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Democrazie, non fragili, ma complesse #paradoXaforum

Fra pochi giorni sarà in libreria il primo importante libro di Giovanni Sartori, Democrazia e definizioni, pubblicato dal Mulino nel 1957. Come avrebbe poi teorizzato, Sartori scriveva contro, vale a dire criticando le definizioni di democrazia date dai comunisti e dai benpensanti non solo a sinistra negli anni quaranta e cinquanta del secolo scorso. Quel contesto era particolarmente significativo. Quelle definizioni, spesso accompagnate da aggettivi distorcenti, democrazia “guidata”, pleonastici e fuorvianti, democrazie “popolari”, erano spesso strumento di lotta politica e ideologica. Forse oggi c’è bisogno di dire e sottolineare che Sartori riteneva e argomentava che la democrazia liberale era la forma migliore di democrazia. Condivido, sapendo che Sartori fu sempre attento alle possibili declinazioni pratiche delle democrazie liberali. Qui sta il punto che merita un approfondimento.
Le democrazie, a partire da quelle liberali, sono, come, senza fantasia ripetono non pochi commentatori, “fragili“? Quest’aggettivo non compare negli scritti di Sartori et pour cause, cioè non per caso. Infatti, né le democrazie liberali né la democrazia di Sartori possono mai essere definite fragili, castelli di carte. Quell’insieme di diritti, civili e politici, talvolta anche sociali, e di istituzioni separate (merci, Montesquieu), che è costitutivo delle democrazie, non è affatto fragile. Merita, anche quando non è accompagnato da una società, uso gli aggettivi preferiti dagli americani, ”robusta e vibrante”, l’aggettivo complesso. Poi, caso per caso, si potrà indagare se complesso implica anche e a quali condizioni vulnerabile. Non necessariamente.
Certamente, la democrazia di Weimar (1919-1933), alla quale nessuno ha mai attribuito l’aggettivo fragile, fu politicamente e istituzionalmente molto complessa e si dimostrò anche vulnerabile. In quanto drammaticamente tale continua a essere oggetto di una molteplicità di analisi anche ottime sulle cause del suo crollo. Ma, fermo restando che si contano sulle dita di una mano le democrazie apparse e cresciute dopo il 1945, dopo il 1974 e dopo il 1989 (le ondate di democratizzazione di cui ha convincentemente scritto nel 1991 Samuel P. Huntington), quali sarebbero di grazia le democrazie “fragili”?
Soltanto di una democrazia del secondo dopoguerra è possibile affermare con certezza che è “caduta”: il Venezuela. Gli analisti sono concordi che la causa principale, il fattore scatenante fu l’implosione dei due partiti che garantivano la politica democratica e competitiva, non la fragilità delle istituzioni venezuelane. Quel che è sicuro è che l’autoritarismo di Maduro è tutt’altro che solido. Tuttavia, il discorso su presunta fragilità, complessità e vulnerabilità delle democrazie non deve essere abbandonato. Insieme a molti errori definitori e talvolta, più gravi, analitici (non è vero che le democrazie “muoiono”, accertabile è che vengono assassinate, per lo più dalle elites politiche, economiche, militari, persino religiose), alcuni studiosi hanno finalmente colto i punti più importanti, spesso decisivi. Erosione e backsliding, scivolamento all’indietro, retrocessione sono i due fenomeni più preoccupanti.
Quando i diritti dei cittadini vengono limitati e cancellati e l’autonomia di ciascuna delle istituzioni, in particolare quella del sistema giudiziario, viene ferita e ridimensionata, allora comincia un procedimento pericolosissimo che colpisce prima la qualità di quella democrazia, poi, la sua funzionalità, infine, la sua esistenza. Niente di questo risulta comprensibile a chi lo guarda dalla finestra della fragilità, meno che mai sapendo come bloccarlo. Mantenere la complessità suscitando pluralismo è, Sartori approverebbe, la ricetta dei difensori della/e democrazia/e.
