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Elezioni per acclamazioni? No. Meglio di no.
Nessuna acclamazione è mai una procedura democratica. Non è trasparente, come la democrazia vorrebbe. Non consente di attribuire responsabilità personali a ciascuno/a dei votanti. Permette a chi vorrebbe dissentire di nascondersi in maniera codarda e di non farsi/lasciarsi contare (e di continuare a contrattare). L’elezione voluta dalla neo-segretaria del Partito Democratico Elly Schlein dei capigruppo alla Camera (Chiara Braga) e al Senato (Francesco Boccia) è stata una brutta pagina. Peraltro, chi fa politica dovrebbe ricordare due precedenti acclamazioni non proprio virtuose: la rielezione di Craxi a segretario del Partito socialista a Verona nel 1984 e l’indicazione di Romano Prodi come candidato alla Presidenza della Repubblica nell’aprile 2013 da parte dell’assemblea dei parlamentari del PD (101 dei quali poi non lo votarono). Curiosamente, sulla scia di questo comunque deplorevole e tuttora deplorato episodio, proprio la Schlein ottenne la sua prima visibilità creando il movimento “Occupy PD”. A proposito dell’acclamazione di Craxi, il grande filosofo politico Norberto Bobbio la bollò come “democrazia dell’applauso” e qualche mese dopo pubblicò uno dei suoi libri più famosi: Il futuro della democrazia (Einaudi 1984).
Politicamente, l’acclamazione avvenuta nell’Assemblea del PD porta con sé alcune implicazioni comunque negative. Prima implicazione: la segretaria è convinta di essere molto forte e di riuscire a decidere a prescindere dai cosiddetti “mal di pancia”. Sopravvaluta se stessa e i suoi sostenitori. Seconda implicazione: la minoranza è a disagio, vero o procurato, ma non se la sente di esporsi, di proporre proprie candidature e di imporre un dibattito. Rilutta a contarsi e si trincea dietro un applauso che cela grande ipocrisia. Terza implicazione: non importa conoscere le modalità con le quali i due neo-capigruppo intendono guidare i deputati e i senatori del Partito Democratico. Hanno silenziosamente accettato di essere la cinghia di trasmissione della segretaria. Non vorranno e non avranno autonomia che, invece, per affrontare le peripezie dei dibattiti e delle decisioni parlamentari, è spesso assolutamente essenziale. Infine, ultima implicazione, la minoranza cercherà di “strappare” posti in altre sedi, probabilmente nella segreteria che, invece, essendo la War Room della segretaria, non dovrebbe vedere contrapposizioni correntizie.
Per alcuni inestinguibili “romantici”, come chi scrive, l’acclamazione colpisce al cuore qualsiasi sforzo di costruzione, mantenimento e funzionamento della democrazia di partito nel partito. Per un Partito che si definisce “Democratico” non è solo una grave contraddizione. È una brutta (ri)partenza; è una pessima smentita. Fra il troppo potere divisivo delle correnti e il troppo potere incontrollato della Segretaria, tertium datur, c’è una vera terza via: dibattiti trasparenti, confronti fra fra idee, persone, proposte, votazioni su alternative. Questa, sì, è democrazia.
Pubblicato AGL il 31 marzo 2023
LA DEMOCRAZIA Riflessioni a partire da “La teoria della democrazia in Norberto Bobbio” #17marzo #Chiampo #Vicenza
Venerdì 17 marzo, ore 20.45
Sala consiliare, Chiampo (VI)
LA DEMOCRAZIA
Riflessioni a partire da “La teoria della democrazia in Norberto Bobbio ” di Nicola Muraro
Ne discutono con l’ autore:
Giulio Azzolini, Prof.re di Filosofia Politica presso l’Università Ca ‘ Foscari di Venezia
Giorgio Cesarale, Prof.re di Filosofia Politica presso l’Università Ca ‘ Foscari di Venezia
Gianfranco Pasquino, Prof.re Emerito di Scienza Politica presso l’Università di Bologna
autore di Bobbio e Sartori: Capire e cambiare la politica
Non esistono despoti che fanno anche cose buone @DomaniGiornale


Nell’aprile del 1917 per ottenere l’approvazione del Congresso ad entrare in guerra contro la Germania il Presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson dichiarò memorabilmente che l’obiettivo era “make the world safe for democracy”. Parecchi anni dopo i Padri Fondatori dell’Unione Europea si posero un obiettivo simile, ma più limitato: rendere il continente europeo un posto sicuro per le democrazie, dove non si facessero più guerre. Dopo il crollo del comunismo e dell’Unione Sovietica, questo obiettivo, già messo al sicuro dentro il perimetro delle democrazie occidentali, è apparso conseguibile. L’ascesa di Putin e la sua aggressione all’Ucraina ritardano qualsiasi ulteriore sviluppo democratico e rendono necessari opportuni ripensamenti che, però, non possono nemmeno per un momento mettere sullo stesso piano le democrazie occidentali e il regime autoritario russo. In parte comprensibile anche se, forse, non proprio giustificabile, fu la valutazione del ruolo “positivo” svolto dall’URSS sulla scena internazionale come contrappeso degli Stati Uniti. Ma polacchi, ungheresi, cecoslovacchi, i cittadini degli Stati baltici hanno tutto il diritto di pensarla molto diversamente. Invece, non si capisce proprio quale merito possa essere riconosciuto a Putin.
Come si sia formata e esternata l’amicizia fra il liberale, cristiano, garantista e europeista Berlusconi e lo zar del Cremlino è un mistero non glorioso. Certo l’argent di Putin può essere stato utile a Salvini e alla Lega, ma quale futuro radioso poteva nascere dall’esibizione compiaciuta di una t-shirt con l’effigie di un tiranno? Last but not least, ultimo, ma tutt’altro che irrilevante, l’attuale Ministro della Difesa Guido Crosetto ha dichiarato, meglio tardi che mai, di avere esagerato nel criticare le manovre Nato sul confine russo e di avere sottovalutato le mire espansioniste di Putin. Ben venuto il ravvedimento di Crosetto (quanto a Berlusconi e Salvini sono personalmente incerto, ma anche loro…), rimane, tuttavia, il problema/obiettivo generale evocato dalla frase di Wilson. Se è auspicabile rendere il mondo un posto sicuro per le democrazie, come possono coloro che vivono nei regimi democratici ritenere possibile quell’esito collocandosi dalla parte degli autocrati, dei despoti, dei tiranni? Costoro vogliono ridurre il numero delle democrazie, per esempio, altrove, piegando quel che c’era di democrazia a Hong Kong e apprestandosi a soffocarla a Taiwan. Riscuotono aiuti da altri regimi autoritari, come la teocrazia iraniana e non solo. Si spalleggiano a vicenda.
