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La fragilità dei partiti danneggia le democrazie @La_Lettura #vivalaLettura

Nelle democrazie si vota. Liberamente. Per eleggere assemblee, parlamenti, Presidenti. Tutte le cariche elettive hanno limiti temporali entro i quali debbono essere periodicamente rinnovate. Chi ha vinto sa che entro un certo numero di anni dovrà ripresentarsi agli elettori. Chi ha perso sa entro quando potrebbe ottenere la rivincita. Tutti i rappresentanti e i governanti sono consapevoli di avere un certo periodo di tempo per mettere all’opera le loro capacità e attuare quello che hanno promesso agli elettori. Cercheranno di giungere alle nuove elezioni nelle migliori condizioni possibili. Alcuni tenteranno di mascherare la loro inadeguatezza politica e personale ingaggiando una campagna elettorale permanente a colpi di slogan ad effetto. Altri mireranno a sopravvivere galleggiando fino al tempo del voto. Da qualche tempo, però, in alcune democrazie rappresentanti e governanti sono costretti con inusitata frequenza a tornare di fronte agli elettori. Le assemblee elettive non riescono a produrre maggioranze in grado di formare un governo. Come conseguenza, quelle assemblee vengono sciolte prima della loro scadenza naturale e gli elettori sono ripetutamente chiamati a votare. La soluzione che politici e parlamentari non riescono a trovare viene affidata agli elettori, al popolo sovrano, persino più spesso di quanto quel popolo desidererebbe.

Da qualsiasi prospettiva lo si guardi, il fenomeno di elezioni frequentemente ripetute perché non risolutive costituisce un problema politico. Di tanto in tanto qualcuno ricorda allarmato che nella Repubblica di Weimar le frequenti elezioni anticipate furono la premessa del collasso, ma il riferimento è superficiale, male impostato, non tiene conto di condizioni nazionali e internazionali drasticamente differenti. Tuttavia, le tornate elettorali democratiche che si susseguono a poca distanza di tempo meritano attenzione. Anzitutto, bisogna evitare le esagerazioni. Delle ventotto democrazie dell’Unione Europea (nella quale ancora mantengo a fini analitici la Gran Bretagna) soltanto quattro, Austria, Grecia, Spagna e, appunto, Gran Bretagna hanno avuto in anni recenti legislature troncate e elezioni ripetute a distanza di poco tempo. Guardando fuori d’Europa, possiamo aggiungere il caso di Israele nel quale fra l’aprile 2019 e il marzo 2020 gli elettori finiranno per avere votato tre volte in meno di un anno. Dal canto loro, in meno di dieci anni i greci hanno votato ben cinque volte, ma in un arco temporale più lungo dal maggio 2012 al luglio 2019, per due volte nello stesso anno: maggio e giugno 2012 e gennaio e settembre 2015. È stato Tsipras l’unico a guidare il governo per quasi tutta una legislatura dal settembre 2015 al luglio 2019.

In Austria l’instabilità è risultata contenuta: due elezioni fra l’ottobre 2017 e il settembre 2019. La Gran Bretagna, che molti giustamente considerano la madre di tutte le democrazie parlamentari lodandone la stabilità e l’efficacia dei governi, è precipitata in un vortice che ha visto dal maggio 2015 al dicembre 2019 tre elezioni generali più il fatidico referendum del giugno 2016, il padre di tutti i pasticci successivi. Evidentemente, non è il sistema elettorale maggioritario a produrre e garantire la stabilità dei governi. Come sosteneva e più volte scrisse Giovanni Sartori, è la solidità dei partiti che conta in maniera decisiva per la formazione di governi stabili e operativi. Infine, la Spagna, nel corso di più di trent’anni esemplare democrazia con governi stabili, competizione bipolare e alternanza, ha votato quattro volte fra il dicembre 2015 e il novembre 2019. A fronte di questo ritratto, la tanto vituperata Italia, con i suoi conflitti, le sue tensioni, le sue persistenti difficoltà, dimostra che, se non tutto, molto può essere ricomposto in Parlamento (sì, anche con i cosiddetti “ribaltoni” ovvero i legittimi cambi di maggioranze) senza ricorrere a ripetute elezioni che “logorano” le istituzioni oltre che la pazienza politica degli elettori.

