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State-building in Palestina, pace per la democrazia, e viceversa #ParadoXaforum

Nonostante molte critiche, più o meno fondate e saccenti, il Piano di Pace di Donald Trump ha posto, almeno finora, termine al conflitto Israele-Hamas e consentito lo scambio fra circa duemila detenuti palestinesi e 48 ostaggi israeliani vivi e morti. Poi, è certamente opportuno e doveroso porre nel mirino delle critiche quello che risalta, l’impianto affaristico della ricostruzione a Gaza, e quello che viene progettato, una fase di indefinita durata di un governo «tecnocratico e apolitico». Non entrerò nei dettagli, pure importantissimi, poiché voglio giungere all’elaborazione del punto che ritengo decisivo. Premetto che due elementi mi hanno colpito molto sfavorevolmente. Il primo è che nessuno dei quattro firmatari del documento: il presidente egiziano El-Sisi, il presidente turco Erdogan, l’emiro del Qatar Hamad al-Thani e, per dirla tutta, neppure il Presidente americano Trump, è un «sincero democratico». Il secondo elemento è la sfilata ossequiosa dei leader a stringere, uno per uno, in poco splendida solitudine e distanziati, la mano di Trump con relativa foto di rito. Apprezzabile la ritrosia di Giorgia Meloni, visibile nelle sue espressioni facciali e nel suo body language. La celebrazione ostentata è andata fuori misura e pone gran parte dell’onere dell’attuazione degli accordi sulle spalle del Presidente USA.

Il problema cruciale dell’attuazione è che esiste una controparte, ma non l’altra. Anche se cambiasse, come è possibile, per scaramanzia non scrivo probabile, il primo ministro di Israele, ci saranno altri governanti a garantire che lo Stato di Israele manterrà fede agli impegni presi. Al momento, i palestinesi di Gaza sono privi non soltanto di qualsiasi rappresentanza politica, ma di voce in capitolo. L’Autorità Nazionale Palestinese, vecchia, screditata e da molti accusata di alto tasso di corruzione, non controlla il territorio e, soprattutto, non dispone di milizie armate in grado di controllare Hamas. Nel documento manca qualsiasi riferimento alla necessità che i palestinesi abbiano/si dotino/ottengano uno Stato (la cui «esistenza» è incredibilmente già riconosciuta da più di 150 Stati sui 190 facenti parte dell’ONU).

Proprio perché sono assolutamente consapevole delle enormi difficoltà dei processi di State-building, l’assenza nel documento di indicazioni e linee guida che vadano oltre il ricorso ad un comitato «tecnocratico e apolitico» (costruire uno Stato è un compito di enorme complessità e politicità), forse presieduto da Tony Blair, la cui fama mediorientale non è propriamente elevatissima, è decisamente grave.

Si è aperta una grande finestra di opportunità per uno Stato palestinese in grado di mantenere l’ordine politico e di sfruttare le ingenti risorse che affluiranno per la ricostruzione di Gaza e, perché no?, anche per il lancio su scala internazionale del turismo balneare sulla striscia. Infine, per chi crede con me, e con una significativa «striscia» di ricerche e di analisi, e come me che gli Stati democratici non si fanno la guerra fra di loro, uno Stato palestinese democratico sarebbe un attore decisivo per la pace duratura nel Medio-oriente. Mi fermo qui senza procedere a speculazioni, pure possibili e plausibili, sul perché i governanti autoritari degli altri sistemi politici medio-orientali non vedrebbero con favore, vero e sincero understatement, la nascita nei loro dintorni di uno Stato democratico. Avremo modo, temo presto, di tornarci.

Pubblicato il 15 ottobre 2025 su PARADOXAforum  

Le lezioni da imparare dalla sconfitta con il tycoon @DomaniGiornale

Quella che si è combattuta al Golf Club di Turnberry, Scozia, di proprietà personale del Presidente USA Donald Trump, è stata una battaglia importante, ma non campale e, meno che mai definitiva nella guerra dei dazi da Trump voluta. Quasi tutti i commentatori sostengono che Trump ha imposto una pesante sconfitta alla Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen e di conseguenza all’Unione Europea e a tutti gli Stati membri compresa l’Ungheria dello stupidamente giubilante Viktor Orbán. Tutti i commentatori sollevano molti dubbi sull’effettiva praticabilità di alcune misure concordate, in particolare, l’obbligo di acquisto di energia e equipaggiamento militare USA per 750 miliardi di dollari e di investimento di 250miliardi sul mercato USA. Si preannunciano molte, inevitabili, costose e prolungate controversie fra USA e UE che potrebbero essere un serio danno collaterale di questa guerra.

   Nel frattempo, naturalmente, opportunamente e tristemente, tutti i produttori e investitori europei, grandi, medi e piccoli, stanno facendo il conto delle molto probabili perdite e ingegnandosi a trovare alternative e rimedi. Almeno in parte, con fantasia creativa, i migliori operatori economici ci riusciranno, ma ad una sconfitta, politica prima ancora che economica, dovranno essere le autorità politiche e istituzionali europee a dare una riposta potente e inequivocabile, elaborata congiuntamente e fermamente condivisa.

