Home » Posts tagged 'democrazia diretta'

Tag Archives: democrazia diretta

 I referendum abrogativi servono a qualcosa? @DomaniGiornale

Sono anni che il dibattito politico italiano si agita in maniera carsica fra una molteplicità di poli lungo una linea che va dall’assoluta importanza del referendum come strumento di democrazia diretta alla assoluta inutilità del referendum come modalità per il miglioramento della legislazione e la soluzione di problematiche complesse. Per una volta mi calerò nel ruolo, per me inappropriato e scomodissimo, di cerchiobottista, e argomenterò che entrambe le posizioni estreme corrispondono alla realtà effettuale.

In generale, il referendum è uno strumento di partecipazione efficace corroborato da molti esempi italiani: divorzio, interruzione di gravidanza, scala mobile (1985), leggi elettorali. Informati dai proponenti e, in parte, mobilitati dagli oppositori, i cittadini italiani si sono spesso fatti un’idea e la hanno riversata con efficacia nelle urne. È una storia abilmente e convincentemente ripercorsa nei dettagli dal costituzionalista (anche protagonista) Andrea Morrone, La Repubblica dei referendum. Una storia costituzionale e politica (1946-2022) (il Mulino 2022). Di contro, il fallimento per mancanza di quorum, cioè della indispensabile maggioranza assoluta dei votanti, di un numero considerevole di referendum soprattutto negli ultimi vent’anni, sembrerebbe segnalarne l’inutilità, la perdita, secondo alcuni, irrimediabile, di incisività. Di qui alcune proposte per superare il requisito del quorum. La più convincente è quella che lo vorrebbe calcolato con riferimento alla percentuale di coloro che hanno votato nelle più recenti elezioni politiche.

Non è, però, solamente con i numeri e le percentuali che il referendum deve fare i conti. Per quanto sgradevole, in special modo per chi crede, come il sottoscritto, che il voto davvero “è dovere civico” (art. 48), e che in nessun modo una democrazia deve premiare gli apatici e gli astensionisti, sembrerebbe inoppugnabile che una legge approvata dalla maggioranza assoluta dei parlamentari, rappresentanti del popolo, non possa essere abrogata da una minoranza di elettori per quanto “intensi”. Soprattutto, deprecabile è che a incitare all’astensionismo siano, senza dimenticare il leggendario Cardinale Ruini (referendum sulla procreazione assistita, 2005) e alcuni giornalisti/opinionisti d’assalto, proprio i politici che, poi, frequentemente, piangono calde lacrime da coccodrilli sulla bassa partecipazione alle elezioni, in particolare, quelle politiche.

Molto più comprensibile e spesso anche condivisibile è la critica, non tanto al referendum in sé, ma alle materie alle quali lo applicano i promotori. Di questo difetto sono stati passibili non soltanto i radicali i quali portano la responsabilità di avere ecceduto con le loro “raffiche” di referendum. So che la replica ne sostiene la liceità anche alla luce della quantità di firme raccolte, indicanti una “necessità” sentita. Piuttosto, in definitiva, la mia critica va, non tanto alle materie sulle quali è costituzionalmente possibile promuovere un referendum, ma al fatto che l’abrogazione di una legge o di sue parti non garantisce quasi mai una soluzione immediatamente accettabile. Il cerino acceso torna, come nel caso di tutt’e cinque i quesiti sull’amministrazione della giustizia, nelle mani degli stessi parlamentari che non hanno saputo trovare soluzioni condivise, convincenti. Toccherà poi a loro interpretare il senso del verdetto referendario, talvolta con l’aiuto della Corte Costituzionale. Con (non) buona pace dei promotori e degli elettori.

Pubblicato il 8 giugno 2022 su Domani

Conte ora detta la linea politica ma Grillo mantiene un suo ruolo #intervista @CdT_Online

Intervista raccolta da Osvaldo Migotto

Il Movimento 5 Stelle (M5S) si è da poco dato un nuovo statuto e ha eletto il suo primo presidente, l’ex premier Giuseppe Conte. Il futuro dei pentastellati resta però incerto a causa del calo nei sondaggi e della litigiosità interna. Abbiamo sentito le valutazioni del professor Gianfranco Pasquino sullo stato di salute di questa formazione politica.

Conte ha parlato di ampissima partecipazione degli iscritti alla sua elezione via Internet. In realtà ha votato per lui il 58% degli aventi diritto che sono poco più di 115.000. La democrazia diretta di cui i vertici del M5S vanno fieri marcia sul posto?

I pentastellati hanno troppo vantato questo loro strumento di partecipazione politica della base. All’inizio la democrazia diretta nel Movimento era utile e forse anche funzionante, poi però non sono stati in grado di far crescere il numero dei partecipanti. Su circa 120.000 attivisti, per Conte hanno votato poco più della metà. Quindi c’è un problema che secondo me Conte dovrebbe affrontare, cercando di recuperare tutti coloro che si erano iscritti, in quanto per votare occorre iscriversi al Movimento, e ampliare il numero degli attivisti, approfittando della nuova piattaforma di cui il Movimento si è dotato.

 A Conte viene rimproverato di non aver avuto un’investitura popolare. Pensa che il nuovo leader dei pentastellati dovrebbe seguire l’esempio di Letta che si è candidato come parlamentare di Siena per rimettersi in gioco?

Questa è una questione marginale, in quanto neanche Draghi ha avuto un’investitura popolare. Ci sono modi diversi per essere scelti a capo di un movimento o a capo di un Governo. Ad ogni modo se si presenterà l’occasione di un seggio parlamentare da conquistare, credo che Conte farebbe bene a candidarsi. Non solo per avere un’investitura popolare, ma anche per poter diffondere informazioni e per poterne acquisire. Scendere in campo, per usare una terminologia sportiva, è utile per i giocatori ma anche per l’allenatore, se vogliamo chiamare Conte allenatore.

Le divisioni interne sono uno dei motivi che hanno causato la progressiva perdita di consensi nel M5S. Divisioni emerse anche nel confronto tra Grillo e Conte. Con quali conseguenze sulla tenuta del Movimento?

