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Partiti, movimenti, riforme istituzionali. Diagnosi, in prospettiva comparata, sullo stato di salute della democrazia italiana, delle sue istituzioni e delle forze che ne costituiscono l’ossatura imprescindibile #intervista @Policlic_it

Intervista raccolta da Riccardo Perrone per
“Policlic l’informazione a portata di clic” n 5

Nel pieno di un periodo drammatico, segnato dall’esplosione globale della pandemia di COVID-19, si è svolto in Italia un importante referendum confermativo, inerente alla riforma costituzionale per la riduzione del numero dei parlamentari, che ha sancito la vittoria dei Sì con il 69,6%. Delle conseguenze di questo responso e di molto altro – dall’evoluzione di partiti e movimenti alle riforme istituzionali, con riferimenti all’attualità politica – abbiamo avuto il piacere di parlare con Gianfranco Pasquino, Professore emerito di Scienza politica presso l’Università di Bologna, autore di numerosi e importanti volumi, l’ultimo dei quali – Minima politica. Sei lezioni di democrazia (Utet, 2020) – è da poco nelle librerie

Negli ultimi decenni abbiamo assistito alla nascita e alla proliferazione di una serie di movimenti collettivi, che rappresentano un importante strumento di partecipazione dei cittadini alla vita pubblica: si pensi ad esempio ai movimenti femministi, ambientalisti, o a quelli più recenti quali il movimento “Black Lives Matter” negli Stati Uniti e quello delle “Sardine” in Italia. La nascita e il successo di questi movimenti sono determinati esclusivamente da una spontanea iniziativa di cittadini che si uniscono per perorare una determinata causa, o sono invece dovuti anche all’azione “dall’alto” da parte di qualcuno che dà origine ai movimenti, conferendo loro organizzazione e visibilità?

Ci sono due interpretazioni che considero importanti per analizzare come nascono i movimenti. Da un lato c’è l’interpretazione classica weberiana, secondo cui i movimenti sono in qualche modo il prodotto di insoddisfazioni diffuse, alle quali dà inizio un imprenditore politico, che trasforma questa “effervescenza” – termine utilizzato da Max Weber – in qualcosa di più concreto, in un movimento. Sono persone che si mettono insieme per un qualche scopo. Poi lo scopo può essere preciso, o può essere invece abbastanza vago, e quindi naturalmente può attrarre diverse persone a seconda della chiarezza dello scopo. Questa interpretazione mi pare adeguata. Naturalmente, Weber procede sostenendo che il movimento deve riuscire poi a istituzionalizzarsi, altrimenti o consegue lo scopo e finisce lì, oppure non consegue lo scopo e i suoi componenti si disperdono.

L’altra interpretazione è quella di Alain Touraine, grande sociologo francese, secondo cui in tutte le società vive nascono movimenti. Se una società è viva e vivace, produrrà dei movimenti. Ci sono persone che si incontrano, sulla base di identità, interessi, ideali comuni, e che danno vita a un movimento che può essere più o meno grande. Nel caso di “Black Lives Matter” ci sono alcuni elementi che sono certamente weberiani, nel senso che c’è un’insoddisfazione abbastanza diffusa. È difficile trovare un leader in questo caso, perché l’America è un Paese geograficamente vasto e perché i grandi leader di colore in questo momento non ci sono. Questi sono movimenti che nascono qualche volta all’interno di situazioni specifiche e che vengono rappresentati, per esempio, attraverso la televisione. Non c’è in questo momento un vero e proprio leader del movimento, che è frammentato, cioè si trova in più zone a seconda dei casi, dei contesti, delle sfide.

Con riferimento alla situazione italiana, possiamo osservare come negli ultimi venticinque, trent’anni si sia verificato un sostanziale cambiamento delle caratteristiche e del ruolo dei partiti. Un tempo erano strumenti e organizzatori della vita sociale dei propri iscritti, attualmente invece sono percepiti come “insegne elettorali” o poco più, che contemplano in misura notevolmente minore la partecipazione di iscritti e simpatizzanti alle loro attività. Quali sono a suo parere le cause di questi mutamenti?

I partiti italiani sono declinati in maniera visibile a partire dal 1992-94, ma la loro crisi era iniziata già prima, quando non si erano in nessun modo rinnovati, quando non avevano capito fino in fondo che cosa significasse, non solo per il mondo occidentale, ma soprattutto per l’Italia, la caduta del muro di Berlino. E da allora, soprattutto dopo l’ingresso in politica di Silvio Berlusconi, buona parte dei partiti è entrata in una dimensione di crisi, di difficoltà che non era soltanto organizzativa, ma anche e soprattutto culturale. Oserei dire che è scomparsa la cultura politica di ciascuno di quei partiti, e la maggior parte di essi si è trasformata in partiti personali – cioè sono quello che il leader, popolare nella fase di conquista, è o vuole essere. E oggi ci troviamo di fronte a uno schieramento partitico in cui c’è un unico componente che si chiama partito, il Partito Democratico, mentre tutti gli altri hanno deciso di prendere altri nomi perché l’elettorato non gradisce più i partiti. Questo è il punto fondamentale: nessuno gli ha spiegato a cosa serve un partito, che tipo di compiti svolge, che è indispensabile per la democrazia, perché raggruppa opinioni che si fanno anche politiche pubbliche.

Per di più non c’è più nessuna cultura politica. Adesso vediamo qualcosa che sta maturando, ma è difficile dire che sia già una cultura politica, in particolare sulla destra dello schieramento. Da un lato c’è Salvini, che peraltro ha abbandonato l’idea del federalismo e della indipendenza della Padania, e quindi ha ridotto la sua cultura politica semplicemente ad atteggiamenti anti-europei, anti-migranti – Salvini è contro qualcosa, non è chiaro a favore di cosa sia. Dall’altro c’è un atteggiamento sotterraneo, in Salvini e forse un po’ di più in Giorgia Meloni, che definiamo “sovranismo”; ma che il sovranismo rappresenti una vera e propria cultura politica, è difficile dirlo. Io direi che è improbabile che lo sia in questa fase: deve probabilmente essere meglio declinato, e non vedo nemmeno il teorico del sovranismo.

Vedo anche determinate frange di sovranismo nelle file della sinistra che sta al di fuori del PD. Il PD è coerentemente europeista, e quindi potrebbe vantare quella cultura, se qualcuno la elaborasse. Invece al momento è soltanto un atteggiamento, o meglio una sensibilità. Il PD ha sensibilità europeiste, e questo va benissimo. Che abbia una cultura politica complessiva è difficile dirlo. Quando nacque nel 2007, sostenne che era “il meglio delle culture politiche” e che avrebbe messo insieme ambientalismo, riformismo, cattolicesimo democratico e così via, dimenticandosi ad esempio del socialismo che in questo Paese ha rappresentato una storia di riformisti veri, e non è riuscito a dar vita a una cultura politica. Di volta in volta è “il partito di”: è stato forse il partito di Veltroni, è stato forse un po’ di più il partito di Renzi, fa fatica a diventare il partito di Zingaretti perché quest’ultimo non ha la capacità comunicativa che avevano sia Veltroni sia Renzi.