   Senza nessuna caccia alle streghe (sic), bisogna subito chiedersi se coloro che, come, Imperterritamente, Giorgia Meloni e la stessa von der Leyen, predicavano l’attesa e preannunciavano la ricerca di accordi con l’imprevedibile Trump, non abbiano gravemente indebolito la posizione negoziale dell’Unione e, quindi, non siano almeno in parte responsabili della pesantezza della sconfitta. Al proposito ricorrere al senno di poi è un’operazione che può essere molto fruttuosa. Peraltro, il senno di prima consigliava chiaramente di non presentarsi come appeasers alla Neville Chamberlain 1938, che traduco liberamente come calabrache e calabrachette.

   Andare a cercare, talvolta con insistenza, di comprendere le ragioni dei comportamenti irragionevoli di Trump non era un gesto generoso e potenzialmente utile. Al contrario, era, come ha scritto su queste pagine Nadia Urbinati, un segno penoso di vassallaggio, degenerazione di un tipo di sovranismo. Per di più questo vassallaggio suggeriva a Trump che, non credendo fino in fondo alle sue minacce, l’Unione Europea non stava dedicando abbastanza tempo e energie alla formulazione di contromisure da temere per qualità e per efficacia. L’imposizione di dazi più o meno pesanti aveva e mantiene come obiettivo trumpiano anche quello di dimostrare che l’Unione Europea non è (ancora) una grande potenza e comunque non sa e non riesce a comportarsi come tale. “Parassiti” (termine usato dal Vice-Presidente Vance) in materia di difesa militare, “profittatori”, secondo Trump, grazie alla libertà di commercio tutelata dagli USA, gli europei si meritano non una, ma molte lezioni. Probabilmente, sì, molte sono le lezioni da imparare mentre i dazi iniziano il loro accidentato e balordo percorso. La lezione politica più importante, però, la dovrebbero già conoscere tutti: l’Unione fa la forza. Jean Monnet e Altiero Spinelli l’hanno scritta e praticata in tutte le salse, senza tentennamenti. Fare i free riders (no, non i “portoghesi”) nell’Unione Europea indebolisce l’Unione senza dare molti vantaggi e premi a chi devia. La seconda lezione consegue. Bisogna porsi subito l’obiettivo di potenziare la leadership politica e istituzionale dell’Unione. Ursula von der Leyen deve essere la prima a interrogarsi sui suoi errori, su quelli della Commissione e sulle malaugurate prese di distanza di alcuni capi di governo europei. Governare la prima sconfitta e prepararsi alla battaglia prossima ventura richiede autocritica e visione. Von der Leyen 2.0 è sufficientemente attrezzata?

Pubblicato il 30 luglio 2025 su Domani

Teheran libera? solo se l’input verrà da dentro @DomaniGiornale

Che, insieme alle molte brutture, ferite, traumi e morti, la guerra possa aprire qualche finestra d’opportunità è noto a quasi tutti gli studiosi delle relazioni internazionali nonché i ai più colti e avveduti policy makers. Nel passato, certo, i famigerati neoconservatori intorno al Presidente George W. Bush (2000-2008) hanno esagerato nel credere all’abbondanza di opportunità che non sapevano cogliere e meno che mai coltivare. Oggi non è chiaro se intorno a Donald Trump, Commander in Chief, e lui stesso ci sia qualcuno che vede lucidamente che la sconfitta della Guida Suprema Alì Khamenei e la cacciata dal potere degli ayatollah significhino l’apertura di una enorme finestra di opportunità per cambiamenti profondi, rivolgimenti sostanziali.

   Per capirne di più e meglio bisogna subito sgombrare il campo da un equivoco esiziale, nel quale sprofondarono i neocon di Bush e sembrano dibattersi troppi attori e commentatori. “Cambio di regime” non significa affatto che, affossata la teocrazia iraniana ne consegua senza colpo ferire l’avanzata trionfante di una democrazia. Il crollo del regime iraniano aprirebbe una benvenuta, ma del tutto indeterminata, transizione nella quale una pluralità di protagonisti: autorità militari, parte del clero, quel che rimarrà dei pasdaran, i movimenti delle donne, forse alcune elite di professionisti iraniani in una società schiacciata, ma non priva di vitalità, giocherebbero le loro carte dando vita a coalizioni composite. Ci sarà confusione e rimarranno tentazioni e comportamenti autoritari. Quello che appare improbabile, ma anche molto sconsigliabile, è una soluzione che venga da fuori, come prospetta il figlio dell’ultimo shah della dinastia Pahlavi. Quarantacinque anni di lontananza implicano che non ha basi né relazioni. Quando toccò a loro i meno famosi esuli iracheni, alcuni coccolati negli USA, mostrarono rapidamente la loro quasi assoluta irrilevanza. Fin d’ora meglio non illudersi e non operare per l’insediamento di un governo fantoccio a prevalenza di revenant.