Credo che oggi non ci siano delle conseguenze serie in quanto ora è Conte a dare la linea politica. D’altronde è chiaro che Grillo abbia un ruolo, e senza di lui il Movimento non esisterebbe. Si spera che Grillo abbia imparato a riequilibrare e non a scassare, perché la sua forza continua ad essere notevole e quindi deve prendere atto che a questo punto è Conte quello che guida e lui potrebbe trasformarsi in un suggeritore, o forse qualche volta in un propagandista, visto che continua ad essere molto efficace e ha carisma, mentre Conte di carisma proprio non ne ha.

 Finora abbiamo visto parlamentari grillini espulsi in quanto non seguivano la linea data dalla direzione del Movimento. Non è una logica autodistruttiva?

Sì, il Movimento non ha trovato il modo di riuscire ad avere un vero dibattito, ed è per questo che avvengono le espulsioni. La linea dei gruppi parlamentari non viene dalla discussione all’interno dei gruppi ma in qualche modo viene calata dall’alto. Il M5S deve dunque trovare delle modalità per confrontarsi e soprattutto deve smetterla con la pratica delle espulsioni che non sono mai una buona scelta, per nessuno. Bisogna sempre riuscire a convincere.

Il premier Draghi negli scorsi giorni ha detto di non voler affossare il reddito di cittadinanza. Crede che lo ha fatto per il quieto vivere di una maggioranza eterogenea o perché crede in questo strumento di sostegno all’occupazione?

Credo che sia al 75 per cento perché crede che questo strumento sia utile e al 25 per cento perché non voleva dare subito un dispiacere a Conte. Ma soprattutto perché ci crede. Draghi non ha la lingua biforcuta e quindi ci crede, anche se tra coloro che ci credono, molti ritengono che bisogna introdurre delle modifiche nel reddito di cittadinanza perché tale strumento potrebbe essere usato molto meglio, in particolare per l’avviamento al lavoro che è il punto debole di questa legge.

Pubblicato il 10 agosto 2021 sul Corriere del Ticino

#Democrazia Futura Dopo il socialismo. Metodo e sostanza @Key4biz

Il valore 45 anni dopo della raccolta di cinque saggi sui rapporti fra democrazia e socialismo

Gianfranco Pasquino rilegge Quale socialismo? di Norberto Bobbio


Alla metà degli anni settanta Norberto Bobbio raccolse in un volumetto: Quale socialismo? Discussione di un’alternativa[1] cinque suoi scritti dedicati ad una riflessione sui rapporti fra democrazia e socialismo. La raccolta di articoli omogenei era il suo modo preferito di confezionare libri e derivava dal suo essere richiestissimo per conferenze un po’ dappertutto che gli consentivano/imponevano la preparazione di testi, mai peraltro occasionali. Il tema dei rapporti fra socialismo e democrazia lo aveva sempre interessato. Oltre che i socialisti del Partito Socialista Italiano ai quali si sentiva molto vicino, i suoi interlocutori erano i comunisti. Fu molto criticato per questa interlocuzione che, peraltro, non si tradusse mai in nessuna concessione né al Pci né al marxismo. In senso più lato, scrisse nella Premessa a Il futuro della democrazia[2] della necessità di dialogare con “coloro che questa nostra democrazia, sempre fragile, sempre vulnerabile, corrompibile e spesso corrotta, vorrebbero distruggerla per renderla perfetta” mai disperando “nella forza delle buone ragioni”[3].

Perfezionisti non erano e non furono soltanto i comunisti, ma, in quanto rappresentativi per quarant’anni di un quarto, poco meno di un terzo dell’elettorato italiano, meritavano certamente il massimo di attenzione. Il futuro della democrazia italiana dipendeva anche dalla loro evoluzione. Bobbio ne aveva già messo alla prova le loro credenziali democratiche con riferimento alla libertà, della cultura, della critica, degli intellettuali, in un libro che, non un best-seller (come molti anni dopo, nel 1994 sarebbe stato Destra e sinistra[4]), fu un long-seller: Politica e cultura[5], uscito nel1955 e più volte ristampato. Suoi interlocutori in un confronto duro senza diplomazie e senza concessioni erano stati alcuni intellettuali comunisti “di punta” e persino lo stesso segretario del partito, Palmiro Togliatti. Pure apprezzando l’occasione del confronto, Bobbio non era stato soddisfatto del suo esito: troppe le ambiguità di quegli intellettuali che in parte esprimevano in parte riflettevano le posizioni ufficiali del PCI (non molto distanti e non molto diverse da quelle del Partito comunista dell’Unione Sovietica). Molta acqua era passata sotto i ponti nei vent’anni trascorsi dalla pubblicazione di quel testo. Superato il doppio trauma (denuncia dei crimini di Iosif Stalin, invasione sovietica dell’Ungheria) dell’indimenticabile 1956 (l’aggettivo è di Pietro Ingrao, allora direttore de l’Unità), il Pci aveva iniziato una sua sicuramente troppo lenta e troppa cauta, in sostanza inadeguata, revisione che, pur facendo riferimento a Antonio Gramsci, poco riguardava il marxismo. La lettura/lezione di Gramsci, anche se assolutamente necessaria per contrastare il leninismo, non poteva guidare il Partito nella traiettoria da intraprendere in una democrazia nella quale bisognava costruire le condizioni politiche per l’alternanza al governo.

In realtà, il dibattito che seguì la pubblicazione del libro di Bobbio si focalizzò soprattutto sull’esistenza o meno di “una dottrina marxistica dello Stato”. In estrema sintesi, il leninismo aveva dimostrato di sapere come fare per conquistare lo Stato (quello russo nel 1917 non era neppure uno Stato “borghese”), ma come costruire uno Stato socialista e come governarlo furono certamente problemi per i quali la dottrina “marxistica” non offriva, secondo Bobbio, nessuna soluzione. Con le sue parole: “Mi domando quale sia il beneficio che possiamo trarre per la soluzione dei problemi del nostro tempo dall’ennesima chiosa … a Marx … e se non sia oggi assai più utile applicarsi agli studi di scienza politica e sociale così poco progrediti nel nostro paese in confronto a quelli di marxologia [6]. Ad onor del vero, la critica incisiva e puntuale alla mancanza di adeguate riflessioni di Marx sullo Stato era già stata potentemente formulata nel 1957 proprio dal più importante professore italiano di Scienza politica, Giovanni Sartori, nel suo Democrazia e definizioni[7]. Inoltre, Bobbio era sicuramente a conoscenza della devastante critica del Partito Comunista Francese e degli intellettuali che ruotavano nella sua orbita scritta dal grande studioso liberale Raymond Aron, L’opium des intellectuels[8]. La risposta stalinista, ovvero lo Stato come dittatura sul proletariato, praticata per più di trent’anni in Unione Sovietica non poteva certamente costituire il riferimento teorico né la soluzione attuabile.

