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La rivista di un tempo che fu #Mondoperaio

Pubblicato in “Mondoperaio”, dicembre 2018 (pp. 39-42)

Quando un partito smette di elaborare idee, la sua funzione complessiva praticamente si esaurisce. A riprova, i partiti-non partiti italiani contemporanei, da qualche tempo privi di qualsiasi elaborazione culturale, si aggrappano a brandelli di potere, a Fondazioni e a oscure piattaforme soltanto per stare a galla. Non dipende solo dal fatto che nessun non-partito può permettersi una (non)scuola di partito. È che i protagonisti della scena politico-parlamentare italiana non hanno nessuna cultura politica, nessuna idea politica guida da trasmettere. Non faccio eccezione neanche per il Movimento Cinque Stelle poiché nessuna delle loro esperienze Meet up e altro ha il compito di formare una cultura politica. Forse, ma è un suggerimento al limite dell’oltraggio, invece di affidarsi alla Piattaforma Rousseau, potrebbero leggere sia Rousseau sia qualche altro illuminista. Questa breve digressione è necessaria per affermare un principio fondativo. Le idee vanno elaborate con riferimento alla visione della società che si desidera costruire, per negazione e per affermazione, ma anche nello scontro politico, nella orgogliosa rivendicazione di identità e di autonomia. Nella Repubblica italiana le riviste in qualche modo, con poche eccezioni, collegate ai partiti, sono state il luogo preminente di elaborazione politica. Senza dubbio “Mondoperaio” ha occupato, seppur con alti e bassi, un posto di rilievo fra le riviste di cultura politica. La sua storia e la sua incidenza non possono essere ridotte unicamente al conflitto con i comunisti, dotati di un considerevole apparato di strumenti di comunicazione politica. Mi limito a segnalare il settimanale “Rinascita” e il trimestrale “Critica marxista”, più tardi anche “Democrazia e diritto”. Quando sia il PSI sia “Mondoperaio” si “arrotolarono” intorno a Craxi, ho iniziato a collaborare su loro richiesta con notevole frequenza tanto a “Rinascita” quanto a “Democrazia e diritto”. Quando Covatta me lo chiederà potrei persino scrivere qualche nota comparata. La storia di “Mondoperaio” è anche quella di un partito che era convinto che gli intellettuali dovessero avere spazio di elaborazione e di intervento e che sapeva ascoltarli e, entro (in)certi limiti valorizzarli. L’elaborazione e la valorizzazione non poterono più continuare quando Craxi recuperò Proudhon (si noti che ho evitato il verbo riesumare), con il quale non era sicuramente possibile andare verso il rinnovamento del socialismo. Infatti, da nessuna parte in Europa, tantomeno in Francia, si guardò a Proudhon (per una discussione approfondita di quel recupero, delle sue motivazioni e delle sue conseguenze utilissimo è il volume curato da Giovanni Scirocco, Il vangelo socialista. Rinnovare la cultura del socialismo italiano, Torino, Nino Aragno Editore, 2018, che riporta il testo di Craxi e il carteggio fra un socialista milanese Virgilio Dagnino e Luciano Pellicani).

Non è banale iniziare sottolineando che certamente e inevitabilmente il contrasto con le idee comuniste e con le prassi del PCI, non riducibile esclusivamente alla giusta e doverosa, quanto difficile, ricerca da parte del PSI di maggiore spazio politico, fu frequente e rilevante sulle pagine di ”Mondoperaio”. Tuttavia, soprattutto, sotto la direzione di Federico Coen, nei difficili anni settanta, quando il PSI toccò il punto più basso del suo consenso elettorale e della sua presenza culturale, fu “Mondoperaio” a tentare e sostenere un’ambiziosa operazione di rilancio e di formulazione di una moderna culturale politica. Giusto fu ingaggiare quello che Amato e Cafagna definirono Duello a sinistra: socialisti e comunisti nei lunghi anni ‘settanta (Bologna, Il Mulino, 1982). Giusta, ma forse non sufficiente, fu l’attenzione ai socialisti spagnoli, portoghesi e del PASOK: l’ascesa del socialismo mediterraneo conteneva insegnamenti che non abbiamo sfruttato adeguatamente. Giusto fu anche prendere ispirazione da François Mitterrand che si era proposto di erodere il consenso del Partito comunista francese (non solo filo-sovietico, ma sostanzialmente ancora stalinista), al tempo stesso, però, cercando di ampliare l’area complessiva della sinistra. Troppi, invece, pensarono, alcuni anche sulle pagine di “Mondoperaio”, che sarebbe stato sufficiente, sottovalutandone l’enorme difficoltà e la grande improbabilità, un travaso di elettori dal PCI, “esploso” quantitativamente grazie alla sua proposta di compromesso storico della quale per qualche tempo era rimasto prigioniero, per poi entrare in grande confusione strategica orientato a una mai meglio definita “alternativa democratica” (forse, percependosi, autocriticamente, ma ci vorrebbe uno psicanalista lacaniano, sì come alternativa, ma non proprio/non del tutto “democratica”?).