Comunque, il problema da risolvere è la costruzione di un assetto che, certo per quanto non ancora democratico, sia in grado di garantire ordine politico, inteso come prevedibilità di comportamenti con riduzione al minimo di quelli oppressivi e repressivi. Sarebbe già una situazione positiva e promettente dalla quale, per esempio, a quasi quindici anni dal rovesciamento di Gheddafi, la Libia appare tuttora lontanissima. L’ordine politico è/dovrebbe essere l’obiettivo condiviso, non imposto, fatto valere senza eccessi, senza umiliazioni, senza mortificazioni degli sconfitti alle quali, però, Il Primo ministro israeliano non sembra volere rinunciare. Trump non si sa. Oggi sì, domani no, dopodomani sarà un altro giorno.

Oltre all’ordine politico interno all’Iran è indispensabile porsi l’obiettivo dell’ordine politico a Gaza che, ovviamente, non può essere affidato a Hamas, fermo restando che l’Autorità nazionale palestinese, che non ha finora dato buona prova delle sue capacità, deve imparare ad assumersi responsabilità vere e sostanziali. Al momento, è giusto nutrire dubbi. Nessuno di questi ordini politici, peraltro assolutamente auspicabili, fattibili e indispensabili è in grado di reggere se non viene accompagnato e sostenuto a livello superiore. Senza una visione sistemica conflitti, repressioni, oppressioni, comportamenti odiosi continueranno a ottenere risposte parziali e inadeguate. Ambiziosamente, i policy makers, non soltanto quelli volubili degli Usa, ma anche quelli degli Emirati del Golfo, dell’Arabia Saudita, finalmente dell’Unione Europea, e persino il turco Erdogan debbono impegnarsi a disegnare e coordinare una strategia che conduca anzitutto ad un ordine politico accettabile in e per tutto il Medio-Oriente. Allora apprezzeremo al meglio i frutti scaturiti dal regime change, che è giusto cercare di conseguirlo anche perché contiene generose ricompense.

Pubblicato il 25 giugno 2025 su Domani

Prepotente e incompetente il micidiale riformatore USA @DomaniGiornale

Con un misto di superficialità, improvvisazione e prepotenza, il Presidente USA ha annunciato che intende riformare il mondo. Applicherà una dottrina semplice, bella pronta, ready made: Rifare Grande l’America. Apparentemente, né lui né i suoi collaboratori, scelti prevalentemente con il criterio del tasso di adorazione nei suoi confronti, si sono interrogati sulle cause del più o meno significativo declino dell’America nei grosso modo vent’anni trascorsi. Da lui in parte interpretata e rappresentata, anche visceralmente, e in larga misura guidata, la reazione è stata diretta contro la cultura woke. In sintesi, woke compendia tutte le tendenze socio-culturali e di stili di vita espresse e in parte, in maniera molto/troppo acritica, accettate e lodate dai democratici e dall’influente, ma tutt’altro che egemone, establishment nel mondo dell’informazione, delle università d’élite, del cinema. A quei comportamenti, peraltro non ancora adeguatamente valutati né nei loro eccessi né nella loro spinta positiva verso una società DEI, ovvero caratterizzata da Diversità, Equità, Inclusione, Trump ha contrapposto un ritorno al passato. Il suo annuncio è sembrato molto rassicurante, con qualche punta di risentimento e di rivalsa, all’elettorato che, per ragioni di conoscenze e tipo di attività lavorative, si sentiva e considerava non solo sfidato, ma lasciato indietro, umiliato e abbandonato. Un’America più grande darebbe più prestigio anche a loro, li renderebbe patrioti orgogliosi.

Da tycoon per il quale i soldi sono la misura non soltanto della ricchezza, ma dell’abilità personale e del successo ottenuto, Trump si è buttato anzitutto sui dazi per recuperare la potenza economica USA. Poi ha cercato di dimostrare che lui è in grado di rimettere gli USA al centro dell’ordine (disordine) internazionale. I dazi si stanno rivelando, come tutta la teoria economica ha sempre sostenuto, un fallimento gigantesco, costoso, non recuperabile. Anche la risposta ai due gravi conflitti in corso, pur molto diversi fra loro: aggressione russa all’Ucraina; e prolungata e sproporzionata rappresaglia israeliana contro Hamas e i palestinesi, evidenzia una visione inadeguata e persino pericolosa di Trump sia sul mondo che c’è sia su quello che si potrebbe/dovrebbe costruire.