Per ciascuno dei paesi che hanno sperimentato numerose e ravvicinate consultazioni elettorali è possibile individuare motivazioni specifiche non generalizzabili. La più evidente delle motivazioni specifiche la offre Israele: è la sconfinata ambizione di Netanyahu che ha bloccato qualsiasi alternativa nella Knesset e condotto alla sequenza di elezioni anticipate. È altresì possibile sostenere che quanto il Regno Unito ha sperimentato è la conseguenza di clamorosi errori del Premier Conservatore David Cameron. Preferisco, però, andare alla ricerca di fattori che servano non solo a spiegare quanto è già accaduto, ma anche a fornire elementi utili per prevedere quanto potrebbe accadere sia in Italia sia in altre democrazie occidentali. La chiave di volta delle difficoltà di formare i governi, mai automaticamente risolte da rinnovate elezioni, è costituita dalla frammentazione dei partiti e dei sistemi di partito. La conseguenza immediata di questa frammentazione è che, per formare il governo, diventa necessario includere più partiti e che il partito maggiore, il coalition-maker, raramente è molto più grande dei potenziali alleati. Quindi, non può e non riesce a imporre le sue condizioni. Deve negoziare a lungo, in paesi nei quali, come in Grecia e in Spagna, manca quella che Roberto Ruffilli auspicò si affermasse e affinasse anche in Italia: una cultura della coalizione. e quando ritiene di non potere più (con)cedere preferisce il ritorno in tempi brevi alle elezioni.

In Israele il declino dei partiti maggiori ha una storia molto lunga che ha prima condotto alla scomparsa dei laburisti, poi, di recente, alla diminuzione dei consensi per il partito ufficiale della destra, il Likud. Altrove, Grecia e Spagna, gli sviluppi sono stati drammatici. In entrambi i casi, i due partiti maggiori emersi con la transizione alla democrazia e positivamente responsabili per la sua affermazione, sono entrati in un declino elettorale che, in Grecia, ha prodotto la quasi scomparsa dei socialisti del Pasok e, in Spagna, ha notevolmente ridimensionato sia i Popolari sia i Socialisti. Da sistemi politici nei quali la dinamica era bipolare imperniata su un partito molto grande per voti e per seggi, Grecia e Spagna sono diventati sistemi partitici multipartitici nei quali per dare vita a un governo è imperativo formare coalizioni anche larghe. Naturalmente, i partiti che organizzano il loro consenso e danno rappresentanza sono espressione delle mutate preferenze politiche e sociali. Israele quasi da sempre, Grecia e Spagna di recente sono società frammentate per governare le quali sono largamente preferibili, spesso assolutamente necessari governi di coalizioni multipartitiche. In queste coalizioni, talvolta c’è un partito piccolo, ma numericamente decisivo che, ha scritto Sartori, ha “potere di ricatto”. Alcuni partiti piccoli, ma indispensabili, tentano di ampliare il loro consenso attraverso nuove elezioni che, però, raramente, producono esiti risolutivi. Costruire coalizioni coese in molte democrazie parlamentari, ricorderò che l’attuale Grande Coalizione tedesca nacque nel marzo 2018 dopo un negoziato durato all’incirca tre mesi, è diventata una fatica di Sisifo. Ma, chi ha mai sostenuto che governare le democrazie è facile?

Pubblicato il 12 gennaio 2020 su la Lettura – Corriere della Sera

Paradossi della Brexit infinita

Quando il Primo ministro conservatore inglese David Cameron decise inopinatamente di sottoporre a referendum nel giugno 2016 la permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea, non era affatto interessato all’opinione del “popolo britannico”. Piuttosto, era convinto di ottenere un successo relativamente facile per la sua opzione blandamente preferita, malamente argomentata,  “Remain” in questo modo sconfiggendo ed emarginando i suoi oppositori dentro il Partito Conservatore. La vittoria dei Brexiters, ovvero dell’opzione “Leave”, pose giustamente, democraticamente fine alla sua carriera politica. La non irresistibile ascesa di Theresa May alla carica di leader del Partito conservatore e di conseguenza di Primo ministro le ha consegnato l’arduo compito di negoziare, applicando l’art. 50 del Trattato di Lisbona, i termini della separazione fra Regno (apparentemente) Unito e Unione Europea. Che l’accordo, il deal, possa essere soft, ovvero mantenga molti dei legami attualmente intercorrenti, oppure, hard, una rottura secca e netta, è oggetto di contesa che si spinge fino alla possibilità di nessun accordo, no deal. Gli scozzesi e i nordirlandesi che hanno votato per rimanere si attendono, nel peggiore dei casi, un accordo soft.

