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Non si vive alla giornata. Le vere sfide da affrontare @DomaniGiornale #democrazie #federalismo

Gli alberi li vediamo quasi tutti. Di tanto in tanto qualche albero cade e nuovi alberelli fanno la loro comparsa. Vediamo anche quelli, ma, spesso, non riusciamo a capirne origine e significato. Quello che, a giudicare dai commenti e dalle prese di posizione, sembra sfuggire è la foresta. Sembra che quasi nessuno sia in grado di cogliere il significato complessivo delle sfide, la loro portata, l’intensità dell’impatto, meno che mai le conseguenze di medio e lungo periodo.
Le sfide contemporanee riguardano il modo di fare politica, non soltanto nei regimi democratici. Però, avviene in special modo, in questi regimi come, ovviamente, anche quello italiano, poiché il loro elemento distintivo è quello di essere società aperte, caratterizzate dalla competizione e esposte alle incursioni, interne e esterne. Pur essendo vero che le democrazie imparano, qualche volta l’apprendimento richiede tempo e sperimentazione. In quella fase un demagogo può avere conquistato il potere e brandirlo contro i diritti e le istituzioni della sua e di altre democrazie. Giunto al vertice dello Stato avrà l’opportunità di ricorrere a tutti gli strumenti del deep state, del profondo e dell’oscuro. Da questo punto di vista, la disponibilità delle tecniche dell’intelligenza artificiale può rivelarsi molto preoccupante, come sostengono gli esperti subito ammettendo di non essere in grado di esplorarne e valutarne tutti le potenzialità e i rischi.
Le incursioni esterne possono farsi forza anche dell’intelligenza artificiale nonché di manipolazioni politico-elettorali-comunicative diversificate e in casi estremi dei droni che distruggono qualsiasi resistenza. Tenendosi a debita distanza dal dibattito politico italiano al fine di vederlo meglio, poco o nulla di tutto questo, intelligenza artificiale e manipolazioni, sembra considerato importante e significativo. Le tematiche preminenti e prorompenti sono altre, non prive di una qualche rilevanza nell’immediato, ma soccombenti di fronte alle sfide di ben più alto livello.
Comprensibilmente nel centro sinistra la ricerca riguarda il/la figura del federatore, con lo sguardo rivolto al passato, fino al non resuscitabile e non imitabile Ulivo di trent’anni fa. Quando si passa alle politiche al primo posto non vengono collocate la libertà, l’autodeterminazione, le opportunità dei cittadini di oggi e di domani, ma lo scambio fra cannoni e burro. Meno soldi per fare e comprare armi con il molto problematico risparmio semplicisticamente destinato a investimenti nella sanità. Che l’Italia e il mondo di oggi e di domani esigano una cittadinanza dotata di alto e modernissimo livello di istruzione non sembra essere prioritario, forse neppure compreso appieno.
Il centrodestra di governo si gode il vantaggio di posizione, una vera propria rendita. Può mettere le difficoltà sulle spalle del passato nel quale stava all’opposizione e può rivendicare alcuni piccoli, ma reali successi: economia galleggiante senza tensioni e stabilità di governo. Non butta il cuore oltre l’ostacolo poiché sembra non vedere l’ostacolo e non vuole rischiare nessuna destabilizzazione. La sua persistente concezione sovranista ha alleati ugualmente poco orientati al futuro. Vogliono piuttosto tornare a fare qualcosa di grande che ritengono di trovare nel loro passato. Invece, le sfide hanno una caratteristica che le accomuna. Sono di tale portata e entità da richiedere risposte elaborate e concordate da più paesi in grado di mettere insieme le loro intelligenze collettive, le loro energie e le loro risorse.
La risposta si chiama federalismo. Soltanto alcune voci solitarie a isolate si fanno sentire a favore del federalismo, Anche a livello europeo, le proposte effettivamente federaliste formulate da Enrico Letta e da Mario Draghi sono state accolte da plausi di cortesia e stima, senza finora nessun seguito operativo. Eppure, dicono che quando il gioco si fa duro i duri cominciano a giocare. In Italia e in Europa è già venuta l’ora.
Pubblicato il 19 novembre 2025 su Domani
Organismi non gracili ma complessi e flessibili, le democrazie sono i sistemi politici che meglio consentono ai loro cittadini di imparare
Organismi non gracili ma complessi e flessibili, le democrazie sono i sistemi politici che meglio consentono ai loro cittadini di imparare. Libertà di parola e di stampa, circolazione e competizione di idee, persone, soluzioni, valutazione del fatto, non fatto, fatto male. Le vittorie elettorali “a tappeto” (sweeping) dei Democratici dalla Virginia al New Jersey, dalla città di New York allo Stato della California dicono che grande, diffuso e decisivo è stato l’apprendimento. Le democrazie imparano e rimbalzano.
Le democrazie e gli anticorpi per sopravvivere all’illiberalismo @DomaniGiornale
“Una gamba davanti all’altra”. Prendo a prestito le dolenti parole della Sen. Liliana Segre che descrivono la sua marcia per la vita per sottolineare che gradualmente, ma incessantemente i democratici e le loro democrazie sono in grado di imparare e riprendere il cammino della libertà. La celebrazione del Giorno della Memoria obbliga a riflettere, mi pare non venga fatto adeguatamente, sul regime politico che lanciò il genocidio e sui governi dei paesi, a cominciare dal fascismo italiano, che furono zelanti e attivissimi complici: il totalitarismo nazista coadiuvato da autoritarismi più o meno duri. Certamente, tutti quei sistemi politici privi di qualsiasi elemento democratico mostrarono notevoli capacità decisionali. Però, dovremmo davvero considerare la velocità delle decisioni una caratteristica positiva e intimare alle democrazie contemporanee di apprenderla e farne, s’intende, molto rapidamente, uso?
Fermo restando che sono oramai più di trent’anni che il numero delle democrazie cresce e che nel tempo una sola, quella già minata dall’interno, del Venezuela è crollata, come si fa a sostenere che il paradigma liberal-democratico è venuto meno? Nella misura in cui una democrazia abbandona il liberalismo, che è diritti politici, civili, anche sociali più il quadro costituzionale di separazione delle istituzioni e loro relativa autonomia, semplicemente non è più tale. Democrazia illiberale non è un ossimoro. Al contrario è un esempio lampante e pregnante di manifestazione di quella neo-lingua che tempestivamente George Orwell denunciò come prodotto dei regimi totalitari e loro imposizione.
