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Dalla Germania ottime notizie. L’Ue unita fa paura a Trump @DomaniGiornale

Troppo semplicistico sostenere che l’Unione Europea si trova fra due fuochi: uno, quello amico, che viene da un leader democraticamente eletto, Trump, che spara a casaccio; l’altro, sicuramente nemico, che viene da un autocrate repressivo e sanguinario, Putin, che ha una strategia di corto respira, ma chiara e pericolosa.  Poi, dentro i singoli Stati-membri dell’Unione Europea covano altri fuochini e fuocherelli, nazionalisti, sovranisti, xenofobi, che mirano ad indebolirla fino a disgregarla, con qualche recupero di sovranità nazionali, magari nella difficile forma di una Confederazione, comunque un passo indietro.

Liste, fronti, partiti che, esibendo obiettivi autoritari che discendono da un passato che non è mai passato, sfidano apertamente, come solo in contesti democratici è lecito e possibile fare, sono stati finora, con qualche eccezione, esclusi dalla partecipazione al governo. Brandmauer, firewall, cordone sanitario, ma non bisogna dimenticare l’italica conventio ad excludendum, sono le parole usate per giustificare il rifiuto che i partiti democratici oppongono a chi le regole e i valori democratici dichiara di volere sfidare e schiacciare. Secondo alcuni commentatori sarebbe un errore non dare spazio agli oppositori, non dei governi, ma della democrazia in quanto tale. Ho un qualche ricordo che l’addomesticamento attraverso l’accesso al governo dei fascisti e dei nazisti non funzionò, produsse disastri. D’altronde, le coalizioni di governo, come dimostrerà anche il prossimo cancelliere tedesco, non sono un banale affare di numeri, ma si formano con riferimento alla vicinanza politica, almeno sui valori, alle esperienze vissute, e alla compatibilità programmatica.

Nell’Unione Europea si entra soltanto se il sistema politico rispetta le regole democratiche e, requisito non disprezzabile, se il sistema giuridico non contiene, non consente e non applica la pena di morte. No, gli USA di Trump non potrebbero diventare il 28ottesimo Stati della UE, ma il Canada sì (e l’Ucraina anche). Certo, un regime duramente autoritario come la Russia e una repubblica presidenziale possono mostrare capacità decisionali, ovvero di prendere decisioni in tempi brevi, superiori a quella di una federazione di Stati, ma, come già emerge nel contesto trumpiano, l’applicazione e l’attuazione di decisioni frettolose, talvolta di dubbia legalità, sono difficili e controverse. Certamente e inevitabilmente più lenta, l’Unione Europea ha comunque finora dimostrato, quando era necessario, di saper ergersi all’altezza della sfida. Se necessario, la pratica democratica, che non ha nulla a che vedere con diktat imperiosi, imperiali, imperialisti, consentirà di aprire trattative con Putin e con Trump.

Molto, adesso, dipende dalla rapidità con cui il democristiano Merz, prossimo cancelliere tedesco riuscirà a rilanciare quell’accordo con la Francia, già cruciale nel passato, per il quale il non ancora troppo debole Presidente Macron è tanto inevitabilmente quanto convintamente disponibile. Con più ampio, più esteso e più approfondito coordinamento in una pluralità di settori, a cominciare dagli armamenti a proseguire con la tecnologia e l’industria, con il sistema di tassazione fino al completamento del mercato unico, per il quale le proposte di Mario Draghi e Enrico Letta hanno risposte decisive, l’Unione Europea ha grandi inesplorate opportunità. Non sarà nessuna autonominatasi pontiera, s’illudono i sostenitori di Giorgia Meloni, con gli USA di Trump e delle sue politiche commerciali, a fare sfruttare al meglio queste opportunità. Sovranismi, anche soft, nazionalismi, xenofobie sono tutti palle al piede di un’Unione che può correre e crescere. Una Unione più veloce è possibile grazie alle sue risorse e allo snellimento delle sue procedure democratiche. Hic Bruxelles hic salta.

Pubblicato il 26 febbraio 2025 su Domani

Oltre la stupidità. Il centrosinistra alla prova finale @DomaniGiornale

Nomina sunt consequentia rerum è una frase che sembra assolutamente fuori luogo se riferita all’espressione “campo largo” di cui Conte ha annunciato ieri l’estinzione. Infatti, senza interrogarci più di tanto su chi, forse Enrico Letta in un momento a metà fra speranza e disperazione, ne sia l’inventore, il nome “campo largo” è venuto molto prima della cosa. Anzi, la cosa, pur ampiamente oggetto di dibattito, di spesso meritati lazzi e sberleffi, proprio non esiste. Insistere nella parola mi pare addirittura masochistico. Vi ho contribuito asserendo la necessità di un campo “elastico”, ma ritengo che sia auspicabile e possibile fare di meglio anche lasciando perdere la stupida giustificazione “gli elettori non ci capiscono”. Invece, numerosi elettori che si auto-collocano fra il centro e la sinistra sentono la necessità di accordi per sconfiggere la coalizione che esprime il governo di destra-centro e, più o meno coerentemente, fa politiche di quel tipo.