La Londra cosmopolita, degli affari (sì, contano anche le banche e le attività economiche e imprenditoriali) e della cultura che, ugualmente, ha votato Remain, fortemente desidera un accordo che mantenga molti dei legami con l’Unione Europea, ma finora non ha saputo come argomentare una posizione tale da incidere effettivamente sui negoziati con la decisione finale più volte procrastinata. Nel frattempo, sta giungendo a termine anche la carriera politica della Signora May che ha preannunciato le sue dimissioni non appena un accordo, qualsiasi accordo, sarà raggiunto. Il neanche troppo assordante silenzio del leader laburista Jeremy Corbyn non dipende da nessuna convinzione particolare e da nessuna motivazione nobile (per esempio, non interferire sui negoziati del Primo Ministro con l’UE), ma dalla sua aspettativa che le dimissioni di Theresa May gli aprirebbero la strada ad una insperata vittoria elettorale e all’agognato ingresso al n. 10 di Downing Street (abitazione del Primo ministro). Quindi, Corbyn agisce, anzi, non fa nulla, in maniera del tutto opportunistica.

Che cosa ci narra la Brexit della democrazia inglese, vale a dire della madre di tutte le democrazie (in specie di quelle parlamentari) e, più in generale, delle democrazie contemporanee? Quali lezioni, lasciando da parte la difficoltà di uscire dall’UE volendo rimanerne aggrappati ai vantaggi che l’appartenenza all’UE offre a tutti gli Stati-membri, imparte la Brexit? La prima, vi ho già accennato, è una lezione confortante. Talvolta i leader opportunisti non la fanno franca, non riescono a filarsela all’inglese. In democrazia chi sbaglia, Cameron e May, paga. La seconda lezione è di più difficile esplicazione e comprensione. A sbagliare potrebbero essere stati gli elettori, perché sì anche gli elettori sbagliano: quelli che non sono interessati alla politica e si mobilitano su emozioni e non su opinioni, quelli che non hanno (acquisito) abbastanza informazioni, quelli che non partecipano (non votano) lasciando agli altri elettori il potere di decidere su chi e su che cosa. La terza lezione è che su materie complesse, come quella dell’appartenenza all’UE o della fuoruscita il referendum è uno strumento da usare soltanto dopo un dibattito il più ampio possibile fra politici e cittadini, fra società politica e società civile, dibattito che Cameron non ha saputo e non ha voluto promuovere.

Democrazia referendaria diretta contro democrazia parlamentare rappresentativa? I referendum sono strumenti rarissimamente utilizzati nel Regno Unito, ma vero è che l’ingresso nell’allora Comunità Europea nel 1975 avvenne attraverso un referendum promosso dall’allora Primo ministro laburista Harold Wilson. Nel Regno Unito la sovranità appartiene al popolo (per usare l’espressione dell’articolo 1 della Costituzione italiana) che la delega periodicamente al Parlamento. Saranno i rappresentanti eletti a Westminster a tradurre quella sovranità in comportamenti e decisioni, ciascuno/a di loro poi spiegando quel che ha fatto, non ha fatto, ha fatto male, agli elettori del suo collegio uninominale. Nulla osta, quindi, che la Camera dei Comuni decida di procedere ad un altro referendum. Non un referendum per contrapporre i vincenti del 2016 agli elettori del 2019 (a questo punto quasi sicuramente in possesso di maggiori conoscenze), ma per offrire un’alternativa fra l’accordo eventualmente raggiunto (Deal) e il ritorno (Re-enter) nell’Unione Europea. Complicato, ma non traumatico. Infatti, la democrazia è l’unica “situazione” che consente di cambiare idea assecondando le (nuove) preferenze degli elettori, ah, già, del popolo (che ha e mantiene il diritto di cambiare idea, opinione, voto) e traducendole in quello che quel popolo preferisce.