Poiché deciderebbero poco quantitativamente e in maniera tardiva, le democrazie non sarebbero in grado né di controllare il potere economico né di fare fronte al potere tecnologico. Le democrazie liberali, nate per fare prevalere le preferenze dei cittadini sugli interessi dei grandi proprietari terrieri e degli imprenditori, sarebbero oggi diventate terra di conquista dei nuovi capitalisti, i re delle finanze e i padroni delle tecnologie comunicative. Laddove, parafrasando Mao tse Tung, il partito (comunista) cinese comanda la tecnologia in tutte le sue varianti artificiali e reali (ma, Covid insegna, non in quelle sanitarie), il Presidente degli USA è attorniato dagli oligarchi della Silicon Valley che, è davvero così?, lo condizionano e ne influenzano le decisioni più importanti, comunque quelle che li riguardano. Muoiono così le democrazie? Comincia da Washington, D.C, l’asfissia della democrazia?
Il Presidente USA nella misura in cui è forte e veloce, “decidente”, è debitore di queste sue capabilities non all’assetto istituzionale in quanto tale, ma alla mutevole configurazione del potere politico che consente ai “suoi” repubblicani di essere in maggioranza, almeno per i prossimi due anni, sia alla Camera dei Rappresentanti sia al Senato e di avere imbottito la Corte Suprema di giudici di stretta osservanza repubblicana. Trump, contrariamente a Putin e Xi Jinping, non potrà essere rieletto. Gode di grande potere a termine (nessun terzo mandato!). Le sue pulsioni anti-democratiche, di insofferenza per i freni e i contrappesi, i lacci e laccioli posti dalla Costituzione, incontrano ostacoli nella libertà dei mass media, nella opinione pubblica, nel pluralismo che Xi e Putin hanno distrutto e continuano a schiacciare.
Una gamba davanti all’altra le democrazie reagiscono alle sfide, politiche, economiche, tecnologiche, nessuna delle quali ha finora avuto successo, con l’ampio repertorio degli strumenti del pluralismo sociale, culturale, persino religioso, di cui dispongono. Smentiscono anche i profeti di sventure che con i loro tristi allarmismi pensano di appuntarsi i galloni del progressismo popolar democratico. Meglio che meditino più a fondo. L’età delle democrazie continua a essere con noi, davanti a noi.
Pubblicato il 29 gennaio 2025 su Domani
Le democrazie sono più resilienti di quanto si racconta @DomaniGiornale

Tra il fintamente rattristato e il gongolante compiacimento –l’avevano detto loro, da tempo—molti commentatori e non pochi studiosi continuano ad affermare che la democrazia è in crisi. I regimi autoritari, militari, non-democratici sono più numerosi di quelli democratici; la popolazione del mondo che vive in democrazia/e è percentualmente inferiore a quella oppressa dalla mancanza di democrazia. Da tempo, dovremmo mettere in discussione queste interpretazioni, cominciando con una precisazione concettuale della massima importanza. Un conto è la crisi della democrazia in quanto quadro di diritti, regole e istituzioni. Un conto molto molto diverso sono le difficoltà, gli inconvenienti, i problemi di funzionamento delle democrazie realmente esistenti.
Dappertutto nel mondo le opposizioni/gli oppositori dei regimi non-democratici li sfidano proprio in nome della democrazia nella sua versione occidentale da tempo diventata universale e alla quale nessuno ha saputo elaborare visioni alternative. Quanto alle democrazie realmente esistenti non c’è dubbio che sempre incontrino difficoltà nel loro funzionamento, scoprano inconvenienti, debbano risolvere problemi, siano “imperfette” (flawed nel lessico del Democracy Index dell’autorevole, ma nient’affatto impeccabile, rapporto dell“Economist”). Proprio da quel rapporto è facile vedere alcune tendenze che servono a meglio comprendere le dinamiche della/e democrazia/e negli ultimi vent’anni circa. Nessuno dei venticinque paesi considerati democrazie senza pecche e senza falle è retrocesso. Nessuno ha perso la sua democrazia. Un solo paese è caduto fra le non-democrazie: il Venezuela. Con tutte le riserve che giustamente nutriamo sull’Ungheria di Orbán, il Democracy Index la colloca al 50esimo posto fra i regimi ancora democratici per quanto piuttosto fallati.
Troppi commentatori senza studi e senza fantasia ripetono che la/e democrazia/e sono regimi fragili e le contrappongono agli autoritarismi che, invece, sarebbero solidi. Non è così. Le democrazie sono regimi complessi e flessibili. Gli autoritarismi sono relativamente semplici, basati sul potere personale del leader, su un partito, su un’organizzazione militare, e rigidi. Cadono, ma sono sostituibili da altri assetti basati su una diversa struttura senza nessuna democratizzazione. La complessità delle democrazie significa che più elementi possono cambiare e che il pluralismo implica la possibilità di apprendimento. Le procedure che più si prestano ad imparare e a dare lezioni sono quelle elettorali, nelle quali, persino se in qualche modo manipolate, il “popolo”, i cittadini hanno la possibilità di esprimere le loro preferenze.
Difficile dire se quanto fatto dall’opposizione russa in termini di denuncia della non-libertà delle elezioni presidenziali abbia raggiunto e sensibilizzato settori consistenti dell’opinione pubblica. Qualche tempo prima il governo polacco di centro-destra aveva perso le elezioni. A sua volta, l’opposizione turca al Presidente Erdogan ha qualche giorno fa vinto le elezioni municipali in buona, forse maggioritaria, parte del paese, ponendo le premesse per una possibile vittoria su scala nazionale. In Senegal le elezioni presidenziali sono state vinte dal candidato dell’opposizione democratica. Insomma, i segnali democratici, pure nel tempo buio di questo mondo, si moltiplicano. Dovrebbero essere valorizzati sia sperando nel contagio democratico, possibile in Africa, sia favorendo effetti di imitazione, quel che è stato possibile in Polonia può diventarlo in Ungheria, dove, fra l’altro, il sindaco di Budapest già è un esponente dell’opposizione al partito di governo.
Talvolta, anche le democrazie subiscono la sfida dei tempi e delle intemperie politiche, sociali, internazionali. Tuttavia, i loro assetti istituzionali, le loro regole e procedure elettorali, la possibilità di competizione politica consentono di evitare il degrado e di sfuggire al collasso. Possono temporaneamente perdere in qualità, ma rimangono in grado di rimbalzare. Altri esempi seguiranno.
Pubblicato il 3 aprile 2024 su Domani
Nella crisi: democrazia e modelli istituzionali #Convegno La crisi e le crisi – Accademia Nazionale dei Lincei

Nella crisi: democrazia e modelli istituzionali, in Atti dei convegni Lincei, La crisi e le crisi, Roma, Bardi Edizioni, 2023, pp. 151-160
I regimi autoritari e totalitari (Cina), si dice e si continua a scrivere con malcelata ammirazione, hanno e mostrano maggiore rapidità decisionale e capacità operativa delle democrazie. Hanno anche fatto cose buone (sic). Dal canto loro, ineluttabilmente o quasi, nel tentare di offrire risposte svelte e incisive a crisi come la pandemia, è la tesi corrente (ripetuta con varie modalità nei capitoli del volume curato da M. Polares Maduro e P. Kahn, Democracy in Times of Pandemic, Cambridge, Cambridge University Press, 2020), le democrazie si pervertono violando alcuni dei loro principi ideali e valori costituzionali. Questa relazione mette in discussione entrambe le premesse.
