Culture politiche, Asilo, Partecipazione, Partiti, Conflitto di interessi, Leggi elettorali, Senza vincolo di mandato, Governo, Antifascismo, Modificare la Costituzione
Associazione Benigno Zaccagnini Cesena
giovedì 6 settembre 2018 ore 17.30
Aula Magna Biblioteca Malatestiana CesenaGianfranco Pasquino
La Costituzione è ancora il Patto fondamentale
che lega tutti i cittadini e le Istituzioni?
Il crollo di un progetto velleitario
Nel 2007 ero da dieci anni iscritto ai DS (Democratici di Sinistra), l’unico partito di cui ho mai preso la tessera. Quando iniziò la battaglia per portare i DS all’incontro con la Margherita con l’obiettivo di dare vita ad un Partito Democratico, “scesi in campo” a sostegno della Mozione 3 che suggeriva di procedere lentamente attraverso una prima fase federativa. Andai un po’ dappertutto, accolto con molta sufficienza, a esporre le tesi della Mozione 3. Mi recai anche nel più grande, dal punto di vista degli iscritti, dei Circoli dei DS a Pesaro. Dopo i tre classici interventi: una giovane donna per la Mozione 1; un sindacalista per la Mozione 2; un Prof per la 3, i giovani DS mi offrirono da bere. Tre di loro, sugli otto componenti della segretaria, erano stati miei studenti di Scienza politica a Bologna. Vi ho convinti, chiesi, voterete per me? No, fu la risposta chiara inequivocabile immediata, “facciamo parte della segreteria del partito”.
Un po’ dappertutto facevo notare che la promessa di mettere insieme il meglio delle culture politiche riformiste del paese era molto velleitaria. Da un lato, le due maggiori culture politiche, quella comunista e quella cattolico-democratica, si erano esaurite, sconfitte dalla storia e dalla pratica; dall’altro, una vera cultura politica riformista, quella socialista, non era neppure stata invitata. Nel tripudio di discorsi e di lacrime a Campo di Marte alla fine di un tiepido aprile 2017 si consumò il congresso di chiusura dei DS con un lunghissimo appassionato appello alle emozioni di Piero Fassino. E, per quel che conta, con la mia non adesione. Poi dal Lingotto cominciò la cavalcata di Walter Veltroni, “fusosi” a freddo con Dario Franceschini, scelto come suo vicesegretario: ecco la contaminazione delle culture politiche! Narrando la nuova Italia che avrebbe costruito, invece di dire con quale partito nuovo avrebbe fatto tutte quelle belle cose, Veltroni si candidava, forse non del tutto consapevolmente, ma inevitabilmente, lo scrissi subito, alla carica di Presidente del Consiglio. Era la ricomparsa della classica sindrome democristiana: il segretario del partito sfidante naturale del capo del governo. A riprova, Prodi cadde pochi mesi dopo e Veltroni si lanciò a testa bassa nella nuova avventura: il partito a vocazione maggioritaria.
Fra vocazione maggioritaria e elezione di nuovi segretari, nessuno nel Partito Democratico ha mai neppure iniziato a riflettere sulla cultura politica di un partito di sinistra (?); riformista (?); progressista (?). Nulla dirò sulla cultura istituzionale la cui inadeguatezza si è rivelata tragicamente nelle riforme costituzionali e nella conduzione del referendum 2016. Adesso, qualcuno, Carlo Calenda, sostiene che bisogna andare oltre il PD, un partito mai consolidatosi. Qualcun’altro, Maurizio Martina, risponde che è necessario un “ripensamento complessivo” di un pensiero che non si è mai espresso, di una cultura politica che non si è mai formata, attraverso “scuole di politica” che sono per lo più state “passerelle per politici”. Non dovrebbe essere difficile andare oltre un partito che non è mai stato tale. Sarà difficilissimo farlo, forse impossibile, se il ripensamento verrà affidato a uomini e donne del cui pensiero politico è più che lecito dubitare.
Pubblicato il 26 giugno 2018 su larivistaILMULINO