Pubblicato il 4 settembre 2025 su PARADOXAforum
Era il maestro, diffidate degli imitatori #GiovanniSartori
Non sarei dove sono, non sarei quello che sono se non avessi incontrato Giovanni Sartori un giorno di metà dicembre 1967 quando alla Facoltà “Cesare Alfieri” di Firenze avvenne la selezione per i borsisti del Centro Studi Politica Comparata da lui appena fondato. Abbiamo a lungo scherzato su quell’occasione alla quale, rientrato da un anno di studio negli Usa, mi presentai, ben preparato, per l ‘esame, ma, soprattutto con un elegantissimo cappotto blu lungo, com’era la moda di quell’anno. Ancora nell’ultima occasione in cui ci siamo visti, tre settimane fa, Sartori lo ricordava, aggiungendo che anche la lunghezza dei miei capelli era un tratto distintivo, ma che, insomma, il mio esame era stato sorprendentemente buono. Ho imparato moltissimo da Sartori e ho ricevuto moltissimo da lui, non per sua particolare generosità, ma perché era uno studioso originale, sistematico, esigente. Le sue critiche erano dure e motivate. Le sue richieste di miglioramenti imperiose. Voleva un impegno costante e dedizione alla ricerca e all’insegnamento. Nei miei cinque anni fiorentini facemmo molte cose insieme, la più importante fu la Rivista Italiana di Scienza Politica, lui direttore, io redattore capo, non senza vivaci contrasti (dai quali uscivo regolarmente sconfitto).
Sartori ha rifondato la scienza politica in Italia, introducendola come materia, anche grazie all’appoggio di Norberto Bobbio (il relatore della mia tesi di laurea) e di Gianfranco Miglio, nell’ordinamento delle Facoltà di Scienze Politiche. Esaurito questo compito molto impegnativo che si tradusse anche nell’attivazione degli insegnamenti di Scienza politica nelle più importanti sedi: Firenze e Bologna, Torino e Milano, decise di accettare la più prestigiosa offerta fra quelle pervenutegli dall’Inghilterra (Oxford) e dagli Usa. Nel 1976 se ne andò a Stanford per tre anni, poi gli fu affidata la Albert Schweitzer Chair in the Humanities alla Columbia University dove rimase fino alla pensione (1995) divenendone Emerito.
Spesso si dice che persino i grandi studiosi in definitiva scrivono un unico libro e poi elaborano idee e approfondimenti intorno a quella stessa tematica. Non è affatto questo il caso di Sartori. Ha scritto almeno tre grandi libri. Democrazia e definizioni (1957) è uno straordinario saggio di teoria, filosofia e scienza politica che gli diede grande fama e che è stato non solo un best-seller, ma un long-seller. Di democrazia ha continuato a scrivere per cinquant’anni. Il suo libro Parties and party systems (1976) è un classico che nessuno studioso dei partiti può permettersi di ignorare. Fu tradotto in molte lingue, non in italiano. Ho assistito alle sue reazioni disgustate quando leggeva qualche prova di traduzione e cercavo di spiegargli che “Sartori non può essere tradotto in italiano. Solo lui stesso può farlo. Nessuno può neppure lontanamente riuscire a imitare il suo stile”. Scherzando, ma non troppo, si lamentava che, naturalmente, i cinesi non avevano nessuna intenzione di pagargli i diritti d’autore. Un’irritazione di tipo diverso gli era causata dall’ignoranza dei sedicenti riformatori elettorali e istituzionali italiani. Fin quando poté li sbeffeggiò (sì, questo è il verbo giusto) nei suoi brutali (anche questo è l’aggettivo giusto) e letali editoriali sul Corriere della Sera. Il suo libro Ingegneria costituzionale comparata (1994), variamente ripubblicato, con aggiunte, dal Mulino, è da vent’anni il testo con il quale si confrontano tutti gli studiosi che nel mondo anglosassone e latino-americano si sono occupati di democrazia e riforme costituzionali.
Invitato nel 1969 a collaborare al Corriere della Sera dal suo collega Giovanni Spadolini, diventatone il direttore, Sartori sfruttò l’occasione con grande soddisfazione e gusto. Molti furono i bersagli delle sue due nitide colonne di prima pagina, ma Berlusconi con il suo monumentale conflitto d’interessi lo obbligò a mettere in evidenza che cos’è il liberalismo come tecnica di separazione dei poteri, di autonomia delle istituzioni, di freni e contrappesi, di non commistione fra affari privati/personali e cariche pubbliche, non da ultimo come stile di governo. Raccolse i suoi editoriali nel libro Il Sultano (Laterza).
L’uomo Sartori non era accondiscendente con nessuno. Voglio chiudere con le sue parole scritte come premessa a un libro dedicatomi: “Tra cattivi caratteri forse il peggiore è il suo”. Senza forse Giovanni Sartori è stato il più grande scienziato politico dei suoi tempi.