A causa della mancanza di trasparenza e della manipolazione delle informazioni, poco possiamo dire del “successo” dei regimi non-democratici che, però, non essendosene vantati, forse non deve essere stato proprio tale. Aggiungo subito che i cantori dell’efficienza sala vite di regimi non-democratici sembrano conoscerli molto poco nelle loro strutture, nel loro funzionamento, nelle loro “prestazioni”. Un buon inizio per quel che attiene la strutturazione dei regimi autoritari è il libro di Günther Frankenberg, Authoritarianism. Constitutional Perspectives (Cheltenham, UK-Northampton, MA, USA, 2020). Delle democrazie è giusto esplorare quanto il potere esecutivo sia stato incline e/o costretto a togliere spazio alle assemblee rappresentative. Quanto governi e governanti abbiano deliberatamente voluto concentrare il potere decisionale nelle loro mani e vi siano effettivamente riusciti, con conseguenze negative sullo stato della democrazia nei loro sistemi politici. Quanto, infine, i cittadini abbiano accettato l’operato dei governi o vi si siano opposti in nome di una libertà personale drasticamente, deliberatamente e anti-costituzionalmente oppressa e repressa.
Esplorate le due grandi tematiche che ho succintamente delineato, la mia conclusione, sicuramente in buona parte, da sottoporre ad accertamenti e verifiche, è apparentemente semplice. In sostanza, la crisi ha agito come grande imponente significativa cartina di tornasole. Ha messo in evidenza i punti forti e i punti deboli dei regimi politici, l’efficacia e l’inadeguatezza delle strutture istituzionali e le potenzialità e le difficoltà dei partiti e dei sistemi di partito esistenti. Come primo, non marginale e non semplicistico, indicatore, può risultare, almeno in parte, decisamente sorprendente che praticamente nessuna, tranne, forse, quella presidenziale negli USA, delle molte elezioni svoltesi durante la pandemia, abbia segnalato il fallimento dei governanti e portato alla loro sostituzione. Anche se c’è ancora molto da studiare e imparare, le democrazie hanno evidenziato qualità di resilienza e capacità di apprendimento.
Quel che sappiamo delle democrazie, e come
“Chi conosce un solo sistema politico”, disse più volte il socio linceo Giovanni Sartori (1924-2017), “non conosce neppure quel sistema politico”. Infatti, se non procede ad una analisi comparata, per quanto complessa debba essere, non sarà mai in grado di affermare con sicurezza che cosa è normale e che cosa è eccezionale in quel sistema politico e in altri. Non riuscirà neppure a individuare cause e condizioni della normalità e dell’eccezionalità né a suggerire soluzioni non estemporanee, ma complessivamente applicabili e sottoponibili a verifica, essa stessa necessariamente comparata. Insomma, le ricerche e le analisi non affidate alla comparazione hanno il respiro cortissimo e non viaggeranno mai da un qualsivoglia paese a un altro. Pure tuttora molto diffuso, addirittura dominante nel contesto pubblicistico italiano, il provincialismo analitico non porta da nessuna parte. Per lo più rimane in un vicolo cieco.
Le democrazie contemporanee hanno assetti istituzionali differenti, il che è, al tempo stesso, una sfida e una opportunità. La sfida consiste nel classificare accuratamente i regimi democratici soprattutto lungo i criteri fondanti la loro democraticità. L’opportunità da cogliere consiste nella valutazione della rilevanza delle differenze istituzionali per quel che attiene alle risposte formulate ai problemi da affrontare. Nessuna analisi esclusivamente giuridica, per quanto raffinata, è in grado di evidenziare e rendere conto delle motivazioni a fondamento delle risposte diverse formulate dai vari governi democratici. Meglio di chiunque altro è stato il francese Maurice Duverger (1917-2014), studioso di diritto e scienza politica, a indicare limiti e potenzialità analitiche di entrambe le discipline: “chi conosce il diritto costituzionale classico e ignora la funzione dei partiti, ha un’idea sbagliata dei regimi politici contemporanei; chi conosce la funzione dei partiti e ignora il diritto costituzionale classico ha un’idea incompleta ma esatta dei regimi politici contemporanei! (I partiti politici, Milano, Edizioni di Comunità. 1961, p. 412). Dunque, rimane giusto e opportuno prendere le mosse dagli assetti istituzionali, ma, per comprenderne appieno il funzionamento e il “rendimento” è imperativo conoscere i (loro) partiti e i rispettivi sistemi di partiti.
Tutti conoscono l’esistenza della grande differenza intercorrente fra le democrazie parlamentari, capostipite e in buona misura ancora tutto punto di riferimento è la Gran Bretagna, e le democrazie presidenziali, a partire dagli Stati Uniti d’America e a seguire tutte le repubbliche presidenziali latino-americane. Di recente, in seguito alla trasformazione nel 1958 della Francia dalla Quarta Repubblica, parlamentare, alla Quinta Repubblica, ha fatto la sua comparsa il semipresidenzialismo, diffusosi nell’Europa centro-orientale, in alcuni Stati africani francofoni, ma anche, a riprova delle sue qualità, in Portogallo e a Taiwan. In qualche modo, quello che interessa maggiormente per valutare come e quanto i diversi modelli istituzionali abbiano risposto alla crisi sono le modalità con le quali si rapportano fra loro il potere esecutivo e il potere legislativo. Soltanto chi conosce queste modalità e ne tiene conto per valutare il loro funzionamento nel corso della sfida pandemica, è in grado di rispondere al quesito relativo alla qualità della risposta democratica.
La classica affermazione, formulata da Montesquieu ne L’esprit des lois (1748) e ripresa dalla grande maggioranza degli studiosi, sulla separazione dei poteri/delle istituzioni, come uno dei fondamenti della democrazia è, per così dire, corretta solamente se proposta all’opposto. Laddove e ogniqualvolta una istituzione/un potere domina gli altri non è possibile parlare di democrazia. Invece, per quel che riguarda le democrazie, due situazioni di non piena separazione di istituzioni e poteri sono chiarissime, illuminanti, foriere di conseguenze tanto positive quanto negative, entrambe nel mondo anglosassone.
