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Grosse Koalition a Londra #vivalaLettura #Corriere

Un gioco istruttivo: immaginare gli effetti di leggi elettorali diverse nei maggiori Paesi europei. In Germania il maggioritario esalterebbe la centralità della Cdu. Con il proporzionale in Francia Macron sarebbe più debole e Le Pen più forte, mentre in Gran Bretagna i liberali diventerebbero decisivi a meno di un’intesa tra conservatori e laburisti.

 

Le leggi elettorali sono fatte di regole, meccanismi, clausole e procedure che non soltanto stabiliscono come i voti vengono tradotti in seggi, ma che influenzano gli stessi comportamenti degli elettori. Troppo spesso, sondaggisti e commentatori sottovalutano, quando non, addirittura, dimenticano, che gli elettori valutano le opzioni e scelgono anche sulla base delle conseguenze che sono in grado di prevedere. Da tempo sappiamo che se la legge elettorale è proporzionale l’elettore si trova nelle condizioni migliori per esprimere un voto “sincero”, vale a dire, scegliere il partito che preferisce. Invece, laddove esistono collegi uninominali nei quali la vittoria arride al candidato/a che ottiene più voti, l’elettore potrà rinunciare a sostenere il suo candidato preferito che non abbia possibilità di vittoria scegliendo il voto “strategico”, vale a dire votando chi abbia maggiori probabilità di sconfiggere il candidato a lui/lei più sgradito. Questo tipo di voto è alquanto frequente, come abbiamo visto e imparato in molte tornate elettorali, qualora la legge elettorale contempli due turni, ad esempio, nell’elezione dell’Assemblea nazionale in Francia, poiché il votante gode anche della possibilità di valutare tutto quello che succede, “scomparsa” del candidato da lui/lei votato al primo turno, desistenze di candidati e accordi fra dirigenti di partiti, fra il primo e il secondo turno.

Sulla base di queste semplici, ma essenziali, considerazioni, possiamo chiederci, non soltanto a scopo di divertissement, ma di apprendimento, che cosa succederebbe se nelle tre grandi democrazie europee: Germania, Francia e Gran Bretagna cambiassero le leggi elettorali finora utilizzate. Di quanto e come sarebbero influenzati i comportamenti degli elettorati e quali effetti avrebbero sulla composizione dei Parlamenti e sulla formazione dei governi? Fortunatamente, è possibile muoversi su un terreno politico almeno in parte già dissodato, per quanto in maniera diversa, in tutt’e tre i paesi. Per esempio, l’avvento in Germania di una legge tutta maggioritaria di tipo inglese, incidentalmente, proprio come avrebbero voluto alcuni grandi politologi tedeschi costretti all’esilio in USA, fra i quali il più combattivo fu Ferdinand Hermens, sarebbe soltanto parzialmente una novità poiché già la metà (dopo le elezioni del 24 settembre, con i molti “mandati aggiuntivi”, persino, un po’ di più) dei parlamentari tedeschi sono eletti in collegi uninominali. Quasi sicuramente, una legge elettorale di tipo inglese ridurrebbe considerevolmente il numero di seggi conquistabili dai partiti, Liberali, Verdi e Die Linke, che si situano intorno al 10 per cento dei voti, ad esclusione, forse di Alternative für Deutschland che ha una forte presenza concentrata nei Länder della Germania orientale e, sembra, anche in Baviera, dove, quindi, i suoi candidati potrebbero vincere in diversi collegi uninominali. Da una legge elettorale maggioritaria la CDU di Angela Merkel (e del suo successore) trarrebbe qualche vantaggio, ma probabilmente non conquisterebbe la maggioranza assoluta di seggi nel Bundestag cosicché sarebbe ancora costretta a scegliersi, pur in condizioni di maggiore forza, almeno un alleato di governo. I socialdemocratici uscirebbero appena rafforzati da una legge maggioritaria con i collegi uninominali che metterebbero loro e la loro costola, Die Linke, di fronte alla necessità di una convergenza con il voto “strategico” sulle candidature reciprocamente più gradite e potenzialmente vincenti. In definitiva, la CDU, grande partito di centro, risulterebbe ancora di più il perno e il motore della democrazia tedesca.