Nessuno ricorda oggi le numerose risposte degli intellettuali comunisti per i quali discutere con Bobbio e contraddirlo era naturalmente un segno di grande distinzione. Semplicemente, rimanevano tutti imprigionati nella gabbia che, utilizzando l’appropriata parola di Bobbio, definirò della chiosa. Qualche anno dopo sarebbero anche finite le chiose e dopo il 1989 in Italia è letteralmente scomparsa qualsiasi variante di cultura marxista (e aggiungerei di cultura socialista).

In maniera assolutamente anticipatrice, nel libro Bobbio si (pre)occupa anche di quello che chiama “il feticcio della democrazia diretta” per Karl Marx esistita esclusivamente nella breve esperienza della Comune di Parigi (1871). Ricomparsa poi brevemente dopo la rivoluzione del 1917 sotto forma di Soviet di contadini e operai. Comunque, Bobbio sottolinea che nel pensiero marxistica “ciò che caratterizza la democrazia diretta sarebbe l’istituto del mandato imperativo, che implica la possibilità della revoca del mandato[9]. Naturalmente, nessuno dei comunisti italiani poneva all’ordine del giorno qualsivoglia variante di democrazia diretta che, come sappiamo, ha fatto la sua recente ricomparsa con il Movimento 5 Stelle, evidenziando tutte le sue contraddizioni insite. Le obiezioni di Bobbio alla democrazia diretta d’antan valgono anche per i brandelli di democrazia diretta oggi. Quelle obiezioni non hanno finora trovato risposta forse perché risposta non c’è, forse perché a un problema politico di incommensurabile rilevanza non è neppure pensabile che si possa offrire una risposta tecnologica, telematica. Anche il più innovativo e efficace utilizzo della rete costituisce un mezzo, necessario, ma non sufficiente. Abbiamo visto che il socialismo non è, nelle pur memorabili parole di Lenin, “Soviet più elettrificazione”. La democrazia diretta non è “piattaforma telematica più vincolo di mandato”.

Il libro contiene un capitolo scritto nel 1973, due capitoli scritti nel 1975 e due nel 1976 insieme con la prefazione alla quale è apposta la data settembre 1976. Curiosamente, Bobbio non fa nessun riferimento alla proposta di compromesso storico formulata da Enrico Berlinguer in tre articoli pubblicati da Rinascita, la rivista settimanale del PCI, nel settembre-ottobre 1973.

Altro argomento che rimane in ombra è quello del significato di alternanza, da sempre un fenomeno importante per il buon funzionamento della democrazia, ancorché non essenziale per la sua definizione. La concezione di democrazia di Bobbio non lo poteva rendere accondiscendente di fronte al compromesso storico. Per la sua ambizione di durata indefinita/non definita nel tempo, il compromesso storico fra le grandi masse popolari cattoliche e comuniste [ho estesamente trattato l’argomento nel capitolo “Compromesso storico, alternativa, alternanza” nel mio libro Libertà inutile. Profilo ideologico dell’Italia repubblicana [10] che ha la pretesa di proseguire il Profilo ideologico del Novecento italiano pubblicato da Bobbio nel nono volume della Storia della letteratura italiana nel 1969[11] poi in volume a sé stante nel 1986[12]] non soltanto avrebbe reso ininfluente la competizione politico-elettorale che il “filosofo delle regole” considera cruciale per la democrazia, ma avrebbe messo in soffitta qualsiasi prospettiva di alternanza.

Peraltro, mi affretto ad aggiungere che non è tanto la realizzazione concreta dell’alternanza che conta, è opinione anche di Sartori, quanto piuttosto la possibilità, agli occhi degli elettori, degli operatori dei mass media, dei politici al governo e di quelli all’opposizione, che possa avvenire. Questa possibilità influisce sui comportamenti di tutti e li rende più responsabili. Se mai il compromesso storico si fosse realizzato, la sua maggioranza extra-large non avrebbe dovuto temere nessuna opposizione. Praticamente non sarebbe stato possibile per nessuna opposizione “controllarla”. Gli eventuali governi di compromesso storico sarebbero stati politicamente irresponsabili. La stessa proposta del compromesso storico rivelava da parte dei comunisti sia la loro non piena comprensione delle caratteristiche fondamentali della democrazia sia la loro convinzione che, una volta, andati/tornati al governo certo non l’avrebbero abbandonato. Questo è uno degli elementi che, secondo Sartori, facevano del Partito Comunista Italiano un partito “antisistema”: potendo i comunisti avrebbero rovesciato e cambiato il sistema.

Al proposito, Bobbio ritiene sia lecito affermare che “il rapporto fra democrazia e socialismo è configurato come un rapporto fra mezzo e fine, dove la democrazia svolge la parte del mezzo e il socialismo del fine[13]. Ma, se la democrazia che conosciamo è il mezzo, qual è lo scopo, ovvero, proprio “quale socialismo?” A questa domanda i comunisti italiano non seppero mai rispondere se non in maniera confusa e evasiva. A Giorgio Amendola (e a molti altri) che asseriva la possibilità di una “terza via” fra la socialdemocrazia e il comunismo, Bobbio rispose senza mezzi termini: “La terza via non esiste”[14]. Suggerì anche di “rafforzare le organizzazioni del movimento operaio per continuare la via democratica al socialismo, che è dappertutto una sola[15].