Sin dal 1867 Walter Bagehot (The English Constitution ora La costituzione inglese, Bologna, il Mulino, 1995) rilevò e sottolineò che nel modello di democrazia parlamentare inglese non esiste separazione fra il potere esecutivo e il potere legislativo. Vero è che il Parlamento, ovvero una maggioranza parlamentare sceglie/elegge il governo, ma, da quel momento, sarà il governo, ovvero il potere esecutivo, a dettare l’agenda del Parlamento, meglio della sua maggioranza in Parlamento cosicché, invece di separazione, è più corretto parlare di fusione dei poteri esecutivo e legislativo. Le leggi non le fa il Parlamento, ma il governo, che è espressione di una maggioranza parlamentare che ha ottenuto i voti, anche, presumibilmente, sulla base delle sue proposte programmatiche. Dunque, ha non solo il diritto di tradurre quelle proposte in leggi e quant’altro, ma il dovere di farlo. Le situazioni delle democrazie plasmate in senso lato secondo il modello inglese, citerò le più importanti: Australia, Canada, Nuova Zelanda, godono altresì del vantaggio che il loro governo è abitualmente formato da un solo partito. Quindi, la formulazione delle decisioni, la loro approvazione e la loro attuazione sono tutte meno complesse e promettono di essere più rapide e più efficaci. Non solo sappiamo che, in effetti, è stato così in tutti i paesi menzionati. Sappiamo anche che le incertezze inglesi derivano da scelte contraddittorie, erratiche, sbagliate del Primo Ministro Boris Johnson. Responsabile di una delle colpe più gravi addebitabili ai governanti e ai rappresentanti “anglosassoni”, Johnson ha ripetutamente mentito all’elettorato e al Parlamento (si veda l’articolo di D. Ludge, “Would I Lie to You?” Boris Johnson and Lying in the House of Commons, in “The Political Quarterly”, vo. 93, n. 1, January-March 2022, pp. 77-86). La sua permanenza in carica, non un segnale positivo per la qualità della democrazia inglese, indica piuttosto l’esistenza di un duplice problema politico: da un lato, l’incapacità dei Conservatori di trovare una maggioranza a sostegno di un Primo ministro diverso da Johnson, dall’altro, il loro timore per eventuali elezioni anticipate. È interessante e doveroso rilevare e sottolineare che negli altri casi di democrazie parlamentari cui faccio riferimento, le risposte dei governi sono state considerate positive dalla maggioranza degli elettori tanto che hanno riportato al governo il partito che aveva affrontato/stava affrontando la pandemia confermando il Primo ministro, uomo o donna (Nuova Zelanda e Svezia).
Fermo restando che il principio della “fusione” del potere legislativo con il potere esecutivo vale anche per le democrazie parlamentari del Continente europeo, le differenze riscontrabili dipendono sostanzialmente dai partiti, dalle coalizioni di partiti, dai sistemi di partiti. Prevedibilmente sia la formazione sia il funzionamento dei governi di coalizione fra più partiti risultano più complicati e più lenti e le loro risposte alle sfide e alle crisi sono abitualmente “negoziate” e, di conseguenza, probabilmente meno rapide. Ma qual è il termine di paragone, raramente esplicitato? Difficile dire di più su questi aspetti salvo quando si procede ad analisi caso per caso mantenendo rigorosamente una prospettiva comparata.
Non è vero che nelle repubbliche Presidenziali vige una chiara e netta separazione dei poteri istituzionali. Piuttosto, come ha scritto in maniera definitiva per quel che riguarda gli Stati Uniti d’America, già molti decenni fa Richard E. Neustadt (Presidential Power. The Politics of Leadership, New York, John Wiley, 1960), è vero che le istituzioni USA sono separate, per origine, ma è ancora più vero che condividono i poteri. Il Presidente forma il suo governo, la Administration, obbligato a confrontarsi con il Senato che può bocciare le sue nomine. Senato e Camera esercitano il potere legislativo, che non è a disposizione del Presidente, ma le leggi che approvano possono cadere sotto la mannaia del veto presidenziale, superabile solo da una difficile da raggiungere maggioranza dei due terzi. La composizione della Corte Suprema dipende dalle nomine presidenziali ratificate dal Senato. Le sue decisioni possono essere vanificate dal Congresso che approvi leggi apposite. Quando il partito del Presidente non ha la maggioranza in uno o in entrambi i rami del Congresso si ha una situazione definita governo diviso nel quale non soltanto né Il Presidente né il Congresso sono in grado di effettuare scelte e produrre decisioni senza accordi e compromessi, ma l’elettorato si troverà in grandi difficoltà nell’attribuzione delle responsabilità (di più infra nella sezione sulla accountability).
Probabilmente, la separazione delle istituzioni e dei relativi poteri risulta più chiara, più visibile e effettiva nelle democrazie semipresidenziali a partire dalla Quinta Repubblica francese. Pour cause, potremmo molto appropriatamente affermare poiché la responsabilizzazione dei governanti, a scapito dei partiti, era uno degli obiettivi di maggior rilievo perseguiti dal Gen. de Gaulle. Tuttavia, anche il rapporto fra l’Assemblea Nazionale e il Presidente della Repubblica può essere esposto a una sostanziale criticità non prevista dai Costituenti francesi e sicuramente non gradita da de Gaulle. Se la maggioranza assoluta nell’Assemblea Nazionale è fatta dal partito o dalla coalizione opposta al Presidente, allora il capo del governo e l’intera compagine governativa saranno formati da quel partito e da quella coalizione. Questa situazione è detta coabitazione. Rispetto al governo diviso è possibile tentare l’eliminazione della coabitazione con lo scioglimento del Parlamento ad opera del Presidente che è costituzionalmente autorizzato a procedervi, se lo desidera, non più di una volta all’anno (ma, ovviamente, è sconsigliato dal ripeterlo se il primo scioglimento non ha conseguito successo).
Nella coabitazione c’è sempre qualcuno che governa, più precisamente il Primo ministro che gode del sostegno della maggioranza parlamentare. Giunti alla fine del mandato tanto il Presidente quanto il Parlamento, meglio, la maggioranza che ha espresso e sostenuto il governo, dovranno rendere conto del loro operato: quanto visibilmente hanno fatto, non fatto, fatto male. I critici del semipresidenzialismo sostengono l’esistenza di una pericolosa concentrazione di potere/i quando il Presidente ha una maggioranza assoluta a suo sostegno in Parlamento. Teoricamente, questo pericolo può presentarsi a due alquanto infrequenti condizioni. In primo luogo, bisogna che quella maggioranza di parlamentari siano tutti debitori della loro elezione al Presidente e al suo partito. Non lo sono poiché nei collegi uninominali sono spesso le loro qualità politiche e personali a fare la differenza. In secondo luogo, è indispensabile che alcuni/molti di quei parlamentari subordinino la loro libertà di voto alla disciplina di partito. Anche in questo è il collegio uninominale a fare la differenza: come valuteranno gli elettori di quel collegio i comportamenti del loro rappresentante? Quali interessi, preferenze, priorità fanno la differenza? Nella pratica, va detto che finora il semipresidenzialismo francese (o altrove) non subito nessuna torsione autoritaria, nessuna eccessiva concentrazione di poteri e loro esercizio antidemocratico. Quanto alle proteste dei gilets jaunes e dei no vax, per acquisirne una spiegazione meglio è guardare, non al circuito istituzionale, ma alla tradizionale debolezza delle organizzazioni sociali, a cominciare dai sindacati. Per funzionare meglio la democrazia della Francia non ha bisogno di disintermediazione, ma di efficace mediazione.