Alcuni grandi uomini politici italiani hanno sempre saputo che sia per vincere davvero le elezioni, che non è mai soltanto “arrivare in testa”, sia per governare bisogna trovare alleati, fare coalizioni. Giovanni Giolitti aveva la sua ricetta che usò spregiudicatamente, con successo finché gli fu possibile. Socialisti e popolari si mostrarono molto meno accorti e aprirono la strada ai fascisti. De Gasperi non aveva molto bisogno di alleati, ma deliberatamente volle coinvolgere i partiti centristi minori nella sua opera di governo dando rappresentanza a ceti che la DC non poteva raggiungere. Tenacemente, Palmiro Togliatti perseguì la strategia di alleanze politiche e sociali. A livello locale il tentativo fu più facile e spesso coronato da successo. A livello nazionale, il fattore K (kommunismus) fu, ovviamente, bloccante.

La distinzione dei livelli è cruciale, ma sembra che i dirigenti nell’arco del centro-sinistra non l’abbiano adeguatamente compresa. Le differenze di visione sull’aggressione russa all’Ucraina e sulle politiche dell’Unione Europea, sull’immigrazione e sulla giustizia saranno un problema per fare campagna elettorale nel 2027 (sic), per conquistare elettori attenti e perplessi, probabilmente decisivi, e per governare (sic sic). Non c’è, però, quasi nessuna ragione per farle emergere e contare quando la posta in gioco è la Presidenza delle regioni, a cominciare dalla Liguria e poi Emilia-Romagna e Umbria. Non è in gioco la leadership del/nel centro-sinistra. Non è dal torneo oratorio a chi le spara più grosse, al quale, per fortuna, Elly Schlein finora non ha partecipato, che emergerà la candidatura alla Presidenza del Consiglio. Altrove, nelle democrazie multipartitiche, lo sottolineo qui e lo farò di continuo, la carica più elevata di governo va alla persona designata dal partito che ha avuto più voti. È una delle applicazioni più coerenti del principio democratico di maggioranza.

A livello locale, i veti preventivi reciproci, sulla base di sgarbi politici e personali del passato, sono semplicemente stupidi. Spesso, inevitabilmente, in situazioni competitive, sono anche tristemente controproducenti. Non solo in Italia, le sinistre moderate e “avanzate” offrono esempi di comportamenti suicidi che, di nuovo, una parte di elettori giudica deprecabili e deprimenti. La soluzione, certo più facile a dirsi che a farsi, è stabilire prioritariamente i punti programmatici assumendo l’impegno alla loro attuazione. L’affidabilità dei contraenti, uno dei quali, lo sappiamo, si fa un vanto della sua volubilità, potrebbe non essere un problema se vi fosse anche l’impegno a lasciare piena autonomia di azione, implementazione e valutazione ai dirigenti e agli eletti locali. Altrove, quello che ho scritto non è (quasi) mai un catalogo di pii desideri. È ora di imparare e praticare.

Pubblicato il 2 ottobre 2024 su Domani

Fuori campo: catalogo breve per chi sta tra il centro e la sinistra @DomaniGiornale

Nomina sunt consequentia rerum è una frase che sembra assolutamente fuori luogo se riferita all’espressione “campo largo”. Infatti, senza interrogarci più di tanto su chi, forse Enrico Letta in un momento a metà fra speranza e disperazione, ne sia l’inventore, il nome “campo largo” è venuto molto prima della cosa. Anzi, la cosa, pur ampiamente oggetto di dibattito, di spesso meritati lazzi e sberleffi, proprio non esiste. Insistere nella parola mi pare addirittura masochistico. Vi ho contribuito asserendo la necessità di un campo “elastico”, ma ritengo che sia auspicabile e possibile fare di meglio anche lasciando perdere la stupida giustificazione “gli elettori non ci capiscono”. Invece, numerosi elettori che si auto-collocano fra il centro e la sinistra sentono la necessità di accordi per sconfiggere la coalizione che esprime il governo di destra-centro e, più o meno coerentemente, fa politiche di quel tipo.

Alcuni grandi uomini politici italiani hanno sempre saputo che sia per vincere davvero le elezioni, che non è mai soltanto “arrivare in testa”, sia per governare bisogna trovare alleati, fare coalizioni. Giovanni Giolitti aveva la sua ricetta che usò spregiudicatamente, con successo finché gli fu possibile. Socialisti e popolari si mostrarono molto meno accorti e aprirono la strada ai fascisti. De Gasperi non aveva molto bisogno di alleati, ma deliberatamente volle coinvolgere i partiti centristi minori nella sua opera di governo dando rappresentanza a ceti che la DC non poteva raggiungere. Tenacemente, Palmiro Togliatti perseguì la strategia di alleanze politiche e sociali. A livello locale il tentativo fu più facile e spesso coronato da successo. A livello nazionale, il fattore K (kommunismus) fu, ovviamente, bloccante.

