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Un partito, per favore, se avete l’idea di come rifarlo

Sperare di fare crescere l’oggetto Partito Democratico a partire dalla sua attuale collocazione elettorale (e molto probabilmente abitativa dei suoi dirigenti e dei suoi parlamentari) ovvero le Zone a Traffico Limitato delle città italiane, oppure andare in mare aperto alla conquista di quella terra incognita che si chiama periferia (non solo geografica)?

Non dovrebbe essere questo il dilemma di fronte al quale i candidati alla segreteria del PD avrebbero l’onere e l’onore di dare una risposta iniziale? Finora non sono neppure riuscito a sentire il famigerato “silenzio assordante” di (in rigoroso ordine alfabetico che, casualmente è anche di vicinanza al Renzi/smo): Giachetti, Martina, Zingaretti.

Leggo, invece, che il PD, non di un segretario a capo di un’organizzazione sul territorio, avrebbe bisogno, ma borbotta Romano Prodi, di un padre (Scalfari scrive di un presidente certificando l’irrilevanza di Orfini, il presidente in carica).

Rigettando, in ossequio, come si conviene a una delle più viete e logore tradizioni della sinistra, il problema della leadership, Michele Salvati (e dire che l’aveva finalmente trovato il leader dei suoi sogni: Matteo Renzi. Gli aveva anche consigliato di continuer le combat, nelle sue parole: “Renzi, stick to your guns“) di recente ha argomentato, all’incirca per la trentesima volta in questi anni, la necessità di costruire un partito di sinistra liberale oppure liberale di sinistra. Quali ne siano i connotati di cultura politica (la presa in giro dei professoroni e dei gufi?) e quali le coordinate organizzative (oltre il giglio magico?) è, evidentemente, non soltanto per l’editorialista del Corriere, un problema irrilevante.

Per fortuna non così irrilevante da impedire ad Antonio Floridia di andare a vedere e valutare la democraticità del partito, le modalità previste dallo Statuto per garantire partecipazione e influenza, per coinvolgere simpatizzanti e potenziali elettori.

Poiché non è una detective story, la sua conclusione Floridia la mette nel titolo: Un partito sbagliato (Castelvecchi 2019). Alzata di scudi di Anzaldi, Ascani, Boschi, Romano, Serracchiani e del meritatamente ex-senatore Esposito, ripulsa sdegnata dei gruppuscoli dirigenti?

No, nessuno ha letto il libro né, in tutt’altri affari impegnati, troverà il tempo per leggerlo anche perché da leggere c’è già il Manifesto di Calenda, notissimo esperto di partiti e di rassemblements (a condizione che tengano fuori LeU), non di sistemi elettorali poiché il ruolo è occupato e presidiato da Ettore Rosato, quello della legge vigente.

Cartello europeista ‘ha da esse’ anche se, regole ciniche e bare, per il Parlamento europeo si vota con una legge proporzionale che suggerisce di trovare, costruire, appoggiare una pluralità di soggetti intorno a poche parole d’ordine con una pluralità di candidature di diverse estrazioni e con qualche curriculum europeo/europeista.

Il dilemma torna ineludibile: in quelle periferie si arriverà (non oso scrivere si “penetrerà”) ancora con nome e logo del Partito Democratico oppure è preferibile cercare il nuovo, magari dopo un’ampia discussione fra persone che, da un lato, se ne intendono, dall’altro, garantiscono di impegnarsi per un progetto ideale di lungo periodo, non per ricompense immediate e tangibili?

La rottamazione fu soltanto il tentativo, fallito, di fare piazza pulita. Oggi e domani, trascorso il lungo inverno leghista-stellato, il compito è non trovare casualmente un contenitore, ma formare un’organizzazione di uomini e donne, che non è una ditta (oggi piccola bottega artigiana che rischia lo sfratto), ma neppure un veicolo personalizzato. Che non può più in nessun modo essere il Partito Democratico che vediamo. Che è uno strumento per fare politica intesa sì come ottenere voti e conquistare cariche, ma anche come dare rappresentanza (ai cittadini, non all’indistinto popolo) e offrire capacità di governo.

“Sentinella sentinella quando finirà l’inverno?” “Quando avrete preparato la primavera”.

Pubblicato il 20 febbraio 2019 sul blog di Pasquino Huffingtonpost.it

Banchieri incostituzionali. Non mettete la Costituzione nelle mani dei banchieri!