Quando leggo libri che raccontano come muoiono le democrazie, mi chiedo se non sia il caso che gli autori esplorino chi uccide le democrazie, cambino il titolo e offrano una spiegazione basata sulle sfide che i non-democratici lanciano dall’interno alle loro democrazie vigenti, magari lodando e esaltando alcuni dei molti modelli antidemocratici esistenti nel mondo e i loro “attraenti” protagonisti. La democrazia bisogna praticarla e insegnarla (anche viceversa). Bisogna anche dire a chiarissime lettere che esiste un linea divisoria netta fra democrazie e non-democrazie. Che soprattutto i liberali dovrebbero essere i primi a respingere l’idea che possano esistere democrazie “illiberali”. Lasciamo che siano gli oppositori degli autoritarismi, quando sperabilmente sono riusciti a sopravvivere, a testimoniare che quei leader autoritari hanno fatto anche qualcosa di buono.
Pubblicato il 1 febbraio 2023 su Domani
La democrazia reale è lontana dall’ideale, ma è il meglio che c’è @DomaniGiornale


“Seduti in qualche caffè parigino, una Gauloise fra le dita e un Pernod sul tavolino; rifugiatisi nella loro casetta per il fine settimana su un lago tedesco; raggruppati in vocianti tavolate che criticano aspramente uno qualsiasi dei governi latino-americani; ad un congresso fra colleghi politologi e sociologi in una ridente località balneare esotica; partecipando alla riunione di redazione di un quotidiano progressista romano, molti pensosi intellettuali dei più vari tipi dichiarano con faccia triste e sconsolata che la democrazia è in crisi, è una causa persa, non può essere salvata. Rannicchiati in qualche prigione cinese; agli arresti domiciliari nel Sud-Est asiatico; braccati dalla polizia in diversi stati africani; nascosti sotto protezione perché è stata lanciata una fatwa contro di loro; malmenati in Piazza Tahrir, migliaia di oppositori, uomini, donne, studenti, lottano in nome della democrazia – sì, proprio quella, occidentale, che hanno visto in televisione e nei film americani, sperimentato come studenti a Oxford, Cambridge, Harvard, La Sorbona, Bologna – organizzano attività, reclutano aderenti, qualche volta mettono in gioco consapevolmente la propria vita. Per nessun altro regime, mai, così tante persone di nazionalità, di cultura, di colore, di età e di genere diverso si sono impegnate allo stremo”. Sono particolarmente affezionato a questo ritratto di quasi dieci anni fa (Politica e istituzioni, Milano, Egea, 2014, p. 118) che ritengo mantenga tutta la sua validità aggiungendo fra i combattenti per la democrazia i giovani di Hong Kong e le donne iraniane e afghane. Sono anche convinto che non pochi lettori lo condividano in buona misura e che, forse, altrettanti vorrebbero obiettare. In democrazia ne hanno facoltà. Altrove, qualora ci provino, siano consapevoli dell’alto costo che implica esercitare quello che in democrazia è la libertà di parola.
Da quando scrissi quei paragrafi, qualcosa di grave ha fatto la sua comparsa, non tale da dare per superata la contrapposizione da me allora delineata, ma certamente da richiedere osservazioni specifiche aggiuntive. Abbiamo assistito a due sfide lanciate dall’interno di due sistemi politici diversamente democratici: gli assalti al Campidoglio di Washington il 6 gennaio 2021 (Jill Lepore, docente di Storia all’Università di Harvard, ne ha mirabilmente scritto nel settimanale “The New Yorker” del 23 gennaio 2023 analizzando impietosamente l’appena reso noto Rapporto della Commissione d’Inchiesta su quei fatti) “e al Planalto di Brasilia l’8 gennaio 2023 (che si merita e avrà altrettanta attenzione). Che cosa provano sulla democrazia? Per una ampia parte dei commentatori la valutazione sembra essere fin troppo facile, lapalissiana: c’è una crisi della democrazia. Un’altra parte di commentatori, apparentemente meno numerosa, sostiene, invece, che siamo difronte alla prova provata che le democrazie sanno reagire con successo anche alle sfide più minacciose. Nelle mie parole, le democrazie riescono a rimbalzare.
Le sfide nascono dal cattivo funzionamento delle democrazie esistenti, da problemi contingenti, dai sottovalutati comportamenti delle elite, politiche, economiche, religiose, militari, da difetti congiunturali se non, addirittura, strutturali. Più di trent’anni fa, il grande sociologo politico spagnolo Juan Linz aggiunse all’elenco delle inadeguatezze delle Repubbliche presidenziali quella dell’elezione popolare diretta del Presidente che consente e facilita la discesa in campo di candidature a vario titolo folkloristico, difficili da fermare, esagerate nelle loro promesse, impreparate a governare. Non c’è bisogno di elaborare. Quel che importa è che sono libere elezioni quelle che selezionano le candidature. I politici di professione ne accettano gli esiti poiché vogliono mantenersi aperta la strada ad un ritorno anche dopo una sconfitta. I parvenus temono che la loro sconfitta produca la loro definitiva emarginazione. Dunque, si aggrappano ad ogni elemento per restare a galla. L’accusa di “furto elettorale” ai loro danni è oramai lanciata addirittura prima del voto. Lo ha fatto Trump negli USA; lo ha seguito Bolsonaro in Brasile. Facile immaginare altre emulazioni future. Giusto, pertanto, andare a valutare la qualità della democrazia elettorale. Dalle loro regole e procedure scaturisce la democrazia politica che andrà poi sostenuta da una rete di diritti e di istituzioni (tema importantissimo da analizzare a fondo another time another place).
Per sfuggire dalla confusione analitica e dalla manipolazione politica che viene effettuata sul concetto e sull’essenza della democrazia, due riflessioni sono cruciali sulla scia del più grande studioso della democrazia, Giovanni Sartori (1924-2017). La prima riguarda la definizione. Non è corretto accettare l’idea falsamente generosa che a ciascuno è consentito di avere la sua definizione di democrazia. Esiste una modalità definitoria convincente che è fatta di etimologia e di storia che soddisfa l’esigenza di chiarire cos’è la democrazia politica: regole, procedure, istituzioni, diritti e doveri (Democrazia. Cosa è, Milano, Rizzoli, 2007). Alla democrazia politica non si possono appioppare aggettivi che ne contraddicono la natura: democrazie guidate, popolari, autoritarie, illiberali. Ognuno può avere la sua democrazia ideale e la può usare come metro di valutazione per le democrazie realmente esistenti. La democrazia ideale continua ad essere senza nessun bisticcio un ideale perseguibile e perseguito. Le democrazie reali, realmente esistenti ne rappresentano le traduzioni pratiche possibili e, naturalmente, criticabili per le loro inadeguatezze che non necessariamente, anzi, solo, raramente, meritano di essere caratterizzate come “crisi” (della democrazia).