Pubblicato il 15 aprile 2019 su PARADOXAforum

Continuiamo a combattere, per quanto morbosi siano i tempi #SintomiMorbosi” di Donald Sassoon

“La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati”. Donald Sassoon, professore emerito di Storia Europea Comparata alla Queen Mary University di Londra, ha scelto questa molto nota frase di Gramsci come l’epigrafe del suo più recente libro (Sintomi morbosi, Milano, Garzanti 2019, pp. 322). Il sottotitolo: Nella nostra storia di ieri i segnali della crisi di oggi, mi pare poco appropriato poiché, in effetti, ieri , vale a dire, tanto nel lungo dopoguerra di sviluppo, di miracoli economici, di costruzione dell’Unione Europea quanto nel periodo immediatamente successivo alla caduta di Berlino e, quindi, alla democratizzazione dell’Europa centro-orientale, le cose non sono poi andate così male. Le tre sfide problematiche annunciate dalla fascetta del libro: nazionalismo, immigrazione, populismo sono davvero fenomeni dell’oggi. È qui, infatti, che situerei i sintomi morbosi brillantemente evidenziati e spesso sarcasticamente stigmatizzati dall’autore. Peraltro, Sassoon scoraggia subito qualsiasi tentativo di comparazione dei nostri anni con un eventuale ritorno del fascismo né vecchio, che in molti luoghi non è morto e mantiene tracce, né nuovo che non riesce a rinascere compiutamente.

Purtroppo, il vecchio che sta morendo è probabilmente la più grande conquista dell’Europa occidentale nel corso della sua storia: lo Stato sociale diventato economicamente insostenibile e politicamente sfidato con persin troppo successo dal neo-liberalismo. C’è anche un vecchio che rinasce e avanza: una miscela fastidiosa e pericolosa di xenofobia, antisemitismo compreso, e di nazionalismo, che neppure il processo di unificazione politica dell’Europa è riuscito a mettere sotto controllo. Al proposito, Sassoon si esercita in severe critiche a quelle che chiama “narrazioni europee” fino a porre l’interrogativo cruciale: L’Europa implode? “… il progetto europeo non è riuscito a conquistare i cuori e le menti di molti. Per diventare centrale nella vita politica, in effetti, l’Unione Europea avrebbe bisogno di maggiori poteri, che non potrà mai avere senza il sostegno degli europei, che non glielo daranno prima che l’Unione abbia conquistato i loro cuori e le loro menti: ecco il palese circolo vizioso in cui si trova l’Unione Europea” (p. 241). Opportunamente, Sassoon mette in evidenza che “gli europei sanno poco gli uni degli altri. … L’unico paese che ciascun cittadino europeo conosce meglio di tutti gli altri sono gli Stati Uniti” (p. 247). Creata intorno alla decisione di sfruttare al meglio le risorse economiche, secondo Sassoon, l’Europa ha sì fatto grandi passi economici avanti, ma attraverso notevoli squilibri cosicché “solo quando il gap economico tra i paesi più avanzati e i ritardatari si sarà ristretto potrà esserci un’Europa sociale più equilibrata. Quel giorno è lontano” (p. 250).

L’altro vecchio che sta morendo e in qualche caso, nella maniera più evidente in Italia, è effettivamente scomparso è un sistema di partiti relativamente stabili, rappresentativi, efficienti. Molto brillantemente Sassoon offre al lettore un excursus sui sistemi di partiti europei evidenziando la comparsa di partiti xenofobi e populisti un po’ ovunque sul territorio europeo e, in particolare, l’indebolimento della socialdemocrazia “tradizionale”. Se, come sostiene, a mio modo di vedere, in maniera molto convincente, una corrente di pensiero politologico, i partiti nascono con la democrazia e le democrazie sono inconcepibili senza i partiti, allora se i vecchi partiti muoiono e i nuovi sono oscuri grumi di xenofobia, nazionalismo, neo-nazismo, le preoccupazioni per le sorti dei diversi sistemi politici democratici non possono che essere enormi.

Fra i morituri Sassoon colloca, se ho capito bene, con qualche riserva, anche l’egemonia americana. Nel passato, “in realtà nessuno ha mai ‘guidato il mondo” e i poteri egemoni lo erano, al massimo, in una regione determinata” (p. 193). Inoltre, l’egemonia richiede leadership politiche all’altezza e Sassoon ritiene che nessuno dei Presidenti USA del dopoguerra abbia avuto le qualità necessarie. “Kennedy fu un presidente di notevole incompetenza” e “Eisenhower … fu un mediocre presidente” (p. 201). Lyndon Johnson fu un disastro in politica estera. “Ultimo, ma non meno importante in questa triste sequela [di incompetenti, in particolare in politica estera], è Donald Trump, che non capisce nemmeno i limiti del potere presidenziale e resterà uno zimbello universale a meno che non scateni la terza guerra mondiale” [eccolo il pericolo adombrato da Papa Bergoglio] (p. 207). Talvolta nel suo irrefrenabile slancio critico, Sassoon va forse troppo in là. Per esempio, quando afferma “gli interventi militari americani, quasi tutti inutili dal punto di vista dell’interesse nazionale del paese, si sono risolti quasi sempre … in disastri” (p. 210), dimentica, credo sbagliando, i due interventi decisivi nella Prima e nella Seconda Guerra Mondiale.

