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La democrazia non muore: è uccisa dalle élite @DomaniGiornale

Le democrazie non muoiono. Le democrazie vengono uccise. Gli assassini delle democrazie sono le élite. A seconda dei tempi e dei luoghi possono essere prevalentemente le élite politiche, militari economiche, religiose, persino culturali. Qualche volta, quelle élite iniziano a indebolire le democrazie violandone alcuni principi, se volete, promesse, fondamentali: l’eguaglianza, mai di risultati, ma quella di fronte alla legge; il pluralismo di diritti e di opportunità; la libera competizione elettorale e il rispetto dei suoi esiti; la rinuncia alla violenza e il riconoscimento che il monopolio dell’uso della forza spetta, senza se senza ma, allo Stato le cui élite agiscono in trasparenza; l’educazione politica e civile della cittadinanza.
Raffinati indicatori dello stato della democrazia nel mondo hanno colto da tempo il declino di molti degli elementi citati sopra anche negli Stati Uniti d’America che, la classifica dell’Economist Intelligence Unit colloca fra le democrazie difettose al 29esimo posto (Italia 31esima). L’attentato a Trump ha sollecitato molti commentatori a ricordare che alcuni Presidenti e qualche candidato sono stati uccisi. Sarebbe forse stato opportuno fare anche riferimento alle numerose e frequenti stragi di civili, a cominciare da quelle nelle scuole. La frase “violence is as American as apple pie” pronunciata più di cinquant’anni fa da un leader delle Pantere Nere non trova smentite. Il movimento “Black Lives Matter” serve a ricordare a tutti quanto razzismo strisci tuttora nella società americana. Il 6 gennaio 2021 l’assalto al Campidoglio di Washington ha rivelato che l’accettazione della sconfitta elettorale non è più un principio cardine condiviso dalla élite politica, economica, culturale repubblicana. Sullo sfondo si aggirano la cultura della cancellazione (della storia e della memoria dalle quali più non si impara) e il politicamente corretto (perniciosa manifestazione del conformismo nella società di massa denunciato da Tocqueville). Entrambi contribuiscono a istituzionalizzare discriminazioni e barriere cognitive. Non è guerra di culture, ma di pregiudizi e di incultura/e.
Partecipante diretta e potente, in questa guerra, ancorché a lungo ritenuta al di sopra e orientata al futuro, la Corte Suprema, con una solida maggioranza tecnicamente reazionaria destinata a durare per almeno una intera generazione, si è schierata a favore, quando conta, delle modalità con le quali il Presidente Trump (che ha nominato tre di loro) interpreta e ha esercitato i suoi poteri. La Corte sta minando il sacrosanto principio liberale della separazione dei poteri e facendo venire meno proprio il principio dell’eguaglianza di fronte alla legge nel momento in cui la legge e la Costituzione sono interpretate in chiave originalista con riferimento alle (presunte) intenzioni dei Costituenti.
Naturalmente, non sono mancate le reazioni dei democratici e dei progressisti USA a tutti questi sviluppi e ai casi più controversi. Però, non ci sono stati coordinamenti efficaci e, spesso, i democratici hanno peccato di (eccesso di) permissivismo nel condonare dichiarazioni e comportamenti offensivi e illegali che si sono moltiplicati e hanno prosperato.
Con fior fiore di studiosi condivido il postulato che una, tutt’altro che l’unica, virtù della democrazia consiste nell’apprendimento collettivo. Sono le donne e gli uomini, prima e più fra le élite che nel popolo, che apprendono, reagiscono, cambiano, formulano nuove idee, riequilibrano regimi sull’orlo del disastro Chi, per arroganza, ambizione, connivenza, ignoranza, impedisce la circolazione delle élite si rende responsabile della morte eventuale della democrazia. Sono pallidi e esangui i segnali che consentano di pensare che nelle élite d/Democratiche USA questa consapevolezza sia già sufficientemente diffusa. Si sta facendo tardi.
Pubblicato il 17 luglio 2024 su Domani
Maggioranze educate alla democrazia. Governo, politiche, diritti @DomaniGiornale del 6 luglio 2024

In democrazia, il principio fondante è majority rule: la maggioranza governa. Scriverlo in inglese è un giusto omaggio alla cultura politica, liberale, costituzionale e democratica che si basa su quel principio, ma non si ferma lì. Nella sua storia complessa, quel principio è stato variamente declinato e si è fatto accompagnare da una pluralità di diritti. La maggioranza ha il diritto e anche il dovere politico e istituzionale di governare, ma, qualche volta, come ha fatto opportunamente notare Norberto Bobbio, non ha neppure la necessità di essere una maggioranza assoluta. È sufficiente che sia maggioranza relativa se, comunque, le decisioni che prende non sono controverse né dannose, ma accettabili. In molti parlamenti decisioni di questo tipo sono frequenti. D’altronde, qualsiasi richiesta di controprova metterebbe le cose a posto. Quel che più conta, però, è che in democrazia ci sono anche alcune decisioni per le quali la maggioranza assoluta non basta: l’elezione ad alcune cariche, le votazioni su alcune tematiche. Mi limito ad un unico esempio perché mi pare molto significativo, ma anche controverso, in quanto posto a tutela di una minoranza nient’affatto debole. Nel Senato USA l’ostruzionismo (filibustering nel colorito linguaggio del XIX secolo) può essere fatto cessare soltanto da una maggioranza qualificata: 60 senatori su 100. Quindi, anche se i 40 senatori filibustieri non danno vita a una dittatura della minoranza, sicuramente ostacolano il governo della maggioranza, senza scandalo, ma con grande e giustificato fastidio dei maggioritari.
