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La scomparsa delle culture politiche in Italia: note non troppo a margine

Ho pensato e ripensato a quel che, forse, avrei dovuto dire a commento degli interventi alla Tavola Rotonda (9 marzo, Biblioteca del Senato “Giovanni Spadolini” Sala degli Atti parlamentari. Ne hanno discusso con il curatore Nicola Antonetti, Rosy Bindi, Mario Morcellini e Antonio Polito. ndr) e degli articoli pubblicati nel fascicolo di «Paradoxa» ottobre/dicembre 2015 sulla scomparsa delle culture politiche in Italia.

Mi ci provo in queste note a margine.

Come già perspicacemente rilevato da Laura Paoletti nella sua introduzione al fascicolo, è vero che, in modi e con intensità diverse, tutti i collaboratori “pur nell’unanime riconoscimento di una profonda crisi” si sono opposti a “controfirmare la scomparsa effettiva e definitiva del patrimonio culturale di cui sono rispettivamente chiamati a farsi interpreti”. In un modo o nell’altro, tutti hanno cercato di negare che la cultura loro affidata è scomparsa. Gli aggettivi si sprecano: offuscata, ridefinita, rispolverata, riorientata, magari aggiornata e quant’altro. Premetto che nessuno degli autori aveva letto il mio articolo. Quindi, non ne erano stati influenzati in nessun senso. A ciascuno degli autori, ad eccezione di Dino Cofrancesco (“formatosi” nella critica ad una versione dell’azionismo), era stato consegnato il compito di discutere della loro specifica cultura politica, nella quale si erano formati e della quale sono stati e tuttora si considerano esponenti di rilievo.

Non entro nei particolari di un discorso comunque molto complesso che, in un paese nel quale esistessero luoghi e spazi di dibattiti pubblici su tematiche che attengono alla vita organizzata, sarebbe destinato a attirare l’attenzione, a continuare intensamente e accanitamente e a diventare molto approfondito. Sottolineo, però, almeno una assenza che mi pare rivelatrice. Pur difendendo quello che resta della “loro” cultura fino a suggerire la possibilità, persino la necessità, di una sua riaffermazione, nessuno dei nostri collaboratori ha indicato nomi di riferimento, di uomini di cultura né, tantomeno, di politici, in grado di produrre e di guidare un rinascimento politico-culturale. Nessuno. Qualche nostalgia per il passato si è accompagnata a due critiche fondamentali. Sono scomparsi i luoghi di formazione delle élites. Non esiste un processo di selezione delle élites, in particolare, di quelle politiche. Credo di potere dedurne che i luoghi di formazione delle élites politiche che non esistono più sono quelli che per decenni erano stati approntati e fatti funzionare dai partiti, dalle loro sezioni e organizzazioni, dalle loro comunità (Francesco Alberoni inventò il fortunato termine “chiese” per le più solide di quelle comunità; per altre, la parola “sette” funziona più che soddisfacentemente).

Stendo un velo tutt’altro che pietoso sulla riemersione di cosiddette scuole di politica che, a cominciare da quelle del Partito Democratico, non hanno nessun intendimento pedagogico, ma sono passerelle per ministri e per politici che raramente hanno qualcosa da insegnare. In altri casi riunioncine di due o tre giorni, in un fine settimana servono quasi esclusivamente a rendere visibile l’esistenza di correnti e nulla più. D’altronde, e questo prova la mia argomentata tesi che le culture politiche in Italia sono scomparse, che cosa potrebbero insegnare in quei luoghi se loro stessi, improvvisati docenti, di cultura politica non ne hanno, se di personalità di valore non se ne trovano, se di autori di riferimento, italiani, europei, americani, “globali”, non ne sentono neppure il bisogno (ma, soprattutto, non ne conoscono), se il massimo della loro apertura culturale consiste nel lodare il Papa venuto da molto lontano? Dunque, quelle sedicenti scuole di politica sono, nel migliore dei casi, luoghi di incontro e di socializzazione per apprendere i voleri delle leadership politiche e promuovere e propagandare le azioni di una parte politica. Nulla di comparabile ai dotti convegni di San Pellegrino, a scuole come le giustamente mitiche Frattocchie, ai dinamici seminari di Mondoperaio, ma neppure ai campi Hobbitt. Questo per la formazione.