La terza Repubblica

L’avv. Giovanni Bazoli, presumo laureato in Giurisprudenza, che cita come suo maestro il giuspubblicista Feliciano Benvenuti, riesce a definire per tre volte “perfetto” il bicameralismo italiano (Al referendum meglio votare Sì. O dovremo dire addio alle riforme, Corriere della Sera, 14 luglio, p. 15). L’intervistatore, Aldo Cazzullo, non lo può correggere dato che anche lui usa il termine perfetto in una domanda. Naturalmente, la Costituzione non si riferisce mai al bicameralismo con l’aggettivo perfetto che potrebbe essere correttamente utilizzato per definire il funzionamento di una struttura (ma allora sarebbe davvero da stupidi riformare una struttura che funziona in maniera “perfetta”). Se non si vuole confondere il funzionamento con la struttura, allora, strutturalmente, il bicameralismo italiano è paritario, indifferenziato, simmetrico. Comunque, non solo il Bazoli si dice favorevole alle riforme, ma cita solo quella del bicameralismo senza spiegare perché sarebbe buona, utile, in grado di fare funzionare meglio il sistema politico.

Come altri che ne sapevano/sanno poco quanto lui, non è convinto dalla bontà della legge elettorale rispetto alla quale inanella una serie di strafalcioni da fare invidia a molti degli stessi proponenti e difensori dell’Italicum. Sostiene che il premio di maggioranza sarebbe del 15 per cento (e lo considera non “ragionevole”) con riferimento ad un 40 per cento (nella versione iniziale un cervellotico 37,5 non, come dice Bazoli, 37) che nessun partito, da solo, riuscirà a conseguire. Il premio va parametrato sul voto sincero al primo turno cosicché, se chi vince al ballottaggio aveva ottenuto il 30 per cento al primo turno, il suo premio in seggi sarà del 25 per cento, un premio ancora meno ragionevole. Afferma, come altri prima di lui, per esempio, Eugenio Scalfari, che persino la legge truffa sarebbe preferibile poiché attribuiva un premio di 5 punti alla coalizione che avesse “conquistato la maggioranza assoluta dei voti”. Giusto il premio alla coalizione giunta alla maggioranza assoluta, ma quel premio non era affatto di 5 punti bensì consegnava a quella coalizione i due terzi dei seggi, quindi con un premio variabile, fino al 16 per cento circa.
Anche Bazoli si dice favorevole al doppio turno francese in collegi uninominali, sostenendo che fu “escogitato” in una non meglio definita “fase di transizione dal proporzionale al maggioritario”. Non so che cosa significhi “fase di transizione”, ma dà l’idea di un periodo di tempo non breve. So che il sistema maggioritario, fortemente voluto da de Gaulle, accompagnò l’instaurazione della Quinta Repubblica, e fu immediatamente utilizzato senza nessuna transizione. Infine, Bazoli si esibisce anche su uno scenario controverso fatto balenare da Renzi e dai renziani di tutte le ore.

Perso il referendum che il giovane Premier ha un “pochino” personalizzato, non si potrebbe neanche andare alle urne (a parte che non è chiaro perché si “dovrebbe” andare alle urne: la legislatura finisce nel febbraio 2018). “Il Paese si troverebbe in una situazione veramente drammatica di impasse costituzionale. Il Presidente della Repubblica non avrebbe di fatto la possibilità di indire nuove elezioni finché non fossero riformati i sistemi elettorali di entrambe le Camere”. Il Presidente della Repubblica non ha nessuna necessità di sciogliere le Camere a meno che, in maniera proterva e dissennata, il Partito democratico non impedisca la formazione di un nuovo governo. Il resto anche Bazoli potrebbe affidarlo ai parlamentari e alla loro coscienza e scienza (sic). Potrebbero fare rivivere con due tratti di penna il Mattarellum (che tanto caro fu al Presidente Mattarella, o no? ) oppure intervenire sull ‘Italicum dalle molte magagne tardivamente scoperte oppure impiegare il loro tempo ad importare il doppio turno francese senza introdurvi clausolette furbacchiotte. Politici decenti non creano e non approfondiscono “drammatiche crisi istituzionali”. Offrono soluzioni praticabili.