La seconda riflessione è diventata ancora più attuale in anni recenti. Riguarda il rapporto che può/deve intercorrere fra democrazia e eguaglianza. Per Sartori l’unica eguaglianza necessaria in democrazia è quella di fronte alla legge: isonomia. È eguaglianza di diritti, civili e politici, in assenza dei quali non c’è possibilità di democrazia poiché alcuni cittadini conterebbero più di altri. L’eguaglianza “democratica” di Sartori non è mai eguaglianza di esiti né economici né, più in generale, di condizioni. Non è neppure eguaglianza di opportunità se non sotto forma di rimozione di ostacoli (impropri) alla partecipazione politica. Al proposito mi sembra importante aggiungere che fra le molte promesse secondo lui non mantenute (ma che a suo parere non si potevano mantenere) della democrazia, Norberto Bobbio non menziona mai l’eguaglianza (La democrazia e il suo futuro, Torino, Einaudi 1984, 1991). Semmai, per Bobbio l’eguaglianza ovvero, meglio, il perseguimento della eguaglianza (anche sotto forma della riduzione delle diseguaglianze esistenti) è il criterio, la stella polare dell’azione politica della sinistra, di coloro che si collocano a sinistra. Aggiungo che è comunque da evitare qualsiasi sottovalutazione del rischio che l’attacco alle diseguaglianze possa essere portato da leadership populiste, come spesso è accaduto nelle Repubbliche presidenziali latino-americane, con esiti lampantemente non-democratici.
Non nutro aspettative ottimistiche sul ri-orientamento della discussione sulla democrazia/sulle democrazie con riferimento a quanto scritto da Bobbio e da Sartori, da me variamente sintetizzato e reinterpretato. Rimango del tutto convinto che in assenza di un qualche ri-orientamento serio e profondo, a cominciare dalla chiarezza dei concetti e dalla problematica relazione fra democrazia politica e eguaglianza economica, quella discussione è destinata a continuare in maniera confusa e manipolabile, persino pericolosa nella misura in cui legittima elaborazioni e azioni che nuocciono alla democrazia che è possibile instaurare, mantenere, fare funzionare, trasformare in meglio. Propongo di ripartire da due generalizzazioni. I regimi autoritari cadono al grido di “libertà, libertà”. Nessuna democrazia è mai caduta al grido di “eguaglianza, eguaglianza”.
Pubblicato il 15 gennaio 2023 su Domani
Democrazia ideale, democrazie reali @C_dellaCultura
Un contributo alla discussione del libro


Un contributo alla discussione de LA DEMOCRAZIA NEL XXI SECOLO. Riflessioni sui temi di Alfredo Reichlin, a cura di Giuliano Amato, Roma, Treccani, 2022, pp. 329
1 Da quasi un decennio, la mia tesi, che esprimo ripetutamente e ripetitivamente è che, sulla scia di Giovanni Sartori, bisogna assolutamente distinguere fra la democrazia ideale e le democrazie reali, realmente esistenti, e che la crisi della democrazia non esiste, ma costantemente e più o meno frequentemente fanno la loro comparsa problemi, difficoltà, inconvenienti di funzionamento nelle democrazie realmente esistenti. Chi non coglie queste distinzioni finisce soltanto per contribuire alla confusione analitica prevalente, resa ancora più fitta dall’affermazione che ognuno ha/avrebbe la sua definizione di democrazia. Autore dell’importante volume Democrazia e definizioni pubblicato nel 1957 (Bologna, il Mulino) e variamente ristampato, ma oggi purtroppo non più disponibile, Sartori sarebbe profondamente irritato dalla faciloneria di quell’affermazione. Delle parole e dei concetti esistono sempre definizioni prodotte dalla storia e definizioni concordate (stipulate) dagli studiosi, non da ciascuno di loro, ma dalla convergenza delle loro vedute, opinioni, ricerche e analisi dopo confronti pubblici. In materia, nessuna definizione di democrazia può prescindere dalla etimologia: potere del popolo. Poi si tratta di chiarire le caratteristiche del popolo e il significato di potere. Ma, naturalmente, se il potere è nelle mani di uno, di pochi, di nessuno non possiamo avere dubbi: non è democrazia.
Chiudo questa premessa riportando con minime variazioni alcuni paragrafi che scrissi nel 2014 ai quali sono particolarmente affezionato e che ritengo mantengano tuttora la loro validità. Anzi.
“Seduti in qualche caffè parigino, una Gauloise fra le dita e un Pernod sul tavolino; rifugiatisi nella loro casetta per il fine settimana su un lago tedesco; raggruppati in vocianti tavolate che criticano aspramente uno qualsiasi dei governi latino-americani; ad un congresso fra colleghi politologi e sociologi in una ridente località balneare esotica; partecipando alla riunione di redazione di un quotidiano progressista romano, molti pensosi intellettuali dei più vari tipi dichiarano con faccia triste che la democrazia è in crisi, è una causa persa, non può essere salvata. Rannicchiati in qualche prigione cinese; agli arresti domiciliari nel Sud-Est asiatico; braccati dalla polizia in diversi stati africani; nascosti sotto protezione perché è stata lanciata una fatwa contro di loro; malmenati in Piazza Tahrir, migliaia di oppositori, uomini, donne, studenti, lottano in nome della democrazia – sì, proprio quella, occidentale, che hanno visto in televisione e nei film americani, sperimentato come studenti a Oxford, Cambridge, Harvard, La Sorbona – organizzano attività, reclutano aderenti, qualche volta mettono in gioco consapevolmente la vita. Per nessun altro regime, mai, così tante persone di nazionalità, di cultura, di colore, di età e di genere diverso si sono impegnate allo stremo” (Politica e istituzioni, Milano, Egea, 2014, p. 118).