Lungo tutto il libro corrono valutazioni durissime e senza sconti ai leader, capi di governo, Presidenti di Repubbliche, ministri di un po’ tutti i paesi. Prevalentemente ignorati, gli unici che se la cavano sono i comunisti cinesi. Per quel che riguarda l’Europa si salva,ovvero Sassoon salva, Jeremy Corbyn che finisce per essere l’unico lodato non soltanto in quanto persona di principi, ma anche per le sue proposte che si collocano in una versione moderata di socialdemocrazia. Naturalmente, al suo confronto, tutti i leader inglesi dai laburisti Tony Blair e Gordon Brown, ma anche Ed Miliband, ai Conservatori, in particolare David Cameron e Theresa May, e soprattutto l’ex-sindaco di Londra e ex-ministro degli Esteri, il Brexiter Boris Johnson (un “buffone”) fanno una figura pessima che non è finita proprio perché la Gran Bretagna continua a sprofondare nella confusissima liquidissima Brexit e non si sa quando e quanto tristemente e costosamente ne emergerà. Fatto un lungo elenco di vecchi leader che ritiene grandi, fra i quali, obietto fortemente all’inclusione di Giulio Andreotti in una compagnia che va da Willy Brandt e Felipe Gonzalez a Helmut Kohl e François Mitterrand, mentre mi spiace di non scorgere Alcide De Gasperi, Sassoon ne trae una considerazione condivisibile: “bisognerebbe dedicare più tempo a esaminare come mai la qualità del personale politico in Occidente sia tanto scaduta”e una valutazione durissima e centrata: “questa è un’epoca di pigmei che dei giganti non hanno alcuna memoria” (p. 240).

Giunto alle ultime pagine di questo libro spumeggiante e stimolante mi sono ritrovato con un interrogativo giustificato anche dalla citazione fatta da Sassoon di un giornalista inglese: “L’ordine internazionale globale sta crollando in parte perché non soddisfa i membri della nostra società” (p. 282). Confesso (mi pare il verbo più appropriato) che i pontefici non sono i miei politologi di riferimento. Papa Bergoglio non fa eccezione neppure quando annuncia, come se fosse un esperto di relazioni internazionali, che “siamo entrati nella Terza guerra mondiale, solo che si combatte a pezzetti, a capitoli”. Sassoon dà pochissimo spazio, quasi nullo ai rapporti fra gli Stati. Però, la sua valutazione della mediocrità, del narcisismo, dell’ignoranza dei dirigenti politici contemporanei fa temere che fra i “sintomi morbosi” si annidi anche quello che potrebbe inopinatamente portare per futili motivi ad un conflitto devastante dal quale non riesco proprio a intravedere quale “nuovo” farebbe la sua comparsa. Comunque, accetto l’invito conclusivo, fra il Sessantottismo francese e l’attualissimo gramscismo, di Sassoon: “continuiamo a combattere, per quanto morbosi siano i tempi” (p.283).