Pubblicato il 14 luglio 2016

Il Premier non può essere a tempo

Il fatto

All’insegna della più profonda ignoranza costituzionale e di un’irresistibile tendenza al populismo (che si esprime, anche con le Cinque Stelle, nel porre limite alle cariche elettive), Matteo Renzi ha prodotto una inequivocabile esternazione: limite di due mandati al capo del governo, come in USA. Forse, giunto al termine di una faticosa e confusa riforma costituzionale, Renzi si è dimenticato che l’Italia ha una forma di governo parlamentare e che quella degli USA è presidenziale. Non gli debbono mai avere detto, anche perché nel suo entourage è improbabile che lo sappiano, che nessuna delle forme parlamentari di governo, a cominciare dalla prima e più importante, quella del Regno Unito, prevede e fissa un limite alla durata in carica del capo del governo. Che nelle forme parlamentari di governo non è mai esistito e tuttora non esiste un mandato al capo del governo anche perché, tranne nei casi anglosassoni, i governi sono coalizioni che debbono raggiungere accordi programmatici. Che ciascun capo del governo entra in carica grazie ad un rapporto di fiducia, che non sempre consiste in un voto esplicito, con il Parlamento ovvero la maggioranza parlamentare, e ne esce quando la maggioranza parlamentare, quella o un’altra, lo sconfigge e lo costringe a lasciare la carica, magari sostituendolo hic et nunc. Che uno degli elementi, probabilmente, il più importante, che differenzia i parlamentarismi dai presidenzialismi è la loro flessibilità proprio nella formazione e nella sostituzione dei governi e dei loro capi che, nei presidenzialismi è praticamente impossibile se non con l’impeachment, quando ha successo, e che trasforma crisi politiche (incapacità, malattia, corruzione del Presidente, sue violazioni della Costituzione) in crisi costituzionali.

Immagino che, nell’ordine, Konrad Adenauer (quattro vittorie elettorali, in carica dal 1949 al 1963), Margaret Thatcher (tre vittorie elettorali in carica dal 1979 al 1990), Felipe Gonzales (tre vittorie elettorali, in carica dal 1982 al 1996), Helmut Kohl (quattro vittorie elettorali, in carica dal 1982 al 1998, record assoluto), Tony Blair (tre vittorie elettorali, in carica dal 1997 al 2007), Angela Merkel (finora tre vittorie elettorali, in carica dal 2005) si stiano chiedendo “che diavolo dice il Presidente del Consiglio italiano; che cosa ha in mente, a che cosa mira?” Potrebbero chiederselo anche, farò pochi esempi selezionati, De Gasperi che guidò sette governi, Fanfani e Moro che, rispettivamente ne guidarono sei e cinque. Magari avrebbero potuto chiederlo a Renzi anche il fondatore di “Repubblica”, Eugenio Scalfari, e l’intervistatore Claudio Tito. Le interviste sono belle e utili quando sfidano l’intervistato, non quando stendono tappeti. Invece, no, e la notizia del limite ai mandati è subito rimbalzata senza correzione alcuna (forse arriveranno, presto, le rettifiche di Napolitano).

Azzardo la mia interpretazione, che va oltre l’ignoranza di Matteo Renzi, ma non la giustifica e non la sottovaluta. Renzi cerca di prendere due piccioni con una fava. Vuole fare sapere agli italiani che non starà in carica oltre, se ci arriva, il 2023. Offre questa sua graziosa disponibilità a non restare di più (quindi a non entrare in competizione con i capi di governo, alquanto prestigiosi, che ho menzionato sopra) in cambio di un “sì” al plebiscito di ottobre sul quale sta investendo tutte le sue energie. Se, proprio, voleva sia l’elezione popolare diretta del capo del governo parlamentare, che non esiste da nessuna parte al mondo, sia la non rieleggibilità dopo due mandati poteva cercare di riformare la Costituzione in questo senso. Dimenticavo, sostiene che non glielo avrebbero lasciato fare. Peccato gli abbiano lasciato fare soltanto brutte e confuse riforme. Poteva rifiutarle. Meglio niente.

Pubblicato il 14 giugno 2016

Il ruolo di Mattarella nelle riforme

Quando due grandi vecchi, detto con la stima e il rispetto che si sono meritati, ingaggiano un confronto serrato sulla riforma del Senato, é opportuno prestare molta attenzione. Il fondatore de “la Repubblica”, Eugenio Scalfari ha fortemente obiettato alla lettera pubblicata sul “Corriere della Sera” dal Presidente Emerito Giorgio Napolitano. Nel mio piccolo anch’io ho rilevato molto di irrituale nell’esplicito sostegno dato da Napolitano alla riforma di Renzi. Replicando alle critiche di Scalfari, il Presidente sembra fare un passo indietro. Il suo sostegno va all’idea di riforma del bicameralismo paritario e non a tutte le technicalities delle quali, anzi, auspica che siano meglio definite e ritoccate. Naturalmente, i “ritocchi”, qualora seri e non cosmetici, implicheranno un’altra lettura da parte delle Camere e quindi qualche mese in piú affinché la riforma sia completata. E’ improbabile che il velocissimo duo Renzi-Boschi concordi su questa procedura, ma la parola andrà ai numeri ovvero a quanti senatori sono in grado di imporre modifiche migliorative. Quello che Scalfari sottolinea con forza e che Napolitano sembra non voler capire é che un sistema político é tale poiché (lo insegno regolarmente) tutte le sue componenti si tengono insieme. Cambiarne una, per di piú tutt’altro che marginale, vale a dire il Senato, significa provocare effetti su molte altre componenti: sulla Camera dei deputati e sui suoi poteri, inevitabilmente accresciuti, sul Presidente della Repubblica e sui suoi poteri, ridimensionati, sull’elezione dei giudici costituzionali e dei componenti del Consiglio Superiore della Magistratura, e altre conseguenze ancora.