Questa è la situazione italiana, nella quale i partiti cambiano poco a seconda del tipo di leadership che hanno, ma non riescono in realtà a strutturarsi: sono spesso evanescenti, salgono e scendono dal punto di vista elettorale, vanno al governo o perdono ruoli di governo, ma non lasciano traccia. Siamo in una situazione, come direbbe Bauman, sostanzialmente liquida, e questo naturalmente non è un bene, perché i partiti nascono con la democrazia, e possiamo dire che la democrazia nasce con i partiti, si regge sui partiti; e se i partiti sono deboli, la qualità della democrazia è naturalmente abbastanza bassa.

Per quanto si è appena detto, mi sembra evidente che gli attuali partiti italiani non possano essere definiti “partiti di massa”. Come possiamo definirli, “partiti di quadri”, “partiti pigliatutti”? O invece è necessario teorizzare una nuova categoria ad hoc?

Questi sono partiti personali, che si reggono soprattutto sulle qualità, sulle caratteristiche – perché qualche volta non sono vere e proprie qualità – dei leader, e quindi si spostano a seconda del modo con il quale il leader si sposta, a seconda del successo che ha. E i partiti personali sono inevitabilmente legati alla persona del leader, e quindi possono diventare sufficientemente forti, sempre dal punto di vista elettorale, ma anche perdere consenso in maniera molto rapida. Questa è la situazione di fondo. Non c’è più nessun legame con il passato, con quelle categorie che lei giustamente evocava, perché quelle categorie sono finite. Certamente nessuna delle organizzazioni esistenti oggi in Italia può essere definita di massa. Se c’è un’organizzazione ancora di massa, forse è il sindacato CGIL, e tutte le altre sono organizzazioni al massimo di quadri, peraltro non particolarmente preparati, oserei dire. In qualche caso più che politici direi burocratici; questo è il caso anche della CGIL.

Secondo la fondamentale teoria dei cleavages, elaborata a metà degli anni Sessanta da Rokkan, i partiti politici riflettono “fratture sociali” ben definite. Possiamo considerare tuttora valida questa teoria? Quali sono le divisioni, i conflitti all’interno della società di oggi, che i partiti provvedono a rappresentare e in qualche modo a istituzionalizzare?

Rokkan raccontava una storia europea, che secondo me va bene fino ad un certo punto. Infatti si riferiva all’Europa occidentale: non poteva raccontare quella storia per l’Europa orientale e naturalmente non poteva raccontarla per i Paesi anglosassoni al di fuori del continente europeo – ma in realtà neanche per la Gran Bretagna. Quindi una teoria che era affascinante, ma da parecchi punti di vista limitata geograficamente.

Quello che è successo è che la maggior parte di quei cleavages sono fondamentalmente scomparsi. Oggi non parliamo più, ad esempio, del cleavage città-campagna: semmai il cleavage è nella città, tra i centri cittadini e le periferie; questo possiamo dirlo anche per gli Stati Uniti, ad esempio. Oggi è difficile dire che ci sia un cleavage che riguarda la religione nei Paesi occidentali, perché la religione è diventata molto meno influente dal punto di vista politico. Ci sono ancora partiti che hanno un aggancio alla religione, per esempio i partiti democristiani, che fondamentalmente sono gli ultimi rimasti. Non sono partiti marginali, sia chiaro – si veda su tutti il caso tedesco – però per il resto il cleavage tra i laici e i religiosi in Italia è sostanzialmente inesistente, nonostante i ripetuti richiami alla necessità di un partito cattolico.

Per quanto riguarda i cleavages attuali, a Rokkan contrapporrei Altiero Spinelli, il quale ha sostenuto nel “manifesto di Ventotene” che a un certo punto non ci sarebbe stata più una distinzione classica tra destra e sinistra, ma la vera distinzione sarebbe stata tra i sostenitori di un’Europa politica unificata e federale e coloro che invece sono contrari. Quindi potremmo dire che il cleavage che sta sorgendo, e che potrebbe caratterizzare alcune competizioni politiche, è quello tra i sovranisti, che vogliono mantenere il potere all’interno della propria nazione, e gli europeisti, che sono invece disposti a condividere la sovranità a livello europeo. Questo è quello che mi pare in corso, e mi pare più importante rispetto alla categoria di “populismo”. Marine Le Pen non è una populista, ma è certamente una sovranista.

Anche Orban secondo me è molto meno populista di quel che si dice, ed è invece un sovranista, e così via. Potremmo andare alla ricerca di questo in molti contesti: in Svezia c’è un partito, chiamato “Democratici Svedesi”, che è sicuramente un partito sovranista; in Finlandia, credo si chiamino “Veri Finlandesi”. Credo si possa dire che non ci sono più i cleavages tradizionali, e anche quello economico tra i lavoratori e i proprietari dei mezzi di produzione mi pare molto ridotto nel suo impatto. Oggi dobbiamo preoccuparci più dei finanzieri e dell’accentramento di risorse nelle loro mani.

Quali sono i principali fattori che hanno determinato negli ultimi anni l’ascesa del Movimento 5 Stelle? Quali elementi di novità ha apportato al sistema politico italiano?

In un sistema politico nel quale l’elettorato era già privo di convinzioni molto forti, i 5 Stelle portano un attacco deciso al sistema in quanto tale, alle élites, e da questo punto di vista contenevano ovviamente un corposo grumo di populismo. I 5 Stelle hanno inoltre sfruttato e strumentalizzato l’insoddisfazione nei confronti della politica, che c’è sempre stata in Italia, ma che era ben visibile alla fine degli anni Duemila e agli inizi dello scorso decennio. Naturalmente hanno usato con successo, come abbiamo visto, la loro critica al Parlamento. Tutto questo nasce dalla famosa battuta di Grillo: “Apriremo il Parlamento come una scatola di tonno”, e porta a tutto quello che ne consegue, dal limite dei mandati all’imposizione di un vincolo di mandato. Usavano dunque tutti gli elementi di anti-parlamentarismo, anch’essi molto diffusi nel contesto italiano. Quindi l’insoddisfazione secondo me è il cardine di questo tipo di propaganda, non la proposta di soluzioni, che sono state tutte semplicistiche e, tranne pochi casi, assolutamente inattuabili. Su molti elementi, infatti, i 5 Stelle al governo hanno poi cambiato posizione.