Discutendo della separazione delle istituzioni e dei poteri, tanto implicitamente quanto inevitabilmente, gli studiosi si trovano costretti a fare i conti con il secondo grande principio che attiene al funzionamento dei regimi democratici: i checks and balances, freni e contrappesi. Nella sua attività nessun governo, potere esecutivo, per quanto “forte”, con guida autorevole, dotato di ampia maggioranza espressa da un solo partito è in grado di esercitare il potere politico e istituzionale senza controllo. In democrazia, qualsiasi governo incontra sempre un freno e un contrappeso tanto nel Parlamento, potere legislativo, quanto nella magistratura, potere giudiziario. Naturalmente questa interazione dipende dal tipo di strutturazione complessiva di ciascun regime democratico e dal tipo di partiti e di sistema dei partiti in quella specifica democrazia. Qui si configura la verticale differenza fra le democrazie e i regimi autoritari. Nelle democrazie sta e vige la rule of law che non è né solo né principalmente Stato di diritto. Sostanzialmente significa governo secondo la legge, nel rispetto della legge. Nei regimi autoritari vige l’arbitrio esercitato entro incerti limiti. Dunque, non dovremmo mai essere sorpresi né dalla subordinazione di legislativo e giudiziario al potere esecutivo autoritario né dalle tensioni “democratiche” fra governanti e rappresentanti, da un lato, e magistrati, dall’altro. Entro certi limiti entrambi i processi sono assolutamente fisiologiche. In non poche circostanze risultano anche essere disgreganti nei regimi autoritari e salutari nelle democrazie.
Nel complesso, non può essere messo in dubbio che il meccanismo liberal-democratico noto come checks and balances (freni e contrappesi) ha funzionato in maniera sostanzialmente positiva per quel che riguarda il controllo reciproco fra le istituzioni. Tuttavia, certamente non responsabile del problema, il Covid ha messo in luce una criticità di grande rilevanza, naturalmente, non solo per le democrazie contemporanee. Fondata su un’opinione pubblica interessata e informata sulla politica, la democrazia ha assoluta necessità di una circolazione ampia e illimitata di notizie verificabili nell’aspettativa che siano gli esiti di questa circolazione e del confronto fra le notizie a condurre a decisioni che riflettano le preferenze dei cittadini. Il dibattito svoltosi nel periodo del Covid, ma preceduto da molte avvisaglie e tuttora in corso è stato largamente plasmato dalla necessità di contrastare le fake news e dalle modalità con le quali farlo. Questo problema neppure esiste nei regimi non-democratici dove di opinione pubblica non è corretto parlare e dove le opinioni dei cittadini sono plasmate e manipolate dai detentori del potere politico e dalle loro preferenze, dove soprattutto l’opacità è l’elemento che domina la formazione delle decisioni e nessun controllo ad opera della cittadinanza è possibile.
Democrazia è/e libertà
Durante la pandemia, un po’ dappertutto, ma non ovunque, si è manifestata insofferenza e opposizione sia da parte dei parlamentari sia da parte di cittadini, più o meno organizzati, nei confronti delle decisioni prese dai governi democratici poiché ritenute lesive delle libertà personali e conseguite attraverso scorciatoie istituzionali di dubbia e controversa democraticità. In pratica non si sono prodotti scontri di particolare gravità. Anzi, quasi tutti i governi democratici hanno proceduto a adattamenti, modifiche, monitoraggi frequenti e significativi a riprova che una delle virtù della democrazia è la sua capacità di apprendimento. Per la varietà e la molteplicità delle situazioni e degli eventi non è qui possibile effettuarne una ricognizione sufficientemente accurata. Pertanto, per ragioni ovvie, mi limito ad alcune osservazioni sul caso italiano (e nulla dirò su strane convergenza dei sedicenti libertari di “sinistra” e dei classici oppositori di destra le cui idee sulla libertà sono, nel migliore e più raro dei casi, caratterizzate dalla confusione).
Nella doppia chiave di, da un lato, limitazione incostituzionale delle libertà personali e dall’altro, di compressione del ruolo del Parlamento sotto il tiro della critica in Italia sono stati messi i Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri (DPCM) emanabili ed emanati senza che il Parlamento dovesse/potesse, qualsiasi verbo utilizzato è giustamente controverso, esaminarli, emendarli, approvarli o respingerli. Fior di giuristi si sono esercitati nella critica di autoritarismo al Presidente del Consiglio Conte e del suo governo. Vero è che, in larga misura, le democrazie sono cadute proprio per il cedimento/tradimento delle elites politiche, sociali, economiche. Tuttavia, non è mai mancata in Italia la libertà di esprimere una pluralità di posizioni diverse. Inoltre, anche se quasi nessuno fra gli studiosi e i commentatori vi ha fatto riferimento, il Parlamento avrebbe sempre potuto autoconvocarsi su iniziativa e richiesta di un terzo dei parlamentari e esercitare il suo potere di controllo sull’operato del governo. Incidentalmente, va messo in forte rilievo che in nessuna delle democrazie parlamentari si è verificata una contrapposizione dura e antagonistica fra governo e Parlamento. Gli scontri fra Presidente e Congresso che hanno raggiunto i livelli più elevati sono avvenuti negli Stati Uniti d’America e in Brasile. La spiegazione va cercata sia nelle personalità autoritarie e divisive dei due Presidenti, Trump e Bolsonaro, sia nel loro negazionismo, almeno all’inizio, ma spesso riaffiorato, del Covid equiparato a una influenza appena più grave. Sono polemiche oramai alle nostre spalle, ma ovviamente dotate di componenti carsiche destinate a fare la loro ricomparsa, nelle democrazie poiché nei regimi autoritari sarebbero/sono immediatamente represse insieme con i loro portatori.