Perdere voti, come successe per tutti gli anni ottanta, non sarebbe bastato al PCI per cambiare linea. Aveva, naturalmente, ragione Norberto Bobbio, e doppiamente. Primo, bisognava dialogare con i comunisti e persuaderli a “socialdemocratizzarsi” (Quale socialismo? Discussione di un’alternativa, Torino, Einaudi, 1976), ma neppure Bobbio andò a fondo su questa auspicabile trasformazione, anteponendole la davvero complessa formazione di un partito unico dei lavoratori. Secondo, era indispensabile ripensare la sinistra. Qui si colloca un mio personale “coming out”. Dall’inizio degli anni settanta mi trovavo proprio lì: fra il PSI di De Martino, e il PCI di Berlinguer per due ragioni. Ero, prima ragione, analiticamente e politicamente convinto che bisognasse costruire una alternativa alla DC attraverso un’alleanza fra PSI e PCI entrambi trasformati. Seconda ragione, pensavo che, sfidato e portato sul piano dell’alternativa, il PCI sarebbe stato costretto a abbandonare la sua linea pro-sovietica diventando un plausibile partito di governo. Nel 1976 e 1979 fui molto lieto quando il PCI candidò e fece eleggere Altiero Spinelli al Parlamento Europeo, ma non bastava. Lo dirò meglio, ma anche più ingenuamente: ero schierato sulla frontiera dell’scelta di sinistra. Quella frontiera si poté allora, per cinque–sei anni, difendere e fare avanzare con qualche prospettiva, seppur non grande, di successo scrivendo, dialogando, polemizzando, elaborando idee sulle pagine di “Mondoperaio”. Senza nessun pentimento da allora sono stato un compagno di strada, promiscuo, disposto a fare tutta la strada necessaria in compagnia di coloro che volessero e operassero per l’alternativa. Oggi, la strada appare tutta in salita, qualcuno è giunto alla conclusione che in cima non c’è neppure più l’alternativa. Sostengo, l’ho letto da qualche parte (probabilmente nelle pregevoli memorie di Sisifo) che quello che conta è il viaggio, ovviamente fatto in buona compagnia. In quegli anni, la compagnia dei collaboratori di “Mondoperaio” era probabilmente la migliore trovabile in Italia. Poi si è dispersa e alcuni hanno preso una strada che non potevo percorrere se volevo, e lo volevo, restare fedele alla mia certa idea di “alternativa di sinistra”.

Furono numerosi gli articoli pubblicati su “Mondoperaio” intesi a cogliere l’essenza della sinistra vincente di Mitterrand: plurale, federata, con forte presenza sul territorio, dotato di una cultura politica moderna, capace di attrarre e di valorizzare un non piccolo mondo intellettuale e di grands commis. Anche il sistema istituzionale della Quinta Repubblica francese, semi-presidenzialismo e legge elettorale a doppio turno contribuì significativamente al successo di Mitterrand (“le istituzioni della Quinta Repubblica non sono state fatte per me, ma me ne servirò”–cito a memoria la sua dichiarazione subito dopo la prima elezione alla Presidenza nel 1981). Alla Francia guardò l’allora già molto autorevole collaboratore della rivista Giuliano Amato, com’è facile notare rileggendo il suo libro: Una Repubblica riformare (Bologna, Il Mulino, 1980). Vi fece riferimento esplicito anche Giuseppe Tamburrano, Perché solo in Italia no (Roma-Bari, Laterza, 1983). Per quanto non sempre con la precisione necessaria –infatti, tuttora, non sono pochi coloro che accomunano, sbagliando alla grande, il presidenzialismo USA al semipresidenzialismo francese e non sanno cogliere le grandi opportunità politiche, non solo elettorali, del doppio turno in collegi uninominali, i socialisti e “Mondoperaio” posero la questione istituzionale al centro del dibattito. Sottolineo qui la centralità del doppio turno in collegi uninominali (nulla a che vedere con l’Italicum) nel consentire, anzi , imporre a socialisti e comunisti francesi di giungere ad accordi al primo o, molto più frequentemente, al secondo, turno, ma aggiungo che, come congegnato in Francia, il doppio turno per le elezioni parlamentari offre grandi opportunità ai (candidati dei) partiti non estremi, garantendo anche un ruolo insostituibile, quindi da premiare ai (candidati dei) partiti estremi disposti a formare coalizioni. Purtroppo, l’azione dei parlamentari socialisti nella Commissione per le riforme istituzionali (novembre 1983-febbraio 1985) presieduta da Aldo Bozzi, non andò affatto in direzione “francese”.