Quest’insoddisfazione è destinata a rimanere. Trovo curiosi i commentatori secondo cui ci sarà una scomparsa del Movimento 5 stelle: non ci sarà una scomparsa, e in realtà non ci sarà neanche una scissione, perché sia Di Maio che Di Battista condividono l’insoddisfazione nei confronti di quelli che i commentatori considerano i due poli, e c’è un’insoddisfazione politica nei confronti del funzionamento del sistema. E allora qui l’elemento paradossale è che Conte – a cui mi riferisco come persona e come capo del governo – riesce a far funzionare il sistema, ma nella misura in cui il sistema funziona, si riduce l’insoddisfazione e quindi si riduce il numero di persone che vanno a votare per il M5S. Il paradosso è che perde voti perché ha successo a livello nazionale, come partito di maggioranza relativa, e ha successo il loro candidato, colui da loro prescelto per guidare il Governo. Però l’insoddisfazione continuerà a rimanere, non più al 33%, che è quello che hanno ottenuto nelle elezioni del marzo 2018, ma intorno al 15-16%, che è quello che i sondaggi danno loro fino a questo momento. Se poi ci fossero altri motivi di crisi, allora forse potrebbe crescere la percentuale di elettori, perché crescerebbe l’insoddisfazione.

Il Movimento, trovatosi alla prova del governo, sta tenendo fede ai propri valori [il termine sia inteso nella sua accezione neutra, NdR] e propositi delle origini?

Non lo so. Non lo so perché faccio fatica a vedere i valori delle origini. Qualcuno dovrebbe riprendersi le 5 Stelle e dirci che cos’erano esattamente, perché non me lo ricordo più. Ma per esempio sull’ambiente – se il Governo finalmente farà un piano ambientale per l’Italia, anche per avere i fondi europei – lì terranno fede alla loro impostazione. Hanno anche tenuto fede a cose che ritengo abbastanza marginali, ad esempio la riduzione del numero dei parlamentari o l’abolizione dei vitalizi – cioè alcune cose che riguardano sì la politica, ma in un certo senso anche la “pancia” dei cittadini italiani. E io non sono mai dell’idea di alimentare la pancia: bisogna alimentare il cervello, qualche volta anche il cuore, la passione, ma non la pancia; è meglio stare a dieta, magri, agili, capaci di cambiare idea, capaci di imparare.

Ciò detto, al governo hanno fatto delle cose che hanno certamente soddisfatto i loro elettori, e altre che non hanno avuto lo stesso effetto. Su alcune cose in realtà si impuntano perché non hanno abbastanza conoscenze: ad esempio sul MES per le spese sanitarie dirette e indirette insistono a dire “No”, e sbagliano sicuramente. Hanno anche cambiato atteggiamento nei confronti dell’Unione Europea, e questo è stato molto positivo. Però non si può dire se abbiano tradito i valori delle origini. Se i valori delle origini consistevano nello scaraventare il sistema nell’abisso, erano valori da non condividere, e soprattutto impossibili da attuare. Per il resto un po’ di cambiamenti li hanno anche introdotti: credo che facciano bene, ad esempio, a rivendicare il reddito di cittadinanza, anche se si poteva tradurre molto meglio in maniera concreta, e probabilmente verrà riveduto. Ci sono alcuni passaggi sui quali possono dire di aver fatto delle cose importanti, altri sui quali possono semplicemente dire: “Questo era impossibile, ce ne siamo resi conto, adesso cambiamo in buona misura quello che avevamo promesso”.

Non molto tempo fa, ho avuto occasione di leggere sul “Corriere della Sera” un interessante editoriale di Paolo Mieli, secondo cui la possibile alleanza strutturale tra Partito Democratico e Movimento 5 Stelle può rappresentare in prospettiva una riedizione del compromesso storico tra Democrazia Cristiana e Partito Comunista Italiano. Nonostante ci siano molte differenze, soprattutto di carattere storico e internazionale, coglie delle analogie tra i due tentativi di avvicinamento?

No, non ne colgo proprio nessuna. Come diceva lei, ci sono delle differenze straordinarie nel quadro internazionale, tra allora e oggi. Non vedo il PD come un vero successore del PCI, è un’altra cosa, molto più disorganizzata. E non credo che i 5 Stelle possano essere definiti come democristiani; sono anzi molto distanti da quel tipo di cultura e da quel tipo di insieme di classe politica che, le ricordo, era comunque una classe politica molto preparata, che arrivava in Parlamento dopo aver fatto un cursus honorum, aver ottenuto cariche, governato a livello locale e così via. No, mi pare un’analogia sbagliata, e soprattutto credo che siamo in un sistema partitico molto diverso. Allora il PCI era tecnicamente un partito anti-sistema che cercava una sua legittimazione attraverso il compromesso storico, mentre il M5S è stato in parte anche anti-sistema, ma non ha bisogno di legittimazione. E quindi siamo in una situazione di una democrazia parlamentare nella quale i partiti fanno alleanze; il M5S ha fatto un’alleanza di un anno con la Lega, dopodiché ha trovato un altro interlocutore e ha fatto un’altra alleanza. Per cui non vedo nulla di organico: in una democrazia parlamentare non ci sono cose organiche, strutturate, che rimangono lì per sempre. Più che al compromesso storico, dovremmo invece guardare per esempio alla Germania, dove i democristiani hanno fatto un’alleanza molto duratura con i liberali, poi questi ultimi si sono alleati con i socialdemocratici, che a loro volta si sono in seguito alleati con i verdi. Quindi le alleanze si fanno in Parlamento, non c’è nulla di organico, tutto è legato a programmi, a persone, a momenti storici, e naturalmente ai voti. Per andare al governo bisogna avere voti e seggi, e questo rende alcuni partiti potenzialmente di governo, mentre altri non ce la faranno mai.

Il recente referendum sulla riduzione del numero dei parlamentari ha decretato la vittoria del Sì. Nella conseguente situazione che si è venuta a creare, quali sarebbero le principali riforme istituzionali da attuare?

È un discorso molto ampio e complesso, che non posso fare in questa sede. Però la premessa è: ci sono alcuni che sostengono che bisogna ritoccare la Costituzione, e altri che sostengono il contrario, perché non c’è una necessità vera in questo senso, e perché i riformatori sono inadeguati e farebbero solo pasticci. Questi ultimi esprimono una posizione alla quale sono sufficientemente vicino. Dopodiché si può fare riferimento a un passaggio che è stato suggerito, cioè accettare la riduzione del numero dei parlamentari in quanto si è in tal modo aperta una breccia nella Costituzione, attraverso la quale passeranno altre riforme. Se qualcuno crede a questo, deve poi naturalmente mettere mano ai guai che ha combinato con la riduzione del numero dei parlamentari. Alcuni dicono che a questi guai si può porre rimedio, ad esempio con la riforma dei regolamenti parlamentari. Mi pare abbastanza ovvio, però non sono convinto che non si potesse fare la riforma dei regolamenti parlamentari anche prima del referendum e della conseguente riduzione dei parlamentari. Se il Senato e la Camera non funzionano bene per colpa dei loro regolamenti, potevano essere riformati a prescindere dalla riduzione del numero dei parlamentari.