2. Quanto di questo testo, che non è un appello alle emozioni, ma un invito razionale a fare qualche riflessione e qualche conto su che cosa è la democrazia, su che cosa può essere, su chi è in grado di costruirla, di migliorarne il funzionamento e di accrescerne la qualità si trova nelle pagine dei molti libri e articoli dedicati al ripiegamento e al disfacimento, al backsliding (scivolamento all’indietro) dei sistemi politici democratici e che giungono saccentemente a spiegare “come muoiono le democrazie”? La mia personale e preliminare risposta è davvero molto poco, quasi nulla. Ovvio che “armato” dalle idee che ho espresso sopra, non sono incline ad essere indulgente nei confronti di analisi che non escano dai binari già tracciati e troppo spesso battuti. Tuttavia, apprezzo gli sforzi tesi a illuminare le sfide, ad approntare le soluzioni, a valutarne le conseguenze. Proprio come scrive Giuliano Amato nell’introduzione a questo libro bisogna concentrare l’attenzione sui prerequisiti di una democrazia funzionante; sull’impatto sulle democrazie delle grandi innovazioni del nostro tempo; sulle condizioni delle democrazie le cui culle furono gli USA e l’Europa e sulla sfida non-democratica della Cina. E sia.
Purtroppo, moltissime riflessioni e analisi contemporanee (anche nei capitoli di questo libro) sono inquinate (sì, questo è il verbo che ritengo appropriato) da un grave equivoco, vale a dire che la democrazia abbia promesso l’eguaglianza. Giuliano Amato, curatore del volume, lo scrive in maniera più sfumata: “Sappiamo da molto tempo che non può esservi democrazia senza un tasso ragionevole di eguaglianza” (p. 11). Che cosa sappiamo esattamente? E da quanto tempo? È possibile essere più precisi riguardo a cosa è “ragionevole” in termini di eguaglianza, ad esempio, per i norvegesi e per i messicani? Per gli americani e per gli europei? Posso sentirmi autorizzato a pensare che se l’eguaglianza “ragionevole” non viene conseguita e mantenuta, ma, al contrario, crescono indistintamente le diseguaglianze, allora la democrazia ha fallito, è fallita, fallirà? No, non è affatto così. Una breve digressione è indispensabile.
Nella definizione e nel concetto di democrazia che nasce in Grecia non c’è nessun riferimento all’eguaglianza. Meno che mai all’eguaglianza economica e di esiti materiali. Quanto all’eguaglianza di condizioni, gli uomini greci che partecipavano al governo della polis condividevano condizioni sociali e culturali molto simili. Scherzosamente, ho spesso messo in evidenza come, in un modo o nell’altro, in tempi diversi, quegli uomini avevano appreso la filosofia passeggiando con Socrate, Platone e Aristotele: la “buona scuola” (!). Come ha giustamente sottolineato più volte Sartori (si veda, in particolare, il densissimo capitolo Eguaglianza nel suo volume Democrazia Cosa è, Milano, Rizzoli, 2000, pp. 178-194), i greci si riferivano ad una sola eguaglianza indispensabile per la democrazia: la isonomia, vale a dire l’eguaglianza di fronte alla legge. La mia interpretazione estensiva di questa eguaglianza va fino ad includere i diritti, civili e politici, di cui, in democrazia, debbono godere tutti i cittadini, diritti che debbono essere protetti e promossi appunto per tutta la cittadinanza. Grazie a quei diritti ciascuno e tutti saranno in grado di perseguire la felicità che, è presumibile, soltanto una minoranza interpreterà in termini economici, come eguaglianza di guadagni, e come livellamento delle condizioni di vita. Probabilmente, la grande maggioranza dei cittadini desidererà/desidera eguaglianza/e di opportunità. Forse, su questo punto, un libro che è dedicato al pensiero politico di Alfredo Reichlin e alla sinistra che lui voleva rinnovare, sarebbe stato cruciale prevedere un capitolo apposito.
Molto interessante è notare che l’eguaglianza non figura nel famoso elenco stilato da Norberto Bobbio delle “promesse non mantenute” della democrazia (Il futuro della democrazia, Torino, Einaudi, 1984, 1991, 1995). L’eguaglianza, ovvero, meglio, la ricerca dell’eguaglianza, fece la sua comparsa dieci anni dopo nel fortunatissimo saggio Destra e sinistra. Ragioni di una distinzione (Roma, Donzelli, 1994) come criterio differenziante il pensiero e l’azione della sinistra rispetto alla destra sostanzialmente disponibile a prendere atto delle diseguaglianze come esito, sostanzialmente giusto e ineluttabile, delle attività, dell’impegno, delle capacità dei singoli, e ad accettarle.
3. Le mie osservazioni critiche non intendono affatto chiudere il discorso sui rapporti fra democrazia e (dis)eguaglianze. Al contrario, mirano a riorientarlo più produttivamente. Pur seriamente apprezzando lo sforzo di documentazione della dinamica delle diseguaglianze effettuato nel suo capitolo da Andrea Brandolini (Democrazia politica e eguaglianza economica) non posso non rilevare due carenze degne di essere accuratamente colmate. La prima riguarda l’individuazione la più articolata possibile dei fattori che conducono alle diverse situazioni di diseguaglianze misurate con riferimento ai mutamenti nelle distribuzioni del reddito. La seconda concerne l’impatto che ha la politica sulle scelte di ciascun paese. A utile essenziale integrazione (non completamento che altri elementi dovrebbero entrare in gioco) del capitolo di Brandolini, viene l’ottima ricognizione di Gianni Toniolo, Democrazia e stato sociale (avrei scritto tutto al plurale; infatti, “pluralista” è la trattazione dell’importante tematica). La creazione, la manutenzione, la trasformazione dello Stato sociale è stata storicamente la risposta della sinistra al problema delle diseguaglianze, non per farle sparire, impossibile, ma per contenerle, renderle tollerabili, meno influenti sulla vita delle persone, creare situazioni nelle quali a quelle persone si possano offrire opportunità che, poi, ciascuno sfrutterà secondo le sue capacità, le sue preferenze, i suoi obiettivi.
Nel quadro di regole, procedure e istituzioni che definiscono le democrazie, sono le donne e gli uomini che prescelgono le loro strategie di vita. Sappiamo che nel non troppo lontano passato dell’Europa occidentale, in alcune democrazie si giunse ad un insiemi di convergenze e accordi fra le forze sociali e politiche che andò sotto il nome di compromesso socialdemocratico. Consistette in triangoli virtuosi nei quali sotto l’egida di un partito socialdemocratico/laburista/dei lavoratori capace di vincere e rivincere le elezioni e di andare e rimanere al governo, sindacati unici potenti e rappresentativi della classe operaia accettavano di moderare e differire le loro richieste salariali in cambio di politiche di investimenti e di impiego ad opera delle associazioni industriali che, messe a conoscenza dei progetti e delle direttive dei governi socialdemocratici garanti del compromesso, agivano di conseguenza con sicurezza. Tutto questo, tranne la fiducia reciproca e la consapevolezza che le situazioni di conflittualità comportano alti costi specifici, particolaristici e sistemici, è venuto strutturalmente meno. La classe operaia è numericamente diminuita in maniera molto significativa e si è frammentata. Hanno fatto la loro comparsa ceti di persone “post-materialiste”, non organizzabili poiché convinte di potere difendere le loro preferenze e avanzare i loro interessi grazie alle proprie capacità personali. La tecnologia consente, spesso obbliga le imprese ad assumere personale specializzato a prescindere da qualsiasi accordo con i governi i quali, raramente, hanno solida base socialdemocratica. Infine, le politiche keynesiane di deficit spending sono state rese impossibili dalla globalizzazione e impraticabili nell’ambito dell’Unione Europea.