Neppure per la Francia il passaggio da una legge elettorale maggioritaria a una legge proporzionale costituirebbe una sorpresa. Dal 1946 al 1958 i francesi andarono al voto proprio con una legge proporzionale che incoraggiava e premiava gli apparentamenti, ma che non impediva affatto la sopravvivenza e la rappresentanza di piccoli gruppi. Fu per volontà del Generale de Gaulle che si passò al sistema maggioritario a doppio turno, simile, peraltro, a quello che era stato utilizzato nella seconda fase della Terza Repubblica (1871-1940). Con un’operazione del tutto pro domo sua il Presidente socialista François Mitterrand, politico quant’altri mai della Quarta Repubblica, resuscitò una legge proporzionale con l’obiettivo esplicito di impedire un’annunciata vittoria dei gollisti nel 1986 oppure, quantomeno, per contenerne le proporzioni. I gollisti guidati da Chirac, alleati con i repubblicani dell’ex-Presidente Valéry Giscard d’Estaing, vinsero comunque e procedettero subito al ripristino della legge maggioritaria. Da allora, però, la Francia “soffre” le conseguenze di lungo periodo di quella decisione di Mitterrand. Infatti, nel 1986, proprio l’utilizzo della legge proporzionale consentì al Front National guidato da Jean-Marie Le Pen di ottenere con il 9, 86 per cento dei voti 35 seggi in parlamento, subito spariti con il rapido ritorno nel 1988 alla legge maggioritaria a doppio turno e mai più riconquistati. Nel 2017 con il 13,20 per cento dei voti, Marine Le Pen ha vinto appena 8 seggi. Dunque, non potrebbe che essere felice se tornasse la proporzionale poiché il numero dei seggi del Front National balzerebbe fino all’incirca a 60. Ça va sans dire che la re-introduzione della proporzionale non soltanto renderebbe quasi impossibile a La France en marche di Emmanuel Macron di conquistare la maggioranza assoluta di cui, frutto anche di numerosissimi voti strategici, gode attualmente all’Assemblea Nazionale, avendo conseguito meno del 33 per cento dei voti, ma non porrebbe nessun ostacolo alla gioiosa frammentazione delle liste di sinistra (sì, i dirigenti francesi della gauche hanno già dimostrato nel 2002 di sapere fare anche peggio, quanto alle divisioni particolaristiche, delle sinistre italiane). Peraltro, il semipresidenzialismo funziona anche se il governo sarà/fosse di coalizione.

Qualche esperienza con una legge elettorale proporzionale i britannici l’hanno già avuta, e non l’hanno gradita. Sono stati costretti a votare per eleggere i loro eurodeputati con un sistema proporzionale. Molti di loro hanno preferito starsene a casa. Nel 2014 per il Parlamento europeo ha votato soltanto il 35.6 per cento (Italia 57,22 per cento) agevolando il successo in termini di seggi per chi si opponeva all’Unione Europea nel cui Parlamento voleva, però, entrare, e vi riuscì a vele spiegate: lo United Kingdom Independence Party, antesignano della Brexit, che con il 27,6 per cento di voti ottenne 24 seggi. Già sono otto i partiti rappresentati a Westminster e, comunque, sono sempre stati più di tre (attualmente, oltre ai tre maggiori, si trovano, nell’ordine: Nazionalisti scozzesi; Unionisti dell’Ulster; Gallesi; Sinn Fein, Verdi), ma due soli si sono alternati al governo del Regno Unito nel secondo dopoguerra fino alla coalizione Conservatori-Liberali dal 2010 al 2015. Quindi, la proporzionale non farebbe crescere il numero dei partiti rappresentati alla Camera dei Comuni, ma aumenterebbe i seggi, per esempio, dei Liberaldemocratici, il partito nazionale molto svantaggiato dalla legge maggioritaria, e dei Verdi, svantaggiatissimi. Sicuramente, diminuirebbero i seggi dei due principali partiti: i Conservatori e i Laburisti. Nelle condizioni date non è neppure da escludere che una parte di Conservatori facciano una miniscissione motivata da una Brexit che ritengano troppo svantaggiosa per il reame. Con tutta probabilità, qualsiasi governo finirebbe per nascere intorno ad un’alleanza a due con i Liberali che potrebbero diventare il partito pivot per evitare una Grande Coalizione (s’è visto mai che i britannici imitino i tedeschi?).