Venti anni dopo fece irruzione nel dibattito politico europeo una riformulazione della Terza Via ad opera del sociologo Anthony Giddens e di Tony Blair che sarebbe diventato Primo Ministro nel 1997 fino al 2007. La terza via di Giddens[16], che nell’originaria edizione inglese ha il sottotitolo The Renewal of Social Democracy[17], doveva insinuarsi fra il vecchio Labour Party e il neo-liberismo rappresentato da Margaret Thatcher (1979-1990) e da Ronald Reagan (1980-1988) con l’ambizione di andare Oltre la destra e la sinistra[18]. Bobbio non seguì queste vicissitudini politico-intellettuali. D’altronde, il dibattito pubblico italiano non approdò a nulla di specialmente interessante tranne le affermazioni sulla fine della sinistra espresse da alcuni intellettuali di sinistra con il duplice obiettivo di épater les bourgeois e di ottenere visibilità sui mass media. Bobbio aveva già risposto con il libro Destra e sinistra. Ragioni e significati di una distinzione politica[19], sottolineando con forza che il perseguimento della giustizia sociale costituisce la stella polare della sinistra[20].

Nel corso del tempo, nella letteratura internazionale il termine socialismo, forse perché troppo identificato con i regimi comunisti dell’Europa orientale (e talvolta con alcuni populismi “progressisti” latino-americani) è stato sostanzialmente sostituito dal termine sinistra. Giustamente, oggi ci chiederemmo non “Quale socialismo?”, ma “Quale sinistra?” (rimando ad un’analisi comparata di grande interesse: Stephanie L. Mudge, Leftism Reinvented. Western Parties from Socialism to Neoliberalism[21] dedicata al Partito Democratico negli Stati Uniti, al Partito Socialista dei Lavoratori svedese e alla SPD. Sarebbe bello se qualcuno esplorasse i casi italiano, francese, spagnolo e portoghese). La risposta di Bobbio, in parte la immagino in parte la deduco da quanto ha scritto, sarebbe: quella sinistra che si adopera per contenere e ridurre le diseguaglianze; quella sinistra che cerca di risolvere “i problemi che hanno generato lo scontro tra capitalismo democratico e comunismo autoritario” e che “non sono stati certamente risolti dal totale fallimento di quest’ultimo, né nel mondo avanzato, né nel mondo in generale[22], citando un suo memorabile articolo su La Stampa del 9 giugno 1989 pubblicato dopo l’eccidio di Tien an Men, a Pechino.

Ce n’è ovviamente abbastanza per procedere more Bobbio ad una serie di interrogativi. La sinistra che esiste attualmente e che si manifesta in molti paesi come definisce l’uguaglianza: “Quale eguaglianza?” Anche se, certamente, si pone il problema delle diseguaglianze di reddito, quali altre diseguaglianze preoccupano e debbono preoccupare la sinistra? E se la risposta, alla quale aderisco convintamente, è che la sinistra deve offrire eguaglianza di opportunità, allora l’interrogativo è “Quali opportunità?” La filosofia classicamente socialdemocratica: protezione “dalla culla alla tomba”, comunque sempre difficilissima da garantire e oggi costosissima, non sembra più soddisfare neppure molti esponenti (e cittadini-elettori) che si collocano a sinistra. Certamente, non sembra possa essere sufficiente offrire uguaglianza di opportunità all’inizio di un percorso, per lo più quello scolastico, e affidare il resto ai singoli e alle loro capacità. Bisognerebbe intervenire flessibilmente nella vita, non solo lavorativa, per dare e ridare eguali opportunità. Di qui, la necessaria riforma dello Stato del welfare, con continui chirurgici aggiustamenti che significa sapere dove tagliare e dove e come ricucire, operazioni che nessun mercato competitivo può mai effettuare.

   Sono anche convito che fra gli interrogativi da porre alla sinistra Bobbio introdurrebbe le modalità con le quali riconoscere e premiare il merito. Anche se può apparire troppo brusco e ruvido, l’interrogativo, per chi non crede che la sinistra possa mai essere soltanto livellatrice, è: “Quale meritocrazia?” Quasi non ho bisogno di giustificare il prossimo interrogativo, ma la sinistra di Bobbio (e gli scritti di Bobbio) non possono in nessun modo escludere (e, infatti, Quale socialismo? non lo ha escluso) l’interrogativo “Quale democrazia?” La sinistra si è sempre impegnata, non soltanto perché serviva i suoi interessi e scopi politico-elettorali, a cercare di ampliare la partecipazione politica. La sinistra apprezza e incoraggia il cittadino/la cittadina partecipante anche se spesso non li premia adeguatamente. La sinistra ha anche mirato, non sempre con impegno e vigore adeguati, ad accrescere l’educazione politica dei cittadini, ovviamente non indottrinarli. Non da ultimo, fra gli interrogativi contemporanei che Bobbio solleverebbe non sta più semplicemente la democrazia diretta, ma “Quale democrazia deliberativa?” ovvero con quali modalità disponibili grazie alle nuove conoscenze e alla rete è possibile potenziare ed estendere la democrazia. Certamente, Bobbio apprezzerebbe quanto scritto in materia senza nessun cedimento “fondamentalista”, ma con motivazioni e giustificazioni fondate su ricerche e applicazioni anche nel contesto italiano da Antonio Floridia, Un’idea deliberativa della democrazia. Genesi e principi [23].

Grazie a Bobbio e con Bobbio è regolarmente stato possibile entrare in dibattiti importanti, certo riservati ad uno strato sociale di intellettuali, politici, operatori dei mass media, abbastanza ristretto, raggiungendo anche un’opinione pubblica interessata. Bobbio, editorialista de La Stampa, anche più di Giovanni Sartori, editorialista del Corriere della Sera (spesso presente nei salotti televisivi), è stato un grande intellettuale pubblico. Oggi, per una molteplicità di ragioni, non esistono più intellettuali pubblici della sua statura e della sua influenza etica e di pensiero molto più che politico. Nessuno più che voglia e sappia suscitare un dibattito sui grandi temi che riguardano l’Italia e gli italiani, l’Europa e gli Europei (questa è una mancanza clamorosa), il mondo. L’ultimo interrogativo discende inevitabilmente dalla considerazione che ho appena formulato, ma ha più rami: “Quali tematiche?” “Quali opinioni pubbliche?” “Quale cultura politica nella globalizzazione?” Infine, “Quale società giusta?”