Soltanto un megalomane poteva pensare di costruire qualcosa di decente nel conflitto russo/ucraino umiliando il Presidente Zelensky e stabilendo un rapporto personale diretto con Putin riconoscendo all’autocrate russo un potere da tempo perduto e irrecuperabile. Non ne sarebbe, comunque, derivata nessuna pace “giusta e duratura”, niente di cui vantarsi. Caduta l’opzione non si intravede nessuna strategia trumpiana alternativa. Anche nel Medioriente Trump non può sbandierare nessun successo. La striscia di Gaza non è destinata a diventare una “riviera” esclusiva per superricchi e sceicchi, spaventati dalla prospettiva di dover accogliere la diaspora palestinese. Quel che, da molti punti di vista, è peggio è che Trump non ha la minima idea di come convincere/costringere Netanyahu a concludere le sue oramai intollerabili, nei tempi e nei modi, e ingiustificabili operazioni belliche.

Nessun nuovo ordine internazionale potrà minimamente emergere se Trump continua a credere che l’Unione Europea ha sfruttato la “sua” America e concorda con il suo vice Vance che gli europei sono dei parassiti. Incidentalmente, non saranno i singoli governanti europei che asseriscono di comprendere le motivazioni del Trump sovranista piuttosto imperialista (a riprova le sue dichiarazioni su Groenlandia e Canada) a moderarne le mire e le politiche, ma neppure a trarne qualche vantaggio in esclusiva. Le photo opportunities, chiedo scusa, opportunistiche, diventano spesso rapidamente sbiadite. Al contrario, resistere a Trump e non lesinare motivate critiche è patriotticamente doveroso, ma, soprattutto, è politicamente indispensabile per porre le premesse di una strategia diversa, costruita su ampi accordi, mirati e lungimiranti. Quello che vorremmo dai volenterosi.

Pubblicato il 14 maggio 2025 su Domani

Dalla Germania ottime notizie. L’Ue unita fa paura a Trump @DomaniGiornale

Troppo semplicistico sostenere che l’Unione Europea si trova fra due fuochi: uno, quello amico, che viene da un leader democraticamente eletto, Trump, che spara a casaccio; l’altro, sicuramente nemico, che viene da un autocrate repressivo e sanguinario, Putin, che ha una strategia di corto respira, ma chiara e pericolosa.  Poi, dentro i singoli Stati-membri dell’Unione Europea covano altri fuochini e fuocherelli, nazionalisti, sovranisti, xenofobi, che mirano ad indebolirla fino a disgregarla, con qualche recupero di sovranità nazionali, magari nella difficile forma di una Confederazione, comunque un passo indietro.

Liste, fronti, partiti che, esibendo obiettivi autoritari che discendono da un passato che non è mai passato, sfidano apertamente, come solo in contesti democratici è lecito e possibile fare, sono stati finora, con qualche eccezione, esclusi dalla partecipazione al governo. Brandmauer, firewall, cordone sanitario, ma non bisogna dimenticare l’italica conventio ad excludendum, sono le parole usate per giustificare il rifiuto che i partiti democratici oppongono a chi le regole e i valori democratici dichiara di volere sfidare e schiacciare. Secondo alcuni commentatori sarebbe un errore non dare spazio agli oppositori, non dei governi, ma della democrazia in quanto tale. Ho un qualche ricordo che l’addomesticamento attraverso l’accesso al governo dei fascisti e dei nazisti non funzionò, produsse disastri. D’altronde, le coalizioni di governo, come dimostrerà anche il prossimo cancelliere tedesco, non sono un banale affare di numeri, ma si formano con riferimento alla vicinanza politica, almeno sui valori, alle esperienze vissute, e alla compatibilità programmatica.

Nell’Unione Europea si entra soltanto se il sistema politico rispetta le regole democratiche e, requisito non disprezzabile, se il sistema giuridico non contiene, non consente e non applica la pena di morte. No, gli USA di Trump non potrebbero diventare il 28ottesimo Stati della UE, ma il Canada sì (e l’Ucraina anche). Certo, un regime duramente autoritario come la Russia e una repubblica presidenziale possono mostrare capacità decisionali, ovvero di prendere decisioni in tempi brevi, superiori a quella di una federazione di Stati, ma, come già emerge nel contesto trumpiano, l’applicazione e l’attuazione di decisioni frettolose, talvolta di dubbia legalità, sono difficili e controverse. Certamente e inevitabilmente più lenta, l’Unione Europea ha comunque finora dimostrato, quando era necessario, di saper ergersi all’altezza della sfida. Se necessario, la pratica democratica, che non ha nulla a che vedere con diktat imperiosi, imperiali, imperialisti, consentirà di aprire trattative con Putin e con Trump.

Molto, adesso, dipende dalla rapidità con cui il democristiano Merz, prossimo cancelliere tedesco riuscirà a rilanciare quell’accordo con la Francia, già cruciale nel passato, per il quale il non ancora troppo debole Presidente Macron è tanto inevitabilmente quanto convintamente disponibile. Con più ampio, più esteso e più approfondito coordinamento in una pluralità di settori, a cominciare dagli armamenti a proseguire con la tecnologia e l’industria, con il sistema di tassazione fino al completamento del mercato unico, per il quale le proposte di Mario Draghi e Enrico Letta hanno risposte decisive, l’Unione Europea ha grandi inesplorate opportunità. Non sarà nessuna autonominatasi pontiera, s’illudono i sostenitori di Giorgia Meloni, con gli USA di Trump e delle sue politiche commerciali, a fare sfruttare al meglio queste opportunità. Sovranismi, anche soft, nazionalismi, xenofobie sono tutti palle al piede di un’Unione che può correre e crescere. Una Unione più veloce è possibile grazie alle sue risorse e allo snellimento delle sue procedure democratiche. Hic Bruxelles hic salta.