Nessuno di questi esiti, in termini di numero dei partiti che ottengono, o no, rappresentanza parlamentare, e di assegnazione dei seggi fra i partiti, con la sicura sovrappresentanza dei partiti grandi qualora si utilizzi una legge maggioritaria, stupirebbe gli studiosi dei sistemi elettorali. Tutti richiamerebbero l’attenzione sulle clausole relative alle leggi proporzionali, quali, soprattutto, la soglia di accesso al Parlamento e la dimensione delle circoscrizioni misurata con riferimento al numero di parlamentari da eleggere in ciascuna di loro. Però, con circoscrizioni piccole nelle quali siano da eleggere meno di dieci parlamentari la potenziale frammentazione del sistema dei partiti sarebbe notevolmente contenuta. Infine, nessuno degli analisti sosterrebbe che le leggi maggioritarie danno governabilità e che le leggi proporzionali garantiscono rappresentanza. Le leggi maggioritarie premiano i partiti già grandi, ma la capacità di governare dovrà essere dimostrata dai loro dirigenti. Per il solo fatto che consentono l’ingresso in Parlamento a molti partiti, non è affatto detto che le leggi proporzionali diano migliore e maggiore rappresentanza. Al contrario, potrebbero essere responsabili della frammentazione partitica e parlamentare. Qualora, poi, analisti elettorali e cittadini s’interroghino sulla qualità della rappresentanza parlamentare, è probabile che convergerebbero su almeno un’importante conclusione: buone e preferibili sono quelle leggi elettorali che, poiché sono imperniate su collegi uninominali o prevedono le preferenze, danno a chi vota il potere di influire in maniera significativa sull’elezione dei rappresentanti. Saranno poi quei parlamentari a offrire rappresentanza e garantire governabilità, non i premi altrove inesistenti. De Italia fabula narratur.

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PD, un’ambizione fallita

l'Indro

Intervista raccolta da Marco Testino per L’INDRO

La storia della sinistra italiana continua ad essere segnata da divisioni e conflitti. Lo è stata sin dai suoi albori, dal quel 1892, quando a Genova nacque il partito socialista (allora Partito dei Lavoratori Italiani) e già con Carlo Dell’Avalle, il primo Segretario, iniziarono a manifestarsi le prime incertezze. La prima scissione, visto che oggi parliamo di questo, arrivò nel 1921, dopo scontri tra massimalisti e minimalisti che condussero alla creazione del Partito Comunista d’Italia. Poi, durante la Guerra Fredda, ecco arrivare lo scontro tra Giuseppe Saragat e Pietro Nenni, dal cui aspro confronto nasce un’altra costola, il Partito Socialista Democratico Italiano.

Altro evento choc per la sinistra nostrana il crollo del muro di Berlino, con il Partito Comunista che conclude il proprio percorso politico e la nascita, ad opera di Achille Occhetto, del Partito Democratico della Sinistra. Dall’altra però ecco arrivare la fondazione da parte di Armando Cossutta, Ersilia Salvato e Lucio Libertini del ‘radicale’ Partito della Rifondazione Comunista, che non avrà vita semplice, visto che nel 1998, in pieno marasma del Governo Prodi, subisce l’ennesima scissione che porta alla nascita dei Comunisti Italiani. Il Pds anche cambia pelle, arrivano i Democratici di Sinistra, con Massimo D’Alema e Walter Veltroni come primi segretari, poi dalla fusione dei Democratici di Sinistra ed alcuni membri della Margherita, arriva nel 2007 un altro passaggio storico, ossia la nascita dell’attuale Partito Democratico. Non ultima poi la scissione di una parte della sinistra con la creazione di Sinistra, Ecologia e Libertà (SEL). Ma la galassia della sinistra continua a muoversi ed ecco che una nuova scissione è pronta a sconvolgere il Pd, che ai più è sembrata solo una convivenza forzata tra elementi troppo diversi per trovare una sintesi vera.

Gianfranco Pasquino, politologo e accademico italiano, considerato tra i massimi esperti di scienza politica a livello internazionale, ci fa luce sulla questione:

Rispetto alle tante scissioni intestine alla Sinistra nel corso degli ultimi novant’anni, cosa c’è di diverso in quello che sta accadendo al Pd oggi?