Governo della maggioranza significa che, confortata e prodotta dal voto degli elettori, quella maggioranza è autorizzata e, ogniqualvolta e fintantoché rimane tale, avrà il potere di fare approvare le sue politiche, economiche, sociali, culturali, internazionali, meglio se saranno quelle presentate in campagna elettorale. Ma i diritti, civili, politici, sociali delle persone sono cosa molto diversa. Le Costituzioni liberal-democratiche definiscono quei diritti inalienabili. Non possono essere ceduti; non sono disponibili. Nessuna maggioranza, non importa di quale dimensione, può toccare, ridimensionare, eliminare quei diritti. Quando Orbán annuncia petto in fuori che ha fatto della Ungheria una democrazia illiberale sta certificando che priva i suoi concittadini di alcuni diritti: libertà di parola, di stampa, di insegnamento, del due process of law (giusto processo), della libertà e integrità personale (habeas corpus). Nessun regime che non riconosce, protegge e promuove i diritti dei suoi cittadini può dirsi democratico. Dove non ci sono i diritti che discendono dal liberal-costituzionalismo non esiste nessuna democrazia.
Quello che preoccupa gli studiosi e i politici che denunciano, non sempre a proposito, la crisi della democrazia è l’erosione più o meno lenta, più o meno deliberata, più o meno sistematica dei diritti. Questa erosione, se condonata dalla maggioranza, conduce a forme di autoritarismo blando, di fascismo temperato. Con classe e cautela, ma con chiarezza, il Presidente Mattarella ha inteso richiamare l’attenzione su questi possibili svolgimenti. Qualche sedicente liberale incoerente e fellone, qualche ex comunista arrivista con coda di paglia potranno anche denunciare la sussistenza del complesso del tiranno a fondamento di un capo del governo, come quello italiano, solamente primus inter pares e annunciare l’incomprimibile bisogno di renderlo forte, primissimus. Come si fa a trascurare che un conto sono maggioranze assolute prodotte dal libero voto degli elettori e un conto enormemente diverso sono le maggioranze diventate tali in seguito a cospicui premi in seggi assegnati in maniera truffaldina.
Grande è il torto che faremmo al Presidente della Repubblica se pensassimo oppure, peggio, dicessimo che nelle sue parole sulla dittatura della maggioranza non si trova un riferimento ai poteri che avrebbe un capo del governo di (ancora indefinita) elezione popolare diretta e al rischio di un suo sfuggire al controllo di un Parlamento manipolato dal premio. In conclusione, sento di dovere ricordare e sottolineare che, comunque, a nessuna maggioranza democratica è concesso di cambiare le regole del gioco per rendere difficile, se non addirittura impedire alla minoranza di crescere, sconfiggerla e sostituirla. Tempestivo e limpido, il discorso del Presidente è radicato nella storia del pensiero e della prassi liberal-democratica e opportunamente guarda avanti.
Pubblicato il 6 luglio 2024 su Domani
La tecnologia avanza mentre il fare politica regredisce @DomaniGiornale

Ricordo chiaramente quando e come, discutendo la evoluzione dell’idea di progresso, Norberto Bobbio sottolineasse che, fronte all’indubbio progresso economico, tecnologico, materiale, non si trovasse altrettanto progresso civile, morale, etico. Anzi, talvolta, il divario fra le due modalità di progresso si accentuasse prevalentemente perché il progresso materiale faceva passi da gigante mentre quello civile rimaneva sostanzialmente quasi immobile. Non saprei dire se l’intelligenza artificiale sia necessariamente da considerarsi progresso, ma sono certo che non poche modalità di fare politica e di rapportarsi ai problemi della pace e della guerra segnalano regressi spaventosi. Gli uomini sembrano non avere imparato nulla dalle due guerre mondiali e neppure dalle troppe guerre “limitate” combattute dal 1945 ad oggi. Eppure, la riflessione intellettuale sui costi, non soltanto monetari, ma in termini di imbarbarimento, della guerra, sulla giustificazione dei conflitti armati, sulla loro limitazione e sulla loro conclusione ha dato contributi conoscitivi di grande rilevanza. Non sembrano avere intaccato il pensiero e l’azione di coloro che alla guerra ricorrono per trarne vantaggi economici, di prestigio, di carriera.