Pubblicato il 19 marzo 2019 su casadellacultura.it

Sotto il Lingotto, niente

Il ritorno di Renzi alla kermesse torinese e il vuoto programmatico del Pd

Però, no, non sono disposto a “perdonare” coloro che stanno andando all’elezione del segretario di un partito senza dire nulla su che tipo di partito desiderano, se quei candidati abbiano un’idea di partito, se la democrazia italiana abbia o no bisogno di partiti organizzati, di un sistema di partiti decentemente strutturato e di una sana competizione, non collusione, fra coalizioni di partiti. No, il segretario dimissionario Matteo Renzi non deve affatto delineare in questa fase un programma di governo neppure se, come è giusto e opportuno, intende poi, ma solo poi, essere il candidato del suo partito alla carica di capo del governo. A quella carica, infatti, potrà ambire e pervenire proprio in quanto segretario del partito. Aggiungo che logica vorrebbe che, persa la carica di capo del governo, il segretario lasciasse definitivamente la carica di capo del partito, come avviene ed è avvenuto in tutti i casi europei (David Cameron, giugno 2016, è l’ultimo in ordine di tempo) ai quali, selettivamente, Renzi e i renziani fanno riferimento. Le tre grandi sconfitte subite da Renzi, elezioni amministrative del giugno 2016, referendum del dicembre 2016, scissione del marzo 2017, hanno poco a che vedere, con il governo, ma moltissimo sono dipese proprio dal partito, dalla sua gestione dell’organizzazione del PD, della sua presenza sul territorio, della valorizzazione del personale politico democratico che non è fatto, come ha sostenuto Renzi, né da eredi né da reduci, ma da persone che desiderano fare politica per perseguire obiettivi di miglioramento della vita dei loro concittadini e della qualità della democrazia. Fare politica non contro coloro che non la pensano come loro e come il loro segretario, che, comunque, non debbono essere né emarginati né irrisi, ma convinti, bensì a favore di cambiamenti che vengono argomentati in maniera tanto più rigorosa (non necessariamente vigorosa fino all’insulto) quanto più sono controversi.

Il ruolo degli iscritti, le modalità di funzionamento degli organismi, locali: i circoli, e nazionali: l’Assemblea e la Direzione (forse anche la segreteria e la sua composizione), i criteri di selezione e di promozione, il reclutamento dei rappresentanti nelle assemblee elettive, non da ultimo per la Camera dei deputati e per il Senato (essendo alquanto obbrobrioso il sistema dei capilista bloccati) sono tutti elementi di cruciale importanza per coloro che si candidino alla guida di un partito, soprattutto se quegli elementi, ciascuno e tutti, sono stati negletti o piegati agli interessi e alle ambizioni di un uomo, non proprio solo, ma, sicuramente e provatamente male accompagnato. Non c’è stata quasi nessuna discussione in materia. Non s’è udita, non dico nessuna autocritica (affari del candidato e dei suoi sostenitori), ma praticamente nessuna riflessione su quanto la trascuratezza del partito come associazione di uomini e donne che perseguono fini condivisi abbia pesato sugli insuccessi.

Nell’ultimo triennio in alcune episodiche circostanze hanno fatto capolino, seppure regolarmente in maniera tanto impropria quanto confusa, tre, forse quattro, modelli di partito. Il modello del partito di centrosinistra a vocazione maggioritaria è stato il modello iniziale, mal formulato e rapidamente disatteso. Gli è rapidamente subentrato il modello del Partito della Nazione che mirava ad occupare il centro e non a trovare alleati, ma ad assorbirli, inglobarli, fino a considerare nemici (della nazione) tutti coloro che non convergessero, ovviamente in maniera subalterna. Il terzo modello, non propriamente di partito, forse mai compiutamente delineato, ma oggetto di culto dei prodiani rimasti in politica, è stato quello dell’Ulivo, irripetibile e inimitabile da chi, trattando con le associazioni, proponeva la prassi della disintermediazione. Innegabile cardine dell’Ulivo delle origini fu, invece, proprio l’offerta di riconoscimento e di inclusione fatta alla società civile e alle sue associazioni per dare ampia rappresentanza e per riequilibrare il peso dei professionisti della politica (che è esattamente e comprensibilmente l’elemento che non piacque a Massimo D’Alema).

Infine, non solo chi ha vissuto l’epoca della competizione e della selezione sulla base di competenze e esperienze, non della rottamazione fondata sull’età e sull’ostilità, ha anche visto (e potuto studiare)la possibilità di un quarto modello, quello della sinistra plurale. La differenziazione inevitabile degli schieramenti di sinistra un po’ in tutta Europa (ma Hillary Clinton e Bernie Sanders dicono che qualcosa di molto simile caratterizza i Democratici negli USA) richiede che donne e uomini di sinistra accettino le loro diversità e cerchino di ricomporle in un campo ampio, non recintato, in costante trasformazione. La sinistra plurale è essa stessa luogo di alleanze che richiede un coordinatore in grado di conversare con tutte le componenti e di trovare di volta in volta il punto di equilibrio più avanzato non per opera di un uomo solo al comando, ma di qualcuno che si mette all’ascolto e alla ricerca sincera dell’accordo. Al Lingotto, niente di tutto questo.

Pubblicato il 13 marzo 2017