Qualcun altro dice che è venuto il momento di intervenire finalmente sul bicameralismo paritario, simmetrico ed indifferenziato; poi sento invece che ci sarà la riduzione dell’età dei votanti che eleggono i senatori, e quindi sostanzialmente l’elettorato sarà lo stesso, e quindi ciò non differenzia un bel niente. Non ho ancora capito se differenzieranno qualche funzione, qualche compito. Ma non vedo la proposta. Sento dire che finalmente la fiducia verrà data da Camera e Senato in una seduta congiunta, per evitare che il Presidente del Consiglio parli prima in un’aula, mandando lo stesso testo nell’altra, con due dibattiti diversi, ma mi pare una “riformetta” da niente. O il bicameralismo lo si prende sul serio, e allora serve per avere una doppia lettura dei disegni di legge, oppure non lo si prende sul serio, e allora si dovrebbe decidere di passare al monocameralismo.

Infine, si apre quella che in latino è detta vexata quaestio, ossia il tema della legge elettorale. La legge elettorale Rosato è pessima, punto. Deve essere riformata a prescindere da qualsiasi altro pasticcio sia successo nel sistema politico italiano. Abbiamo ridotto il numero dei parlamentari, e quindi bisogna modificare la legge elettorale: certo, bisogna cambiare quella legge elettorale, ma qui poi si apre naturalmente il discorso di quali principi, criteri e obiettivi dovrebbero essere alla base di tale riforma, e quello che sento circolare è di nuovo una “riformetta”. Si vuole passare a un sistema elettorale proporzionale che non viene neanche definito bene; qualcuno si esercita nell’utilizzo di termini latini o presunti tali – germanicum, tedeschellum, adesso addirittura brescellum perché il presidente della Commissione Affari costituzionali si chiama Giuseppe Brescia.

In tutto questo c’è il fatto che in realtà i riformatori non vogliono darci una legge elettorale decente, e quindi vanno alla ricerca di questi piccoli meccanismi che favoriranno alcuni e sfavoriranno altri. Ma non sanno bene cosa sia la proporzionale, perché fra l’altro ci sono diverse varianti di sistemi elettorali proporzionali; e ricordo a tutti che quella che abbiamo usato in Italia dalle elezioni del 1946 a quelle del 1992, peraltro modificata con l’introduzione della preferenza unica, non era una brutta legge elettorale proporzionale, anzi era una delle migliori dal punto di vista della rappresentanza. Nessuno prende più in considerazione il maggioritario a doppio turno francese, in collegi uninominali, che invece è un’ottima legge elettorale. E quindi rimango qui contento, perché tutto questo mi consente di criticare, di scrivere articoli, ma come cittadino mi sento esasperato. Datemi una legge elettorale attraverso la quale il mio voto conti qualcosa.

Per quanto riguarda il rapporto tra sistema dei partiti e legge elettorale, ritiene che sia la legge elettorale a dover cambiare ogniqualvolta di registri un mutamento del sistema dei partiti, o viceversa deve essere quest’ultimo a doversi strutturare sulla base di una legge elettorale che resti il più possibile invariata?

Giovanni Sartori diceva che chi conosce un solo sistema politico, non conosce in realtà neppure quello, perché non può dire cosa è eccezionale e cosa è normale, se non è in grado di fare delle comparazioni adeguate. Andiamo allora a vedere quali sono gli altri sistemi politici, quelli di lunga durata, le democrazie che chiamerò ininterrotte. Le democrazie ininterrotte in Europa occidentale usano lo stesso sistema elettorale da quando hanno cominciato a votare: la Svezia, la Norvegia, la Danimarca, usano sistemi elettorali proporzionali da quando hanno cominciato a votare, cioè tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Anche su questo Rokkan ha scritto delle cose memorabili, perché conosceva benissimo la Scandinavia, e conosceva anche la lingua di quei Paesi, dunque era in grado di scoprire molte cose rilevanti per il sistema elettorale e per quello che lui chiamava molto semplicemente “traduzione di voti in seggi”; e poi le varie clausole, dalla D’Hondt alla Hare alla Sainte Laguë e così via, anche qui c’è una varietà notevole.

Ma nella sostanza quei Paesi hanno iniziato a votare con una legge elettorale proporzionale, e continuano ad averla. Qualche volta hanno fatto dei piccoli ritocchi, per esempio alla clausola di esclusione, che in Svezia è del 4%, però non molto di più. La Gran Bretagna ha sempre utilizzato il suo sistema elettorale maggioritario a turno unico, in collegi uninominali. E questo serve naturalmente a dare certezze, sia ai partiti e ai candidati, sia agli elettori. Non richiede lo sforzo di imparare in continuazione come maneggiare un nuovo sistema elettorale che viene dato loro. Dopodiché sappiamo che la proporzionale è sostanzialmente debole dal punto di vista degli effetti che ha; può essere naturalmente rafforzata, non sappiamo però che tipo di impatto abbia sulla struttura dei partiti.

Di impatto notevole è sicuramente il sistema maggioritario inglese a turno unico; impone però l’organizzazione dei partiti? Credo sia sostanzialmente difficile dirlo, ma lo dirò nel seguente modo: i partiti si organizzano sulla base del collegio, è lì che devono essere forti, è lì che devono saper scegliere bene il candidato, è lì che devono saper convincere gli elettori. Diventano quindi dei forti constituency parties. Nel caso inglese i partiti sono relativamente forti perché i constituency parties trovano poi il modo di agganciarsi gli uni agli altri – questo non da adesso naturalmente, ormai è da almeno un secolo che lo fanno.

Nel caso italiano non so cosa succederebbe. Ma se mi si chiede che cosa preferisco, dico che preferisco i partiti organizzati su base locale, perché lì sono in grado di avere un rapporto vero con il loro elettorato. Non riesco a rispondere in maniera molto precisa, perché dovrei analizzare caso per caso. Sappiamo peraltro che i partiti nel resto dell’Europa sono prevalentemente migliori e più forti di quelli italiani: la Francia si è distrutta come sistema partitico, e infatti lì c’è un partito personale, quello di Macron; la Spagna è durata abbastanza a lungo, ma nel frattempo oggi è in una fase di transizione; restando in Europa meridionale, i partiti portoghesi hanno tenuto piuttosto bene, mentre nel caso greco c’è stato un collasso del sistema partitico, ed è ancora evidente il prodotto di quel collasso.

Come spiega il declino o comunque la flessione elettorale che i partiti socialisti hanno conosciuto negli ultimi anni?

