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O tempora o mores. Noterella sulle non-democrazie illiberali.
Per qualche tempo hanno avuto successo le microstorie. Erano “racconti” molto efficaci, spesso brillanti, quasi sempre suggestivi di fenomeni e avvenimenti che illuminavano un’epoca (forse anche un ethos). Un mio incontro, condito con una vivace scambio di idee, avvenuto a Milano, martedì 12 marzo, alla Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, in coda alla presentazione discussione del libro di Francis Fukuyama, Identità. La ricerca della dignità e i nuovi populismi, UTET 2019, merita di essere collocato fra le quelle che chiamerò “micropolitiche”.
Mi ero avventurato a sostenere che, da un lato, le democrazie illiberali semplicemente non sono democrazie e che le democrazie elettorali sono tali soltanto per chi ritenga che una qualsivoglia serie di competizioni elettorali, a prescindere dalle modalità con le quali si svolgono quelle competizioni, spoglio dei voti compreso, conferisce un’accettabile patina (non qualità) di democraticità al sistema/regime. Naturalmente, ne avevo concluso, democrazie non sono, come avevo letto in un articolo pubblicato pochi giorni prima sul Corriere della Sera, né la Turchia né la Russia.
Finito l’incontro, sono stato, più che avvicinato, quasi assalito da una signora con i capelli biondi e la pelle chiara, tra i 50 e i 60 anni che mi ha chiesto con tono severo, di rimprovero e biasimo, perché mai mi fossi permesso di affermare che la Russia non è un paese democratico. Un po’ sorpreso, ma non abbastanza da non notare, come la signora mi confermò, che era per l’appunto russa, replicai che cambiare la Costituzione per fare, grazie a elezioni nelle quali gli oppositori partono sempre con svantaggi considerevoli, prima due mandati da Presidente poi due mandati da Primo ministro per ritornare a fare il Presidente, sono comportamenti che non appartengono al novero delle procedure democratiche. Conclusi, credendo di avere un argomento jolly, assolutamente vincente, che, anche a prescindere dalle elezioni, in Russia c’è scarso o nullo rispetto delle norme e delle pratiche democratiche, che vi si uccidono gli oppositori, per esempio, i giornalisti e citai il caso Politkovskaya.
La replica della signora fu immediata e, per così dire, argomentata. La rivistina della Politkovskaya vendeva pochissime copie e a Mosca si trovava soltanto in rare edicole –non più di una su venti. Impossibile mi fu il replicar tranne “ma signora…”. Però, il messaggio di micropolitica mi è parso chiarissimo: nelle non-democrazie illiberali la libertà di stampa (e dei giornalisti) si valuta e si difende non sui principi, ma sui numeri, sulle copie vendute e sulle edicole disposte a ospitarle. Insomma, la Russia è una democrazia, magari non proprio di stampo liberal-occidentale, ma sicuramente iper-maggioritaria.
La legittimità democratica si può perdere
In seguito alla più recente ondata di democratizzazione seguita al crollo dei regimi comunisti non soltanto nei paesi dell’Europa centro-orientale, le democrazie che, pure imperfette, sono, al tempo stesso, elettorali e costituzionali, vale a dire che rispettano i diritti dei loro cittadini, ammontano a poco più di una trentina. A loro si aggiungono all’incirca una quarantina di democrazie elettorali nelle quali i diritti dei cittadini sono poco protetti e ancora meno promossi. La Turchia fa parte di questa seconda categoria, la cui transizione a democrazie costituzionali appare molto complicata. Con riferimento agli avvenimenti in corso in Turchia, è opportuno segnalare che le democrazie elettorali possono retrocedere allo stadio di non-democrazie, di regimi autoritari più o meno blandi, più o meno repressivi.
Da Norberto Bobbio ho imparato che la legittimità a governare può derivare da due modalità: ex titulo e quoad exercitium. Il titolo può essere l’ereditarietà, la nomina ad opera della persona o dell’organismo ai quali è riconosciuto il diritto di effettuarla, i procedimenti elettorali. La legittimità può anche essere acquisita da chi, pur non avendo all’inizio ottenuto il titolo a governare secondo criteri accettabili, dimostri di volere e di sapere governare in maniera tale, con scrupolo, correttezza, equità, a favore del sistema e di tutti, da guadagnarsela. Nelle democrazie elettorali, il titolo a governare è la vittoria conseguita attraverso procedure eque. In qualche, rarissimo, regime autoritario, il leader sostiene di avere acquisito il titolo a governare poiché agisce a favore del popolo, lo rappresenta e opera per il suo benessere. In generale, è lecito dubitarne fino a convincente prova contraria e purché sia garantita la libertà degli oppositori di sfidare i governanti.
Sulla scia del tentato e mancato golpe in Turchia, dopo una breve, non necessariamente preoccupante, esitazione sia i capi dei governi degli Stati-membri dell’Unione Europea sia il Presidente degli Stati Uniti hanno condannato il golpe e ribadito la legittimità del governo del partito di Erdogan. Giusto così. La mobilitazione dei muezzin e dei sostenitori del partito di Erdogan ha fatto il resto contro il golpe, ma, come ha scritto giustamente Luigi Ferrarella (Corriere 18 luglio, p. 31) quella mobilitazione dice qualcosa sulla popolarità di Erdogan, non molto sulla democraticità del suo stile di governo. Anzi, le reazioni successive del governo turco e le dichiarazioni di Erdogan sollevano il quesito se la loro legittimità democratica non meriti di essere messa in discussione.
Gli arresti di massa, presumibilmente, senza mandato e le modalità di detenzione, trasmesse al mondo attraverso ai social, nel non tanto sottile intento di insegnare qualcosa a molti, le estromissioni di migliaia di magistrati dai loro tribunali, i licenziamenti di migliaia di dipendenti pubblici, fintantoché non siano confermate come, immagino, dovrebbero, dalla magistratura, sono tutti comportamenti deplorevoli, probabilmente persino in violazione della legislazione turca vigente. Pertanto, è del tutto lecito sollevare il quesito se Erdogan e il suo governo non stiano perdendo la legittimità a governare quoad exercitium, ovvero a causa delle modalità con le quali esercitano il potere. L’eventuale re-introduzione della pena di morte, “suggerita” dal Presidente al Parlamento, al quale spetta deliberarla, dovrà essere valutata con riferimento ai criteri per la sua applicazione, ma, comunque, blocca, fintantoché durerà, qualsiasi procedura di adesione all’Unione Europea (al momento, non certo una delle preoccupazioni principali di Erdogan).
Senza accondiscendenza e senza ipocrisia, proprio perché gli Stati-membri dell’Unione Europea sono consapevoli di quanto importante politicamente, militarmente, socialmente sia la Turchia, il messaggio sul rispetto dei diritti delle persone deve essere inviato a Erdogan senza indugio. I comportamenti delle organizzazioni da lui guidate e controllate rischiano di diventare rapidamente tali da fargli perdere ai nostri occhi qualsiasi legittimità effettiva a governare il suo paese.
Pubblicato il 27 luglio 2016