D’altro canto, anche la riflessione sui diritti, tipo, qualità, quantità, mostra ragguardevoli avanzamenti. In un piccolo prezioso libro: L’età dei diritti (Einaudi 1990), ne posseggo una copia con dedica, lo stesso Bobbio mise in grande evidenza due “progressi”: da un lato, l’universalizzazione, ovvero l’estensione dei diritti a tutti; dall’altro, la moltiplicazione dei diritti, a cominciare da quelli ambientali e dai diritti delle donne, segnalando quanto importante per tutti fosse la rivoluzione femminile/sta. Non possono esistere dubbi sulla estensione dei diritti che certamente Bobbio avrebbe considerato indispensabile fino ad includere i migranti. Al proposito, però, si potrebbe obiettare che se guardiamo al trattamento straordinariamente rispettoso, privilegiato e accogliente riservato allo straniero dagli antichi greci e poi anche dagli antichi Romani, non si dovrebbe parlare di progresso, ma di ritorno a pratiche assolutamente tanto ammirevoli quanto commendevoli.
Lentamente, gradualmente, progressivamente (sic), la politica, ancor più la politica democratica ha trovato fino a tempi recenti il modo di stemperare e moderare i conflitti, di ridimensionare il ricorso alla violenza, persino quella verbale, di “civilizzare” le competizioni politiche facendo pagare un prezzo ai violenti e ai volgari. Da qualche tempo, invece, turpiloquio, escandescenze, minacce, comportamenti truffaldini, esibizioni di muscoli e di modalità violente, soprattutto grazie alla televisione e ai social networks, sono tornate di attualità. Guardando a fondo nei casi disponibili mi è sembrato di notare che sono gli esponenti della cosiddetta società civile a fare maggiore e più frequente ricorso per la loro politica a modalità eterodosse, dissacranti, deprecabili. Cercano in questo modo di acquisire subitamente quella visibilità che i politici di professione hanno passo dopo passo accumulato nella loro carriera, non necessariamente luminosa. Naturalmente, non saranno gli outsiders premiati per la loro sfacciataggine e la loro mancanza di etica politica a predicare contro i comportamenti incivili e indecorosi, a stigmatizzarli, a operare per sanzionarli.
Il cerchio si chiude. Nella sfera politica riscontriamo non progresso in termini di valori, di principi, di moralità, ma regresso. Comportamenti regressivi vittoriosi finiscono per tracimare nella sfera sociale e culturale in senso lato, scuole comprese. Continuerà il progresso tecnologico. Verranno meno i valori con i quali indirizzarli al perseguimento di beni collettivi. Eppure, i peggioramenti non sono inevitabili. C’è ancora domani.
Pubblicato il 27 dicembre 2023 su Domani
Bellezza Radicale: dialogo politico con il prof. Pasquino

Si sottovaluta spesso il dialogo come se fosse astratto, come se la parola non avesse peso, come se fosse niente, come se non avesse anima, come se non agisse. Poi, ci lamentiamo delle conseguenze. La parola va ascoltata, va sentita dentro di noi. La parola va data e, allo stesso tempo, va mantenuta. Sembra un paradosso, ma non lo è. La parola è viva, è concreta. Altrimenti, è soltanto chiacchiera. Se ci pensiamo bene, la parola espressa è già un’azione. L’ascolto attento delle parole è già un’azione. Ecco perché abbiamo parlato di democrazia, libertà, riforme istituzionali, diritti, cittadinanza, legge elettorale, Europa e Partiti politici. Insomma, la Bellezza Radicale presente nell’intervista al prof. Gianfranco Pasquino non sembri soltanto un susseguirsi di parole. Perché le parole non sono soltanto parole. Perché, alla fine, quelle che restano, nella vita come nei pensieri, nelle azioni come nei gesti, sono proprio le parole. Ascoltiamole…
Territori e Europa, alla sinistra serve visione @DomaniGiornale


Le opposizioni del centro, trattino, sinistra non sembrano avere ancora capito che le probabilità che il governo Meloni 1 duri tutta la legislatura sono molto elevate. Certo, il governo non cadrà per qualche voto parlamentare più o meno casualmente perduto. Questo non significa che le vittorie parlamentari delle opposizioni siano irrilevanti se obbligano il governo a confrontarsi con le loro idee, le loro preferenze, le loro proposte. All’università ho regolarmente insegnato che la qualità del governo dipende, spesso, anche dalla qualità dell’opposizione. Purtroppo, in questi sei mesi di governo Meloni, le opposizioni hanno preferito combattersi fra di loro, da un lato, con l’obiettivo di strapparsi qualche voto, dall’altro, di dimostrare di essere più intelligenti e più progressisti dei competitors, definiti come quelli che agiscono nello stretto asfittico recinto dei votanti del 25 settembre 2022. Vale a dire che non si sono neanche posti il compito prioritario di cercare, trovare, motivare almeno parte degli astensionisti, circa il 40 per