Pubblicato il 26 febbraio 2025 su Domani

Le democrazie e gli anticorpi per sopravvivere all’illiberalismo @DomaniGiornale

“Una gamba davanti all’altra”. Prendo a prestito le dolenti parole della Sen. Liliana Segre che descrivono la sua marcia per la vita per sottolineare che gradualmente, ma incessantemente i democratici e le loro democrazie sono in grado di imparare e riprendere il cammino della libertà.  La celebrazione del Giorno della Memoria obbliga a riflettere, mi pare non venga fatto adeguatamente, sul regime politico che lanciò il genocidio e sui governi dei paesi, a cominciare dal fascismo italiano, che furono zelanti e attivissimi complici: il totalitarismo nazista coadiuvato da autoritarismi più o meno duri. Certamente, tutti quei sistemi politici privi di qualsiasi elemento democratico mostrarono notevoli capacità decisionali. Però, dovremmo davvero considerare la velocità delle decisioni una caratteristica positiva e intimare alle democrazie contemporanee di apprenderla e farne, s’intende, molto rapidamente, uso?

   Fermo restando che sono oramai più di trent’anni che il numero delle democrazie cresce e che nel tempo una sola, quella già minata dall’interno, del Venezuela è crollata, come si fa a sostenere che il paradigma liberal-democratico è venuto meno? Nella misura in cui una democrazia abbandona il liberalismo, che è diritti politici, civili, anche sociali più il quadro costituzionale di separazione delle istituzioni e loro relativa autonomia, semplicemente non è più tale. Democrazia illiberale non è un ossimoro. Al contrario è un esempio lampante e pregnante di manifestazione di quella neo-lingua che tempestivamente George Orwell denunciò come prodotto dei regimi totalitari e loro imposizione.

Poiché deciderebbero poco quantitativamente e in maniera tardiva, le democrazie non sarebbero in grado né di controllare il potere economico né di fare fronte al potere tecnologico. Le democrazie liberali, nate per fare prevalere le preferenze dei cittadini sugli interessi dei grandi proprietari terrieri e degli imprenditori, sarebbero oggi diventate terra di conquista dei nuovi capitalisti, i re delle finanze e i padroni delle tecnologie comunicative. Laddove, parafrasando Mao tse Tung, il partito (comunista) cinese comanda la tecnologia in tutte le sue varianti artificiali e reali (ma, Covid insegna, non in quelle sanitarie), il Presidente degli USA è attorniato dagli oligarchi della Silicon Valley che, è davvero così?, lo condizionano e ne influenzano le decisioni più importanti, comunque quelle che li riguardano. Muoiono così le democrazie? Comincia da Washington, D.C, l’asfissia della democrazia?

 Il Presidente USA nella misura in cui è forte e veloce, “decidente”, è debitore di queste sue capabilities non all’assetto istituzionale in quanto tale, ma alla mutevole configurazione del potere politico che consente ai “suoi” repubblicani di essere in maggioranza, almeno per i prossimi due anni, sia alla Camera dei Rappresentanti sia al Senato e di avere imbottito la Corte Suprema di giudici di stretta osservanza repubblicana. Trump, contrariamente a Putin e Xi Jinping, non potrà essere rieletto. Gode di grande potere a termine (nessun terzo mandato!). Le sue pulsioni anti-democratiche, di insofferenza per i freni e i contrappesi, i lacci e laccioli posti dalla Costituzione, incontrano ostacoli nella libertà dei mass media, nella opinione pubblica, nel pluralismo che Xi e Putin hanno distrutto e continuano a schiacciare.

Una gamba davanti all’altra le democrazie reagiscono alle sfide, politiche, economiche, tecnologiche, nessuna delle quali ha finora avuto successo, con l’ampio repertorio degli strumenti del pluralismo sociale, culturale, persino religioso, di cui dispongono. Smentiscono anche i profeti di sventure che con i loro tristi allarmismi pensano di appuntarsi i galloni del progressismo popolar democratico. Meglio che meditino più a fondo. L’età delle democrazie continua a essere con noi, davanti a noi.    

Pubblicato il 29 gennaio 2025 su Domani

“Make Europe great again” è la risposta da dare al tycoon @DomaniGiornale

Parole chiare, magari non sempre pronunciate limpidamente e non organizzate in maniera armoniosa (non tutti sanno parlare come Barack Obama e meno che mai come Martin Luther King), messaggi espliciti che hanno un retroterra reazionario e che delineano una strategia di rappresaglia. Questa è la sintesi, compreso il tono vendicativo, punitivo, spesso aggressivo, nei confronti della metà polarizzata dell’America e dei suoi vicini Messico, Panama, Canada e Groenlandia, del discorso di inaugurazione della seconda presidenza di Donald Trump.