La distinzione dei livelli è cruciale, ma sembra che i dirigenti nell’arco del centro-sinistra non l’abbiano adeguatamente compresa. Le differenze di visione sull’aggressione russa all’Ucraina e sulle politiche dell’Unione Europea, sull’immigrazione e sulla giustizia saranno un problema per fare campagna elettorale nel 2027 (sic), per conquistare elettori attenti e perplessi, probabilmente decisivi, e per governare (sic sic). Non c’è, però, quasi nessuna ragione per farle emergere e contare quando la posta in gioco è la Presidenza delle regioni, a cominciare dalla Liguria e poi Emilia-Romagna e Umbria. Non è in gioco la leadership del/nel centro-sinistra. Non è dal torneo oratorio a chi le spara più grosse, al quale, per fortuna, Elly Schlein finora non ha partecipato, che emergerà la candidatura alla Presidenza del Consiglio. Altrove, nelle democrazie multipartitiche, lo sottolineo qui e lo farò di continuo, la carica più elevata di governo va alla persona designata dal partito che ha avuto più voti. È una delle applicazioni più coerenti del principio democratico di maggioranza.

A livello locale, i veti preventivi reciproci, sulla base di sgarbi politici e personali del passato, sono semplicemente stupidi. Spesso, inevitabilmente, in situazioni competitive, sono anche tristemente controproducenti. Non solo in Italia, le sinistre moderate e “avanzate” offrono esempi di comportamenti suicidi che, di nuovo, una parte di elettori giudica deprecabili e deprimenti. La soluzione, certo più facile a dirsi che a farsi, è stabilire prioritariamente i punti programmatici assumendo l’impegno alla loro attuazione. L’affidabilità dei contraenti, uno dei quali, lo sappiamo, si fa un vanto della sua volubilità, potrebbe non essere un problema se vi fosse anche l’impegno a lasciare piena autonomia di azione, implementazione e valutazione ai dirigenti e agli eletti locali. Altrove, quello che ho scritto non è (quasi) mai un catalogo di pii desideri. È ora di imparare e praticare.

Pubblicato il 2 ottobre 2024 su Domani

Europeismo o sovranismo? Il prof. Pasquino spiega perché Fitto è tra due fuochi @formichenews

La nomina di Raffaele Fitto vicepresidente non è una faccenda di italianità e neppure di bontà/generosità. Attiene alla visione d’Europa che la Commissione e il Parlamento esprimeranno e cercheranno di attuare seguendo, mi auguro, in massimo grado le indicazioni di due europeisti italiani: Letta, Enrico e Draghi, Mario. Il commento di Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza politica

Back to basics. Nell’Unione Europea la regola fondamentale per la formazione della Commissione è chiara. I governi nominano il/la loro Commissario/a, magari dopo avere scambiato qualche, più di una, idea con la Presidente della Commissione. La delega primaria, specifica, il cosiddetto portfolio, di quel Commissario dipende, in buona parte dalle sue competenze e attività pregresse, ma, in una (in)certa misura dalle necessità operative della Commissione, cioè quali compiti debbono essere svolti, quali rimarrebbero altrimenti scoperti. Con buona pace degli italiani, questa distribuzione non ha nulla a che vedere con il pure glorioso Manuale Cencelli.

Una volta nominato e “attrezzato”, ciascuno dei Commissari affronterà lunghe ed esaurienti udienze con le commissioni parlamentari di merito che, uso l’efficacissimo termine inglese, lo metteranno sulla griglia. Lì viene misurata la sua competenza, valutati i suoi propositi, meglio che ne abbia di precisi e praticabili, soppesato il suo tasso di europeismo. In quell’occasione non saranno pochi i parlamentari europei a ricordare ai commissari in pectore che chi entra a fare parte della Commissione deve dimenticare la sua provenienza nazionale e porre gli interessi e gli obiettivi europei molto al di sopra, meglio se del tutto, agli obiettivi, interessi, preferenze del suo Paese e del governo che l’ha nominato. Sappiamo dalle memorie scritte da molti commissari che si sono effettivamente impegnati in questo senso e, ex post facto, ne sono molto lieti e orgogliosi.

Sono sicuro che letizia e orgoglio sono i sentimenti che esprimerà anche l’uscente ottimo commissario Paolo Gentiloni. Fin d’ora mi auguro che al termine del suo mandato anche Raffaele Fitto vorrà e potrà raccontare con grande soddisfazione una storia simile. Sì, salvo errori e malaffari dei suoi sponsor italiani, Fitto farà certamente parte della prossima imminente Commissione europea. Questo suo ruolo non è minimamente in discussione. Quello che liberali, verdi e socialisti del Parlamento europeo mettono in discussione e respingono è l’opportunità di affidare una vicepresidenza di peso a chi è stato nominato da un governo sovranista che andrebbe a scapito della coesione e dell’efficacia della Commissione e sarebbe imbarazzante per lo stesso Fitto schiacciato tra i due fuochi di un europeismo che avanza e un sovranismo che gira all’incontrario le lancette dell’orologio, lo dico con tutta l’enfasi retorica di cui sono capace, della storia.