Sottoporre a verifica le prestazioni dei regimi non-democratici implica individuare i criteri ritenuti più importanti e decisivi della loro “qualità”. Si tratta di un esercizio analitico rarissimamente effettuato. Possiamo supporre l’esistenza di un accordo implicito trasversale fra gli studiosi relativamente alla durata dei regimi non-democratici. Più durano più è plausibile sostenere che sono, da un lato, efficienti, dall’altro, relativamente in grado di soddisfare le preferenze e di tutelare gli interessi di settori più o meno estesi della società. Peraltro, alcuni studiosi hanno sostenuto con dati molto convincenti, mai seguiti da confutazioni, che nei regimi gli autoritari le aspettative di vita dei cittadini sono alquanto inferiori a quelle dei cittadini nei sistemi democratici (A. Przeworski, M.E Alvarez, J.A. Cheibub e F. Limongi, Democracy and Development: Political Institutions and Well-Being in the World, 1950-1990) Cambridge, Cambridge University Press, 2000). Naturalmente, esiste una efficienza nella repressione e nella cancellazione delle notizie nella quale la leadership del Partito Comunista Cinese ha, ogniqualvolta le è sembrato necessario, dimostrato di sapere, se non brillare, quantomeno eccellere.
Quando si passa a valutare le qualità delle democrazie realmente esistenti, da un lato, è possibile fare affidamento sui dati raccolti da alcune organizzazioni affidabili: Freedom House, l’Economist Intelligence Unit, V-Dem, dall’altro, è opportuno chiedere l’opinione dei cittadini, ad esempio, relativamente al loro grado di soddisfazione per il funzionamento della democrazia. Disponiamo di una cospicua messe di dati raccolti periodicamente oramai da diversi decenni e pubblicati nell’Eurobarometro, nel LatinoBarometro e nell’AsiaBarometro. Nelle democrazie le relazioni esistenti fra governanti e cittadini sono periodicamente sottoposte a verifica attraverso libere elezioni i cui risultati sono densi di informazioni e significati. L’eventuale scollamento fra governanti e cittadini ha modo di manifestarsi proprio nei comportamenti elettorali che, oltre a sconfiggere gli incumbents, i detentori delle cariche, conferiscono il potere di governo agli sfidanti. Dunque, se i governanti delle democrazie europee e di altri luoghi fossero stati inadeguati, come molti commentatori si sono affannati a denunciare, avremmo dovuto assistere a una molteplicità di limpide sconfitte elettorali e di loro sostituzione.
Democrazia è conquista del consenso
In assenza di una analisi sistematica, ritengo sia sufficiente notare che in due soltanto delle più importanti democrazie i governanti sono stati sconfitti e sostituiti: gli Stati Uniti e la Germania. Nel novembre 2020 netto è stato il responso degli elettori USA contro Trump, per quanto non motivato esclusivamente dalle sue deplorevoli affermazioni e posizioni riguardanti il Covid. In effetti, non è possibile sostenere che, nonostante l’importanza della pandemia, per la maggioranza degli elettori questo sia stato l’argomento decisivo per la loro opzione di voto. Il caso della Germania è segnato dalla sconfitta nel settembre 2021 della Democrazia Cristiana, privata della apprezzata leadership di Angela Merkel, piuttosto che dalla vittoria dei Socialdemocratici il cui esito numerico è di poco migliore di quello di quattro anni prima. Pertanto quel risultato non è definibile come la sconfessione della politica attuata dal governo CD/SPD contro il Covid. Pur variamente criticati sia Boris Johnson in Gran Bretagna (forse ancora sull’onda lunga della Brexit) sia Emmanuel Macron in Francia hanno visto riconfermato il loro ruolo di governo. Ad eccezione dell’Ungheria di Viktor Orbán, sistema politico la cui democraticità è giustamente messa in discussione, un po’ dappertutto nelle democrazie occidentali partiti e dirigenti politici caratterizzabili come populisti hanno registrato significative battute d’arresto. Probabilmente, i due casi più interessanti, ancorché riguardanti sistemi politici relativamente piccoli, sono quelli del Portogallo, gennaio 2022, e della Slovenia, aprile 2022. Nel primo la coalizione di sinistra al governo è stata riconfermata con un aumento di seggi. Nella seconda, la vittoria della coalizione liberale-ecologista ha mandato all’opposizione il capo del governo sovranista.
Nel complesso, i modelli istituzionali e i sistemi di partiti delle democrazie hanno dimostrato di sapere affrontare e reggere una sfida assolutamente insidiosa come quella della pandemia senza in buona sostanza perdere il sostegno dei cittadini. Come sostenuto da molti teorici della democrazia, a cominciare da Giovanni Sartori (The Theory of Democracy Revisited, Chatham, N.J., Chatham House Publishers, 1987, 2 voll.) due elementi caratterizzano il funzionamento e il rendimento dei modelli costituzionali democratici: la flessibilità e l’apprendimento. La flessibilità si esprime sia nella varietà di rapporti fra governo e parlamento sia, in particolare nelle democrazie parlamentari, nella possibilità, inesistente nelle democrazie presidenziali, di cambiare governo senza procedere a nuove elezioni, fenomeno potenzialmente traumatico in caso di crisi gravi come la pandemia. L’apprendimento riguarda tutti gli attori, inclusi i cittadini, e si è manifestato sia nell’adattamento delle decisioni alle differenti fasi della pandemia sia nell’accettazione, più o meno differenziata, da parte di grandi maggioranze degli elettorati delle decisioni prese dai loro rispettivi governi.
Il cambiamento dei governi in corso d’opera merita un approfondimento ancorché sintetico soprattutto a beneficio di coloro che insistono a parlare di “elezione diretta del governo”, di “governo eletto dal popolo”. Come ho anticipato, nelle democrazie parlamentari il governo è espressione del Parlamento il quale è sempre in grado di sostituirlo senza ricorrere a nuove elezioni. In tempi recenti, così è avvenuto in Spagna con il socialista Pedro Sanchez divenuto Presidente del governo con una mozione di sfiducia costruttiva il 2 giugno 2018, confermato dalle elezioni generali del 10 novembre 2019. Così in Gran Bretagna con il conservatore Boris Johnson scelto dal Parlamento il 24 luglio 2019 come Primo Ministro in sostituzione di Theresa May e poi vittorioso nelle elezioni del 12 dicembre 2019. Nella situazione italiana si trova il caso più esemplare di governo nato in Parlamento il 13 febbraio 2021 con un Presidente del Consiglio dei Ministri extraparlamentare, l’economista Mario Draghi il quale ha in buona misura continuato l’opera del suo predecessore con poche modifiche e innovazioni ricevendo ancor meno critiche “democraticistiche”.