Concludendo. Bobbio non rinunciò mai a porre gli interrogativi rilevanti che, lo sappiamo, contenevano regolarmente sia un principio di risposta basato sulla storia del concetto problematizzato e dell’uso che ne era stato fino ad allora fatto sia un’indicazione di metodo con il quale andare alla formulazione di una risposta convincente. Non ricorrerò a nessun trucco dialettico e retorico per affermare che in Italia da almeno vent’anni nessuno ha proceduto come Bobbio e non vedo all’orizzonte studiosi e intellettuali sufficientemente attrezzati. Forse è questo il vero segnale della crisi italiana, il deplorevole stato del dibattito pubblico in assenza del quale non potranno aversi miglioramenti complessivi nella democrazia italiana. Non è alle viste

Bologna, 14 marzo 2021

* professore emerito di Scienza politica, Università di Bologna, e Socio dell’Accademia dei Lincei


[1] Norberto Bobbio, Quale socialismo? Discussione di un’alternativa, Torino, Einaudi, 1976, XVIII-109. Seconda edizione con prefazione di Michele Salvati: Milano, Rizzoli Corriere della Sera, 2011, 169 p.

[2] Norberto Bobbio, Il futuro della democrazia, Torino, Einaudi, 1984, XVI-220 p.

[3] “Premessa” a Norberto Bobbio, Il futuro della democrazia, op. cit., p. XIII.

[4] Norberto Bobbio, Destra e sinistra. Ragioni e significati di una distinzione politica, Roma, Donzelli, 1994, X-100 p. Nuova edizione riveduta e ampliata: 1995, 141 p. Infine quarta edizione accresciuta, 2007, XVII-221 p.

[5] Norberto Bobbio, Politica e cultura, Torino, Einaudi, 1955, 282 p. Oggi nella nuova edizione a cura di Franco Sbarberi, Torino, Einaudi, 2005, XLiii-273 p.

[6] Norberto Bobbio, Quale socialismo ? …, op. cit., p. 27.

[7] Giovanni Sartori, Democrazia e definizioni, Bologna, Il Mulino, 1957, XII-331 p.

[8] Raymond Aron, L’opium des intellectuels, Paris, Calmann Lévy, 1955, 337 p. Traduzione italiana: Raymond Aron, L’oppio degli intellettuali, Bologna, Cappelli, 1958, 377 p.

[9] Norberto Bobbio, Quale socialismo ? …, op. cit., p. 60.

[10] Gianfranco Pasquino, Libertà inutile. Profilo ideologico dell’Italia repubblicana, Milano, UTET, 2021, 224 p.

[11] Norberto Bobbio, “Profilo idrologico del Novecento italiano”, in Emilio Cecchi, Natalino Sapegno (ed.), Storia della letteratura italiana. Volume nono. Il Novecento, Milano, Garzanti, 1969, 860 p. [pp. 121-128].

[12]Norberto Bobbio, Profilo ideologico del Novecento italiano, Torino, Einaudi, 1986, 190 p.

[13] Norberto Bobbio, Quale socialismo ? …, op. cit., p. 104.

[14] Norberto Bobbio, Autobiografia. A cura di Alberto Papuzzi, Roma-Bari, Laterza, 1997, 274 p. [il passo citato si trova a p. 124].

[15] Ibidem, p. 125.

[16] Anthony Giddens, La terza via. Manifesto per la rifondazione della socialdemocrazia. Prefazione di Romano Prodi, Milano, Il Saggiatore, 1999, 156 p.

[17] Anthony Giddens, The third Way. The Renewal of Social Democracy, Cambridge, Cambridge Polity Press, 1998, X-166 p.

[18] Anthony Giddens, Oltre la destra e la sinistra, Bologna, il Mulino, 1997, 309 p. Edizione originale inglese: Beyond Left and Right. The Future of Radical Politics, Cambridge, Cambridge Polity Press, 1994, VII-276 p.

[19] Norberto Bobbio, Destra e sinistra Quarta edizione accresciuta, op.cit .

[20] “Cap. VIII. La stella polare”, in Norberto Bobbio, Destra e sinistra…Quarta edizione accresciuta, ibidem, pp. 145-153.

[21] Stephanie L. Mudge, Leftism Reinvented. Western Parties from Socialism to Neoliberalism, Cambridge Massachusetts – London, Harvard University Press, 2018, XXVII-524 p.

[22] Norberto Bobbio, Destra e sinistra…Quarta edizione, op. cit., p. 147,

[23] Antonio Floridia, Un’idea deliberativa della democrazia. Genesi e principi, Bologna, il Mulino, 2017, 392 p.

Democrazia diretta (da chi?). La lezione di Pasquino a Grillo e Casaleggio. Oltre il Parlamento, più piattaforme per tutti @formichenews

Abbiamo tutti potuto notare quanto soddisfacentemente funzioni la democrazia, più o meno diretta (da chi?), nel Movimento Cinque Stelle. Produce dibattiti serrati e approfonditi, smussa i contrasti fra le diverse fazioni: governativista, ortodossa, battista, e suggerisce soluzioni… Il commento di Gianfranco Pasquino

Non si è ancora spenta la eco dello straordinario successo referendario sul taglio delle poltrone (diciamo pane al pane e vino al vino) che si è inaugurata una stagione intensissima di Grandi Riforme. Per prima cosa si taglieranno le indennità dei prossimi seicento parlamentari eletti, nessuno dei quali, prevedibilmente, grazie al taglio lineare, potrà essere ascritto alla categoria dei fannulloni e degli assenteisti. Rimane il dubbio se i nuovi seicento saranno anche competenti.

Niente panico, però. Infatti, dieci costituzionalisti del “sì” hanno subito, bontà loro e grazie ad una competenza specialistica di lungo corso, trovato la soluzione: il voto di preferenza. Tutte (non proprio tutte, eh) le ricerche rivelano che con un voto di preferenza gli elettori, soprattutto quelli italiani, notoriamente i più interessati alla politica, i più informati sulla politica, i più partecipanti (o forse no visto che un terzo di loro ha deciso di astenersi nelle elezioni regionali) riusciranno sicuramente a scegliere parlamentari assolutamente competenti. Se non succederà così bisognerà ovviamente proseguire sulla strada delle riforme con un altro taglio lineare. Purtroppo, avendo già risparmiato tagliando le indennità, i risparmi ulteriori non saranno ingenti, mezza tazzina di caffè o almeno una manciata di chicchi.