Le parole di oggi, ancorché alquanto appannate, democrazia maggioritaria, bipolare, alternanza, hanno radici in quel dibattito, in quegli anni, sulle pagine di quella rivista. Il compromesso storico non aveva nulla a che vedere con la prospettiva che sarebbe poi stata, non proprio felicemente, definita “compiuta” (quasi per definizione le democrazie non sono mai “compiute”, ma sempre in progress). Negava la prospettiva dell’alternanza, serviva, forse, a entrambi i potenziali contraenti, PCI e DC, per mantenere le loro rendite d’opposizione e di posizione piuttosto che per affrontare il loro rinnovamento, di persone e di idee. Non avrebbe mai condotto l’Italia nell’ambito delle democrazie dell’Europa occidentale e meno che mai nel solco delle socialdemocrazie. Nient’affatto auspicato, ma anzi spesso violentemente contrastato, l’esito socialdemocratico era il più temuto dai comunisti che ripetevano il loro mantra: le socialdemocrazie non hanno cambiato il capitalismo, le socialdemocrazie sono in crisi, le socialdemocrazie sono superate. Se ben ricordo, però, né il percorso né l’esito socialdemocratico furono difesi con molto vigore da tutti sulle pagine di “Mondoperaio”. Non pochi collaboratori avevano e mostrarono riserve, a mio modo di vedere, allora e oggi, non nobili e sbagliate. È troppo facile ironizzare adesso sui comunisti che odiavano le socialdemocrazie e che hanno, prima, dato vita al Partito Democratico, poi sono diventati renziani, sostenendo riforme costituzionali che nulla avevano in comune con il progetto, per quanto vago, della Grande Riforma, ma è doveroso ricordarlo e farlo. Certo, diventato Presidente del Consiglio Bettino Craxi non sostenne più la sua idea del cambiamento della forma di governo (e anche il “Mondoperaio” di quella fase l’abbandonò). Qualsiasi alleanza di governo con la DC, temporanea e di lungo respiro, contraddiceva alla radice tutte le ipotesi di cambiamento costituzionale, istituzionale, elettorale. Bastò un solo referendum su una piccola clausola della legge elettorale proporzionale, vale a dire, la preferenza unica, per mandare gambe all’aria tutto il sistema dei partiti che aveva costruito e accompagnato la storia della Repubblica (dei partiti. Evoluzione e crisi di un sistema politico: 1945-1966, titolo di un fortunato libro di Pietro Scoppola, Bologna, Il Mulino, 1991, scoperta tardiva della partitocrazia quando declinava il potere democristiano che di quella partitocrazia era stato il perno determinante) e aprire un percorso di cambiamenti quasi esclusivamente elettorali, con poche e molto discutibili, comunque, inadeguate riforme istituzionali che non hanno nulla a che vedere con la Grande Riforma, pure suscettibili di interpretazioni e di attuazioni molto diverse.

Non è questo, adesso, il luogo per procedere ad approfondimenti e precisazioni sul tema generale “quale Costituzione” anche perché non ho affatto voglia di rincorrere tutti i molto loquaci e verbosi opportunisti, vale a dire coloro che hanno cambiato idea a seconda delle opportunità. Due riflessioni sono, però, indispensabili proprio alla luce di quanto “Mondoperaio” ha fatto e ha prospettato. La prima riflessione riguarda la persistenza delle problematiche di allora che, in condizioni attualmente molto più difficili, continuano a richiedere soluzioni. Lascerò da parte la questione dell’alternanza poiché, da un lato, di alternanze ne abbiamo avute molte, nessuna da manuale, vale a dire con una coalizione di governo che dura tutta la legislatura e viene sostituita da una coalizione diversa che per tutta la legislatura ha svolto il ruolo dell’opposizione. Incidentalmente, alternanze di questo tipo sono molto rare anche nelle altre democrazie occidentali. Per le necessarie informazioni mi permetto di rimandare ai saggi contenuti in G. Pasquino e M. Valbruzzi, a cura di, Il potere dell’alternanza. Teorie e ricerche sui cambi di governo, Bologna, Bononia University Press, 2011). Dall’altro lato, mi corre l’obbligo scientifico di sottolineare che, per esempio, Sartori non ha mai ritenuto, e lo ha scritto e ripetuto, che l’alternanza abbia virtù taumaturgiche tali da sanare i vizi dei partiti, dei loro dirigenti, dei governanti. Operare soltanto sulle condizioni dell’alternanza non migliora affatto il funzionamento del sistema politico. Non vorrei, però, che i lettori si buttassero al polo opposto e pensassero che una maggioranza di governo artificialmente gonfiata da un premio, più o meno cospicuo, di seggi, sia la soluzione auspicabile e produca automaticamente la cosiddetta “governabilità” a scapito della rappresentanza. Al contrario, meno rappresentanza non equivale affatto a più e migliore governabilità.