Quanto alla selezione, nella consapevolezza che i partiti di un tempo usavano una molteplicità di criteri, diversi da partito a partito e che contemplavano anche la fedeltà alla linea politica, i criteri attuali non sono certamente basati in maniera prioritaria su meriti in senso lato politici e culturali, ma su appartenenze di corrente, talvolta sull’anzianità nella struttura e quindi sul riconoscimento di progressione nella carriera, sulla capacità di sgomitamento per la quale qualche citazione colta, di libri letti, di acquisizioni culturali, di riferimenti a ideologie e idee potrebbero addirittura risultare controproducenti. In politica la migliore selezione avviene, da un lato, nella sperimentazione delle capacità amministrative e gestionali, dall’altro, attraverso la competizione che sistemi elettorali come il Porcellum e, in misura appena minore, l’Italicum non consentono affatto, essendo stati disegnati apposta per non consentire la competizione che, hai visto mai, farebbe persino emergere qualche personalità. I parlamentari nominati non debbono dare prova di avere una solida cultura politica, ma di essere graniticamente obbedienti e pappagallescamente ossequienti. Dunque, non ci saranno più scontri istruttivi fondati su visioni del mondo diverse, su strategie culturalmente attrezzate, sull’Italia che vorremmo nell’Europa dei nostri desideri.

A mio modo di vedere, la scomparsa delle culture politiche in Italia è dovuta anche alla povertà dell’insegnamento della storia e della Costituzione e all’impossibilità di discutere di politica, delle ‘cose che avvengono nella polis’, nelle scuole di ogni ordine e grado della Repubblica. Molto ambiziosa, ma assolutamente importante, sarebbe una ricerca a tutto campo su quello che è avvenuto nelle scuole italiane negli ultimi due o tre decenni. Non possiamo aspettarci che “La buona scuola” recuperi il tempo perduto né che riesca a formare cittadini politicamente consapevoli, ma, almeno, salviamoci quel che resta dell’anima, evidenziando la carenza di base: l’inesistenza di senso civico, con tutte le conseguenze relative, uso un termine per tutto, alla corruzione della Repubblica.

Ognuno ha le sue nostalgie. Ne analizzo due non perché sono mie, ma perché mi paiono in misura maggiore di altre particolarmente significative e, più o meno consapevolmente, abbastanza diffuse. La prima è la debolissima nostalgia della (cultura di) destra per la Nazione. Inabissatasi Alleanza Nazionale, alcuni dei successori hanno dato vita a Fratelli d’Italia. Meglio che niente, ma l’idea di nazione non sembra proprio il fulcro della loro azione politica. Come controprova si pensi a quanto è importante il riferimento alla Nazione per il Front National francese che, incidentalmente, non dovrebbe mai essere assimilato ad un qualsiasi movimento o partito populista. Il FN ha anche componenti populiste, ma la sua forza e la sua presa si spiegano sopratutto con il riferimento alla Nazione e allo Stato che, grande errore il dimenticarlo, figuravano prepotentemente nella ideologia del Movimento Sociale Italiano. Azzardo che chi avesse una forte idea di nazione e dei suoi valori potrebbe anche trovarsi attrezzato per esigere che a coloro che in questa nazione vogliono venire a vivere e a fare crescere i propri figli, venga richiesto di accettare, imparare e rispettare i valori della nazione. Poi, discuteremo anche se qualsiasi cultura politica non debba avere a fondamento i valori della nazione come formulati ed espressi nella Costituzione. Nel mio saggio, la risposta è inequivocabilmente affermativa.

La seconda nostalgia, quella per l’Ulivo, è tanto plateale quanto surreale. L’Ulivo non ebbe il tempo di creare una nuova cultura politica. La sua fu un’aspirazione non accompagnata da nessuna realizzazione. Non ricordo cantori della cultura politica dell’Ulivo né interpreti efficaci. Ricordo il rappresentante politico di vertice dell’Ulivo, Romano Prodi, che mai si curò della sua cultura politica. Ricordo che coloro (Piero Fassino e Francesco Rutelli, certamente non noti operatori culturali) che affrettarono la fusione fredda fra due culture politiche evanescenti, quella comunista e quella cattolico-popolare, se non già sfuggite, ponevano l’accento sulla necessaria contaminazione fra le migliori culture politiche del paese, aggiungendovi quella, già in disarmo, ecologista, e mai menzionando quella socialista (che, infatti, rimase totalmente esclusa). Debolissima, se non inesistente, fu la parte propriamente di “cultura”, mentre visibile e concreta fu la parte effettivamente “politica”, quella cioè interessata al problema che, sinteticamente, in omaggio a Roberto Ruffilli e a Pietro Scoppola, definirò con le parole che entrambi attribuivano ad Aldo Moro, il politico da loro più ammirato: una democrazia compiuta.

