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Anni che qualcuno s’è bevuti #prefazione a La Terza Repubblica della TV

prefazione a: Gennaro Pesante, La Terza Repubblica della TV, Roma, Bibliotheka Edizioni, 2021, pp. 9-12

Anni che qualcuno s’è bevuti

“Formidabili” anche gli anni Ottanta? In un certo senso, forse, sì. Comunque, meritevoli dell’attenzione che loro dedica Gennaro Pesante. Certamente, in quegli anni l’Italia cambia, e di molto. Qualcuno si beve Milano. Craxi duella sia con De Mita, e sostanzialmente vince, anche se Pirro lo avrebbe messo in guardia. Craxi duella anche, sotto mentite, ma mai smentite, spoglie, quelle di Ghino di Tacco, con il Fondatore-Direttore-Editorialista di “Repubblica” Eugenio Scalfari che, in una quasi memorabile intervista a “Prima Comunicazione” dichiarò che il Direttore di “Repubblica” era più potente del Presidente del Consiglio. In quel duello, mi pare non abbia vinto nessuno dei due. Nel 1992 si vide, ma furono pochi quelli che capirono, che stava perdendo una certa idea di Repubblica, pluralista e progressista e che la rivoluzione promessa non stava affatto arrivando (oggi, nessuno la promette più). Però, no, non era affatto arrivata la Terza Repubblica. Al proposito debbo fare ricorso ad alcuni essenziali strumenti della scienza politica che, naturalmente, servono ad illuminare anche lo stato attuale della Repubblica italiana, anche per coloro che vorrebbero riformarla.

   Una Repubblica, qualsiasi Repubblica, è una costruzione complessa fatta di una Costituzione che contiene istituzioni, regole, come le leggi elettorali, procedure, quelle che sovrintendono alla formazione dei governi e al funzionamento del Parlamento, quelle che riguardano i poteri del Presidente della Repubblica. A mio modo di vedere soltanto quando cambiano le istituzioni, le regole e le procedure diventa corretto, legittimo e utile parlare della comparsa di un’altra Repubblica. Mi limito a citare come esemplare la Francia. La Quarta Repubblica (1946-1958) fu una debole e tormentata democrazia parlamentare. La Quinta Repubblica (1958–) è una democrazia semipresidenziale con sue istituzioni, regole e procedure notevolmente diverse da quelle della Quarta. Non nascondo che, come molti studiosi, le ritengo significativamente e accertabilmente superiori a quelle della Quarta e imitabili da chi voglia effettivamente uscire, senza escamotages particolaristici, da una democrazia parlamentare.

   Anche se Pesante cita la formazione del governo Goria (1987) in maniera critica “senza che gli elettori si siano espressi” e sarcasticamente aggiunge “è la democrazia parlamentare, bellezza!”, le cose stanno proprio così. In nessuna democrazia parlamentare sono gli elettori a dare vita al governo. Incidentalmente, nelle democrazie presidenziali e semipresidenziali, gli elettori votano per un capo dello Stato che è anche capo del governo. Nulla di più. Poi, sarà l’eletto a decidere come fare il governo e con chi, quali ministri nominare e, di tanto in tanto, praticamente a suo piacere, come sostituirli. Vale per gli USA, ma anche per la Francia della Quinta Repubblica

   Lo strepito sul “governo non eletto dal popolo” non è soltanto sbagliato e fastidioso. Soprattutto, è inutile e improduttivo. È servito a bollare in particolare il Conte II, ma nel passato tutti i governi, anche quelli formati e guidati da Berlusconi. Neanche il Draghi I è stato “eletto dal popolo”. Anzi, meno che mai, però, per il suo personale prestigio e per la cooptazione dei “migliori”, sembra sfuggito alla comunque infondata delegittimazione. Allo stesso modo, è sbagliato e non serve a nulla numerare le nostre inesistenti Repubbliche. Siamo nella seconda fase della Repubblica nata nel 1948 e sarebbe preferibile spendere le nostre energie fisiche e intellettuali per farla funzionare meglio.

In quegli anni Ottanta, invece, il pentapartito, coalizione asfittica e autoreferenziale, riuscì a mostrare il peggio della politica italiana. La Grande Riforma di Craxi ottenne un risultato: la quasi totale abolizione del voto segreto. Poi, a fronte della sfida della riforma elettorale, Craxi si trasformò in un rigido e riottoso difensore della variante italiana di legge proporzionale che, sì, aveva dei difetti, ma nel complesso era nettamente superiore alla legge Calderoli (Porcellum) e alla legge Rosato (Rosatellum) in quanto a capacità di dare rappresentanza e potere agli elettori. Non nutro grandi aspettative sulla legge elettorale prossima ventura.

