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Capisco il “Cencelli” ma Draghi si sarebbe dovuto imporre sui partiti @ildubbionews
Dicono che draghi sia lì per ristrutturare la politica e i partiti ma visti i sottosegretari e alcuni ministri credo che questa vecchia politica sarà un ostacolo anche per ottenere i fondi europei
Intervista raccolta da Giacomo Puletti
Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza politica a Bologna e accademico dei Lincei, è reduce dalla sua ultima fatica letteraria Libertà inutile. Profilo ideologico dell’Italia repubblicana, e dopo la scelta dei sottosegretari reputa «difficile che Draghi possa compiere una ristrutturazione dei partiti».
Professor Pasquino, la squadra di governo è al completo. La ritiene soddisfacente?
Capisco benissimo che nella scelta delle cariche debba essere usato il manuale Cencelli, che ha un senso perché attribuisce le cariche ai partiti secondo i seggi che hanno in Parlamento. È una procedura corretta e viene utilizzata in tutte le democrazie parlamentari nei governi di coalizione. Obietto tuttavia alla qualità dei prescelti: se un partito deve avere 11 sottosegretari non è detto che si debba scegliere i peggiori di quel partito, anzi.
Crede che Draghi abbia sbagliato alcune scelte?
So che Draghi non conosce abbastanza i partiti e gli uomini politici e per questo motivo mi sono augurato che interpellasse il Presidente della Repubblica, che data la sua esperienza poteva dargli buoni consigli. Ma temo che il presidente del Consiglio abbia pensato che il problema più importante fosse l’economia e su quello si è concentrato, godendo del suo prestigio e scegliendo consiglieri importanti come Francesco Giavazzi (portatore di una linea che io non condivido). Tuttavia credo che questo approccio sia sbagliato perché molti dicono che Draghi sia lì per ristrutturare la politica e i partiti ma così facendo sarà molto difficile. Visti i sottosegretari e visti alcuni ministri capirà che questa vecchia politica sarà un ostacolo anche per ottenere i fondi europei.
A proposito di fondi europei, in squadra ci sono anche personalità, come Enzo Amendola, che godono di un’autorevolezza unanimemente riconosciuta in sede comunitaria. Non basteranno loro per far quadrare il cerchio?
Non voglio fare un discorso di nomi, anche se è chiaro che Amendola è un uomo competente e capace, così come lo sono Tabacci e Della Vedova. Ma altri, come quelli scelti da Salvini e Berlusconi, rappresentano il leader del partito e non tanto il partito. Il punto fondamentale tuttavia è un altro: Draghi doveva obbligare i partiti a confrontarsi con la realtà, non con le loro esigenze. E non ha voluto farlo, o non lo sa fare.
In che modo Mattarella avrebbe potuto consigliare Draghi?
Beh, a suo tempo Mattarella divenne “molto famoso” quando respinse Paolo Savona e quindi credo che potesse dare consigli a Draghi molto più approfonditi. Certo la scelta è stata complicata: se Conte avesse impiegato tre o quattro giorni a scegliere i sottosegretari, come ha fatto Draghi, la stampa sarebbe insorta. Invece accettiamo come normali dei tempi che normali non sono.
Pensa che nella partita tecnico-politica tra Draghi e i partiti abbiano vinto quest’ultimi?
Non è una questione di vincere o perdere. C’è un elemento di inevitabilità nella presenza dei partiti nel governo. Ma se c’erano uomini o donne di partito che a Draghi non piacevano lui poteva opporsi, perché la Costituzione dice che è il presidente del Consiglio a proporre le nomine al Capo dello Stato, che a sua volta poteva opporsi. Adesso la frittata è fatta e quindi bisogna cercare di renderla il più gustosa possibile attraverso decisioni corrette. Sarebbe ora, ad esempio, che Draghi uscisse dal suo riserbo e convocasse una conferenza stampa per dire dove vuole andare e in che modo.
Uno dei pochi momenti in cui ha parlato apertamente è stato in occasione del discorso programmatico sulla fiducia. Come le è sembrato?
Era un buon discorso, sobrio, terso e con alcune indicazioni abbastanza chiare. Ora però le voglio vedere tradotte in decisioni vere e proprie perché sappiamo tutti che alcune cose debbono essere fatte ma dobbiamo sapere come. La situazione continua a essere molto grave e Draghi deve dirci che tipo di piano di ripresa presenterà alla Commissione europea e in che modo ci sta lavorando. Deve spiegare come intende rilanciare l’economia, visto che molti settori stanno morendo.
Draghi è anche tornato all’uso dei Dpcm, tanto contestati a Conte. Pensa che manchi discontinuità in questo senso?
Ho trovato sgradevole la critica di giuristi e giornalisti fatta a Conte con i Dpcm, perché per contrastare la pandemia bisogna intervenire subito e il Dpcm è uno strumento utile che può essere utilizzato anche ripetutamente. Parte dei Dpcm di Conte sono stati poi tradotti in decreti legge e non ho mai pensato che Conte potesse divenire un leader autoritario. Prendo atto del fatto che anche Draghi lo abbia capito e dobbiamo continuare a pensare che il Parlamento può comunque controllare ed esprimere le sue posizioni.
Tra l’altro i Dpcm hanno la capacità di porre fine alle tensioni tra Regioni aperturiste e rigoriste. Sono scelte che deve fare il governo perché le Regioni hanno dimostrato ampiamente la loro incapacità di trattare la pandemia.