Questa è una domanda tremenda. Il problema è molto grave. Non è del tutto corretto parlare di declino. Per fare degli esempi, il partito dei lavoratori svedese continua a essere partito di governo; il partito socialista è al governo in Finlandia, in una coalizione di cinque partiti; il partito laburista norvegese è spesso al governo, così come il partito socialdemocratico danese. Le ricordo che i socialdemocratici tedeschi, pur declinati in maniera considerevole, sono oggi un partito di governo, nella grande coalizione con i democristiani di Angela Merkel. I laburisti stanno probabilmente risorgendo, e oggi potrebbe persino essere che siano competitivi per vincere le elezioni. I socialisti portoghesi sono al governo, ed esprimono il capo del governo. Una parte di socialisti in Francia sono finiti nello schieramento organizzato da Macron, En Marche!. I socialisti in Austria sono un partito potenzialmente di governo.

Quindi i socialisti ci sono ancora. I socialisti e i comunisti sono spariti soltanto in questo Paese, è questo il punto. E la sparizione è stata, come dire, un “omicidio” [ride]. È stato un omicidio causato da coloro che hanno voluto il Partito Democratico. Hanno rinunciato esplicitamente alla tradizione socialista. Qualcuno potrebbe dire che Craxi aveva cooperato molto a far sparire il partito socialista. Però la sostanza è che l’Italia è il Paese che non ha più un partito socialista, di nessun tipo: socialista, laburista, di sinistra, riformista. Non posso contare quelli che un tempo venivano chiamati i “cespugli”, o i “gruppuscoli”, come Potere al Popolo o Rifondazione Comunista. Sono irrilevanti, naturalmente. Anche Sinistra Italiana è fondamentalmente irrilevante. Quindi dovremmo chiederci che cosa è successo qui, e le risposte sono abbastanza chiare. Da un lato i comunisti non si erano rinnovati, e con la caduta del Muro di Berlino si sono trovati in enorme difficoltà. Dall’altra i socialisti hanno subito il contraccolpo del declino del loro leader e del suo trasferimento in Tunisia. Infine, hanno rinunciato deliberatamente al socialismo, coloro che hanno dato vita al Partito Democratico.

La rivoluzione introvabile #Sessantotto

Pubblicato nella rivista I Martedì, n 342

Solo le rivoluzioni (ri)cambiano totalmente le classi dirigenti. Il Sessantotto non fu una rivoluzione né negli USA, dove effettivamente iniziò nel 1964-65, né nel resto del mondo. Se qualcuno dei sessantottini avesse mai intrattenuto qualche propensione rivoluzionaria, malamente nutrita da fragili fondamenta nella conoscenza della storia e dei meccanismi socio-politici del cambiamento, gli sarebbe bastato per ricredersi leggere i durissimi editoriali di quel grande studioso liberale che fu Raymond Aron da lui raccolti in un libro che include un’intervista con il titolo tanto provocatorio quanto appropriato: La révolution introuvable, (Fayard 1968). Credo che si possa aggiungere: et tout à fait improbable. Quella non rivoluzione parigina, secondo il Presidente de Gaulle, quasi una ricreazione giovanile, terminò bruscamente con una delle più abbondanti vittorie elettorali dei gollisti. In Francia non ebbe luogo nessun ricambio della classe dirigente. Né è possibile sostenere che il ricambio sarebbe avvenuto in seguito con la vittoria di François Mitterrand e del Parti Socialiste nel 1981. Infatti, almeno tre quarti di quel gruppo dirigente erano uomini e donne cresciuti in politica prima del 1968. D’altronde, è noto che le classi dirigenti francesi non si formano nelle strade e nelle piazze, ma nelle invidiabili Grandes Ecoles. Con tutta la sua brillantezza esplosiva il Sessantotto francese non fu che una sfida parigina perduta.

Neppure negli Stati Uniti dirigenti e militanti del Sessantotto avrebbero conseguito (forse non ebbero neanche l’intenzione di perseguirlo) un ricambio nelle classi dirigenti. In parte riuscirono ad imporre cambiamenti non del tutto positivi (infatti, i Democratici persero le elezioni presidenziali del 1968 e poi del 1972) nelle modalità di funzionamento del Partito Democratico, ma praticamente nessuno degli uomini e delle donne in politica, nel Congresso, alla Presidenza nei molti anni successivi fu debitore della sua carriera politica a precedenti esperienze sessantottine. In questo sinteticissimo excursus extra-italiano, il posto d’onore spetta al tedesco Joschka Fischer, uno dei fondatori dei Verdi tedeschi, Ministro degli Esteri nel governo SPD-Verdi dal 1998 al 2005, convinto predicatore di un’Europa politica. Tuttavia, neppure la politica tedesca testimonia di un ricambio politico prodotto dal Sessantotto. Infine, neanche la longue durée del Sessantotto italiano, al quale darei come data di conclusione l’esplosione del Movimento del 1977, può attribuirsi il merito di avere prodotto un ricambio delle classi dirigenti, meno che mai di quella politica.

Praticamente tutti i dirigenti politici importanti dei partiti italiani negli anni Ottanta dello scorso secolo erano entrati in politica prima del Sessantotto. Non fu il Movimento, ma le organizzazioni studentesche tradizionali a produrre, almeno in parte, il personale politico di quei partiti e dei Parlamenti eletti. Inoltre, anche se talvolta incapaci di comprendere esigenze peraltro espresse in maniera confusa, talvolta contrari alle modalità di fare politica manifestate dal Movimento (a cominciare da un eccesso di liderismo che, curiosamente, è possibile riscontrare nei partiti personalisti contemporanei) talvolta portatori di un’idea di società e di politica opposta ai Sessantottini, i dirigenti dei partiti italiani furono per lo più in grado di assorbire l’urto, di smussare, di cooptare e, se del caso, di respingere gli eventuali sfidanti. In verità, la maggior parte dei potenziali sfidanti si disperse, entrò nel “riflusso”, scelse altre attività, per lo più nel settore della comunicazione, nel giornalismo, si fece cooptare.

Il fatto è che il Sessantotto è meglio interpretabile e comprensibile come fenomeno in senso lato culturale e generazionale piuttosto che come tentativo di rivoluzionare il sistema politico e la società sostituendo totalmente le classi dirigenti esistenti. La profusione, naturalmente tutta europea, di critiche al capitalismo non deve ingannare. Infatti, nel Sessantotto non esiste nessuna approfondita e incisiva elaborazione economica e/o politica anti-capitalista, intesa ad “abbattere” il capitalismo. Semmai, l’obiettivo è andare oltre il capitalismo grazie a quanto il capitalismo nelle sue versioni USA e renana aveva già fatto, già dato, già progettato. Le varianti “cinesi” del Sessantotto, quelle che giungono persino a celebrare la Grande Rivoluzione Culturale Proletaria Cinese, sono del tutto ininfluenti sul ricambio delle classi dirigenti europee. La Cina era tutt’altro che vicina.