  Mentre a Milano si continuava a bere, andavano in onda una serie di trasmissioni televisive innovative in termini di formato e di linguaggio che hanno sicuramente, per quanto indirettamente, inciso sulla politica. Pesante vi fa ampio e opportuno riferimento. Qualche anno dopo il grande politologo Giovanni Sartori scrisse un piccolo, ma fondamentale, libro: Homo videns (Laterza 1997). La televisione non cambia solo il modo di guardare e vedere la politica. Cambia e impoverisce il modo di farla e di interpretarla. Trasforma il linguaggio e impoverisce il pensiero. Qualcuno ritenne allora e probabilmente anche oggi che la più alta forma di analisi politica si trovi nei molleggiati monologhi di Adriano Celentano e, anche, i più politicizzati, negli esagitati discorsi di Roberto Benigni. Nel decennio successivo Grillo ha dimostrato, aiutato da Rousseau che se ne intende anche di manipolazione, che si può fare ancora meglio. Dei cambiamenti sociali e “culturali” dei (quasi) formidabili anni Ottanta ne fecero le spese i partiti che già tutti avevano iniziato il loro declino. Sparirono semplicemente, tristemente, meritatamente, per loro. Non sono più riusciti a risollevarsi, a diventare veicoli decenti per i cittadini affinché “determinino la politica nazionale” (sono parole dell’articolo 49 della Costituzione). Per fortuna le istituzioni della Repubblica, in special modo, il Presidente della Repubblica, hanno tenuto, persino respingendo alcune arrogantissime aggressioni pseudo riformiste. Qousque tandem?

   Non è mio compito qui rivalutare i conduttori televisivi degli anni Ottanta (e neppure gli uomini politici). Mi rallegro, però, del giudizio molto positivo che il prestigioso “The Guardian” ha dato di Raffaella Carrà (opportunamente molto apprezzata anche dall’autore di questo libro). Non mi attendo, invece, che nessun quotidiano e nessuno storico riesca nell’opera di riabilitazione degli anni Ottanta. Qualcuno se li è bevuti: peggio per lui/lei. Purtroppo, molti hanno imparato poco. Però, Pesante ne ha scritto un epitaffio adeguato. Requiescant in pace.

Gianfranco Pasquino                                                                10 maggio 2021

Era una crisi buia e tempestosa… Pasquino legge Renzi (e Mattarella) @formichenews

Qualcuno dovrebbe andare a vedere le carte renziane. Ma non stiamo giocando a poker e chiamare il bluff è pericolosissimo, tanto per i partiti di governo quanto per il sistema politico di oggi e di domani. Meglio ascoltare il richiamo di Mattarrella. Il commento di Gianfranco Pasquino

Finalmente una (non)bella crisi al buio. La crisi è, non facciamo finta di niente, conclamata. Non è neanche possibile sostenere che è un ritorno alla tanto, erroneamente, biasimata Prima Repubblica. Infatti, nella stragrande maggioranza dei casi, allora tutti sapevano che la crisi si sarebbe chiusa in venti-trenta giorni, non di più (tranne la clamorosa eccezione, protagonisti il defenestrato De Mita, Craxi, Andreotti, e Cossiga, con la crisi che durò dal 19 maggio al 23 luglio 1989). Non sempre veniva cambiato il presidente del Consiglio. Infatti, ci sono stati molti bis; sempre “girava” qualche ministro per accontentare le correnti e per dare l’idea di nuovo slancio. Con bassi tassi di rendimento il sistema politico funzionava.

Adesso, il problema è che il rottamatore d’antan non sa esattamente che cosa vuole e che cosa non vuole. Forse, ha ingaggiato un duello personale prima che politico con Conte. Lui sostituirlo non può, ma di sostituti plausibili dentro la coalizione attuale non se ne vedono. Tutto il balletto sulle sue ministre che non sono attaccate alle “poltrone” (ho cercato, ma non trovato, questa parola nella costituzione, forse cariche?) serve soltanto a fare sapere che sono i capi dei partitini che scelgono i/le ministri/e e ne dettano i comportamenti. Che tristezza.

Quello sull’assegnazione dei fondi europei, invece, è un problema molto più serio. È talmente serio che il Presidente della Repubblica, immagino profondamente infastidito dal comportamento di chi ha plaudito al suo discorso di fine anno nel quale aveva auspicato l’avvento del tempo dei “costruttori” e si esibisce in senso contrario, ha fatto sapere che prima di qualsiasi altro movimento/minaccia/ricatto i protagonisti debbono mettere in salvezza quei fondi. Per quel che conta approvo la richiesta di Mattarella che mi sembra molto più che una semplice “moral suasion” e che avrà conseguenze sui prossimi comportamenti presidenziali. Non so se basterà a frenare chi, avendo cominciato le ostilità, non sa oggettivamente più dove andare.