Densi capitoli di questo libro mettono in evidenza le sfide, ma anche gli spazi di eventuale democrazia economica, che vengono alla democrazia dalla tecnologia (Salvatore Rossi), dalla trasformazione energetica (Valeria Termini), dalla “Produttività perduta dell’Occidente” (Philippe Aghion), dai mutamenti dei valori (la mia interpretazione sarebbe piuttosto focalizzata sul mancato aggiornamento della cultura politica delle sinistre) nell’ambito di elettorati potenzialmente di sinistra (Colin Crouch). In questo contesto si situa l’Unione Europea della quale, forse troppo severamente, Lucrezia Reichlin mette in evidenza le inadeguatezze e gli errori piuttosto che le realizzazioni e gli apprendimenti concludendo con l’individuazione di tre scenari per il futuro: scenario autoritario (sovranismo economico e solidarietà transnazionale nel quale, però, non vedo l’autoritarismo); Scenario di democrazia deliberativa sperimentale, ritenuto lo scenario più auspicabile, ma ancora da concettualizzare e approfondire; Scenario dello status quo, da lei stessa ritenuto il più improbabile. Concordo e aggiungo che, in effetti, in ogni momento l’Unione Europea avanza e che, pertanto, dovremmo forse pensare ad un Scenario federale di maggiore integrazione. Sono rimasto affezionato ai tre procedimenti indicati circa una ventina di anni fa: Allargare, Approfondire, Accelerare, che mi paiono ancora tutti plausibili e esperibili. Un po’ estraneo dal resto del libro è il capitolo di Pietro Reichlin: L’Italia, il Mezzogiorno. Riflessioni sull’economia italiana dell’ultimo ventennio, dal quale mi sarei aspettato critiche non soltanto “economiche”, ma politiche, alle classi politiche meridionali che darebbero maggiore senso ad un’affermazione dell’autore altrimenti prigioniera degli stereotipi: “penso che il Mezzogiorno possa crescere più del resto del paese solo se ha la capacità di valorizzare le sue diversità, una vocazione specifica e non omogenea rispetto alle altre aree del paese” (p. 299).
4. Non so se lo scontro del XXI secolo sarà un duello fra gli Stati Uniti d’America e la Cina. Però, in qualche modo, non soltanto in maniera sotterranea, sia Pierluigi Ciocca (L’America, un colosso d’argilla?) sia Ignazio Musu (Democrazia ed economia in Cina) procedono a effettuare una serie di confronti. GLI USA non ne escono bene: “gli Stati Uniti sono in crisi profonda” (p. 221) scrive Ciocca; “la classe politica è frantumata e mediocre” (p. 222); esiste “un’insicurezza isterica del vertice di Washington che non può non preoccupare” (p. 223); “la democrazia USA è fragile” (p. 224). Dopo qualche cenno comparato Ciocca offre una conclusione che trovo molto discutibile: “la Cina antepone la soluzione dei problemi sociali del popolo ai diritti civili degli individui: l’economia prima, la democrazia dopo. Gli Stati Uniti, come le altre democrazie liberali, invertono la sequenza [più precisamente, osservo che non hanno mai avuto un’altra sequenza]. Forse i due sistemi sono destinati a convergere” (p. 239). Questa convergenza fra sistemi politici e economici tanto diversi fu suggerita sessant’anni fa da due grandi politologi: Zbigniew Brzezinski e Samuel P. Huntington ( Political Power: USA/USSR, New York, The Viking Press, 1963). Sbagliarono alla grande.
Certo, la Cina di Xi Jinping non è l’Unione Sovietica degli anni Ottanta dello scorso secolo, ma porre il problema della democrazia in Cina come se fosse all’ordine del giorno mi appare piuttosto sconcertante. Musu afferma che i cinesi “sembrano soprattutto preoccupati della libertà di scelta delle opportunità di consumo piuttosto che della libertà di espressione politica” (p. 250) e aggiunge che “in sostanza, il sistema politico cinese può contare su una sostanziale adesione da parte della società” (Ibidem) e, anche se non c’è il godimento delle libertà politiche, una quota crescente della popolazione gode della possibilità di decidere come vivere, dove abitare, come e cosa consumare, quali occupazione cercare, e dove e come studiare” (p. 251). Peraltro, conclude Musu, “quella cinese appare … come una società che tende volentieri a fare meno della politica” (p. 251, c.vo mio, lo accompagno con il quesito: come è possibile sapere che i cinesi sono disposti a fare a meno della politica?). Nel confronto con la Cina che garantisce il benessere sociale al prezzo che Musu sembra considerare adeguato del sacrificio delle libertà di scelta politiche individuali, l’autore avvisa l’Occidente che, se esalta senza limiti tali libertà, “corre il rischio di perdere la sfida, magari con il paradossale risultato che la conclamata esaltazione delle libertà di scelta individuale finisca per servire come base per l’ascesa a un potere di governo che verrà poi esercitato in modo autoritario” (pp. 261-262) Confesso di non avere mai visto nulla del genere a fondamento dell’ascesa dei regimi autoritari. Al contrario, l’espandersi del benessere e la crescita quantitativa di una classe media colta e benestante potrebbero diventare sfidanti temibilissimi del regime totalitario cinese.
5. Il capitolo conclusivo di Salvatore Biasco non tira le impossibili fila di discorsi talvolta troppo dispersi e dispersivi. Mi limito a citare la sua netta affermazione con la quale concordo: il “riconoscimento dello Stato come centro e guida della vita collettiva è un passo in avanti nella ripresa delle potenzialità democratiche” (p. 326). Ricominciamo da qui nella consapevolezza che quello “Stato” si trova Bruxelles e che la democrazia nella e della Unione Europea ha solide basi e notevoli capacità di attrazione e espansione.