Sembra che in un popolo di sospettosi qualcuno, soprattutto nelle file di coloro che hanno votato “no”, lo facesse anche perché ricordava le parole di Davide Casaleggio che non se la sentiva di escludere che fra una quindicina d’anni il Parlamento si sarebbe dimostrato/si dimostrerà inutile. Ieri è arrivata la conferma nelle sempre dotte parole di Beppe Grillo (che cito dal “Corriere della Sera”, 24 settembre 2020, p. 1): “Non credo assolutamente più in una forma di rappresentanza parlamentare, ma nella democrazia diretta”. D’altronde, abbiamo tutti potuto notare quanto soddisfacentemente funzioni la democrazia, più o meno diretta (da chi?), nel Movimento Cinque Stelle. Produce dibattiti serrati e approfonditi, smussa i contrasti fra le diverse fazioni: governativista, ortodossa, battista, suggerisce soluzioni non ideologiche, ad esempio sul MES per spese sanitarie dirette e indirette, incorona leader con procedure trasparenti e non esasperanti.

Sarà sufficiente estendere a tutto il paese questa sperimentata democrazia diretta magari con la creazione di altre quattro o cinque piattaforme. Bisognerà procedervi lentamente per non bruciare il percorso delle riforme, ovvero le sue “magnifiche sorti e progressive”. Con allegra compostezza, balli sul balcone (non sul mattone) vietati, quelle sorti ci verranno aulicamente narrate dai costituzionalisti del “sì” anche se temo che, per farsi notare, qualcuno/a di loro leverà grida allarmate, ma fatta la breccia nella Costituzione mica ci si può più fermare. Avanti tutta verso la democrazia “decidente” senza troppi impacci da parte dei pochi rimanenti parlamentari. Viva Rousseau e viva Carl Schmitt.

Pubblicato il 24 settembre 2020 su formiche.net

Oltre l’illusoria democrazia diretta. La via deliberativa aiuta a scegliere

Troppi degli aggettivi che accompagnano la democrazia sono fuori luogo, spesso la contraddicono, talvolta ne manipolano, più o meno consapevolmente, i suoi caratteri costitutivi. Più di sessant’anni fa, in un libro ancora oggi essenziale (Democrazia e definizioni, il Mulino 1957), Giovanni Sartori criticò aspramente le aggettivazioni improprie e fuorvianti delle quali, allora, la peggiore era “popolare”. Le democrazie popolari non erano né democrazie né popolari. Allo stesso modo, non è possibile sostenere né oggi né ieri che le democrazie illiberali sono democrazie. Laddove i diritti civili e politici dei cittadini non sono rispettati, dove la stampa non è libera, dove l’opposizione ha limitati spazi di azione, dove il sistema giudiziario viene controllato dall’esecutivo, mancano le condizioni minime della democrazia, quelle condizioni che il liberalismo ha messo a fondamento delle nascenti democrazie, della loro natura, del loro funzionamento e persistenza.

La contrapposizione classica contemporanea è fra democrazia rappresentativa e democrazia diretta poiché molti ritengono che le nuove tecnologie, i nuovi strumenti di comunicazione hanno finalmente reso possibile ai cittadini di esercitare direttamente il loro potere senza bisogno di rappresentanti, rendendoli non soltanto obsoleti e inutili, ma addirittura controproducenti, un ostacolo alla traduzione delle loro preferenze, all’espressione dei loro interessi. I “direttisti” (terminologia di Sartori) identificano e confondono la democrazia esclusivamente con i procedimenti decisionali. Per loro, la democrazia diretta è quella nella quale tutte le decisioni vengono prese dai cittadini.

Naturalmente, democrazia è molto altro. È soprattutto una “conversazione”, frequente e costante, nella quale i cittadini sono coinvolti cercando di persuadersi vicendevolmente per giungere ad un accordo poi seguito da decisioni che sono sempre rivedibili alla luce dei loro effetti, più o meno positivi, e di altre informazioni sulla tematica decisa. Peraltro, tutte le democrazie rappresentative attualmente esistenti contemplano la presenza e l’uso di strumenti di democrazia diretta: l’iniziativa legislativa popolare, varie forme di referendum, persino la revoca, a determinate condizioni, degli eletti. Dal referendum (strumento di rarissimo uso in Gran Bretagna) “Remain” o “Leave” dovremmo avere tutti (britannici compresi) imparato che la democrazia diretta necessita di fondarsi su una effettiva e ampia base di informazioni disponibili a tutti gli elettori. Non è mai una semplice crocetta né un rapido click, ma è l’esito di un procedimento nel quale le posizioni sono state argomentate in pubblico e l’opinione, per l’appunto, pubblica si è (in)formata a favore o contro una specifica scelta.

Grandi scelte possono essere sottoposte all’elettorato, con le cautele del caso, ma la maggior parte dei processi decisionali richiedono ancora che siano i rappresentanti a dare il loro apporto alla definizione dell’esito. Se la democrazia diretta non è tuttora in grado di sostituire la democrazia rappresentativa, tranne che nelle esternazioni di alcuni irriducibili semplificatori, è tuttavia possibile arricchire la democrazia rappresentativa migliorando la rappresentanza e integrandola con alcune modalità specifiche. Qualche volta i “direttisti” lamentano l’alto tasso di astensionismo in alcuni contesti e in alcune elezioni. Si trovano in compagnia con i “partecipazionisti” coloro che affermano che “democrazia” è partecipazione, non esclusivamente elettorale. Peraltro, esistono già e sono utilizzate modalità che rendono più semplice l’esercizio del diritto di voto: per esempio, il voto per posta, la possibilità di votare in anticipo rispetto al giorno ufficiale delle elezioni, la delega. Vi si potrebbe aggiungere il consentire a chiunque di votare dove lui/lei si trovano (gli strumenti telematici consentono di riconoscere la qualifica di elettore e di evitare brogli). Chi ritiene che quanto più elevata è la partecipazione elettorale tanto migliore sarebbe la democrazia può proporre non pochi perfezionamenti all’esercizio del diritto di voto per quel che attiene la scelta dei rappresentanti e, in qualche caso, dei governanti nelle cariche monocratiche: presidenti nelle repubbliche semi e presidenziali, governatori di Stati, sindaci, e così via.