I principi cardine della democrazia compiuta, ciascuno con solide radici nella teoria democratica europea, sono tre: costruzione di coalizioni rappresentative (non a caso nella Commissione Bicamerale Bozzi e nei suoi numerosi scritti Ruffilli argomentò la necessità di una “cultura della coalizione”), competizione bipolare, pratica dell’alternanza al governo ovvero predisposizione dei meccanismi che la consentano e la rendano sempre possibile. Questo è quello che di istituzionalmente rilevante rimane dell’Ulivo, ed è molto importante. È davvero azzardato sostenere che qualcosa della visione e della cultura istituzionale dell’Ulivo sia tracimato e si ritrovi, non a parole, ma nei fatti e nelle riformette (che ho discusso e criticato da capo a fondo nel libro Cittadini senza scettro. Le riforme sbagliate, Milano, Egea-Bocconi 2015) del governo Renzi. Le troppe conversioni renziane di ex-ulivisti sono una prova non di fedeltà alle idee del passato, ma della scomparsa di qualsiasi intenzione di ricostruire, in meglio, l’Ulivo che non fu mai realizzato. In pratica, la classe dirigente del renzismo ha due punti di partenza: la Leopolda e la critica, spesso la cancellazione, del passato. Difficile sostenere che le riunioni della Leopolda fossero e siano luoghi e modalità di formazione di una cultura politica condivisa. Furono passerelle per aspiranti politici, con non pochi di loro che hanno avuto successo, ma certo non per l’originalità della loro elaborazione culturale. La critica del passato ha avuto effetti dirompenti. La rottamazione di coloro che avevano costruito l’Ulivo e partecipato ai governi di centro-sinistra ha riscosso grande successo e ha certamente aperto la strada a volti nuovi. Quanto alla ripulsa delle culture politiche del passato ha mirato a colpire quelle che molto spesso venivano definite “ideologie ottocentesche”, accomunandovi liberalismo e socialismo, in parte anche il cattolicesimo democratico. L’interrogativo più che legittimo che rivolgono a coloro che negano la scomparsa delle culture politiche in Italia pertanto è il seguente. Buttate nella pattumiera della storia le ideologie ottocentesche, con quali modalità potrebbero essere recuperate, rilucidate, riformulate? Se ciò non fosse possibile, quali sono le fondamenta della cultura politica del Partito Democratico di Renzi?

Perché sono scomparse le culture politiche in Italia

Brano tratto da La scomparsa delle culture politiche in Italia Paradoxa, Numero 4 – 2015