Male fanno e molto sbagliano coloro che, contro lo spirito dell’europeismo, chiedono al Partito Democratico di schierarsi seguendo improponibili appartenenze nazionali a favore di Fitto vicepresidente “pesante”. Non è una faccenda di italianità e neppure di bontà/generosità. Attiene alla visione d’Europa che la Commissione e il Parlamento esprimeranno e cercheranno di attuare seguendo, mi auguro, in massimo grado le indicazioni di due europeisti italiani: Letta, Enrico e Draghi, Mario.

Dal canto suo, Fitto avrà modo di esprimere il suo parare nelle audizioni. Finora, però, fanno testo le opinioni espresse da Giorgia Meloni e soprattutto il suo voto contrario a von der Leyen. Il resto si vedrà poiché rimangono molti i modi di essere influenti anche fuori da una non meritata vicepresidenza di peso e di prestigio.

Pubblicato il 12 settembre 2024 su Formiche.net

Fuori di testa
Errori e orrori di politici e comunicatori
Paesi Edizioni

Draghi, Letta e una lezione di europeismo alla Spinelli @DomaniGiornale

Forse è più che una felice coincidenza che gli autori dei due rapporti che aprono il quinquennio del nuovo Parlamento europeo, sul Mercato Unico e sul Futuro della competitività europea, siano stati scritti da due italiani, rispettivamente, Enrico Letta e Mario Draghi. Oltre alle personali prestigiose carriere professionali, Letta e Draghi sono anche stati Presidenti del Consiglio avendo, dunque, accesso alle più alte sedi decisionali dell’Unione Europea. Certamente non è un caso che i loro rapporti convergano sul punto più rilevante per il presente e, in special modo, per il futuro: maggiore coordinamento maggiore condivisione. I problemi dell’Unione Europea si debbono affrontare e si possono risolvere con “una unione più stretta” (uso parole che vengono da Altiero Spinelli che è all’origine di questa Europa).

Indicando il futuro possibile, ma difficile, entrambi i Rapporti suggeriscono, ovviamente, con le differenze che derivano dai compiti a cui dovevano rispondere, che tocca alla politica e alle istituzioni europee prendere le decisioni opportune. Poiché si tratta di decisioni di enorme importanza è ai vertici dell’Unione che bisogna rivolgere lo sguardo e chiedere se, come, quanto siano consapevoli, adeguati e disponibili. Finora la dicotomia europeisti/sovranisti, anche se schematica, è stata sufficientemente chiara per rendere conto della diversità delle posizioni, delle aspettative, dei comportamenti.  Naturalmente, era anche possibile scorgere alcune, non marginali, contraddizioni in entrambi i campi. Più facile coglierle fra i sovranisti, in particolare fra coloro che vogliono strappare, chiedo scusa, riappropriarsi di alcune competenze per le quali, poi, non dispongono degli strumenti per esercitarle. La sfida dei sovranisti agli europeisti finora ha fatto leva su sentimenti e risentimenti, sulla reviviscenza di identità nazionali, su qualche egoismo particolaristico. Con eleganza il Rapporto Draghi non sfiora neppure uno di questi elementi. L’analisi, la sfida, le soluzioni sono tutte improntate all’europeismo e dirette agli europeisti.

Per sentirsi dalla parte giusta per troppo tempo a troppi europeisti, anche a quelli italiani, sembrava sufficiente segnalare con un’alzata di spalle e con qualche critica la loro distanza dai sovranisti. Forse c’è anche molto di questo compiacimento alla base della perdita di competitività dell’Unione e della carenza di innovazione. Personalmente anch’io ho condiviso l’idea che, comunque, l’Unione procedeva e che le sue istituzioni democratiche avevano bisogno di poche sollecitazioni. Erano/sono comunque in grado, proprio perché democratiche, quindi, aperte, intelligenti, reattive, capaci di imparare, di innovare.

Letta, da una parte, ancor di più Draghi, dall’altra, affermano chiaro e forte che le istituzioni dell’Unione Europea debbono essere trasformate, essere rese più coese, più flessibili, più incisive, rapidamente. Il “cattivo” non è esclusivamente il voto all’unanimità, comunque da abolire. Sono tutte le procedure opache e strascicate che proteggono interessi nazionali spesso obsoleti, che debbono essere rivisitate e riformate. Il sovranismo è la ricetta di un ritorno al passato che non potrebbe comunque essere fatto rivivere e che porterebbe costosi conflitti fra Stati costretti a rivendicare i loro esclusivi interessi proprio sulle tematiche più importanti. Invece, fin d’ora è auspicabile e possibile costruire un’Unione Europea a più velocità. Se i “velocizzatori” hanno successo, questa è la scommessa, saranno molti, Stati-membri e associazioni intermedie, quelli che vorranno rincorrerli. E l’Unione Europea (ri)prenderà slancio.