Concludendo. A quella che all’inizio della pandemia appariva un’affermazione speranzosa che mirava a essere rassicurante: “Tutto tornerà come prima”, è opportuno fare seguire una considerazione e una valutazione. La considerazione è che nulla, nella società e nell’economia, neppure nella cultura potrà mai essere “come prima”. Se sarà meglio o peggio di prima, in democrazia lo decideranno i cittadini, partecipanti o meno, i rappresentanti da loro eletti, i governanti nei diversi assetti istituzionali ai quali questa relazione ha fatto riferimento. La valutazione è che il “dopo” dei modelli costituzionali democratici è caratterizzato dalla piena consapevolezza della loro flessibilità che, però, non potrà in nessun modo significare un “ritorno al passato” poiché la pandemia ha operato distruggendo molte inefficienze e incentivando in maniera positiva l’apprendimento. La flessibilità ha avuto modo di manifestarsi anche, ovunque si sono tenute le elezioni, in cambiamenti, peraltro per lo più contenuti, nei rapporti di forza fra i partiti e senza nessuna disgregazione dei sistemi di partiti. Grazie alle modalità e agli strumenti della accountability, i regimi democratici e i loro modelli istituzionali non hanno subito né crisi politiche né crisi costituzionali. Tuttavia, anche a spiegazione del titolo della relazione, la pandemia è stata una specie di cartina di tornasole. Per ciascun sistema politico e ciascun modello istituzionale la pandemia ha evidenziato pregi e difetti, potenzialità e inadeguatezze. Tutto da imparare. Resta da vedere come, quando e quanto le diseguaglianze sociali, economiche, culturali eserciteranno un impatto sui partiti e sui sistemi di partiti oppure saranno incanalate con il minimo di tensioni e conflitti nella “normale”, già esistente, ma non sempre adeguatamente analizzata, dialettica democratica. Questa è la sfida della crisi, nella crisi.
EXPO 2030 all’Arabia Saudita: riflessioni, consolazioni, illusioni #paradoXaforum

La pesantissima sconfitta della candidatura di Roma a Expo 2030 intitolata al “L’era del cambiamento: insieme per un futuro chiaro” suscita non solo inutili rimpianti, ma utili riflessioni. Dei 165 Stati votanti Riad ha ottenuto 119 voti (tecnicamente un’enormità poiché molti osservatori ipotizzavano un ballottaggio)), la coreana Busan 29, Roma 17. Ovviamente non si deve affatto scartare l’ipotesi che il progetto saudita fosse/sia il migliore. Al tempo stesso, è indispensabile riflettere su quanto il denaro, promesso sotto forma di regali e favori dei più vari tipi, talvolta al limite della corruzione (l’Arabia Saudita si trova a metà della classifica fra i paesi più e quelli meno corrotti), di investimenti, di prestiti, riesca a essere molto influente, soprattutto quando è molto.
Il fatto che l’Arabia Saudita è un regime autoritario con forti componenti teocratiche, il cui maggiore esponente, Mohammed bin Salman è accusato di avere fatto uccidere Jamal Kashoggi, giornalista oppositore del regime, che nel 2022 vi siano state eseguite 147 condanne a morte, che la condizione delle donne sia miserevole, non ho scoraggiato il voto a suo favore da parte di non pochi sistemi politici democratici, ad esempio, pubblicamente la Francia. Almeno altri nove Stati-membri dell’Unione Europea, che considera la pena di morte ostativa all’adesione al suo consesso, non hanno comunque scelto l’Italia. Sappiamo che l’Albania, il cui Primo Ministro Edi Rama qualche settimana fa è stato visto recentemente a braccetto con Giorgia Meloni, non ha sostenuto l’Italia, come pure tutti gli Stati dei Balcani, la Moldovia, l’Ucraina.
Ricorriamo pure al detto latino “pecunia non olet” e aggiungiamo eventuali gravi errori di presentazione e presunzione della candidatura italiana. Certo, l’Expo non costituisce il bottino di un duello fra democrazie e autoritarismi. Tuttavia, è evidente che moltissimi Stati ritengono sostanzialmente irrilevante ai fini della loro scelta la natura politica di un regime. Non si pongono neppure il quesito se in questo caso un successo serva/irà anche a rafforzare quell’autoritarismo, addirittura quasi a legittimarlo.
Sicuramente, nel mondo arabo il prestigio dell’Arabia Saudita è cresciuto, la sua leadership è più ammirata e nessuno potrà permettersi di chiederle un allentamento della sua presa oppressiva e repressiva sulla società, a partire dall’applicazione della sharia. Tuttavia, qualsia riflessione sull’autoritarismo non può dimenticare che talvolta fanno capolino elementi inaspettati che influiscono sul regime. Il turismo di massa, che si attiva in occasione di eventi come l’Expo (22 milioni e 200 mila nel caso di Milano 2015) ha caratteristiche tali da iniettare germi di cambiamento.
Milioni di turisti uomini e donne, che si muovono liberamente, vestiti non certo come il regime impone alle “sue” donne, che si abbracciano e baciano anche per strada, che portano e leggono libri proibiti molti dei quali in occasione della loro partenza regaleranno ai sauditi/e che hanno conosciuto e, seppur brevemente, frequentato, potrebbero essere germi di un cambiamento al quale immagino molti giovani e donne saudite aspirano da tempo. Come magra consolazione almeno rimaniamo sul filo dell’illusione e alimentiamola.
Pubblicato il 30 novembre 2023 su PARADOXAforum
La condizione di una alleanza Pd-5 Stelle secondo Pasquino @formichenews

Se il Movimento 5 Stelle non è d’accordo con le posizioni che derivano dall’articolo 11 della Costituzione, che mi paiono e mi auguro essere centrali nella visione del Partito democratico e con le prospettive anche operative che ne derivano, è improbabile che nasca un’alleanza di governo dotata di senso sulla scena europea e internazionale. Sull’ambiguità non si costruisce nulla di buono, nulla di solido, nulla di accettabile. Il commento di Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza Politica e accademico dei Lincei
Come elettore sarei molto esigente. Credo che non riuscirei a convincermi a votare per una coalizione che includesse in posizioni dominanti due partiti che sulla politica internazionale si collocano su fronti opposti, incompatibili. Probabilmente, un sistema elettorale proporzionale, grazie al quale i partiti possono consentirsi il lusso di andare in ordine sparso, mi permetterebbe di sfuggire ad una scelta comunque dolorosa. Però, quel che un elettore può evitare i partiti coalizzati in un’alleanza di governo dovrebbero affrontare di petto. Visibilmente. Responsabilmente.
Di fronte ad alcune alternative: dare armi all’Ucraina o no; sostenere Israele o dirsi equidistanti dai terroristi di Hamas, e altre simili che potrebbero (ri)presentarsi, le furbizie al/di governo sarebbero paralizzanti o distruttive. Per di più, poiché l’Italia fa parte di non poche organizzazioni sovranazionali, quelle furbate metterebbero inevitabilmente in discussione il suo ruolo, politico e economico, la sua affidabilità, la sua lealtà. Tutto questo appare sufficientemente chiaro e preoccupantemente delicato quando si confrontano le posizioni del Partito Democratico e del Movimento 5 Stelle sull’Ucraina e, in buona misura, anche sul conflitto Hamas/Israele.