Si spieghi meglio.
Le Regioni dovrebbero saper chiudere immediatamente le zone al loro interno dove inizia un focolaio e mantenerle chiuse. Alcune lo fanno, ma questo dovrebbe valere per tutte le Regioni. Dobbiamo però anche avere il coraggio di dire che molto dipende da noi. Siamo sicuri che tutti portino la mascherina e fanno il possibile per evitare il contagio? Oppure ci comportiamo in maniera scriteriata? Ci sono anziani che giocano a carte nei bar semichiusi, gruppi di ragazzi che festeggiano le lauree. Serve maggiore disciplina collettiva, che è il prodotto delle nostre discipline individuali.
Il ministro della Salute Roberto Speranza sembra essere rimasto uno degli ultimi baluardi del rigorismo, stretto tra i desideri di apertura delle Regioni, da un alto, e quelli di una parte del suo governo, dall’altro. Crede che Speranza sia oggi meno forte di quanto fosse nel Conte bis?
Credo che Speranza faccia del suo meglio nel momento peggiore in assoluto. Nessuno ha la ricetta giusta ma quella migliore l’abbiamo persa tempo fa e non per colpa di Speranza. Quando ci raccontiamo storie molto belle su come hanno reagito Nuova Zelanda, Taiwan e Corea del Sud dobbiamo riflettere sul fatto che hanno reagito semplicemente chiudendo tutto per un certo tempo. Si doveva chiudere tutto per tre settimane in maniera durissima e non l’abbiamo fatto.
Pubblicato il 26 febbraio 2021 su Il Dubbio
Il falso problema delle firme. Troppo “Rosato” fa male
È molto fastidioso e del tutto sbagliato sentire dire, anche da autorevoli commentatori, che la Legge elettorale Rosato è brutta perché (forse) impedirà la presentazione della lista +Europa e quindi il ritorno in Parlamento di Emma Bonino. Firme richieste molte (non ne sono affatto sicuro) tempi brevi (anche questo è discutibile): questa sarebbe la tenaglia che schiaccia i radicali Bonino, Della Vedova, Magi. In verità, potrebbe schiacciare molti altri, incapaci di raccogliere le firme che, lo sottolineo, sono previste da sempre per impedire la comparsa di liste folcloristiche, avventuriere, frammentatrici. Fare, però, di questa clausoletta il capro espiatorio di una legge che ha molti altri e molto più gravi difetti è davvero troppo radicale, ooops, chiedo scusa, troppo fuori luogo.
Il problema, come molti hanno detto, non proprio ad alta voce, in corso d’opera, è che la legge Rosato non è fatta per dare potere agli elettori, ma per consentire ai partiti, ai loro capi e ai capi delle correnti (non perdete di vista Franceschini, ma neanche, purtroppo per lui, in misura minore, Orlando) di nominare parlamentari i più ossequiosi, (oso?: i più provatamente servili) dei candidati. Il casting di Berlusconi serve anche a questo test. Lascio a chi, non sono pochi, nulla sa dei sistemi elettorali delle democrazie parlamentari di argomentare che succede così anche negli altri sistemi politici. Ricordo che non solo chi ha proposto e votato la legge Rosato ha respinto la possibilità di voto disgiunto uninominale/proporzionale (come in Germania, dove ha costantemente offerto buona prova di sé), ma ha addirittura imposto per la terza volta (prima legge Calderoli-Porcellum; poi legge Italicum-porcellinum perché rivista al ribasso; adesso Rosato, l’aggiunta la mettano i lettori) la possibilità di pluricandidature. È un altro sicuro obbrobrio certamente più criticabile dell’esigenza delle firme. Infatti, le candidature multiple nullificheranno qualsiasi effetto positivo che potrebbe/potesse derivare dalla competizione nei collegi uninominali.
Chi rischia di perdere nel collegio uninominale, se è abbastanza forte nel partito, nella corrente, nel salotto di Arcore, si farà candidare anche nel listino proporzionale. No, i nomi dei pluricandidati, par condicio: anche donne, sui quali, pure, sono disposto a scommettere, non li rivelo ancora. Alla fine, chi sa, a Renzi potrebbe fare più gioco mettere in collegi uninominali e in qualche listino proporzionale Emma Bonino e persino Benedetto della Vedova, adducendo come scusa che le firme non è riuscito a raccoglierle neanche il volenteroso ambasciatore Fassino. Tre-cinque seggi a Bonino e ai suoi radicali potrebbero essere meno di quelli che una Lista +Europa, presentatasi con il suo corredo di firme, potrebbe esigere. Già, nessuno finora ha scritto o cercato di capire qual è lo scambio “+Europa=quanti seggi sicuri”. Propongo che gli sguardi apprensivi dei commentatori equanimi abbandonino la ricerca delle firme per i radicali e si posino sulle priorità di Emma Bonino e sull’accettazione esplicita, non generica, di quelle priorità da parte del PD di Renzi. Come le idee, anche le priorità camminano sulle gambe degli uomini e delle donne. Gli ostacoli non sono rappresentati da qualche migliaio di firmette, ma dall’effettivo spostamento del cuore e del cervello della politica italiana da Roma (per non dire Rignano-Laterina) a Bruxelles.
Pubblicato il 4 dicembre 2018 su huffingtonpost