Pubblicato il 11 settembre 2024 su Domani

La vera sfida è fra chi vuole più Europa e chi meno @DomaniGiornale

Più Europa vuole significare molte cose diverse, tutte utili, alcune urgenti e importanti, giustamente impegnative. Può anche essere un modo per presentare una lista e per fare campagna elettorale. Le elezioni europee non dovrebbero essere ridotte ad un duello televisivo del quale, francamente, chi crede che la politica, in particolare quella italiana, non abbia bisogno di personalismi, può profittevolmente fare a meno. Semmai, l’alternativa il 9 e 10 giugno è con maggiore nettezza rispetto a tutte le elezioni precedenti, proprio fra chi vuole più Europa, sì, anche decisamente nel senso federale, e chi vuole fare retrocedere l’Europa, esplicitamente i sovranisti di destra e, furbescamente, anche non pochi sovranisti che si autocollocano a sinistra. Le argomentazioni dei sovranisti sono meno Europa affinché le nazioni non perdano le loro identità e i loro, aggiunta mia, egoismi nazionalisti che non sono mai forieri di pace e neanche di prosperità poiché implicano conflitti/guerre commerciali, tariffarie et al.

Più Europa è quanto, seppure con remore e inadeguatezze, con retropensieri e timori, l’attuale maggioranza nel Parlamento europeo ha perseguito e spesso conseguito. Dovrebbero gli esponenti e i partiti di quella maggioranza rivendicare quanto fatto nel, da molti punti di vista, drammatico quinquennio 2019-2024. Sottolineare quello che è mancato risulta produttivo se non è soltanto pur benemerita assunzione di responsabilità, ma è proposta di come e su quali ambiti e terreni andare avanti. Certo, chi crede nella necessità di una difesa comune non dovrebbe candidare uomini e donne che Giovanni Sartori definiva “ciecopacisti”, ma chi a quella difesa crede e sa contribuire. La difesa comune è tematica che non deve affatto togliere attenzione e spazio ai problemi economici, alla competitività, ma anche alla sanità e alla tassazione e a tutto quello, ovvero molto di quanto argomentato nelle ricognizioni effettuate da due ex-capi di governo italiani: Enrico Letta e Mario Draghi, e relative proposte. Riconoscimento molto gratificante alle capacità e alle storie personali e professionali di due italiani che a più Europa credono e per più Europa hanno coerentemente lavorato.

Più Europa significa anche non solo prendere atto che un certo numero di paesi geograficamente europei desiderano fortemente entrare nell’Unione Europea attualmente esistente che ritengono di enorme aiuto alla loro democrazia e ai loro sistemi economici e sociali. Significa anche che la consapevolezza che la missione intrapresa dai fondatori di questa Europa, citerò Altiero Spinelli e Jean Monnet, insieme a Robert Schumann, Konrad Adenauer, Alcide De Gasperi e Paul-Henri Spaak, mirava all’unificazione politica dell’intero continente. Decenni dopo il Presidente francese François Mitterrand disse che la “sua” Europa andava dall’Atlantico agli Urali. Più Europa significa anche accogliere questa sfida.

Infine, la mia interpretazione di più Europa non si limita a, userò tre verbi suggestivi del linguaggio europeista di qualche tempo fa, ma a mio parere tuttora validi e pregnanti per indicare un percorso europeo: allargare, approfondire, accelerare nel difficile equilibrio che implicano. Significa anche che ciascuno Stato-membro dovrebbe diventare più europeo al suo interno. Meno spendaccione e un po’ frugale, ma c’è molto di più, ad esempio, combattere e ridurre la corruzione, grande male infettivo, e migliorare la qualità della sua democrazia anche guardando alle istituzioni e ai sistemi di partiti che funzionano meglio. In materia il provincialismo italiano nel dibattito sul premierato ha raggiunto livelli insopportabili, comunque derivanti da conoscenze comparate insufficienti, per l’appunto da meno Europa, malamente e colpevolmente meno europee.

Pubblicato il 15 maggio 2024 su Domani

Pace: il racconto di due piazze

Due piazze: Roma e Milano, due concezioni di pace alquanto diverse. Nella piazza di Roma, più frequentata anche perché più accessibile geograficamente, il significato di pace era la cessazione del conflitto senza nessuna considerazione per la responsabilità della Russia di Putin e delle sue conseguenze: equidistanza. Nella piazza di Milano c’era più consapevolezza che, pacifisti o no, il compito prevalente e l’impegno di tutti dovrebbero tradursi nel riconoscimento dell’integrità territoriale dell’Ucraina e del suo diritto a difendersi dall’aggressione russa. Nella piazza di Roma, Conte, che si è espresso contro l’invio di armi all’Ucraina, è stato variamente applaudito. Il segretario del Partito Democratico Letta, favorevole a sostenere gli ucraini senza riserve, è stato variamente contestato. Nella piazza di Milano era visibile la presenza di Azione di Calenda e Renzi chiaramente schierati a sostegno degli ucraini e di Zelensky. Curiosamente, però, da entrambe le piazze erano state bandite le bandiere di partito come se agli elettori, agli italiani non si debba/possa fare sapere chiaramente che cosa pensano i partiti da loro votati.