cento dell’elettorato. Per riuscirvi non sarà mai sufficiente gonfiare e esibire pubblicitariamente i propri ego e neppure vantare qualche piccola particolaristica vittoria parlamentare. Come asseriscono alcuni politici senza grande fantasia, sarà indispensabile avere lo sguardo lungo, dal canto mio direi una visione. Per ciascuna battaglia parlamentare importante: lavoro, scuola, diritti, immigrazione, Europa, invece di rincorrersi e scavalcarsi più o meno furbescamente, le opposizioni dovrebbero procedere ad un coordinamento di emendamenti, di mozioni, di voto. Ciascuna, poi, con i suoi parlamentari e dirigenti spiegherà agli elettori le sue motivazioni contrapponendole non a quelle delle altre opposizioni, ma a quelle dei governanti approfondendone le differenze di opinione (che sappiamo essere molte e di non poco conto). Una buona opposizione parlamentare è consapevole che deve andare sul territorio e rimanervi operativa per interloquire il più frequentemente e il più visibilmente possibile con le associazioni economiche e culturali attive nei diversi territori e con le istituzioni locali. Spesso, è proprio a livello locale che è più facile, anche grazie a rapporti personali e a migliore conoscenza dell’ambiente, maturare condivisioni e giungere a proposte comuni. Dal basso può effettivamente venire la spinta, non all’impossibile e neppure utile unità, ma alla convergenza politica e culturale. Per vincere e poi governare senza tensioni interne, le opposizioni debbono mirare a formulare una cultura politica ampiamente condivisa che, inevitabilmente, va costruita intorno al rapporto imprescindibile fra Italia e Unione Europea. In cinque anni ben spesi è possibile fare molta strada in questa direzione, cambiando profondamente in meglio la politica della “nazione” e tornando al governo.
Pubblicato il 3 maggio 2023 su Domani
Meloni non riesce più a nascondere i suoi errori @DomaniGiornale


L’idea iniziale di Giorgia Meloni (non so quanto condivisa dagli alleati Lega e Forza Italia) era buona, e promettente. Procedere alla legittimazione/accettazione internazionale del governo e del Primo ministro italiano serviva/seve a garantire una navigazione non troppo turbolenta. Era anche funzionale a evitare qualsiasi “ritorsione” dell’Unione Europea e ostilità degli Stati Uniti. Meloni ha efficacemente scelto e accentuato la sua posizione apertamente atlantista. Grazie a numerosi viaggi e incontri con i rappresentanti degli Stati membri dell’UE ha smussato il suo sovranismo viscerale muovendosi in una direzione che le consente di non essere più o meno informalmente tenuta lontana dai salotti buoni, dalle stanze dei bottoni europei. Sulla sostanza, però, né Meloni né la Commissione Europea possono nascondere le loro preferenze e le loro differenze.
Purtroppo, per il governo italiano che, forse, se ne accorge troppo tardi, buona parte delle decisioni che contano, dall’immigrazione all’ambiente e al PNRR, si prendono in maniera formale e informale proprio a Bruxelles. Inoltre, sembra proprio che anche a Bruxelles leggano i quotidiani italiani, ricevano le notizie su quel che accade nello stivale, su quello che dicono i ministri e i dirigenti dei partiti della coalizione di centro-destra. Frasi avventate, annunci battaglieri senza seguito, politiche, come quelle sui diritti, contrarie alle posizioni già assunte in sede europea rafforzano quelli che talvolta sono anche pregiudizi che più o meno tutti i governi italiani hanno dovuto (non scrivo dovranno, ma …) subire e segnalano l’esistenza di sospetti non del tutto mal posti. Affermare che di alcuni ritardi negli adempimenti richiesti entro il 2023 è responsabile il governo Draghi non sembra convincente poiché Giorgia Meloni era più che consapevole di conquistare il governo molti mesi prima della vittoria elettorale. Più in generale nella maggioranza degli Stati europei le pratiche di scaricabarile non godono di popolarità.
Se la strategia di spostare l’attenzione degli italiani sulla scena europea per nascondere quel che non va nelle politiche nazionali non funziona, allora ecco che proprio quelle politiche segnalano la loro debolezza di concezione e attuazione che smentiscono il bilancio ottimistico fatto dalla Presidente del Consiglio e condiviso dai due partner privi di fantasia e incapaci di progettazione. Quel che si è visto da ottobre a oggi è la frequente produzione di provvedimenti e decreti inadeguati, più o meno rapidamente corretti e cambiati e di linee dure tanto controverse quanto inapplicabili. Nessun vanto potrà trarre Giorgia Meloni dalla sua pratica di correggere più o meno profondamente gli errori già fatti (sugli errori prevedibili alzo un velo di riservatezza). Non le riuscirà di nasconderli con richiami identitari di destra. Sarebbe anche peggio.