La seconda riflessione è a più vasto raggio. La mia interpretazione di quanto ha fatto “Mondoperaio”, specialmente quando fu diretto da Federico Coen, è quella di un tentativo forte di ridefinire, trasformare, modernizzare la cultura politica della sinistra, in particolare, sfidando i comunisti che la loro cultura politica non stavano affatto rinnovando, neppure con gli apporti di Gramsci (che fra i suoi pur grandi meriti non può sicuramente vantare quello di essere un teorico della democrazia né bipolare né compiuta ). Questa operazione, importante, degna di attenzione e di una valutazione complessivamente positiva, non è riuscita. Pertanto, rimane all’ordine del giorno. Invece, è successo che tutte le culture politiche italiane, a partire da quelle, la liberale, la cattolico-democratica, l’azionista, la socialista e la comunista, sono sostanzialmente scomparse (ho intitolato La scomparsa delle culture politiche in Italia, un fascicolo della rivista “Paradoxa”, Ottobre-Dicembre 2015,nella quale si trovano, fra gli altri, articoli di Giuliano Amato e Achille Occhetto, i quali non sorprendentemente solo in parte concordano con me).

Molte delle esigenze di allora, in particolare, da un lato, la costruzione di una democrazia decente, che non ha bisogno di altri aggettivi, dall’altro, la formazione di un partito di sinistra, permangono in condizioni molto più difficili. Quel partito di sinistra non è mai stato il Partito Democratico dal quale i socialisti si sono tenuti e sono stati tenuti lontani, quasi che il meglio delle culture riformiste del paese (nello slogan ripetuto fino alla noia dai Democratici e mai tradottosi in una qualsiasi cultura politica già largamente assente nell’Ulivo) potesse affermarsi escludendo proprio la cultura socialista (e qui, credo, che sarebbe opportuno rileggere la storia delle riforme del centro-sinistra), a sua volta, forse il meglio, gioco con le parole, non con la sostanza, delle culture politiche riformiste italiane. Naturalmente, mi si potrebbe obiettare che non sappiamo più neppure che cosa voglia dire sinistra. Dissento e sostengo che è tuttora possibile e fecondo definire sinistra lo schieramento che, da un lato, con riferimento a Bobbio, si batte a favore dell’eguaglianza o, se si preferisce, per ridurre, contenere, infine eliminare almeno le diseguaglianze di opportunità, dall’altro, protegge e promuove i diritti, quelli veramente tali, non le rivendicazioni, civili, politici e sociali. Vedo non poche coincidenze con le argomentazioni, pure non sistematiche, contenute negli articoli di “Mondoperaio” di quei tempi. Quello che, invece, non vedo è chi si stia attualmente impegnando su questo terreno. Addirittura temo che, prima di pensare alla formulazione di una cultura politica sia necessario creare una cultura di fondo, fatta di conoscenze e di interpretazioni della storia d’Itali e d’Europa (sì, lo so che ci sono anche la globalizzazione e il capitalismo, suvvia). C’è molto da fare (e quasi niente per cominciare).

Leader eterni Italia immobile

È una buona notizia per la Repubblica italiana vedere nella tabella della longevità dei parlamentari, deputati e senatori, tanti nomi molto illustri (anche se non tutti l’hanno “illustrata”): presidenti della Repubblica, capi di governo, pluriministri. Insomma, ecco il Gotha della politica italiana dal 1945 a oggi. Ovviamente, sono numericamente più presenti e visibili coloro che hanno saputo sopravvivere alla crisi e allo sconquasso del periodo 1992-1994, ma ipotizzerei che è solo questione di un paio di legislature e anche non pochi di coloro che erano il nuovo nel 1994 entreranno nella competizione per la durata in carica con il ceto politico-parlamentare che fece la sua comparsa nel 1946.