   Detto che condivido le ottime analisi e variegate interpretazioni di Mattia Ferraresi, Mario Del Pero e Nadia Urbinati pubblicate ieri, adesso sappiamo ancora meglio e di più che cosa dobbiamo aspettarci. Pertanto, il compito consiste nel guardare avanti. Prima, però, di procedere a suggerire le risposte, è indispensabile prendere atto che le affermazioni di Trump costituiscono la traduzione coerente del mandato elettorale chiaro e forte da lui ricevuto da una maggioranza assoluta di elettori americani. Qualcuno con preoccupazione, qualcuno con compiacimento, qualcuno con l’orgoglio di chi lo sapeva già, dobbiamo tutti prendere atto che l’America che si è espressa in Trump, che lui rappresenta e, importante, che lui plasma con le sue preferenze e che vuole tradurre con i suoi obiettivi, è un paese profondamente cambiato, che, peraltro, tutti i sondaggi, ai quali non siamo stati disposti a credere, avevano disgiuntamente individuato.

Ciascuno di noi, italiani e europei, cittadini e governanti degli Stati membri dell’Unione Europea è posto di fronte a una sfida che, naturalmente, riguarda l’economia, ma che va oltre fino alla politica e nel senso più alto e più significativo giunge fino alla cultura ai valori sui quali si sono costruite e funzionano le democrazie non soltanto europee. Non si tratta solo di predisporsi a contrastare i dazi che Trump porrà sottolineando che da sempre la libertà di commerciare, di scambiare beni si accompagna alla libertà politica, riduce le probabilità di conflitti e aumenta le possibilità di crescita. Nessun paese diventa più grande a scapito di altri se non nell’ottica dell’imperialismo predatorio. Bisogna dirlo che il green deal è la modalità essenziale di collaborare per arrestare il cambiamento climatico, bene comune tanto prezioso quanto indivisibile. Nessuna soluzione può essere trovata da rapporti bilaterali più o meno stretti e occasionali che, comunque, il contraente più grande rimane costantemente in grado di definire a suo vantaggio e di terminare a suo piacimento.  

Il processo di distanziamento degli Stati Uniti dall’Europa è cominciato parecchi decenni fa. Tuttavia, i policy makers americani sono largamente consapevoli che dell’Europa hanno bisogno e che l’Europa ha bisogno di loro a causa di visibilissime sfide geopolitiche. Senza nessuna esagerazione sono i rapporti che intercorrono fra Europa e USA, i loro scambi, la loro considerevole condivisione di valori che danno corpo e sostanza a quello che è giusto chiamare Occidente. Neppure Trump potrà permettersi comportamenti che potrebbero essere etichettati come “negletto benigno”. Dal canto suo, l’Unione Europea mantiene la sua integrità e offre una sponda ideale alla metà dell’America non trumpiana continuando ad affermare, proteggere e promuovere i diritti civili, politici e sociali sui quali si è fondata, è cresciuta, continua ad allargarsi. La sfida del Presidente Trump durerà quattro anni (già, per i Presidenti USA esiste il limite invalicabile di due mandati). Nella rapidità, nella innovatività, nella qualità delle riposte a quella grade e brutale sfida si valuteranno le capacità delle leadership europee. Questo è il test da superare. Fare più grande l’Europa.

Pubblicato il 22 gennaio 2025 su Domani

Le pericolose scorribande di una premier senza freni @DomaniGiornale

Inebriata dai complimenti, a cominciare da quelli dello sbadato settimanale “The Economist” e dello smodato tycoon diventato Presidente Trump, estasiata dalle e nelle photo opportunities (a suo tempo, lo so, saranno raccolte in un apposito portfolio politico-elettorale), forse anche frastornata dai molti cambi di fuso, la Presidente del Consiglio sta incappando in alcuni problemi, forse non proprio marginali. Il primo riguarda la coesione della coalizione che ha guidato al successo elettorale nel 2022 e che intende condurre fino al record di unico governo italiano durato un’intera legislatura. Vero è che né Salvini né Tajani potrebbero andare altrove e sono costretti a soffrire e abbozzare, ma decidere senza neppure dare loro le informazioni di base, può diventare troppo almeno per alcuni dei parlamentari leghisti e forzisti e portare, poi, alle criticabili guerriglie parlamentari. Da quel che abbiamo visto, qualche assaggio di guerriglia si è già avuto in occasione dell’approvazione dell’autonomia differenziata e nel corso della discussione del disegno di legge costituzionale sull’elezione popolare del Presidente del Consiglio. Pur avendola definita la madre di tutte le riforme, Giorgia Meloni non sembra attualmente in grado di dedicare parte del suo prezioso tempo a controbattere le critiche e a portarla avanti. Non escluso che si sia orientata a farne argomento per chiudere la legislatura e impedire il referendum costituzionale che non può tenersi nell’anno delle elezioni politiche.