Pubblicato il 30 marzo 2023 su Domani
Il confronto fra donne alfa sul futuro dell’Unione Europea @DomaniGiornale


Non c’è troppo feeling fra due donne alfa come la Presidente tedesca della Commissione europea Ursula von der Leyen e la Presidente italiana del Consiglio dei Ministri Giorgia Meloni. Mettendo da parte, ma non del tutto, la inevitabile competizione fra due donne di grande successo politico, la mancanza di feeling deve essere attribuita ad alcuni importanti fattori che avranno conseguenze sia sull’Italia sia sull’Unione Europea. Giustamente, von der Leyen mantiene più di una riserva sulla conversione della sovranista Meloni ad una visione più vicina alla realtà politica e istituzionale dell’Unione Europea. Con realismo, qualità di cui dispone abbondantemente, forse anche troppo, la Presidente del Consiglio ha preso atto che se vuole contare nelle decisioni europee deve forse abbandonare il sovranismo, comunque ridimensionarlo almeno nel discorso pubblico. Il problema non è recuperare sovranità strappandola alla UE. Bisogna, invece, riuscire a esercitare meglio la propria rimanente, che è molta, sovranità nazionale compartendola non soltanto nelle decisioni che riguardano l’Italia. Avendo fortemente apprezzato Mario Draghi, per la sua competenza e il suo accertato europeismo, è inevitabile che von der Leyen sia decisamente, anche se sorridentemente, cauta nei confronti di Meloni, voglia vedere le carte e essere rassicurata sul mantenimento degli impegni, anche sul PNRR, presi da governo italiano. Qui entrano in campo le preferenze e le visioni politiche e si staglia il futuro incerto dell’Unione Europea nella sua governance e nel suo progredire verso rapporti ancora più stretti.
Sembra che Meloni abbia raggiunto maggiore sintonia con Manfred Weber, il capogruppo dei Popolari al Parlamento Europeo, sicuramente molto più conservatore della von der Leyen alla quale fu obbligato a lasciare la via della Presidenza. E, sì, in questo caso/contesto, la politica tedesca conta. I Popolari hanno mostrato molta reticenza nel condannare le violazioni della rule of law in Ungheria da parte di Orbán, amico di Meloni (e di Salvini). Il Primo ministro ungheresi ha voti utili nel Parlamento europeo e molti Popolari pensano che saranno ancora più utili dopo le elezioni del 2024. Anche Fratelli d’Italia aumenterà in maniera significativa la sua rappresentanza europarlamentare. Quei seggi potrebbero diventare decisivi per fare di uno schieramento Popolari/Conservatori (quelli guidati da Meloni) la maggioranza relativa. Già adesso molti Popolari sono insofferenti della necessità di trovare accordi con i Socialisti&Democratici europei, convintamente europeisti, ma adesso anche feriti dalla corruzione di qualche loro rappresentante. “Socialist job” ha sprezzantemente commentato Giorgia Meloni.
Il punto è che su molte tematiche attinenti i diritti, in particolare, all’identità di genere elemento costitutivo dell’identità personale, la distanza fra i due gruppi maggiori appare davvero considerevole. Un’eventuale possibile alleanza fra Popolari e Conservatori, nella quale i Conservatori sarebbero decisivi, ridisegnerebbe molto i confini dell’azione della prossima Commissione. Metterebbe la parola fine all’evoluzione dell’Unione Europa come l’abbiamo conosciuta negli ultimi trent’anni, una fine che è esattamente quello che desidera Giorgia Meloni, ma che detesta Ursula von der Leyen (nonché, ma molti sostengono che è fuori dai giochi, Angela Merkel-. Ecco perché le differenze di opinioni e di posizioni fra von der Leyen e Meloni non sono solo personali. Prefigurano uno scontro politico di enorme impatto e consequenzialità. Quo vadis, Unione Europea?
Pubblicato il 11 gennaio 2023 su Domani
Partiti sgangherati e antipolitica Ma chi non vota non è ascoltato #intervista @GiornaleVicenza
«Molti sabati pomeriggio di quel dolce autunno del 1974 a Harvard li passammo a giocare al pallone nel campetto dietro casa. Mario Draghi era spesso con noi, ma certo, giocatore piuttosto lento e poco grintoso, non era il più dotato in quello sport». Ci sono chicche come questa e aneddoti spassosi in “Tra scienza e politica. Un’autobiografia”, il libro di Gianfranco Pasquino edito da Utet e presentato a Pordenonelegge. Un’autobiografia, per un politologo, può sembrare qualcosa di ardito. Ma chi conosce Pasquino, professore emerito di scienza politica all’Università di Bologna, socio dell’Accademia dei Lincei, non si stupisce: la sua storia è un crocevia di incontri e conoscenze che vale la pena trasmettere, non fosse altro che per aver avuto come maestri sia Norberto Bobbio sia Giovanni Sartori.