Pubblicato il 13 gennaio 2023 su casadellacultura.it
Il caso-Italia. Gianfranco Pasquino analizza il voto e indica la strada per una democrazia effettiva #elezioni2022 #intervista #InSiciliaTV
Gianfranco Pasquino, ospite della rubrica Fatti&Opinioni parla dell’attualità politica italiana dopo il voto del 25 settembre scorso e in vista della nascita del prossimo governo. Rispondendo alle domande di Angelo Di Natale, Pasquino analizza i limiti, i vizi e le distorsioni della democrazia italiana, suggerendo le soluzioni più appropriate.
Partiti sgangherati e antipolitica Ma chi non vota non è ascoltato #intervista @GiornaleVicenza
«Molti sabati pomeriggio di quel dolce autunno del 1974 a Harvard li passammo a giocare al pallone nel campetto dietro casa. Mario Draghi era spesso con noi, ma certo, giocatore piuttosto lento e poco grintoso, non era il più dotato in quello sport». Ci sono chicche come questa e aneddoti spassosi in “Tra scienza e politica. Un’autobiografia”, il libro di Gianfranco Pasquino edito da Utet e presentato a Pordenonelegge. Un’autobiografia, per un politologo, può sembrare qualcosa di ardito. Ma chi conosce Pasquino, professore emerito di scienza politica all’Università di Bologna, socio dell’Accademia dei Lincei, non si stupisce: la sua storia è un crocevia di incontri e conoscenze che vale la pena trasmettere, non fosse altro che per aver avuto come maestri sia Norberto Bobbio sia Giovanni Sartori.
Professor Pasquino, il Draghi calciatore non era il migliore, ma da premier com’è stato?
Non era il miglior calciatore e non puntava nemmeno ad esserlo (sorride). Ma da premier è stato molto bravo. Altro che “tecnico”… Da giovane non sembrava così interessato alla politica, ma ha dimostrato di aver imparato molto e molto in fretta.
Ora Draghi è stato fatto cadere e si va al voto. Cosa c’è in gioco in queste elezioni?
Quello che davvero entra in gioco è come stare in Europa, è la vera posta. Sappiamo che il Pd è un partito europeista, come +Europa, e che le persone che vengono da quell’area sono affidabili sul tema. Non sappiamo quali sono le persone affidabili nello schieramento di centrodestra, con poche eccezioni. Però sappiamo che sostanzialmente Giorgia Meloni è una sovranista e Salvini forse ancora di più. È difficile che si facciano controllare dai pochi europeisti di Forza Italia: Berlusconi ha detto cose importanti, ma gli altri alleati avranno almeno il doppio del suo consenso.
Perché teme il sovranismo?
Sovranismo vuol dire cercare di riprendere delle competenze che abbiamo affidato consapevolmente all’Europa. Non abbiamo ceduto la sovranità, l’abbiamo condivisa con altri Stati, e loro con noi. Tornare indietro vuol dire avere meno possibilità di incidere sulle decisioni. Alcune cose non potremmo deciderle mai.
Ritiene che la nuova dicotomia politica sia europeismo-sovranismo, più di destra-sinistra?
Non lo dico io: è stato Altiero Spinelli, nel Manifesto di Ventotene, 1941. Spinelli vedeva le cose molto in anticipo rispetto agli altri. D’altronde i singoli Stati europei sulla scena mondiale non conterebbero nulla: la soluzione è dentro l’Europa, altrimenti non possiamo competere né con la Russia né con la Cina e nemmeno con gli Stati Uniti, anche se bisognerebbe avere un rapporto decente con gli Usa.
Come si inserisce la guerra in Ucraina in questa analisi?
Nella guerra in Ucraina c’è uno stato autoritario che ha aggredito una democrazia. E noi non possiamo non stare con la democrazia. Se quello stato autoritario riesce a ottenere ciò che vuole, è in grado di ripeterlo con altri stati vicini. Non a caso Lituania, Estonia e la stessa Polonia sono preoccupatissimi. La Polonia conosce bene i russi e sa che ha bisogno della Nato e dell’Europa.
In Ucraina è in gioco anche la nostra libertà?
Lì si combatte sia per salvare l’Ucraina sia per salvare le prospettive dell’Europa. E un’eventuale sconfitta di Putin potrebbe aprire le porte a una democratizzazione della Russia: sarebbe un passaggio epocale.
A chi sostiene che le responsabilità della guerra siano anche dell’Occidente come risponde?
Non credo che sia vero. Ma tutto è cambiato quando la Russia ha usato le armi. La Costituzione dice che le guerre difensive sono accettabili, le guerre offensive mai.
L’Italia va al voto con una legge elettorale che toglie ogni potere all’elettore. L’hanno voluta tutti i partiti…
L’ha voluta Renzi e l’ha fatta fare a Rosato. Ma l’hanno accettata tutti perché fa comodo ai dirigenti di partito: si ritagliano il loro seggio, si candidano in 5 luoghi diversi, piazzano i seguaci. Aspettare che riformino una legge che dà loro un potere mai così grande è irrealistico. A noi non resta che tracciare una crocetta su qualcosa.
Come sta la democrazia italiana?
Godiamo di libertà: i diritti civili esistono, i diritti politici anche, i diritti sociali sono variegati. Il funzionamento delle istituzioni invece dipende da una variabile: i partiti. Una democrazia buona ha partiti buoni; una democrazia che ha partiti sgangherati, che sono costruzioni personalistiche, che ci sono e non ci sono, inevitabilmente è di bassa qualità. E non possiamo salvarci dicendo “anche altrove”, perché non è vero: i partiti tedeschi e spagnoli sono meglio organizzati, quelli portoghesi e quelli scandinavi pure.
Una democrazia senza partiti non esiste, lei lo insegna.
Una via d’uscita potrebbe essere il presidenzialismo, ma io sono preoccupato di una cosa: chi e come controlla quel potere? Ciò che manca, comunque, è il fatto che i politici predichino il senso civico, che pagare le tasse magari non è bello ma bisogna farlo; che osservare le leggi e respingere la corruzione è cruciale per vivere insieme. Mancano i grandi predicatori politici, tolti Mattarella e in certa misura Draghi.
Vale la pena comunque votare?
Sì, ma non perché “se non voti la politica si occupa comunque di te”. È il contrario: se non voti la politica non si occupa di ciò che ti sta a cuore.
L’affluenza rischia di essere bassa: colpa dei partiti? Dei cittadini? O dei media?
C’è chi dice “non voto perché non voglio” e li capisco, ma chi non vota non conta; e chi dice “non voto perché nessuno me lo ha chiesto”, ed è un problema dei partiti che non hanno motivato l’elettore. E poi gli italiani continuano ad avere questa idea che la politica sia qualcosa di non particolarmente pulito…
Non è così?
Sono alcuni politici a non esserlo. La politica è quello che facciamo insieme: sono tutte cose che devono essere predicate, ma oggi ciascuno pensa al suo tornaconto.