Il secondo problema di enorme complessità riguarda la strategia del sovranismo inteso come recupero e esercizio della sovranità nazionale. La correttezza formale dei rapporti con la Presidente dell’Unione Europea Ursula von der Leyen viene spesso incrinata dai troppi ammiccamenti con l’illiberale Viktor Orbán, ma la fase che si è oramai aperta riguarda atteggiamenti e comportamenti da mostrare e da tenere con Trump, sicuramente nemico di un’Unione Europea più coesa e più forte. Il significato più ampio dell’improvviso, forse non improvvisato, viaggio lampo a Mar-a-Lago non è stato solo “premere aggressivamente” (come è stato riportato dal “New York Times”) per convincerlo a non essere di ostacolo alla trattativa per ottenere la liberazione di Cecilia Sala. Quel viaggio ha inteso anche mandare il segnale che la Presidente del Consiglio italiano vuole ed è in grado di decidere e di fare una sua politica di rapporti politici e personali con Trump, a prescindere dall’Unione. Di fatto, sta indebolendo in partenza l’Unione e irritando i capi degli altri Stati-membri i quali, per il momento, hanno fatto buon viso a pessimo gioco.

Nella sua permanenza nella lussuosa magione del Presidente eletto, Meloni ha avuto modo di parlare e ammiccare, lo dicono le foto, anche con Elon Musk. Non è chiaro quanto l’incontro sia servito a discutere della possibilità che sia proprio Musk a fornire tutta la strumentazione necessaria a strutturare le reti dei servizi di sicurezza nazionale. Tre punti meritano approfondimenti. Il primo riguarda i limiti dei poteri del capo del governo italiano che in un settore di tale importanza per la sicurezza della nazione dovrebbe rapportarsi strettamente con il Parlamento. Il secondo è che, quando si è parte di una entità sovranazionale come l’Unione Europea, il bilateralismo già di per sé modalità controversa e discutibile, lo è ancor più quando si svolge su un terreno che interessa tutti gli Stati-membri. Terzo e ultimo punto, non deve essere ritenuta una critica di lesa maestà la richiesta di sapere quanto il Presidente del Consiglio sia tecnicamente attrezzata sul tema della sicurezza nazionale e in grado, quindi, di tenere a bada eventuali mire aggiuntive in termini di potere e di affari da parte di Elon Musk . Lecito è pensare e temere che Giorgia Meloni si sia allargata troppo, abbia mostrato un eccesso di fiducia nelle sue vorticose scorribande. C’è un tempo per agire e c’è un tempo per riflettere, anche per correggere.    

pubblicato il 8 gennaio 2025 su Domani

La vittoria di Trump. Difficile da credere, ma è una questione di “cultura” #Paradoxaforum

I numeri attestano che la vittoria di Donald Trump è stata epocale. Segna un’epoca che, forse, a causa dell’età, non sarà lui a guidare, ma che è uno spartiacque nella storia USA. Troppo spesso il “suo” elettorato è stato fatto coincidere quasi esclusivamente con la grande maggioranza degli uomini bianchi di mezz’età (e le loro famiglie), con limitato livello di istruzione e redditi medio-bassi. Per tutti costoro le tematiche di genere, gli scontri sul politicamente corretto, le riscritture della storia dell’uomo bianco colonizzatore e oppressore, non erano semplicemente riprovevoli e sbagliate. Politicamente e culturalmente colpivano il loro status sociale. In gioco era la loro stessa identità di americani, osteggiati, isolati, circondati. Certo, i latinos portano via posti di lavoro, ma c’è di più. Portano con sé una cultura di organizzazione familiare, di vita sociale, di musica e di cibo, di forme di svago che non si incontra e non si mescola con quella degli americani “come noi”. Anzi, che la vuole più o meno inconsapevolmente sostituire sotto gli occhi amichevoli e beneaguranti degli intellettuali e dei divi, delle grandi università dedite al multiculturalismo e dei quotidiani delle gradi città, come se davvero le culture potessero essere messe tutte sullo stesso livello, dimentiche che “e pluribus unum” (il motto del federalismo USA) indica l’obiettivo dell’integrazione, non la conservazione della separatezza.

Tutti, o quasi, affermano che l’Occidente è in declino tanto quanto, e viceversa, gli USA. Non è accettabile nessuna rassegnazione a quell’esito. Make America Great Again è un compito che restituisce l’orgoglio, la consapevolezza di potere fare quanto altri non riuscirebbero neppure a immaginare. Da un lato, una componente non trascurabile, forse persino crescente dei latinos, si fa coinvolgere: saranno parte attiva del ritorno alla grandezza, prova provata della loro integrazione riuscita; dall’altro, fenomeni simili attraversano non pochi sistemi politici europei: i sovranisti variamente declinati come Veri Finlandesi, Democratici Svedesi, Fratelli d’Italia et al. Vecchi e nuovi americani non chiedono autocritiche, ma desiderano pieno riconoscimento di dignità storica e di cittadinanza. Suggeriscono come (ri)conquistarle perché il loro tempo non è passato, ma futuro.