Professor Pasquino, il Draghi calciatore non era il migliore, ma da premier com’è stato?
Non era il miglior calciatore e non puntava nemmeno ad esserlo (sorride). Ma da premier è stato molto bravo. Altro che “tecnico”… Da giovane non sembrava così interessato alla politica, ma ha dimostrato di aver imparato molto e molto in fretta.
Ora Draghi è stato fatto cadere e si va al voto. Cosa c’è in gioco in queste elezioni?
Quello che davvero entra in gioco è come stare in Europa, è la vera posta. Sappiamo che il Pd è un partito europeista, come +Europa, e che le persone che vengono da quell’area sono affidabili sul tema. Non sappiamo quali sono le persone affidabili nello schieramento di centrodestra, con poche eccezioni. Però sappiamo che sostanzialmente Giorgia Meloni è una sovranista e Salvini forse ancora di più. È difficile che si facciano controllare dai pochi europeisti di Forza Italia: Berlusconi ha detto cose importanti, ma gli altri alleati avranno almeno il doppio del suo consenso.
Perché teme il sovranismo?
Sovranismo vuol dire cercare di riprendere delle competenze che abbiamo affidato consapevolmente all’Europa. Non abbiamo ceduto la sovranità, l’abbiamo condivisa con altri Stati, e loro con noi. Tornare indietro vuol dire avere meno possibilità di incidere sulle decisioni. Alcune cose non potremmo deciderle mai.
Ritiene che la nuova dicotomia politica sia europeismo-sovranismo, più di destra-sinistra?
Non lo dico io: è stato Altiero Spinelli, nel Manifesto di Ventotene, 1941. Spinelli vedeva le cose molto in anticipo rispetto agli altri. D’altronde i singoli Stati europei sulla scena mondiale non conterebbero nulla: la soluzione è dentro l’Europa, altrimenti non possiamo competere né con la Russia né con la Cina e nemmeno con gli Stati Uniti, anche se bisognerebbe avere un rapporto decente con gli Usa.
Come si inserisce la guerra in Ucraina in questa analisi?
Nella guerra in Ucraina c’è uno stato autoritario che ha aggredito una democrazia. E noi non possiamo non stare con la democrazia. Se quello stato autoritario riesce a ottenere ciò che vuole, è in grado di ripeterlo con altri stati vicini. Non a caso Lituania, Estonia e la stessa Polonia sono preoccupatissimi. La Polonia conosce bene i russi e sa che ha bisogno della Nato e dell’Europa.
In Ucraina è in gioco anche la nostra libertà?
Lì si combatte sia per salvare l’Ucraina sia per salvare le prospettive dell’Europa. E un’eventuale sconfitta di Putin potrebbe aprire le porte a una democratizzazione della Russia: sarebbe un passaggio epocale.
A chi sostiene che le responsabilità della guerra siano anche dell’Occidente come risponde?
Non credo che sia vero. Ma tutto è cambiato quando la Russia ha usato le armi. La Costituzione dice che le guerre difensive sono accettabili, le guerre offensive mai.
L’Italia va al voto con una legge elettorale che toglie ogni potere all’elettore. L’hanno voluta tutti i partiti…
L’ha voluta Renzi e l’ha fatta fare a Rosato. Ma l’hanno accettata tutti perché fa comodo ai dirigenti di partito: si ritagliano il loro seggio, si candidano in 5 luoghi diversi, piazzano i seguaci. Aspettare che riformino una legge che dà loro un potere mai così grande è irrealistico. A noi non resta che tracciare una crocetta su qualcosa.
Come sta la democrazia italiana?
Godiamo di libertà: i diritti civili esistono, i diritti politici anche, i diritti sociali sono variegati. Il funzionamento delle istituzioni invece dipende da una variabile: i partiti. Una democrazia buona ha partiti buoni; una democrazia che ha partiti sgangherati, che sono costruzioni personalistiche, che ci sono e non ci sono, inevitabilmente è di bassa qualità. E non possiamo salvarci dicendo “anche altrove”, perché non è vero: i partiti tedeschi e spagnoli sono meglio organizzati, quelli portoghesi e quelli scandinavi pure.
Una democrazia senza partiti non esiste, lei lo insegna.
Una via d’uscita potrebbe essere il presidenzialismo, ma io sono preoccupato di una cosa: chi e come controlla quel potere? Ciò che manca, comunque, è il fatto che i politici predichino il senso civico, che pagare le tasse magari non è bello ma bisogna farlo; che osservare le leggi e respingere la corruzione è cruciale per vivere insieme. Mancano i grandi predicatori politici, tolti Mattarella e in certa misura Draghi.
Vale la pena comunque votare?
Sì, ma non perché “se non voti la politica si occupa comunque di te”. È il contrario: se non voti la politica non si occupa di ciò che ti sta a cuore.
L’affluenza rischia di essere bassa: colpa dei partiti? Dei cittadini? O dei media?