Di scissioni nella sinistra italiana ce ne sono state diverse, ognuna deve esser valutata in base al partito e in riferimento alle tematiche che hanno portato alla scissione stessa. Certo, paragonare la scissione del partito comunista nel 1921 con quella di coloro che oggi vanno via dal Pd lo trovo poco in linea, bisogna ricordare che anche altrove la sinistra perde ed ha perso pezzi, come per il partito socialista in Francia che al tempo perse un pezzo chiamato poi Partito Socialista Unificato, o come in Inghilterra con i laburisti che nel ’82 persero un pezzo che poi si chiamò Alleanza Socialdemocratica, o come in Germania laddove la Socialdemocrazia perse un pezzo che si è poi riconfigurato nascendo dalla fusione tra il Partito della Sinistra ed il movimento Lavoro e Giustizia Sociale chiamandosi Die Linke. Anche i socialisti spagnoli han perso un pezzo che poi ha preso il nome di Podemos; inevitabilmente, la sinistra subisce scissioni, specialmente laddove non si riesce a raggiungere un comune accordo.

Quali sono stati gli elementi che hanno determinato nel corso del tempo questa scissione?

La Sinistra guarda al cambiamento, una parte è disponibile a cambiare molto e l’altra invece tende ad esser meno propensa a farlo; talvolta il cambiamento può esser un successo ma in questo caso la sinistra si ritrova ad esser colpita, la sinistra deve esser analizzata considerandola di base volta al progresso. I Paesi che non hanno naturale propensione ad un progresso repentino e non lo pretendono dalla sinistra, mantengono un partito unito; i Paesi in costante cambiamento non potranno che avere una sinistra instabile di natura, vuoi per ragioni culturali e generazionali. Questo porterà a decidere se velocizzare o rallentare il processo di cambiamento, sia per andar più in fretta, sia per timore di perdere pezzi preziosi.

Qual’è stato il problema di fondo del Partito Democratico e in che modo si sta muovendo e configurando la sinistra italiana al riguardo?

Il problema del Partito Democratico è che non è diventato quello che i fondatori speravano diventasse, ovvero fin dagli inizi il Pd è stato un caso di ’fusione fredda’ tra una Margherita principalmente ex democristiana con una componente prodiana e gli ex comunisti, che in modo curioso mettevano assieme il meglio della cultura riformista senza pero riuscire a mantenere intatta una riflessione o tantomeno una produzione di cultura dal partito; quello che vediamo ad oggi è il parto di una leadership senza cultura, perché questo è Renzi e la sua amministrazione, o anche la Serracchiani, nessuna cultura politica. Da un lato abbiamo la gestione di Renzi, sprovvista di un’adeguata cultura politica, dall’altra parte quelli che non hanno saputo migliorare e rinnovare i brandelli di quel che un tempo poteva esser considerata cultura politica. Il problema è identificabile dall’inizio, ricordiamo che il Pd è un partito giovanissimo e non riuscendo a produrre alcun tipo di cultura, inevitabilmente ha portato ad una scissione tra la persona di Renzi, assolutamente divisiva e le altre personalità politiche, non aiutando la coesione del Pd stesso.

Parlavamo di Podemos, rispetto alle altre sinistre europee, cosa c’è di diverso rispetto alla nostra e cosa bisogna prendere come spunto per riuscire a progredire evitando ulteriori scissioni e problematiche?

La differenza principale è che la Sinistra italiana ha una componente ex comunista, in tutti gli altri Paesi la componente maggioritaria è socialista invece, come lo è stata in Francia, in Spagna, in Gran Bretagna. La grossa differenza è che qui non c’è stata una fase socialdemocratica. Chi ha messo su il Partito Democratico doveva assimilare la componente socialdemocratica, non riuscendoci e portando agli esiti che già conosciamo.

La minoranza ‘secessionista’ del Pd come si sta configurando? La questione di cultura politica riformista verrà abbandonata?

Se invece del porre attenzione all’urgenza drammatica del tenere il congresso in tempi brevi Renzi avesse preferito una conferenza programmatica, sicuramente ci sarebbe stata la base di un dibattito culturale; in assenza di tale presupposto, i rimanenti dovranno cercare di conquistare consenso ed essere presenti nella vita politica; in ogni caso il dibattito culturale è stato rimandato fin troppo. Tra gli interventi in assemblea ve ne sono stati solo due rilevanti dal punto di vista culturale, il primo da parte di Epifani che definiva un partito riformista di sinistra, l’altro invece da parte di Veltroni che ridefiniva quello che non è riuscito a fare nella fase di struttura del Pd.

Pubblicato il 22 febbraio 2017 su L’INDRO