Che un uomo bianco possa fare tutto questo meglio di una donna di colore, vista con sospetto persino dagli stessi uomini di colore, appare addirittura scontato. Quell’elettorato trumpiano non attendeva nient’altro che l’offerta credibile di riscatto. Madornale è l’errore di credere che la sua motivazione prevalente fosse la paura e che i Democratici offrissero speranza, che, invece, era contrizione per i misfatti dell’uomo bianco e della potenza egemone. Unico sollievo per la leadership democratica è che Trump durerà per un solo mandato. Però, se i Democratici non trovano quel (weberiano) imprenditore politico che sappia delineare una strategia di attrazione attorno al credo americano (opportunità per tutti) e ai valori costituzionali troppo spesso disattesi nei confronti dei cittadini di colore, lo scontro culturale continuerà a premiare i repubblicani trumpiani post-Trump.

Pubblicato il 11 novembre 2024 su PARADOXAforum

Le mille anime del paese che non trovano più unità @DomaniGiornale

Gli USA che sono andati a votare sono un paese che molti americani e molti osservatori non hanno saputo e forse non hanno voluto vedere. Il motto federalista “e pluribus unum” da tempo non coglieva più la realtà. L’integrazione del melting pot era garantita dalla supremazia WASP (White Anglo Saxon Protestant) venuta meno quando neppure i WASP ci credevano più. Una parte di loro si ritraeva per complesso di colpa: non avere sconfitto e superato definitivamente la discriminazione, il razzismo. Una parte si è ricompattata per proteggere sì, certo, i loro posti di lavoro, ma soprattutto i loro valori e i loro stili di vita. Li hanno sentiti minacciati, dalla affirmative action, dal politically correct, dal femminismo. La guerra “culturale” strisciante ha fatto molte vittime soprattutto fra coloro che si sentivano perdenti e i cui figli capivano che le loro aspirazioni ad una vita migliore di quella dei genitori non sarebbero state soddisfatte

Dall’altra parte, i WASP affluenti, progressisti e multiculturali vedevano, per lo più con compiacimento, le tendenze demografiche e culturali come un grande flusso, compatibile con tutte le interpretazioni sociologiche del passato, non solo come arricchimento complessivo, ma come un fenomeno che avrebbe inevitabilmente giovato alle sorti elettorali dei Democratici. Tensioni e contraddizioni erano tutte temporanee, superabili e risolvibili. Lo evidenziò con acume Alexis de Tocqueville: “quando c’è un problema gli americani si associano”. La virtù massima del pluralismo associativo è che cross-cutting, vale a dire che coinvolge uomini e donne di più classi sociali, e che è overlapping, quegli uomini e quelle donne fanno parte di più associazioni. Gli inevitabili scontri non degenereranno mai. Anzi, associandosi, si produce capitale sociale, nascono reti di relazioni che proteggono da sfide e catastrofi con scambio reciproco di solidarietà ogni volta che è necessario.

Al mai venuto meno razzismo nei confronti dei neri, si è aggiunta una fortissima diffidenza e contrarietà nei confronti dei latinos. Sono loro gli immigrati da bloccare, anche con un lungo muro. Sono loro i clandestini da respingere. Sono loro i portatori di una cultura non integrabile. Sono loro quella minoranza, peraltro cospicua, che, si teme, si spera, stanno cambiando, cambieranno il volto elettorale degli USA.

Gli svantaggiati, coloro che sentono di stare declinando economicamente e socialmente, spesso non hanno neppure le risorse per mettersi insieme, associarsi, produrre e scambiare capitale sociale. Talvolta, addirittura identificano il loro declino con quello del loro paese e mettono il loro orgoglio al servizio del rilancio della grandezza perduta: Make America Great Again. Simile è l’obiettivo dei repubblicani del business e dei privilegi da mantenere. Uno di loro, Donald Trump è l’imprenditore politico di successo. Ha raccolto prepotentemente tutto lo scontento di settori in parte già repubblicani. Ha conquistato e ridefinito il partito repubblicano. Ha incanalato quello scontento in grande consenso elettorale.

Mettere insieme le sparse membra delle diversità e differenziazioni etniche, sociali, culturali, persino di genere, che i Democratici pensavano avrebbero comunque prodotto una maggioranza elettorale “naturale”, continua a essere un compito molto complicato. L’afroamericano Barack Obama vinse in parte perché ci riuscì, ma, in parte forse maggiore, perché i suoi due oppositori-sfidanti, John McCain e Mitt Romney, non avevano nessuna delle qualità indispensabili ad un imprenditore dello scontento.  Anche qualora Kamala Harris sia riuscita a creare la coalizione delle diversità la riduzione dello scontento e il rilancio dell’American dream, in patria e sulla scena mondiale sarà una missione difficilissima. God bless America. 

Pubblicato il 16 novembre 2024 su Domani