C’è chi dice “non voto perché non voglio” e li capisco, ma chi non vota non conta; e chi dice “non voto perché nessuno me lo ha chiesto”, ed è un problema dei partiti che non hanno motivato l’elettore. E poi gli italiani continuano ad avere questa idea che la politica sia qualcosa di non particolarmente pulito…
Non è così?
Sono alcuni politici a non esserlo. La politica è quello che facciamo insieme: sono tutte cose che devono essere predicate, ma oggi ciascuno pensa al suo tornaconto.
La sinistra ha perso il rapporto con il popolo?
Non sono sicuro che ci sia il popolo, ma so che la sinistra non ha più la capacità di essere presente in alcuni luoghi: se fosse nelle fabbriche sarebbe meglio, se avesse un rapporto vero con i sindacati, se i sindacati facessero davvero una politica progressista…
E il problema della destra qual è?
Il primo è che le destre non sono coese, stanno insieme per vincere ma poi avranno difficoltà a governare. Poi hanno pulsioni populiste, punitive, e poca accettazione dell’autonomia delle donne. E non sono abbastanza europeiste.
Che cosa pensa del voto del Parlamento europeo che condanna l’Ungheria di Orbàn?
Semplicemente Orbàn sta violando le regole della democrazia. Non esistono le “democrazie elettorali”: quando lei reprime le opposizioni, quelle non hanno abbastanza spazio nella campagna elettorale; se espelle una libera università come quella di Soros, lei incide sulla possibilità che circolino le informazioni. Tecnicamente non è già più una democrazia. Non si possono controllare i giudici.
Perché secondo lei FdI e Lega hanno votato per salvare Orbàn? Cioè è possibile smarcare un legittimo sovranismo da questi aspetti che toccano democrazia e stato di diritto?
Secondo me dovevano astenersi. Invece per convenienza loro, per mantenere buoni rapporti con Orbàn, non lo hanno fatto. Per me è un errore. Ma poi mi chiedo: è un errore anche per gli elettori di Meloni? Non lo so.
Il populismo è il linguaggio di quest’epoca. Però la legislatura più populista della storia si è chiusa con Draghi premier, che è l’opposto. Bizzarro, no?
È bizzarro, sì. Ma qui c’è stata un’insorgenza populista. Fino al 2013 non c’era. Ma come è arrivata può scomparire. Resta però un tratto di questo Paese: un atteggiamento di anti-politica e anti-parlamentarismo che può essere controllato solo da partiti in grado di fare politiche decenti. L’esito del voto del 25 settembre è scontato? Non lo è mai. Molti elettori decidono per chi votare nelle ultime 48 ore. Può sempre accadere qualcosa che fa cambiare idea.
Draghi ha detto “no”. Ci crede che non farà più il premier?
Sì(lunga pausa). Aveva investito molto nel Paese, essere sbalzato così è stato pesante: è molto deluso, credo anche incazzato.
Intervista raccolta da Marco Scorzato pubblicata su Il Giornale di Vicenza 22 Settembre 2022
Contro le destre non basta dire soltanto no @DomaniGiornale


Il quadro è l’Unione Europea più l’Europa che verrà con la sconfitta dell’aggressione russa all’Ucraina. Nessuna proposta programmatica ha senso se non parte dal ruolo e dal posto dell’Italia in Europa. Tornare indietro è costato moltissimo alla ben più potente Gran Bretagna. Non sarebbe un pranzo di gala neppure per l’Italia. Su questo terreno il PD anche grazie all’alleanza con +Europa e Emma Bonino ha le carte in regola e le deve giocare. Non è mai sufficiente, talvolta neppure convincente, dire rumorosi no alle proposte degli avversari. Non c’è bisogno di concedere che il semipresidenzialismo non è autoritarismo. Ai semipresidenzialisti nostrani bisogna, da un lato, chiedere con quale legge elettorale verrà formato il Parlamento, dall’altro, contrapporre un parlamentarismo rinnovato: voto di sfiducia costruttivo e legge elettorale proporzionale con soglia d’accesso per evitare la frammentazione dei partitini. La tassa piatta non ha funzionato da nessuna parte. Non ha dato slancio a nessuna economia. Comunque, è iniqua. Ancora più iniqua quando non solo è piatta, ma è anche bassa. Le destre “giocano” sulle aliquote e faranno debito pubblico. Le tasse sono un rapporto di fiducia che i cittadini stabiliscono con lo Stato in cambio di sicurezza e di servizi tanto più necessari per le fasce deboli della società. Pagare tutti con progressività. Le tasse sono l’impegno che lo Stato assume con i cittadini. Offrirà sanità, istruzione, lavoro, pensioni in maniera efficiente e giusta. Senza privilegi, senza esenzioni, senza corruzione con amministratori pubblici che hanno piena e orgogliosa consapevolezza che i cittadini sono i loro datori di lavoro, meritevoli della massima attenzione e cura.