“…Una cultura politica contiene una visione della società e dello Stato, come sono e come dovrebbero diventare. Attribuisce diritti e doveri, ruoli e compiti ai governanti, ai rappresentanti e ai cittadini. Si fonda su criteri precisi di rappresentatività e di responsabilizzazione. Cerca di tenere insieme tutto questo nella maniera più coerente possibile. Negli articoli del fascicolo che seguono ciascuno degli autori esplora e valuta i molti aspetti delle diverse e specifiche culture politiche italiane e delle ragioni che hanno portato alla loro eclissi.
Qui, desidero anzitutto rilevare alcune delle più significative conseguenze della scomparsa delle culture politiche in Italia. La prima conseguenza è la destrutturazione dei partiti esistenti, allora, fra il 1992 e il 1994, e gli scomposti tentativi di ristrutturazione-accorpamento-riaggregazione con ulteriori divisioni, scissioni, decomposizioni. È un meandro nella cui tortuosità è difficilissimo nonché, francamente, non particolarmente utile e gratificante cercare di districarsi. Non ne è ipotizzabile nessuna utile acquisizione cognitiva. Ovviamente, la destrutturazione dei partiti ha effetti negativi anche sulla stabilità dei governi e, qualora i governi riescano a mantenere una qualche stabilità, che spesso costeggia l’immobilismo e la stagnazione, neppure sulla loro operatività. Infine, laddove non esistono più culture politiche che richiedano adesione a principi e impegno a perseguire una visione di società e di Stato, transitare da un partito ad un altro, da un gruppo parlamentare ad un altro non implica nessuno sforzo doloroso, nessun agonizing reappraisal, nessuno stravolgimento di principi (magari soltanto il “tradimento” dei rappresentati, ma anche questo effetto, con la legge elettorale del 2005 e con quella del 2015, è discutibile). Insomma, il trasformismo italiano, sul quale Marco Valbruzzi ha scritto pagine importanti, non trova ostacoli in culture politiche inesistenti, ma, al massimo, suscita qualche, purtroppo ininfluente, critica moralistica.
La scomparsa delle culture politiche classiche ha portato con sé, travolgendole, anche culture politiche i cui elementi portanti erano trasversali, vale a dire che avevano penetrato e arricchito ciascuna di quelle culture, ma che, da sole, hanno dimostrato di non potere sopravvivere. Tutti o quasi europeisti sembravano gli italiani, accomunati dalla speranza che l’Europa riuscisse ad obbligare la democrazia italiana a diventare migliore. Eppure, anche se, qua e là, nei partiti sono esistiti, pochissimi, federalisti, la cultura politica del federalismo rimase per l’appunto confinata a nicchie (e alla straordinaria combattività di Altiero Spinelli). Qualcuno, soprattutto i radicali, talvolta in maniera deliberatamente provocatoria, ha esaltato i diritti dei cittadini, delle persone, non confondendoli, succede di frequente anche questo, con le rivendicazioni, addirittura accompagnandoli con il richiamo ai doveri (sic) da adempiere. Comunque, da sole, né una cultura dei diritti, per intenderci alla Ronald Dworkin (1931-2013), né una cultura basata sui principi della società giusta alla John Rawls (1921-2002) sono in grado da sole, isolatamente,di contribuire in maniera decisiva alla formulazione di una cultura politica. Nel caso italiano, poi, nella non grande misura in cui entrambe le culture, diritti e giustizia sociale, sono presenti, troppo spesso vengono brandite contro i governi e contro lo Stato quasi che entrambe fossero culture alternative sempre all’opposizione. Certamente, né gli scritti di Dworkin né quelli di Rawls autorizzano questa interpretazione. Tuttavia, elementi sia dell’una che dell’altra sono indispensabili per la formulazione di qualsiasi cultura politica liberal-democratica. Infine, anche se affascinante nella sua concezione, il patriottismo costituzionale non sembra orientato a dare vita ad una cultura politica autosufficiente e autonoma. Ciononostante, costituisce un’importante componente trasversale a molte culture politiche. Elaborato dal filosofo politico tedesco Jürgen Habermas con l’obiettivo preminente di sventare in maniera anticipata qualsiasi propensione di superiorità nazionale/istica tedesca, all’insegna della frase Deutschland über alles, un tempo contenuta nell’inno, il patriottismo costituzionale ha trovato un’infelice traduzione italiana nell’espressione “la Costituzione più bella del mondo”. Più o meno “imbruttita” da riforme nient’affatto apprezzabili dal punto di vista della sua architettura complessiva, la Costituzione non può stare a fondamento di nessuna cultura politica, ma dovrebbe essere variamente presente in tutte. Per completezza, aggiungerò che sottolineare, com’è giusto, che la Costituzione nata dalla Resistenza è fondata sui valori dell’antifascismo non significa affatto che una cultura politica possa nascere e mantenersi esclusivamente sul pure essenziale richiamo all’antifascismo, per di più, variamente declinato e interpretato.
Non è, naturalmente, questa la sede nella quale delineare le componenti e le caratteristiche di culture politiche competitive che, nel contesto italiano, conducano al miglioramento della qualità della democrazia. Qualcuno potrebbe anche rifugiarsi dietro lo schermo della società liquida alla Zygmunt Bauman e sostenere che nelle società contemporanee che non sono riuscite a preservare le loro culture politiche, la liquidità ne impedisce qualsiasi resurrezione e creazione. Altri potrebbero affidare la rinascita ovvero la comparsa di nuove culture politiche ad un mix di europeismo e di globalizzazione: act local, think global. In conclusione, molto realisticamente, non si vedono le minime premesse che nel mondo della politica, fra gli intellettuali, nell’opinione pubblica italiana si stia facendo strada la richiesta di cultura politica e ne stiano emergendo, seppure agli stadi preliminari, attrezzati portatori. Le implicazioni e le conseguenze per la democrazia italiana di questa triste situazione sono sotto gli occhi di tutti.”

Gianfranco Pasquino

Paradoxa, ANNO IX - Numero 4 - Ottobre/Dicembre 2015 La scomparsa delle culture politiche in Italia a cura di Gianfranco Pasquino

Paradoxa, ANNO IX – Numero 4 – Ottobre/Dicembre 2015
La scomparsa delle culture politiche in Italia
a cura di Gianfranco Pasquino

Sommario
Editoriale Caveat  di Laura Paoletti

Contributi
Perché sono scomparse le culture politiche in Italia                                                             Gianfranco Pasquino
La scomparsa della cultura socialista in Italia                                                                       Giuliano Amato
Il tramonto della cultura cattolico-democratica                                                                   Agostino Giovagnoli
Necessità e debolezza della cultura politica comunista                                                         Achille Occhetto
La sconfitta della cultura di destra (e la sua eventuale rinascita)                                       Marcello Veneziani
La dispersione della cultura giuridico-politica del Partito d’Azione                                    Stefano Merlini
Il tramonto delle culture politiche liberali in Italia                                                                 Giorgio Rebuffa
L’offuscamento della cultura federalista europea                                                                   Pier Virgilio Dastoli
Le propaggini della cultura “gramsciazionista”                                                                       Dino Cofrancesco
Cinque tesi sull’assenza di culture partitiche in Italia                                                              Marco Valbruzzi
La stanchezza della cultura imprenditoriale                                                                             Enrico Cisnetto