La sinistra ha perso il rapporto con il popolo?
Non sono sicuro che ci sia il popolo, ma so che la sinistra non ha più la capacità di essere presente in alcuni luoghi: se fosse nelle fabbriche sarebbe meglio, se avesse un rapporto vero con i sindacati, se i sindacati facessero davvero una politica progressista…
E il problema della destra qual è?
Il primo è che le destre non sono coese, stanno insieme per vincere ma poi avranno difficoltà a governare. Poi hanno pulsioni populiste, punitive, e poca accettazione dell’autonomia delle donne. E non sono abbastanza europeiste.
Che cosa pensa del voto del Parlamento europeo che condanna l’Ungheria di Orbàn?
Semplicemente Orbàn sta violando le regole della democrazia. Non esistono le “democrazie elettorali”: quando lei reprime le opposizioni, quelle non hanno abbastanza spazio nella campagna elettorale; se espelle una libera università come quella di Soros, lei incide sulla possibilità che circolino le informazioni. Tecnicamente non è già più una democrazia. Non si possono controllare i giudici.
Perché secondo lei FdI e Lega hanno votato per salvare Orbàn? Cioè è possibile smarcare un legittimo sovranismo da questi aspetti che toccano democrazia e stato di diritto?
Secondo me dovevano astenersi. Invece per convenienza loro, per mantenere buoni rapporti con Orbàn, non lo hanno fatto. Per me è un errore. Ma poi mi chiedo: è un errore anche per gli elettori di Meloni? Non lo so.
Il populismo è il linguaggio di quest’epoca. Però la legislatura più populista della storia si è chiusa con Draghi premier, che è l’opposto. Bizzarro, no?
È bizzarro, sì. Ma qui c’è stata un’insorgenza populista. Fino al 2013 non c’era. Ma come è arrivata può scomparire. Resta però un tratto di questo Paese: un atteggiamento di anti-politica e anti-parlamentarismo che può essere controllato solo da partiti in grado di fare politiche decenti. L’esito del voto del 25 settembre è scontato? Non lo è mai. Molti elettori decidono per chi votare nelle ultime 48 ore. Può sempre accadere qualcosa che fa cambiare idea.
Draghi ha detto “no”. Ci crede che non farà più il premier?
Sì(lunga pausa). Aveva investito molto nel Paese, essere sbalzato così è stato pesante: è molto deluso, credo anche incazzato.
Intervista raccolta da Marco Scorzato pubblicata su Il Giornale di Vicenza 22 Settembre 2022
La strage di Bologna e le sfide della democrazia @formichenews

Non ho mai avuto nessun dubbio che il più grave fatto di sangue della storia dell’Italia repubblicana doveva essere inteso come attentato alla democrazia e come volontà di colpire la sinistra nel suo luogo simbolo del buongoverno. La democrazia italiana ha vinto quella sfida, ma le sfide non finiscono mai. Il commento di Gianfranco Pasquino, accademico dei Lincei e professore emerito di scienza politica

Quel sabato 2 agosto 1980 stavo attraversando il campus di Harvard, noto come The Yard. Avevo terminato la penultima settimana di lezioni alla Harvard Summer School. A classi di un ventina di studenti ciascuna, insegnavo due corsi: “Eurocommunism” e “The Role of the Military in Politics”, due ore al giorno cinque giorni la settimana. Mi pagavano abbastanza bene, ma ero soprattutto interessato agli USA, a quegli studenti (uno di loro sinteticamente mi spiegò, much to my disbelief, perché Ronald Reagan avrebbe vinto la Presidenza, novembre 1980), ai pochi colleghi ancora in zona in una torrida estate. La notizia dell’esplosione di una bomba alla stazione di Bologna me la diede appunto un allarmatissimo collega che l’aveva appena appresa ascoltando il programma radiofonico BBCWorld. Poi sarebbero seguite alcune telefonate dall’Italia. Fin dall’inizio ebbi due tipi di pensieri/preoccupazioni. Il primo riguardava l’incolumità dei parenti, degli amici, dei colleghi. Seppi poi da molti di loro che l’interrogativo era stato condiviso. La stazione era un luogo da tutti noi molto frequentato, per motivi di lavoro e in agosto per le vacanze. Nessuno fu coinvolto. Poi, inevitabilmente, i colleghi americani vollero conoscere la mia interpretazione e le mie valutazioni.
Non ho mai avuto nessun dubbio che il più grave fatto di sangue della storia dell’Italia repubblicana doveva essere inteso come attentato alla democrazia e come volontà di colpire la sinistra nel suo luogo simbolo del buongoverno. Bologna non era stata scelta a caso e certamente non soltanto perché snodo cruciale del traffico ferroviario (e stradale) Nord/Sud. Ai miei colleghi e amici dissi subito della mia convinzione che la strage era fascista. I terroristi rossi, i brigatisti assassinavano persone e rivendicavano, perfino giustificandoli, i loro omicidi. Colpendo indiscriminatamente I neo-fascisti miravano a creare un clima di panico che conducesse ad una svolta a destra, alla dichiarazione dello stato d’emergenza, a una soluzione autoritaria.
Dopo di allora, tutte le volte che mi è stato fisicamente possibile, moltissime, sono andato, da solo o con i miei figli, alla stazione per la commemorazione della strage. La mia tristezza non è mai venuta meno. Le mie aspettative, che si scoprissero e si punissero, non “esemplarmente”, ma secondo le leggi vigenti, i responsabili, non le ho mai abbandonato. Da parlamentare ho contribuito a sostenere e mantenere vivo il disegno di legge di origine popolare sull’abolizione del segreto di Stato sui fatti di terrorismo e strage, operazione tanto indispensabile quanto complicata poiché inevitabilmente coinvolge(va) i servizi segreti di molti paesi. Attraverso una lunga sequenza di processi tutti coloro che hanno fisicamente partecipato e collaborato all’attentato sono stati individuati, processati e condannati. Disapprovo fortemente coloro che sminuiscono la portata di questi esiti processuali attribuibili a magistrati che vi hanno lavorato indefessamente. Tuttavia, senza nessuna inclinazione complottistica, sono altresì convinto che nessuno è finora riuscito a individuare i mandanti politici della strage di Bologna.