I diritti delle persone sono sempre una questione di libertà, detto anche per tutti coloro che lamentano la mancanza di liberalismo in Italia (forse non avendo ancora avuto il tempo di leggere la Costituzione). I diritti, a cominciare da quello di cittadinanza, possono essere acquisiti seguendo criteri sui quali è lecito avere opinioni e valutazioni diverse. Restringere i diritti è destra, ampliarli è progresso. Ai diritti si accompagnano i doveri che non sono optional, che non debbono essere né condonati né elusi, ma adempiuti (a cominciare dal voto il cui esercizio, art. 48, è dovere civico).
La campagna elettorale serve a delineare una visione di società desiderata e desiderabile, contrastando le altre visioni non solo perché diverse, ma perché carenti, inadeguate, improbabili da attuare, persino, come il sovranismo, pericolose. Non è questione di demonizzare la principale esponente dello schieramento avverso, ma di mettere in evidenza le contraddizioni e i costi, materiali e sociali, delle sue proposte contrapponendovi subito il fattibile e il credibile. Il tempo c’è.
Pubblicato il 14 settembre 2022 su Domani
Come evitare che la tregua sia la vittoria dell’invasore @DomaniGiornale


Gli strateghi da scrivania, comitiva alla quale, seppur con grande riluttanza, finisco per appartenere anch’io, hanno detto e scritto di tutto sull’aggressione di Putin all’Ucraina. I peggiori fra loro hanno anche, da un lato, negato che si tratti di un’aggressione, dall’altro, suggerito agli ucraini di cessare i combattimenti per il loro bene. Troppi fra quegli strateghi sembrano non volere tenere in conto alcuni dati duri della situazione. L’Ucraina è uno stato democratico e i suoi cittadini hanno diritto a difendere la vita, la libertà e la proprietà (sono parole di John Locke per definire i diritti liberali).
La Russia è un regime autoritario con al vertice un autocrate sostenuto da una rete di oligarchi. L’autocrate non può avere ritenuto che l’Ucraina di Zelensky rappresentasse una minaccia militare alla Russia, neppure se fosse entrata nella Nato. Invece, ha sicuramente pensato che il pericolo oggettivamente posto fosse quello del contagio democratico, a favore dell’opposizione russa, non tutta incarcerata, e a scapito dei suoi vassalli, a cominciare dal Lukashenko della Bielorussia.
Sappiamo che spesso gli autocrati ritengono che il modo migliore per uscire dalle loro contraddizione è una sorta di transfert. Cercare in un successo militare, facile e esaltabile, il consenso popolare che sta sfuggendo. Aiutare gli ucraini a difendersi, dovere morale di tutte le democrazie, significa, quindi, non solo rendere difficile e costosa la vittoria militare dell’autocrate, ma impedire che riesca a godere del “dividendo” politico da usare per puntellare il suo potere all’interno della Russia.
Le sanzioni, che sono tutt’altra cosa rispetto a quelle comminate dagli USA a Cuba e al Venezuela, paragone improponibile, forse anche stupido, mirano a colpire la potente rete di oligarchi che sostiene Putin. Abituati agli agi e ai fasti, costoro probabilmente, ma lo vedremo, hanno un basso limite di sopportazione e, dunque, potrebbero “consigliare” a Putin di cessare la sua politica sconsiderata che, comunque, anche se vincente, non promette nessun arricchimento plausibile.
Pur sapendo perfettamente che la priorità è la cessazione dell’aggressione, una tregua immediata, l’attuazione di tutti gli interventi umanitari possibili, la costruzione della pace richiede non solo “semplicemente” la fine dei bombardamenti, ma negoziati complessi sul futuro dell’Ucraina.
Ha fatto benissimo Zelensky a dichiarare che rinuncia a qualsiasi ingresso nella Nato. Così come ha fatto benissimo il Parlamento europeo a votare a favore dell’apertura dei negoziati per l’adesione dell’Ucraina all’Unione Europea. Troppi dimenticano che l’Unione Europea è il più grande spazio di libertà e di diritti mai esistito al mondo ed è altresì luogo di pace e prosperità. Delle difficoltà e delle contraddizioni, sanabili e regolarmente sanate, discuteremo un’altra volta.
Con e nell’Unione Europea l’Ucraina potrà ricostruirsi e riprendere il cammino democratico. Fra le conseguenze politiche della pace, i negoziatori dovranno cercare quelle relative a cambiamenti significativi nella politica della Russia. Certo, è meglio che nessuno affermi ad alta voce “regime change”, ma la sospensione delle sanzioni economiche dovrà essere collegata alle libertà da garantire agli oppositori russi. Insomma, l’aggressore deve pagare un prezzo. A chiederlo saranno soprattutto tutti i pacifisti che si sono attivati in questo periodo che finalmente collegheranno l’assenza di attività militari con il riconoscimento dei diritti e, forse, addirittura con la giustizia sociale, anche in Russia.
Pubblicato il 17 marzo 2022 su Domani