Non so se la mia posizione personale: “sto sempre dalla parte delle democrazie” meriti di essere definita non negoziabile. Sicuramente, costituisce la mia preziosa scorciatoia cognitiva e etica alla quale non intendo rinunciare. Prodotto delle mie conoscenze storiche e delle mie preferenze politiche, la mia posizione si appoggia sulla lettura della Costituzione italiana e ne trae alimento e guida.
Articolo 11
L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.
Grazie alla loro conoscenza storica e alle loro esperienze personali, per non pochi drammatiche, nella stesura di questo articolo i Costituenti si sono rivelati anche preveggenti. Ripudiare qualsiasi guerra di offesa significa anche riconoscere il diritto alla difesa di Stati e cittadini che vengono aggrediti. Significa agire insieme con altri Stati democratici per difendere i diritti degli aggrediti e ristabilire, con fondi e, quando, spesso, necessario, con armamenti, l’indipendenza, la sovranità, la vita.
Se il Movimento 5 Stelle non è d’accordo con queste posizioni, che mi paiono e mi auguro essere centrali nella visione del Partito Democratico e con le prospettive anche operative che ne derivano, è improbabile che nasca un’alleanza di governo dotata di senso sulla scena europea e internazionale. Sull’ambiguità non si costruisce nulla di buono, nulla di solido, nulla di accettabile.
Professore Emerito di Scienza politica, socio dell’Accademia dei Lincei, kantiano.

Pubblicato il 16 ottobre 2023 si Formiche.net
Le democrazie e la lezione della Polonia @DomaniGiornale

L’esito delle elezioni in Polonia, anzitutto sfavorevole al PIS, il partito Diritto e Giustizia, al governo da non pochi anni, in secondo luogo, premiante in termini di voti per Coalizione Civica, l’opposizione progressista pro-Europa, contiene molti insegnamenti. Il primo insegnamento, poiché la partecipazione elettorale è cresciuta significativamente giungendo ad un invidiabile 73 cento, dice che quando cittadini e cittadine percepiscono, anche grazie alla campagna elettorale, che la posta in gioco è alta, decidono di dedicare parte del loro tempo e delle loro energie per andare alle urne, per farsi contare e contare. Ottimo insegnamento democratico. Ne consegue anche che l’importante affermazione di Coalizione civica dipende dall’essere riuscita a caratterizzarsi come schieramento a favore dell’Unione Europea, quella che c’è e che può essere migliorata, contro le politiche di impronta sovranista del PIS. Vero e sincero europeista di lungo e coerente corso, Donald Tusk si è battuto anche in nome dello Stato di diritto, della rule of law, e contro le ripetute violazioni dei principi e dei valori che stanno alla base degli Stati democratici e della stessa Unione Europea. Una parte decisiva dell’elettorato polacco ha indicato con il suo voto che ritiene importantissimi proprio quei principi e quei valori che stanno in totale contraddizione con l’immagine che vuole dare di sé il Partito del Diritto e della Giustizia e con i contenuti delle sue politiche ripetutamente stigmatizzati dal Parlamento europeo e sottoposti a sanzioni dalla Commissione Europea.
A essere comunque sconfitto non è soltanto il sovranismo e il suo esercizio, ma gli elementi di più o meno sottile autoritarismo che permeano l’ideologia e la pratica politica del PIS e dei suoi governanti e dirigenti. Rimane da temere quanto quei governanti e dirigenti intenderanno fare per non cedere il potere politico alla coalizione che sta formandosi a sostegno del probabile governo guidato da Tusk.
La lezione “polacca” di maggiore rilevanza riguarda la democrazia, le definizioni del suo stato attuale, le analisi che si concentrano sulla sua, non meglio precisata e troppo spesso ripetitivamente, quasi compiaciutamente, denunciata, crisi, le sue prospettive future, qui in Europa e altrove. A chi ha gli strumenti per ascoltare e capire, i risultati polacchi mandano il messaggio che, fintantoché esistono le condizioni minime, di base per una competizione politico-elettorale equa, i cittadini hanno la possibilità di cambiare idee, voto, governi. In Polonia, non era in crisi la democrazia in quanto tale, come ideale. Era sotto attacco da parte di alcune elite, comprese quelle religiose cattoliche, il funzionamento delle istituzioni, a partire dall’ istituzione giudiziaria e dal rapporto governo/parlamento. Non esisteva una crisi generalizzata, tutto coinvolgente. Esistevano problemi di funzionamento e di funzionalità. La situazione appariva, ed effettivamente è, seria e delicata poiché quei problemi, in piccola misura fisiologici, venivano talvolta sfruttati e manipolati talvolta deliberatamente creati dalle elite politiche sovraniste appoggiate da elite economiche e religiose.
La democrazia si conferma il memo peggiore dei modelli di governo realmente esistenti poiché consente a tutti i protagonisti, popolo (sì, scelgo proprio questo termine che è la traduzione di demos) e elite, di imparare. Quando toccano il fondo i modelli autoritari e totalitari di governo si infrangono in misura diversa e variabile. Le democrazie rimbalzano.
Pubblicato il 18 ottobre 2023 su Domani
Ma come si fa a definire il secolo XX “autoritario”? Ah, il senso della storia …
Davvero qualcuno può credere che la definizione più appropriata del secolo XX sia “autoritario” (titolo del più recente libro di Paolo Mieli, giornalista e storico)? Sì, ci sono stati molti regimi autoritari, fascismo compreso, tutti sconfitti proprio nel XX secolo. Ci sono stati anche regimi totalitari, nazismo e stalinismo, crollati rovinosamente. Lo sviluppo più importante del XX secolo è la comparsa e la diffusione delle democrazie; 12 all’inizio, del secolo, più di 60 all’avvento del XXI secolo. Il fondamentale libro, tutto da leggere, di Samuel Huntington, La terza ondata. I processi di democratizzazione alla fine del XX secolo (il Mulino 1995), dà correttamente il senso della storia.
INVITO Democrazie preoccupate #2ottobre #Bologna Dialoghi di Pandora Rivista – Festival 2023 “Quale sviluppo? Scegliere l’orizzonte” @pandorarivista

Ore 21
Piazza Coperta Biblioteca Salaborsa
Democrazie preoccupate
Mario DE PIZZO – Giornalista parlamentare TG1
Lina PALMERINI – Giornalista parlamentare e quirinalista il Sole 24 Ore
Angelo PANEBIANCO – Professore emerito di scienza politica Università di Bologna
Gianfranco PASQUINO – Professore emerito di scienza politica Università di Bologna
Paolo POMBENI – Professore emerito di scienza politica Università di Bologna