L’elemento centrale del Sessantotto è costituito un po’ dovunque da un profondo mutamento di valori che deriva da una combinazione di fattori demografico-generazionali con scelte culturali. Le nuove generazioni che, da Berkeley alla Columbia, dalla Sorbona alla Freie Universität di Berlino, da Palazzo Campana di Torino alla Statale di Milano, danno vita al Sessantotto sentono soprattutto di godere finalmente della possibilità di perseguire, contro l’autoritarismo dei baroni universitari e dei padroni industriali (in Francia e in Italia anche contro i dirigenti del Partito Comunista, ma sarebbe sbagliato esagerare con la critica al PCI il quale, non avendo nessuna chance di alternanza al governo, non era in grado di favorire/effettuare nessun ricambio di classi dirigenti), la loro auto-realizzazione, non solo un ricambio di persone e di elite, ma anche, in particolar modo, di modalità di espressione e di valori. Laddove i genitori e i nonni, ha sostenuto con dovizia di dati, Ronald Inglehart (The Silent Revolution. Changing Values and Political Styles Among Western Publics, Princeton University Press 1977), in ricerche davvero originali e importanti, avevano dovuto preoccuparsi della stabilità di prezzi e della sicurezza personale, valori materialisti, i loro nipoti e figli, soprattutto le donne, si trovarono in condizione già a partire dall’inizio degli anni Sessanta (ovviamente, con differenze anche sensibili fra paese e paese e classi sociali) di intrattenere come prioritari valori post materialisti: la liberà di parola e l’autorealizzazione.

Il Sessantotto è, al tempo stesso, la manifestazione più significativa della crescita e diffusione dei valori post-materialisti e un punto di non ritorno. Di quei valori, la politica non potrà più disinteressarsi e, quando lo farà, ne pagherà un prezzo. Il riflusso del Sessantotto non sarà mai totale e non soltanto la generazione dei sessantottini, uomini e donne, non abdicheranno ai valori acquisiti e esibiti, ma manterranno nei loro ricordi e nelle loro esperienze quanto appreso nelle occupazioni, nei tornei oratori, nelle manifestazioni, nell’organizzazione di una pluralità di attività. Tuttavia, proprio per l’accento posto inevitabilmente su elementi che attengono alla personalità, la libertà di parola e la realizzazione delle proprie capacità e dei propri mondi vitali, i Sessantottini neppure si posero il problema di costituirsi in nuova classe dirigente. Contenere, ridurre, togliere il potere ai baroni universitari e ai padroni del vapore (industriale) non significava affatto e non implicava il volerli sostituire nei loro posti di comando. D’altronde, una delle rivendicazioni universitarie italiane, quella del voto politico (spesso più che un semplice “diciotto”), colpiva al cuore tutti i procedimenti di reclutamento, di selezione e di promozione delle classi dirigenti. Problematico sostenere che la non-selezione avrebbe posto fine a procedure clientelari e a privilegi familiari-amicali. Sicuro, invece, che il respingimento del criterio del merito o di qualsiasi altro principio per valutare conoscenze, esperienze, prestazioni, rendimento, efficacia rendeva impossibile costruire modalità e percorsi che garantissero il ricambio delle classi dirigenti senz’altro favorendone l’accesso di migliori.

Grazie alla diffusione di valori post-materialisti, che oggi sappiamo essere plausibili purtroppo anche di una regressione, le società post-sessantottine sono diventate ovunque più aperte, più rispettose delle differenze, anche più mobili (aggettivo di gran lungo più preciso e più pregnante del troppo spesso abusato “liquido”), più attente alla parità di genere e alle politiche per conseguirla e attuarla. Tutto questo, però, non si è accompagnato ad un qualsiasi drastico, profondo ricambio delle classi dirigenti. Anzi, il cambiamento delle e nelle classi dirigenti, in special modo in Italia, è stato lento, parziale, fortemente diseguale, a strati e a chiazze, non attribuibile, tranne in maniera molto parziale, a spinte, a progetti, a azioni sessantottine. Solo le rivoluzioni politiche e sociali offrono opportunità di ricambi sostanziali. Il Sessantotto rivoluzione non fu. I ricambi furono limitati, mai sconvolgenti e travolgenti, probabilmente neppure derivanti da richieste consapevoli e esplicite del Movimento, talvolta positivi talvolta no, sostanzialmente non accompagnati da una riflessione critica e da proposte proiettate nel futuro possibile.

Coloro che criticano il Sessantotto per avere distrutto tradizioni, autorità, modi di relazioni e di vita dovrebbero anche interrogarsi se quanto di quel passato è stato mantenuto ed è sopravvissuto, anche a causa delle inadeguatezze dei Sessantottini, sia il meglio. È giusto concluderne che, proprio per la sua intima essenza “post-materialista”, la “potenza distruttiva” del Sessantotto ha aperto strade e percorsi, comunque, difficili e talvolta impervi, per i singoli, in particolare per le giovani donne e le loro sorelle minori, ma non ha operato a sufficienza, in Italia ancor meno che altrove, sul ricambio delle classi dirigenti. Quante delle élites politiche del Movimento Cinque Stelle e della Lega, largamente “nuove”, dei loro genitori e parenti, hanno un qualche aggancio con il Sessantotto?

 

 

 

 

Le democrazie esistono. Hanno problemi. Imparano a risolverli senza violenza #IlRaccontodellaPolitica

IL RACCONTO DELLA POLITICA
Lezione 6

Le democrazie esistono. Hanno problemi. Imparano a risolverli senza violenza

“La democrazia è una promessa. I cittadini, interessati, informati, partecipanti, operano per realizzarla. Cosi facendo migliorano la loro vita e le vite degli altri”

Elogio del referendum. La voce del popolo migliora le democrazie

articolo 1 testata

Pubblicato nella Rivista della Fondazione Nenni, “L’articolo 1”, Anno II, n. 1, 2017, pp. 18-20

Referendum? Torniamo alla fonte delle democrazie che conosciamo. Sto con Abraham Lincoln. Nel 1863, a Gettysburg, in piena guerra civile, il Presidente degli Stati Uniti definì la democrazia come “governo dal popolo, del popolo, per il popolo”. Il governo è democratico se trae la sua legittimazione elettorale dal popolo. Il governo è democratico se opera per il popolo, vale a dire rappresentando gli ideali, attuando le preferenze e soddisfacendo gli interessi del popolo. Infine, il governo è democratico, vale dire del popolo, se il popolo ha altri strumenti, oltre alle periodiche elezioni, per influire sui processi decisionali: l’iniziativa legislativa (proposition è il termine americano), la revoca (recall) dei governanti e i referendum, decisioni sulle leggi. Espellere il referendum dalla batteria degli strumenti democratici sarebbe una grave limitazione della democrazia di qualsiasi paese. Vero è, però, che non solo, ad esempio, negli Stati Uniti d’America non esiste il referendum a livello federale, ma esistono unicamente referendum nei singoli stati. Vero è, altresì, che, in generale, le democrazie parlamentari anglosassoni sono democrazie rappresentative nelle quali il ricorso al referendum, con l’eccezione dell’Australia, è molto raro, in pratica eccezionale.