La longue durée esiste anche in altre democrazie parlamentari europee: Felipe Gonzales fu eletto la prima volta nel 1977 e rimase deputato fino al 2000 (dal 1982 al 1996 Presidente del governo spagnolo); Helmut Kohl, eletto nel 1983 (ma Presidente del Land Renania-Palatinato già nel 1969), deputato fino al 2002, cancelliere dal 1982 al 1998; entrato a Westminster nel 1983, Jeremy Corbyn è stato da allora ripetutamente rieletto; Angela Merkel è deputata dal 1990 e Cancelliera dal 2005, in vista di diventare “longeva” quanto il suo mentore. Però, tutte queste carriere “straniere” sono in qualche misura eccezionali nei loro paesi e, complessivamente, impallidiscono di fronte al numero di legislature che hanno cumulato non una dozzina di parlamentari italiani, ma un centinaio e più. Troppo facile e, almeno parzialmente, sbagliato addebitare queste “carriere” alla legge elettorale proporzionale poiché i longevi sono riusciti a farsi ri-eleggere anche con il Mattarellum, tre quarti maggioritario in collegi uninominali. Per alcuni conta anche essere stati nominati a Senatori a vita, Andreotti, Colombo, De Martino, Fanfani, Taviani o esserlo diventati di diritto come ex-Presidenti Scalfaro, Leone, Cossiga, Napolitano. Altri furono segretari dei loro partiti oppure potenti capi di correnti. Molto conta anche l’assenza di alternanza al governo del paese. In pratica, non risultando mai sconfitti, i numerosi governanti potevano essere sostituiti fisiologicamente quasi soltanto per ragioni d’età. Quanto agli oppositori che non potevano vincere, i missini rimanevano graniticamente nelle loro cariche parlamentari (Giorgio Almirante per 40 anni dal 1948 al 1988), mentre i comunisti procedevano a ricambi periodici dopo due/tre legislature, ma esisteva un gruppo dirigente di trenta-quaranta persone sicure, a prescindere, della rielezione. Politici di professione, nessuno di loro si pose mai il problema del vitalizio. Per lo più, morirono in carica.

Poiché le idee camminano davvero sulle gambe degli uomini e delle donne (incidentalmente, si noti che fra i cento parlamentari più longevi compare una sola donna: Nilde Iotti), il lentissimo e limitatissimo ricambio dei parlamentari italiani in tutta la prima lunga fase della Repubblica portò all’esaurimento di qualsiasi proposta innovativa. Dopo l’impennata del ricambio grazie all’ingresso nel 1994 di rappresentanti di Forza Italia quasi sostanzialmente privi di precedenti esperienze politiche, però, anche dentro Forza Italia hanno fatto la loro comparsa e si sono affermate vere e proprie carriere politiche. La svolta successiva, numericamente persino più significativa di quella prodotta da Forza Italia, è caratterizzata dall’avvento tumultuoso del Movimento 5 Stelle nel febbraio 2013. Con quei “cittadini” che sono diventati parlamentari si poté constatare che il ricambio cospicuo ha un costo, elevato, in termini di competenze e capacità, di funzionamento del Parlamento, dell’attività di opposizione, che, insomma, parlamentari non ci si improvvisa.

Trovare un equilibrio fra esperienza e (capacità di) innovazione non è, comprensibilmente, affatto facile. È un compito che in parte dovrebbe essere nelle mani degli elettori. Non ci riusciranno in nessun modo, però, se le leggi elettorali non hanno collegi uninominali, ma si caratterizzano per l’esistenza di pluricandidature, che tutelano i gruppi dirigenti, e di candidature bloccate. Porre limiti temporali ai mandati parlamentari favorisce il ricambio a spese dell’acquisizione di esperienza e competenza, ma, soprattutto, rischia di ridurre il potere di scelta degli elettori avvantaggiando unicamente i gruppi dirigenti che “nominano” i loro parlamentari. Nessuno maturerà più vitalizi di notevole entità, ma diventeranno pochi coloro disposti a investire le loro risorse personali e professionali nell’attività parlamentare. Non è impossibile fare peggio. Dare più potere agli elettori nella scelta dei candidati, meglio in collegi uninominali, senza vincolo di mandato, e nella bocciatura, è il modo migliore per impedire la ricomparsa di classi politiche tanto longeve quanto immobiliste.

Pubblicato il 24 settembre 2017

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