Napolitano che, pure, a suo tempo, aveva addirittura fatto balenare qualche problema concernente la legge elettorale Italicum, affermando che, comunque, la si sarebbe dovuta sottoporre a “opportune verifiche di costituzionalità”, non sembra condividere le preoccupazioni di Scalfari sull’eccesso di potere che finirebbe nelle mani, prima di un partito di maggioranza relativa, anche risicata, che conquisti al ballottaggio un notevole premio in seggi, poi nelle mani del capo di quel partito che sarebbe in totale controllo della Camera dei Deputati. Per di piú, poiché un conto é disquisire astrattamente di poteri giuridico-formali un conto molto diverso é guardare alle modalitá concrete di esercizio del potere ad opera di un capo di partito che ha dimostratao con le parole e con i fatti quale trattamento impartisce ai dissenzienti e alle minoranze, qualche preoccupazione appare d’obbligo. Scalfari la enuncia fino a mettere opportunamente in discussione gli effetti delle due riforme, legge elettorale e Senato, sul funzionamento complessivo del sistema. Caricandosi di un compito che non é piú suo, Napolitano sembra invece sostenere con il peso della sua autorevolezza tutta l’azione riformatrice di Renzi (con interventi che non sarebbero stati “perdonati” ai suoi predecessori).

Quanto al successore, Scalfari teme che Napolitano influenzi piú o meno direttamente anche il Presidente Mattarella. La questione piú delicata é: come potrá Mattarella, debitore della sua elezione in parte a Napolitano in parte a Renzi, contrapporre valutazioni diverse da quelle fortemente motivate dei suoi due Grandi Elettori ? Epperó, adesso in condizione di assoluta indipendenza, il Presidente Mattarella non puó certamente dimenticare di essere un costituzionalista, di essere stato uno dei giudici costituzionali che hanno distrutto il Porcellum, di avere scritto la legge elettorale che porta il suo nome e che molti considerano di gran lunga migliore dell’Italicum. Insomma, lo scontro di opinioni e di preferenze fra Scalfari e Napolitano conduce inevitabilmente fino al Colle, vale a dire alle responsabilitá che il Presidente Mattarella dovrá accollarsi al momento della firma della modifica del Senato che implica una drastica riduzione della rappresentanza política degli italiani (e dei poteri dello stesso Presidente della Repubblica). Sul crinale fra funzionamento e democraticitá del sistema político si sta dispiegando una delicata battaglia che il confronto Scalfari-Napolitano ha illuminato, ma non puó risolvere.

Pubblicato AGL il 18 agosto 2015

Responsabilità civile dei magistrati. Qualcuno votò sì.

Ha fatto molto bene Pierluigi Battista a fare un elenco di, cito, “cittadini illustri” che dichiararono di votare a favore del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati (Corriere della Sera”, 2 settembre 2013).

Non vi compaio. Peccato. Quindi, vorrei rivendicare il mio posto fra quei cittadini illustri. Per fortuna, la mia evidence è inconfutabile. Infatti, allora collaboravo da un paio d’anni a “la Repubblica”. Proposi al Direttore, Eugenio Scalfari, un articolo a favore del “sì”. Accettato e pubblicato. Però, quel referendum era sostenuto anche dal segretario socialista Bettino Craxi, non proprio in odore di santità presso Scalfari che lo aveva etichettato Ghino di Tacco. Tuttavia, molto grande fu la mia sorpresa quando, pochissimi giorni prima del voto, Scalfari ospitò due belle lunghe colonne in neretto con i commenti dei due capigruppo della Sinistra Indipendente: Stefano Rodotà (Camera) e Massimo Riva (Senato), entrambi favorevoli, “senza se e senza ma”, al no, certissime indicazioni di voto.

Magari, oltre ai cittadini illustri per il “sì”, è giusto, in questo paese dalla memoria cortissima e spesso distorta, attribuire le responsabilità individuali e “civili” che si meritano anche ai cittadini per il “no” (sonoramente sconfitti dall’80 per cento dei votanti). A ciascuno il suo. Non esito a prendermi la mia responsabilità: “sì”, ieri come oggi e domani.