Dal 1945 ad oggi, la Gran Bretagna ha tenuto tre referendum in tutto: due su ingresso (1975) e uscita (2016) dall’Unione Europea e uno sul cambiamento della legge elettorale (nel 2011, respinto). Da quando esiste, in Italia, il referendum abrogativo è stato usato 67 volte. In 39 casi il quorum è stato superato, in 28 no. Per 23 volte hanno vinto i sì; 16 volte i no. In tutti i referendum tranne uno, che non hanno conseguito il quorum, il sì ha avuto nette maggioranze. Si sono tenuti 3 referendum costituzionali: 2001, vittoria del sì; 2006 e 2016 vittoria del no. Negli Stati-membri dell’Unione europea si sono tenuti, con fortune alterne, ad esempio, in Irlanda e in Danimarca, referendum sull’accettazione di Trattati Europei. Per due volte, con un referendum i norvegesi si sono rifiutati di aderire all’Unione Europea nonostante la posizione favorevole della maggioranza delle loro elites politiche, economiche, culturali.

Quando l’esito, più o meno sorprendente, come quello britannico Leave or Remain (giugno 2016) e come quello italiano sulle riforme costituzionali va contro le aspettative delle elites, allora, invece di criticare l’incapacità delle elites stesse di convincere il popolo, ma preferisco di gran lungo il termine cittadini, con buoni argomenti, il biasimo colpisce proprio quei cittadini. Nel migliore dei casi si sostiene che il quesito loro sottoposto era troppo complesso da capire; nel peggiore, li si accusa di non essersi informati abbastanza, di non avere comunque gli strumenti per capire e per scegliere con reale cognizione di causa, di avere votato con la pancia e non con il cervello. Per evitare presunti guai maggiori, ricomincia a circolare la proposta di fare a meno dei referendum, di eliminare uno degli strumenti della democrazia del popolo. Immagino che, con coerenza, Lincoln osserverebbe che non bisogna buttare il bambino referendum con l’acqua sporca della campagna referendaria svolta, spesso, senza gli appropriati riferimenti alla posta in gioco e alle sue conseguenze per i cittadini, per le loro condizioni di vita, per il funzionamento del sistema politico. Se dell’oggetto del referendum, il cosiddetto merito, le elites partitiche, economiche, culturali, mediatiche non parlano e non approfondiscono preferendo metterla sul “personale”, sulla persona dei proponenti, sulla loro richiesta di appoggio, per un consenso ai limiti del plebiscitarismo, è del tutto legittimo che gli elettori diano una risposta su questo piano, sul quale, comprensibilmente, la pancia conterà più della testa. L’esito del referendum sulle riforme costituzionali è stato l’inevitabile rifiuto, non solo di riforme pasticciate e confuse, forse pericolose, sicuramente peggiorative del funzionamento del sistema politico italiano, ma anche in larga misura dell’arroganza e della protervia dei loro proponenti e sostenitori.

Sì, la massaia e il pensionato ragioneranno anche, ma certo non esclusivamente, con la loro pancia (che brutta espressione populista, diciamo piuttosto con le loro emozioni e, talvolta, con le loro passioni).. Ascoltando quello che dicono i sostenitori dell’approvazione di un qualsiasi quesito e gli oppositori e come lo dicono, spesso in maniera manipolatoria,né la massaia né il pensionato dovranno vergognarsi. Continueranno, però, ad essere criticati poiché hanno votato senza sufficienti conoscenze, in definitiva inquinando un esito che avrebbe dovuto essere valutato (esclusivamente?) da color che sanno. Chi si colloca su questa strada, vale a dire, concedere e riservare il diritto di votare soltanto a coloro che ne saprebbero di più, sta entrando nel girone dei non-democratici. Non si facciano più referendum perché l’esito viene prodotto da elettori che non sanno.

Però, perché consentire a quegli elettori, che non sono in grado di valutare quesiti e conseguenze del referendum, di votare per le elezioni politiche scegliendo fra complicati, spesso oscuri e prolissi, programmi di partito? Anche in questo tipo di elezioni ci saranno milioni di elettori che scelgono sapendo poco o nulla di programmi, di costi e di vantaggi, delle conseguenze del loro voto. Saranno, spesso, in compagnia anche di molti candidati alle cariche di rappresentanza se non addirittura di governo. Qualcuno, sulla stessa linea di ragionamento, sosterrà che, per l’appunto, le cariche di governo debbono essere date esclusivamente a coloro che sanno, per semplicità, ai tecnocrati. Come se i tecnocrati avessero tutti le stesse opinioni, formulassero le stesse soluzioni, offrissero la stessa valutazione delle conseguenze delle loro scelte. Come se i tecnocrati potessero essere efficacemente eletti dai cittadini incompetenti e ignoranti i quali, ovviamente, non sono per definizione in grado di valutarne il tasso di “tecnocraticità” e neppure potrebbero controllarne l’operato, meno che mai attraverso un referendum.

L’errore profondamente e strutturalmente antidemocratico di considerare i cittadini al di sotto del livello di conoscenze necessarie per valutare i quesiti referendari sta nel pensare che ciascun cittadino viva solo e isolato. Che non interagisca con altri. Si formi, quando succede, un’opinione guardando la TV, smanettando sui social, occasionalmente leggendo un quotidiano. La comunicazione politica non è un flusso unidirezionale senza intermediari da una fonte ai singoli cittadini. Massaie e pensionati hanno spesso una famiglia, parenti e amici, interagiscono, più o meno frequentemente, con persone di cui si fidano. Chiedono le informazioni necessarie a esprimere il loro voto a chi ritengono ne sappia più di loro (talvolta, ma, per loro fortuna, non spesso, ai professori/oni) e ottengono quasi sempre quello che desiderano e ritengono sufficiente. La democrazia è un “luogo” dove lo storytelling deve fare i conti con la conversazione fra persone. È pur sempre possibile migliorare la qualità della conversazione; accrescere l’interesse dei cittadini; ampliare l’opinione pubblica informata. Sono compiti ai quali dovrebbe dedicarsi soprattutto la classe politica, più o meno “casta”. Sono compiti che una società civile innervata da associazioni vivaci e robuste può a sua volta, svolgere. Questa è sicuramente una delle componenti migliori dell’etica in politica.