Nelle piazze si esprimono prevalentemente, deliberatamente e consapevolmente le proprie emozioni. Infatti, soprattutto a Roma grande è stata l’esibizione di sentimenti da parte degli oratori e dei manifestanti. Dalle piazze non è né possibile né logico attendersi raffinate analisi strategiche e geopolitiche. Tuttavia, dopo molti mesi di guerra sulla quale non sono affatto mancate le informazioni di ogni tipo, ritengo che sia lecito condividere alcuni punti che non possono giustificare in nessun modo la tanto vantata equidistanza. Che la Russia abbia aggredito l’Ucraina non può essere messo in dubbio. Che l’Ucraina abbia diritto a difendersi dovrebbe essere condiviso da tutti. Che i negoziati potrebbero iniziare un minuto dopo la cessazione delle azioni belliche russe pare innegabile. Stupisce che pochi mettano in evidenza che l’Ucraina è una democrazia, per quanto, come molte democrazie, imperfetta, e che la Russia è un regime autoritario e palesemente oppressivo e repressivo.

   Coloro che sostengono l’esistenza di responsabilità dell’espansionismo della Nato e degli stessi ucraini dovrebbero interrogarsi, come fanno i polacchi e gli estoni, come hanno fatto i finlandesi e gli svedesi accedendo alla Nato, sulle conseguenze per l’Europa di un’eventuale vittoria russa. Porre la pace, intesa come cessazione del conflitto, al disopra di qualsiasi altra considerazione significa, l’avrebbe sicuramente detto il grande sociologo tedesco Max Weber, rinunciare all’etica della responsabilità anteponendo le emozioni all’uso della ragione. Passato il momento delle emozioni, preso atto di desideri non del tutto coincidenti e non egualmente accettabili, è augurabile che i dirigenti politici si adoperino con l’Unione Europea per una pace che ristabilisca e soprattutto rispetti i diritti degli ucraini aggrediti. Una pace giusta.

Pubblicato AGL il 7 novembre2022

Chi si candida deve dirci le idee dei prossimi 10 anni #congressopd #intervista @corrierebologna

Intervista raccolta da Micaela Romagnoli

Professor Pasquino, come lo vede il Pd in questo momento, verso il congresso?

«È un partito che si è accomodato al 20%, poi di tanto in tanto si tortura, dicendo di aver sbagliato per aver perso la rappresentanza di questi o di non riuscire più a parlare con quelli. Ma sono lacrime di coccodrillo; non fanno nulla per rimediare a una situazione che per me è insoddisfacente».

Che fare allora?

«Il partito è stato costruito male. Noi (Mauro Zani ed io), nel 2007, dicemmo che non bisognava farlo così, che si poteva giungere a un accordo tra ex-democristiani, ex-comunisti e altri. Ma che andava fatto lentamente, collaborando nelle zone locali, creando soprattutto un pensiero nuovo. Mancò la cultura politica. Possiamo raccontarci tutto quello che vogliamo sui leader, ma nessuno sarà mai adeguato se non è in grado di produrre e diffondere una nuova cultura politica».

Cosa significa?

«Che del Movimento 5 Stelle non ci interessa nulla, di Calenda e di Renzi non ci interessa nulla, che bisogna guardare a come si costruisce un partito progressista, socialdemocratico. C’è spazio in Europa per un partito socialdemocratico e laburista, bisogna pensare a come costruirlo in Italia. Questa operazione, invece, non è nemmeno ancora cominciata».

Dalle sue parole emerge un certo pessimismo.

«Sì. Vedo persone che si candidano, però io voglio sapere cosa vorrebbero fare, che cosa pensano di un partito socialdemocratico, socialista, progressista, laburista. E che idea abbiano della giustizia sociale, il rapporto tra merito ed eguaglianza, cosa debba essere la democrazia nei prossimi 10 anni in Italia, se toccare o meno la Costituzione».

Che risposte dovrebbero arrivare?

«Siamo un partito che è fermamente democratico, ma che sa che la democrazia di tanto in tanto deve essere riformata. Pensiamo che una società giusta sia quella in cui tutti i cittadini hanno opportunità e quindi vogliamo intervenire a ogni livello della vita: dai bambini, con scuole efficienti, consentendo a chi è bravo di andare avanti, evitare che i cervelli se ne vadano all’estero. Il Pd del prossimo futuro è un partito di opportunità, che si possono sfruttare al meglio attraverso lo Stato, con l’utilizzo di una burocrazia efficiente. Ci sono situazioni che richiedono interventi di riduzione delle disuguaglianze, ma non vogliamo una società di eguali, bensì di persone che vengano valutate anche sulla base del loro merito, che deve essere ricompensato. Quindi bisogna chiamare in causa i sindacati».

Perché?