Vorrei potere concludere che nel corso del tempo sono stati fatti molti passi avanti nella direzione giusta, forse sì forse no. Ritengo giusto avanzare ipotesi e formulare congetture anche all’insegna del cui prodest, chiedendosi a chi il caos, il panico, l’emergenza avrebbero potuto portare profitto politico. Mi pare che la risposta più soddisfacente, forse l’unica plausibile, è che ne avrebbero ottenuto vantaggi visibili e concreti alcuni non marginali spezzoni dell’apparato statale e alcuni, neppure loro marginali, settori della destra politica italiana, non soltanto neo-fascista. Non riesco a spingermi fino all’affermazione del coinvolgimento di apparati stranieri. Continuare a cercare i mandanti risponde a effettive esigenze di verità e giustizia. Concludo sottolineando che la democrazia italiana ha comunque vinto quella sfida, ma le sfide non finiscono mai.
Pubblicato il 2 agosto 2022 su Formiche.net
Chi non vota danneggia la politica e i suoi concittadini elettori
La crescita dell’astensionismo, cioè del numero degli elettori che, per una varietà di motivi, non si recano alle urne, non è una “emergenza democratica”. Nessuna democrazia è mai “crollata” per astensionismo. Al contrario, un’impennata di partecipazione elettorale con milioni di elettori che seguano adoranti un demagogo che ne ha catturato l’immaginazione e ne vuole il sostegno elettorale, è spesso produttiva di conseguenze destabilizzanti. America latina e Filippine ne sono una prova. Tuttavia, quando gli elettori decidono che non vale la pena andare a votare mandano un messaggio che riguarda un po’ tutti a cominciare dai partiti. Infatti, i partiti sono il tramite essenziale fra gli elettori e il (loro) voto. Partiti male organizzati e/o personalistici non riescono a raggiungere gli elettori. Partiti inaffidabili, che indicano le cose da fare e ne fanno altre, provocano delusione nell’elettorato, loro e complessivo. Partiti che presentano candidature di uomini e donne mediocri che hanno il solo pregio di essere popolari oppure di venire dall’apparato non possono essere entusiasmanti. Partiti che cambiano alleanze e preferenze sconcertano gli elettori. Partiti che scrivono leggi elettorali astruse perseguendo il loro interesse particolaristico creano non poca confusione in chi dovrebbe votarli. In Italia, da almeno trent’anni si producono tutti questi fenomeni. Sarebbe, però, sbagliato pensare che gli elettori stessi non portino una buona dose di responsabilità per il loro astensionismo.
Chi non si interessa di politica, non s’informa e non partecipa alle elezioni automaticamente avvantaggia i votanti e non può poi lamentarsi e gli eletti non si curano dei suoi interessi, delle sue necessità, delle sue preoccupazioni. Non votando, gli astensionisti non trasmettono le loro richieste né a chi ha vinto le elezioni e le cariche né a chi va a formare l’opposizione e avrebbe grande vantaggio dall’ottenere informazioni e sostegno, a futura memoria, dagli astensionisti. Proprio qui sta il problema, se si vuole l’emergenza. I governanti e, di volta in volta, gli oppositori non sanno che cosa desidera “la gente”, per lo più presumono e spesso sbagliano attribuendo preferenze inesistenti. In un certo senso, poi, tanto i governanti quanto gli oppositori diventano e rimangono irresponsabili. Non debbono rispondere ad un elettorato che non li ha votati oppure a elettori casuali e fluttuanti, ma soltanto a quei settori loro già noti, talvolta definiti zoccolo(ino) duro. Per fortuna, fino a quando non farà la sua comparsa un demagogo, non si configura nessuna emergenza. C’è, invece, cospicuo e persistente un problema di scollamento fra una società, che non sempre merita la qualifica “civile”, e partiti disorganizzati, male educati, opportunisti. Poiché questo scollamento riduce e limita il potere del popolo (democrazia) è giusto (pre)occuparsene, non con frasi da coccodrillo, ma riconoscendo e affermando l’importanza del voto e della politica.
Pubblicato AGL il 29 giugno 2022
Lo strapotere della minoranza che minaccia la democrazia @DomaniGiornale


Pensavo che fosse soprattutto espressione di provincialismo mista con il vanto dell’eccezionalismo (positivo) la mole di articoli e libri su Trump pubblicati dagli studiosi USA. Che la loro fosse una preoccupazione temporanea, agitata ad arte per potere affermare con grande fanfara: “la democrazia della più grande potenza che il mondo abbia mai conosciuto USA ha superato anche la sfida del trumpismo”. Alcune altre democrazie si ripiegano su se stesse, declinano, muoiono. La democrazia americana rimbalza e si rinnova. Seppur uomo bianco anziano il Presidente Biden aprirà una nuova fase. Invece, no. La cancel culture ha mostrato tutti i suoi limiti di cultura e di carenza di elaborazione, il trumpismo ha lasciato un’eredità pesantissima, ma soprattutto sta dimostrando di rappresentare qualcosa di molto profondo nella società americana e le istituzioni scricchiolano. Mai pienamente una democrazia maggioritaria, che Madison non volle, gli USA sono diventati una democrazia minoritaria. Grazie ad alcuni meccanismi, a cominciare dal collegio elettorale per l’elezione del Presidente, i repubblicani, da tempo partito di minoranza fra gli elettori, controllano, anche attraverso masse di denaro dei loro sostenitori, una enorme quantità di potere politico. Per un complesso fortuito di circostanze e per la spregiudicata compattezza dei Senatori repubblicani, il Presidente Trump ha cambiato per almeno un’intera generazione, più di trent’anni, la composizione della Corte Suprema, rendendola non solo la più conservatrice di sempre, ma anche palesemente reazionaria, vale a dire predisposta a fare tornare la società e la cultura indietro di almeno cinquant’anni. Negli Stati che controllano, anche grazie al sostegno degli evangelici e di potentissime lobby, i repubblicani stanno aggredendo il diritto fondamentale e fondante di una democrazia: il voto. Rendere molto più difficile, talvolta quasi impossibile la sua espressione: meno seggi meno ore meno iscritti nelle liste, e metterne sempre, anche preventivamente, in discussione l’esito. Non pochi stati degli USA non soddisferebbero, e non solo perché vi si pratica la pena di morte, i requisiti base di adesione all’Unione Europea, ma per carenza di democrazia elettorale e, talvolta, per eccesso di corruzione politica. L’abolizione della possibilità giuridicamente riconosciuta, garantita e tutelata di ricorrere all’interruzione di gravidanza, non meno grave perché anticipata da indiscrezioni, è il culmine dell’attacco ai settori sociali più deboli, le donne delle classi popolari, le latinas, le donne di colore alle quali mancheranno le reti di sostegno e le risorse e alle quali in buona misura viene negato anche il diritto di voto. La leggendaria città che splende sulla collina sta perdendo la capacità di illuminare e attrarre coloro che nel mondo amano la libertà.
Pubblicato il 26giug2022 su Domani