Chi, invece, pensa che il vero problema delle democrazie contemporanee è il mancato coinvolgimento dei cittadini in una pluralità di decisioni che, spesso, se importanti, hanno un alto tasso di “tecnicità”, può rifarsi alla oramai abbondante letteratura e a molte pratiche di “democrazia deliberativa” (in italiano il testo più rilevante lo ha scritto Antonio Floridia, La democrazia deliberativa: teorie, processi e sistemi, il Mulino, 2012. L’antesignano di questo filone di studi, James S. Fishkin, ha sintetizzato lo stato attuale delle ricerche e riferito su diversi esiti concreti in Democracy: When the People Are Thinking. Revitalizing Our Politics Through Public Deliberation, Oxford University Press 2018).
La democrazia deliberativa non è affatto la stessa cosa di democrazia decidente, inventata da qualcuno durante il referendum del 2016 sulle riforme costituzionali.

Deliberare non significa decidere, ma preparare il processo decisionale attraverso il ricorso ad assemblee di cittadini ai quali sono fornite tutte le informazioni necessarie ad una migliore comprensione del problema, delle modalità con le quali può essere compreso e affrontato, dei costi e dei benefici, delle conseguenze. Ad esempio, il “se” e il “come” costruire la TAV avrebbero potuto fare oggetto di modalità di discussione, di valutazione e di eventuale approvazione seguendo lo schema della democrazia deliberativa. La democrazia, scrisse Bobbio (Il futuro della democrazia. Una difesa delle regole del gioco, Einaudi 1984), ha promesso di “educare la cittadinanza”. È utile e doveroso partecipare anche per imparare. A loro volta, i partecipanti più e meglio informati contribuiscono all’affermazione e al perfezionamento della democrazia, del potere del popolo. A determinate condizioni, soprattutto l’accuratezza nella costruzione dell’esperimento, la democrazia deliberativa indica che, sì, i cittadini diventeranno meglio informati e il conseguente processo decisionale sarà più “rappresentativo” delle loro opinioni, più condiviso, più efficace. Al momento, questa è la strada per migliorare la democrazia rappresentativa.

Pubblicato il 14 aprile 2019

I puri a 5Stelle sacrificano le convinzioni alle convenienze

Democrazia diretta significa che i cittadini-elettori (chiedo scusa: il “popolo”) decide direttamente, senza intermediari, sulle tematiche più importanti. Soltanto chi pensa che 52.417 attivisti (che hanno partecipato alla consultazione online n.d.r.) siano effettivamente rappresentativi di circa 9 milioni di italiani che hanno votato il Movimento il 4 marzo 2018, può sostenere che la consultazione online è stata un esempio di democrazia diretta. Due elementi sono certi. Da un lato, i dirigenti del Movimento hanno scaricato sugli attivisti la responsabilità di una decisione molto importante: autorizzare o no il Tribunale dei Ministri di Catania a processare Salvini; dall’altro, è stata travolta l’autonomia dei senatori delle Cinque Stelle, meglio, la loro possibilità di votare secondo coscienza (e conoscenza), vale a dire sulla base della loro valutazione dei fatti. Quel che più conta è che il principio che le Cinque Stelle avevano dall’opposizione variamente declamato: non concedere mai l’immunità agli inquisiti, sia stato sacrificato alla ragion, non di Stato, ma di governo. “Salvare” il Ministro degli Interni Matteo Salvini che, incidentalmente, avrebbe potuto salvarsi da sé nel processo, per non mettere a rischio il governo. Sacrificare le convinzioni alle convenienze: questo hanno fatto gli attivisti anche perché, naturalmente, avevano chiaramente capito che questa era la preferenza dei loro dirigenti e ministri. La consultazione online contiene qualche importante “insegnamento”. Coloro che ne sanno o ne dovrebbero sapere di più, i senatori che avevano accesso alle carte, non hanno potuto/voluto discuterne con coloro che hanno premuto il loro bottone senza essere riusciti ad avere informazioni aggiuntive specifiche. Si è deplorevolmente dimostrato che, in un caso di notevole delicatezza, la democrazia diretta interpretata come una procedura per prendere rapidamente le decisioni ha dei limiti gravissimi. Inoltre, forse inconsapevolmente forse deliberatamente, portata fuori del Parlamento, la procedura decisionale adottata dalle Cinque Stelle costituisce uno sfregio alla democrazia rappresentativa. Non è possibile sapere che cosa avrebbero desiderato e scelto gli elettori delle Cinque Stelle, ma è sicuro che a nessuno dei loro senatori potrà essere imputata qualsiasi responsabilità per la decisione assunta. Quei senatori non potranno spiegare il loro voto e non dovranno renderne conto a nessun elettore. Delegare le decisioni importanti alla piattaforma online –non mi chiedo neppure se siano possibili manipolazioni né se dovrebbero essere gli attivisti e non i dirigenti a decidere cosa sottoporre al voto e quando- significa che i rappresentanti eletti non sono chiamati a svolgere nessun ruolo significativo e che, di conseguenza, il Parlamento, come suggerito qualche mese fa da Davide Casaleggio, finirebbe per rivelarsi inutile. La democrazia semi-diretta mette malamente fine alla democrazia rappresentativa e diventa democrazia pilotata.