«Un partito di questo genere deve sfidare i sindacati, che fra l’altro non si prendono nemmeno la responsabilità del fatto che un sacco di loro iscritti votino per la Lega e probabilmente per Fratelli d’Italia. Vorrei sentire parole di autocritica, perché sono loro che hanno perso i voti, non tanto il partito, ma loro».

Alcuni sostengono che il partito debba tornare a sinistra… lei?

«Non c’è mai stato. Non vuole dire niente tornare a sinistra. Ci si valuta sulle politiche che si fanno, non sulla collocazione geografica».

E sul tema dell’unità?

«Il partito non deve essere di correnti. Deve essere plurale, può accogliere tante posizioni, purché si sappia che una volta presa una decisione a quella si collabora o quanto meno non la si ostacola».

Un lavoro difficile.

«Certamente. Dopo di che rimarrà al 20%, inchiodato lì. E alcuni saranno anche soddisfatti; entrano in Parlamento, ci stanno una o due legislature, magari tornano sul territorio e si fanno un’attività di consulenza. Il Pd, soprattutto quello di Bologna e quello dell’Emilia-Romagna, è un datore di lavoro straordinariamente generoso».

Le primarie per il segretario? Sì o no?

«Intanto, l’elezione del segretario di un partito non è una primaria. Quando Letta dice: “solo 2 candidati” sbaglia, debbono essercene molti di più. Alcuni di noi pensano che il segretario di un partito debba essere eletto solo dagli iscritti».

Chi vedrebbe alla leadership? Bonaccini?

«Ripeto. Nessuno mi ha detto che partito vuole costruire, magari guardando come sono costruiti i partiti di sinistra in Europa. Non so che idea abbia, ma se è l’idea di partito che aveva Renzi credo che sia inadeguata».

Nostalgia del partito che fu?

«Certo, perché nel Pci, a cui io non fui mai iscritto ma i cui elettori mi votarono in Parlamento, c’era un dibattito serio, argomentato; c’era gente che leggeva libri e articoli, si faceva una sua opinione. Qua al massimo leggono qualche tweet e si presentano in qualche talk show televisivo».

Pubblicato il 7 ottobre 2022 su Il Corriere di Bologna

Pasquino: “Giorgia Meloni ha vinto alla grande. Pd? La sconfitta è dei dirigenti e non di Letta” #intervista @com_notizie

Intervista raccolta da Francesco Spagnolo. Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza Politica, in esclusiva a ‘Notizie.com’: “La storia del Pd è molto triste”.

Professor Pasquino, si aspettava una vittoria così netta di Fratelli d’Italia?

Non mi aspettavo un successo così schiacciante della Meloni, ma una vittoria sì. Ha vinto alla grande e peraltro portando via voti a Salvini e a Berlusconi. Il Centrodestra grossomodo è dove lo davano le previsioni con Fratelli d’Italia più avanti perché ha strappato voti agli altri due partiti“.

Lei ha parlato di voti strappati a Salvini e Berlusconi. Questo potrebbe portare tensioni all’interno della coalizione?

Qualche tensione ci sarà inevitabilmente perché Salvini è irrequieto, molto nervoso e invidioso e rimane con la sua ambizione. Sente che la sua carriera politica è in difficoltà e cercherà di appropriarsi di qualche tematica, essere molto presente mediaticamente. Ma penso che Giorgia Meloni abbia abbastanza larghe per controbattere, ma qualche tensione me l’aspetto. Berlusconi è in declino totale, la sua classe dirigente si sta liquefacendo e quindi non è un grosso problema“.

Possiamo parlate di Salvini e Letta come grandi sconfitti?

Salvini sicuramente sì, secondo me Letta non è un grande sconfitto. Ha perso perché pensava di arrivare sopra il 20%, ma lo ha fatto in maniera elegante. E’ un uomo competente, che conosce la politica e non ha mai esagerato. La sconfitta non è sua ma del Pd perché i dirigenti non fanno quello che dovrebbero fare. Dopodiché Letta ha preso atto della sconfitta ed ha detto che si dimette però continua una brutta storia che si chiama Partito Democratico, che non riesce a radicarsi, trovare delle tematiche, non riesce a darsi una unità e una visione“.

Chi potrebbe essere il nome giusto per rilanciare il Pd?

Non c’è nessun nome giusto. Credo che ci sono molti uomini ambiziosi, ma presumo che faranno un tentativo di trovare una donna. Sembra che questa sembra Elly Schlein sia chissà che cosa, ma io penso di no. Dovrebbero fare delle primarie vere e non contrattate in anticipo. La storia del Partito Democratico è molto triste“.

Il M5s ha avuto una crescita importante al Sud. Un risultato inaspettato alla vigilia per i pentastellati.

Il fatto del reddito di cittadinanza è molto importante al Sud e quindi hanno cercato di difenderlo sostenendo Conte, ma questo non basta. Un partito che arriva al 17% può essere contento, ma ricordo che quattro anni fa era al 33% e quindi ha perso il 16% dei suoi elettori. Possono festeggiare di non essere andati malissimo, ma non possono dire di aver ottenuto un grande risultato“.