Non è questo il luogo dove criticare le inadeguatezze della classe politica italiana, soprattutto di quella scelta con le nomine dall’alto consentite dalle leggi elettorali utilizzate dal 2006 ad oggi. Neppure dobbiamo insistere sulle fin troppo note peculiarità negative della società italiana: corporativa, familistica, dotata di limitatissimo senso civico, poco incline ad impegnarsi, spesso antiparlamentare e antipolitica. Che si possano risolvere tutti o alcuni di questi problemi restringendo, se non addirittura eliminando la possibilità di ricorrere al referendum è, in tutta evidenza, assurdo. Solo una “casta” indebolita e frastornata può intrattenere simili progetti. La riduzione della democrazia elettorale non garantisce mai migliore qualità della legislazione. Al contrario, può condurre ad un ulteriore distacco dei cittadini dalla politica.

Negando agli elettori la possibilità, poiché non ne saprebbero abbastanza, di bocciare leggi fatte dalle elites politiche e, troppo spesso volute e sostenute dalle elites economiche, si riconosce indirettamente che le elites politiche, votate da quegli stessi elettori ritenuti inadeguati e ignoranti, avrebbero grandi competenze e grandi qualità. È un paradosso dal quale si esce soltanto riconoscendo che la democrazia è anche governo del popolo che si manifesta con il referendum. Che in democrazia tutti possono sbagliare e tutti possono imparare correggendo i loro errori poiché, diversamente dagli autoritarismi di tutti i tipi, di tutti i luoghi, di tutti i tempi, le democrazie hanno la capacità di migliorarsi anche ascoltando la voce del popolo (sovrano), interloquendo con quel popolo, non blandendolo, ma confrontandovisi. Insomma, facendo della buona politica che non è riduzione del potere del popolo, ma vigorosa e rigorosa pedagogia.

No hay nada de malo en la gran coalición #España

ABC

JAIME G. MORA entrevista al politólogo Gianfranco Pasquino

San Lorenzo De El Escorial  02/07/2016

El politólogo italiano asegura que un pacto entre PP y PSOE no es un «pecado» ni un «error

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Gianfranco Pasquino (Turín, 1942) es uno de los pensadores italianos más influyentes de Europa. Es profesor emérito de la Universidad de Bolonia y profesor adjunto de la Universidad John Hopkins. Ha sido presidente de la Società Italiana di Scienza Politica, senador entre 1983-1992 y 1994-1996, y ha sido galardonado con el laurea honoris causa por la Universidad Católica de Córdoba, la Universidad de Buenos Aires y la Universidad de La Plata. Pasquino recibió ayer viernes a ABC después de ofrecer una ponencia sobre la antipolítica en el campus FAES, celebrado en los cursos de verano de San Lorenzo de El Escorial.

¿Cuáles son los rasgos de la antipolítica?

La antipolítica tiene enemigos: los que tienen el poder políticos, las élites, los periodistas, los intelectuales, los bancarios, los masones y los judíos, que son los enemigos tradicionales. Según la antipolítica, todos pueden hacer política y quienes la hacen no son admirables. Tiene una visión en la cual la sociedad es mejor que los políticos, lo que no es verdad. Tiene la ilusión de que se puede hacer mejor sin políticos.

¿Es lo mismo la antipolítica que el populismo?

No, porque el populismo pone el acento sobre la figura de un líder y la antipolítica puede hacerse sin líder. El populismo dice que hay un pueblo limpio, que es capaz de apoyar a un líder. Para la antipolítica el líder es un problema, no la solución.

¿Cómo se ha manifestado este fenómeno en Italia?

En Italia no hay populismo porque siempre hubo partidos políticos bastante organizados. Ha habido antipolítica contra la corrupción y el parlamentarismo. En general, ha sido un fenómeno intelectual, de periodistas, escritores y artistas, no un fenómeno político.

¿Qué relación hay entre Podemos y el Movimiento 5 Estrellas?

Poca, porque 5 Estrellas es una forma de hacer política. No es antipolítica. Es un intento de cambiar el sistema político. Reconocen que la política es necesaria, la importancia de las insiticiones, del poder judicial y del Parlamento.

¿Tiene Podemos más similitudes con el populismo latinoamericano?

En España hay partidos organizados. El problema es que los socialistas están menos organizados que años atrás. En América Latina, con pocas excepciones, son partidos débiles. Solamente Chile tiene partidos organizados, y no tiene populismos. Todos los demás países tienen populismos.

¿Es Podemos populista?

Tienen algunos elementos de populismo, pero no es completamente populista. Es difícil serlo del todo. Requiere un tejido social totalmente desorganizado y España no está en esa situación.

¿Por qué estos postulados calan con tanta facilidad?

Es un elemento coyuntural. Es el producto de la crisis económica, de la incertidumbre, del cambio generacional y de la incapacidad de los partidos tradicionales de predicar valores democráticos. Han aceptado el cambio social sin intervenir en ellos.

¿Esta ola antipolítica desaparecerá con el tiempo?

Aparecerán en la escena otros partidos mejor organizados.

Así que serán nuevos partidos los que frenen a Podemos.

Será un PSOE transformado, un PP capaz de crear coaliciones con Ciudadanos, o con los socialistas. No hay nada de malo en la gran coalición. Los alemanes la tienen. En Austria hay una gran coalición. No es un pecado, no es un error. Puede ser una solución temporal.

¿Cree que España va hacia una «italianización» de la política?

La política italiana es normalmente confusa, así que no es una buena solución. Pero los políticos italianos sí saben negociar.

Italia siempre cae de pie.

Eso es verdad, pero podría estar mejor gobernada. Hay mucha confusión; hay estabilidad en la confusión. España nos parecía estable y clara. Lo que ha pasado se debe a la falta de capacidad de los políticos tradicionales de comprender los cambios sociales.

Carlos de la Torre, que ha participado en el Campus FAES, me dijo que el populismo de derechas es más peligroso que el populismo de izquierdas.

Sí, porque el populismo de derechas gana. El populismo de izquierdas raramente gana. En América Latina, Chávez fue de izquierdas, pero en general el populismo es de derechas. El peronismo, en general, es populismo de derechas.

¿Han surgido estos fenómenos de antipolítica cuando más interés hay hacia la política?

Puede ser, aunque no estoy totalmente convencido. Diría que cuando la política parece ser importante nace también la antipolítica. Cuando la política funciona y no crea problemas, no hay antipolítica. Cuando la política no funciona y todos consideran que puede ser importante, puede nacer la antipolítica. Pero insisto en el elemento generacional: es un cambio de generación en España, también en Italia. Y en el Reino Unido, donde los jóvenes han votado a favor de la Unión Europea, a diferencia de los mayores de 55 años. Estamos en un periodo de cambio generacional que abre espacios a la antipolítica. Porque si los jóvenes no están representados, pueden optar por la antipolítica.