Qualcuno dovrebbe, forse, andare a vedere le carte renziane, ma poiché non stiamo giocando a poker, chiamare il bluff è pericolosissimo, non soltanto per i partiti di governo, ma per il sistema politico di oggi e di domani, addirittura per la Next Generation. Di qui l’importanza del richiamo secco presidenziale. Il tris di Conte non è impossibile, ma richiede qualche legittimo rimescolamento parlamentare (d’altronde, Italia Viva è già un modesto monumento alla possibilità di rimescolamenti). Anche se vedo qualche sceneggiata, data la gravità della situazione, non finirò dicendo che la telenovela continua. Qualche volta guadagnare tempo serve a qualcuno per riflettere e imparare qualcosa. Vado sul banale (non meno vero): “Gli italiani non capirebbero”, sostengono i sostenitori dell’esistente. “Al Paese non serve una crisi”, annunciano i sostenitori del crisaiolo. Tutti vediamo, però, che non soltanto la notte è “buia e tempestosa”.

Pubblicato il 11 gennaio 2021 su formiche.net

Calderoli e le preferenze infedeli @HuffPostItalia

C’è del vero in quello che dice Calderoli sul doppio voto di genere

È possibile trovare analogie migliori di quella dl leghista sulle infedeltà dei candidati maschi come strumento per la raccolta di preferenze. Il problema da lui sollevato è, però, reale.

È possibile trovare analogie migliori di quella di Calderoli sulle infedeltà dei candidati maschi come strumento per la raccolta di preferenze. Il problema da lui sollevato è, però, reale. Non dovrebbe essere rimosso con un’alzata di spalle e con qualche contestazione gender-correct. Comincerò dai fondamentali. Il 9 giugno 1991, nonostante gli inviti di tutti i leader del pentapartito a fare altro: andare al mare (Craxi), stare a casa con gli “amici” (Gava, ministro degli Interni), giocare a tressette (De Mita) e, da parte di Umberto Bossi (Lega Nord), fare una passeggiata nei boschi padani, il 62,5 per cento degli italiani andò alle urne e il 95,6 per cento approvò il passaggio da tre o quattro preferenze ad una sola da esprimere scrivendo il cognome del candidato/a.

Le elezioni del 1992 furono le meno “pasticciate” della storia elettorale italiana fino ad allora. In seguito, anche grazie alla legge elettorale primo firmatario Roberto Calderoli, meglio nota, su sua stessa valutazione, come Porcellum (approvata nel 2005), fecero la loro comparsa le liste bloccate. Mi paiono una violazione del verdetto referendario del 1991. Per reintrodurre il voto di preferenza si è giunti, su pressione delle donne, a stabilire che, qualora l’elettore/trice voglia esprimere due preferenze una deve andare ad una candidatura femminile. L’obiettivo è chiaro, al limite, persino condivisibile: eleggere un numero più elevato di parlamentari donne.

La modalità mi pare inadeguata, persino controproducente. Fino ad ora, in pratica, si sono manifestate due fattispecie. La prima è semplicissima. Gli elettori danno una sola preferenza, quindi, eludendo, non gravemente, lo spirito della legge. La seconda è appena appena meno semplice. Gli elettori, in effetti, esprimono entrambe le preferenze possibili, ma non per questo fanno crescere il numero di donne elette in parlamento. Infatti, spesso, il candidato uomo, magari già parlamentare, è in grado di costruirsi numerose piccole cordate (le “infedeltà” delle quali ha parlato Calderoli).

Sapendo di potere disporre di un certo numero di preferenze, l’uomo accetta di smistarne alcuni pacchetti su più candidature femminili in cambio, naturalmente, della seconda preferenza di ciascuna di quelle candidate donne. Il totale delle preferenze dell’uomo in quella circoscrizione risulterà considerevolmente più elevato di quello di ciascuna donna, mentre è probabile che, salvo rari casi di eccezionale popolarità, le donne avranno un quarto/un quinto delle preferenze ottenute dall’uomo.

Se, invece, la preferenza fosse unica, ciascuna delle candidate donne potrebbe, da un lato, fare appello al voto delle donne elettrici, dall’altro, sottolineare al massimo le sue capacità, la sua competenza, la sua esperienza, il suo originale e non mutuabile punto di vista. In questo modo, certo rischioso, non soltanto quella donna candidata non sarebbe debitrice a nessun uomo della sua elezione, ma darebbe un concreto, forte e mobilitante contributo al cambiamento della composizione del Parlamento e della politica italiana.

Pubblicato il 9 agosto su huffingtonpost.it