Pubblicato AGL il 19 febbraio 2019

Quorum e democrazia diretta ai tempi della propaganda

Le democrazie parlamentari rappresentative funzionano in maniera soddisfacente laddove ne sono rispettate le regole e le procedure. Ad esempio, quando i decreti del governo sono emanati solo “in casi straordinari di necessità e urgenza” (art. 77 della Costituzione italiana); quando entrambe le Camere dispongono di tempo adeguato per esaminare, eventualmente emendare, infine, approvare i disegni di legge (art. 72) senza, tranne eccezionalmente, essere coartate dal voto di fiducia. I rapporti fra governo e parlamento richiedono uomini e donne rispettosi di modalità e limiti per non cadere, da un lato, nella dittatura del governo, dall’altro, nell’assemblearismo aggravato dal trasformismo. Sempre critici del Parlamento, i dirigenti del Movimento 5 Stelle vogliono arrivare alla democrazia diretta, ma dal dire al fare, com’è noto, c’è di mezzo il mare. Peraltro, sulla democrazia dentro il Movimento e sulle modalità di operazione della piattaforma Rousseau che dovrebbe garantirla, le critiche sono già state molte e argomentate. Per dare più potere ai cittadini, il ministro 5 Stelle Fraccaro ha presentato un disegno di legge sul referendum propositivo. L’intenzione è di consegnare parte del potere legislativo ai cittadini. Raccolte 500 mila firme a sostegno di un disegno di legge, se il Parlamento non lo approva oppure approva un testo molto diverso si dovrà tenere un referendum con i cittadini chiamati a scegliere fra le due opzioni. Questo tipo di referendum richiede una riforma della Costituzione che potrebbe a sua volta essere sottoposta a referendum se approvata da meno di due terzi dei parlamentari. Al momento, il punto controverso è il quorum di partecipazione al referendum affinché una proposta sia approvata dagli elettori. Le 5 Stelle dicono: “nessun quorum” per premiare i cittadini partecipanti. Sembra, invece, che la Lega desideri un quorum, il 33 per cento. Potrebbero esservi anche altri problemi. Il primo sarebbe l’intasamento del Parlamento obbligato a occuparsi in tempi predefiniti di una pluralità di proposte venute dal “popolo”. Il secondo sarebbe quello di una legislazione occasionale e casuale, priva di qualsiasi coerenza programmatica, con un probabilmente molto basso tasso di partecipazione dei cittadini e, quindi, con la legittimità dell’esito sempre molto criticabile. Qualcuno ha adombrato che l’introduzione del referendum propositivo sia una mossa delle Cinque Stelle per dimostrare che, come profetizzato da Davide Casaleggio, il Parlamento sta perdendo la sua utilità. A me pare che si tratti di una fuga propagandistica in avanti e che sarebbe di gran lunga preferibile che governo e parlamento si preoccupassero di migliorare i loro rapporti, di applicare davvero i dettati della Costituzione e di trovare forme di consultazione, di informazione e di “educazione” dei cittadini (ad esempio, facendo ricorso a esperimenti di “democrazia deliberativa” già attuati a livello locale)tali da migliorare la qualità della democrazia italiana.

Pubblicato AGL il 10 gennaio 2019

Referendum propositivo? Una fuga in avanti propagandistica

Paradossalmente, se funzionerà, finirà per intasare il Parlamento con le richieste pilotate da Rousseau (piattaforma). Il referendum propositivo è una fuga in avanti propagandistica per chi non sa migliorare i rapporti Governo/Parlamento e vuole rendere inutile il Parlamento. Avanti un altro.

 

 

Dirigisti di democrazia

Salvini si esprime a favore della TAV e chiede che se la sbroglino i cittadini con un referendum. Di Maio sostiene che i referendum non li chiedono i ministri, ma i cittadini. Però, non invita gli elettori del Movimento a raccogliere le firme. Il governatore della Liguria Toti (FI) sfida il Ministro Toninelli (M5S), che non ci sta, a un referendum sulle Grandi Opere. Chi perde si dimette. Democrazia diretta per le Cinque Stelle non è più quella che consente ai cittadini di esprimersi e decidere, ma quella che dirigono o vorrebbero dirigere loro.

La democrazia che spaventa i pentastellati

Improvvisamente e inaspettatamente, si è aperto un molto delicato problema per il Movimento 5 Stelle: mettere alla prova un elemento essenziale della loro concezione di democrazia diretta e partecipata. Sul terreno della TAV dove, fra l’altro, si trova molto esposta la amministrazione pentastellata di Torino, il Capitano Salvini prima ha dichiarato di essere favorevole a quella “grande opera”, poi ha aggiunto “se la sbroglino i cittadini con un referendum”. Il Sottotenente Di Maio, noto sostenitore della democrazia partecipata, ha subito replicato che i referendum li debbono chiedere i cittadini, non un ministro, il che è solo parzialmente vero. Infatti, autorizzato dal Parlamento, i referendum li può chiedere anche il governo, come fu nel 1989 per il referendum, certo, consultivo: “volete dare più poteri al Parlamento Europeo?” (quesito approvato dall’88 per cento, affluenza alle urne dell’80 per cento degli aventi diritto). Poi, Di Maio ha glissato evitando di spiegare perché non siano proprio gli elettori delle Cinque Stelle nella Valle di Susa e a Torino a dare inizio alla raccolta delle firme.

Nella vicina Liguria, il governatore Giovanni Toti (Forza Italia, ma molto vicino alla Lega) ha sfidato il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti il pentastellato Toninelli a fare un referendum sulle Grandi Opere, compresa la Gronda intorno a Genova, aggiungendo “chi perde si dimette”. La risposta di Toninelli, “il referendum lo debbono chiedere i cittadini”, è stata molto evasiva, ma proprio per questo rivelatrice.

Vero è che referendum del genere di quello chiesto da Salvini e da Toti presentano molti problemi. Per esempio, a quello sulla TAV, supponendo che lo chiedano gli abitanti della Val di Susa che sono i diretti interessati, chi sarà ammesso a votare: solo i residenti oppure anche i proprietari di seconde case per la villeggiatura e coloro nati in Val di Susa che colà hanno parenti, ma non vi abitano più, oppure ancora tutti i torinesi, tutti i piemontesi? Ma, se l’opera è di interesse nazionale, non dovrebbe il referendum coinvolgere tutto l’elettorato italiano? Un discorso simile vale anche per il referendum chiesto da Toti. Infatti, sia il Ponte Morandi sia la Gronda, una “bretella” per alleggerire il traffico che grava su Genova, interessano non solo i genovesi e, più in generale, i liguri, ma, da un lato, tutti coloro che ritengono che quelle opere sono necessarie a un paese moderno e dinamico, e, dall’altro, coloro che alle grandi opere si oppongono (questa è la posizione assunta ufficialmente da lungo tempo dal Movimento 5 Stelle). Adesso, emergono le loro contraddizioni. Sembra proprio che i vertici delle Cinque Stelle temano di dare voce ai cittadini e di ascoltarne le preferenze. La democrazia “diretta” la stanno interpretando come democrazia da loro diretta, non come democrazia nella quale i cittadini si esprimono direttamente senza mediazioni.

Pubblicato AGL il 13 dicembre 2018