Delusione invece per il Terzo Polo e Di Maio.

Di Maio evidentemente non si è radicato, ma nella zona di Napoli aveva dei concorrenti molto agguerriti iniziando dal fatto che il presidente della Camera non lo sosteneva. Il Terzo Polo non è mai esistito. Era una riunione degli ego di Calenda e Renzi visto che il vero Terzo Polo sono i pentastellati. Hanno anche utilizzato una caratterizzazione sbagliata e illusoria per cercare di catturare gli elettori“.

Pubblicato il 26 settembre 2022 su Notizie.com

Verso il 25 settembre, il voto più utile è degli indecisi @formichenews

Il voto davvero utile, meglio più utile, ovvero più incisivo, sarà quello degli indecisi e dei potenziali astensionisti. Occhio, dunque, a quale coniglio/a uscirà da quale cappello nelle quarantotto ore prima del voto. Il commento di Gianfranco Pasquino, accademico dei Lincei e Professore Emerito di Scienza politica e autore di “Tra scienza e politica. Una autobiografia” (Utet 2022)

Raramente ho assistito a una campagna elettorale tanto prodiga di informazioni sui leader, sui partiti, sulle tematiche. Sono giunto alla conclusione che se la campagna viene definita “brutta” è come la bellezza: sta negli occhi di chi, commentatori di poco senno e fantasia, la guarda (o forse no: guardano solo i concorrenti, per “copiarli”). Sappiamo che Giorgia Meloni, una volta richiamato Draghi, è la front runner. Sta conducendo una campagna elettorale il cui punto d’arrivo potrebbe essere Palazzo Chigi. Atlantista per sua definizione, si è convincentemente collocata dalla parte dell’Ucraina, ma si è trovata appesantita da un passato che non passa, e che qualche saluto fascista riporta all’ordine del giorno, e dalla sua appartenenza di genere che non sa né respingere né valorizzare. La zavorra più pesante e per lei (ma anche per gli italiani tutti) è il suo incomprimibile, indeclinabile sovranismo che si accompagna a deplorevoli compagni (oops, chiedo scusa) di strada: da Orbán a Vox. Se nell’elettorato italiano è passato il messaggio che, forse troppo poco troppo tardi, il Partito Democratico di Letta ha cercato di mandare: “tutto con l’Europa niente fuori d’Europa”, allora il consenso presunto per i Fratelli d’Italia potrebbe risultare ridimensionato. Chi con qualche strambato di cui non era ritenuto capace ha risollevato il suo consenso che sembrava in caduta libera è Giuseppe Conte.

   Ambiguo la sua parte sia sull’Unione Europea sia su come affrontare l’aggressione russa all’Ucraina, Conte può ringraziare gli attacchi mal posti e male argomentati al reddito di cittadinanza, l’unica riforma davvero innovativa che il Movimento 5 Stelle di governo possa effettivamente rivendicare. Che i voti per i pentastellati di lotta crescano nel Sud rispetto a previsioni fosche è dovuto all’impatto positivo del reddito di cittadinanza e alla volontà di difenderlo. Anche su questo gli elettori hanno ricevuto utili informazioni. Immigrazione e sicurezza, scuola e sono finiti in secondo piano perché maiora premunt, c’è qualcosa di più importante destinato a essere una sfida duratura. No, personalmente non me la sento mai di parlare a nome degli italiani, ma il prezzo del gas e, più in generale, del carrello della spesa sono le due criticità che non ci abbandoneranno troppo presto. Non sarà il governo prossimo venturo a risolvere il problema. In verità, nessun singolo governo europeo ha la chiave della soluzione. Solo gli europei europeisti possono approntare una difesa decente e passare all’attacco con una politica energetica concordata.

Berlusconi ha rapidamente capito che il suo aggancio con il Partito Popolare Europeo è importantissimo per Forza Italia e, impostosi garante del (governo di) centro-destra, ha ipotecato i Ministeri degli Esteri e dei Rapporti con l’Europa. Però, ma non ce la fa proprio ad abbandonare la tassa che non è né piatta né, poi, neppure tanto bassa come quella proposta dal giocatore d’azzardo Matteo Salvini a corto di tematiche e di fiato. A testa bassa sia per tentare di trovare l’agenda perduta, quella di Draghi, sia per incornare il Partito Democratico, i quartopolisti Calenda e Renzi non hanno lasciato traccia nella campagna elettorale. Ma anche questa è una notizia utile per gli elettori. Ne sappiamo tutti di più. Certo, partivamo con le nostre preferenze che probabilmente sono cambiate di pochissimo (rispetto ai sondaggi). Alla fine, il voto davvero utile, meglio più utile, ovvero più incisivo, sarà quello degli indecisi e dei potenziali astensionisti. Occhio, dunque, a quale coniglio/a uscirà da quale cappello nelle quarant’otto ore prima del voto. Faites vos jeux. Ma, in democrazia non finisce qui.  

Pubblicato il 22 settembre 2022 su Formiche.net