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Maggioranze educate alla democrazia. Governo, politiche, diritti @DomaniGiornale del 6 luglio 2024

In democrazia, il principio fondante è majority rule: la maggioranza governa. Scriverlo in inglese è un giusto omaggio alla cultura politica, liberale, costituzionale e democratica che si basa su quel principio, ma non si ferma lì. Nella sua storia complessa, quel principio è stato variamente declinato e si è fatto accompagnare da una pluralità di diritti. La maggioranza ha il diritto e anche il dovere politico e istituzionale di governare, ma, qualche volta, come ha fatto opportunamente notare Norberto Bobbio, non ha neppure la necessità di essere una maggioranza assoluta. È sufficiente che sia maggioranza relativa se, comunque, le decisioni che prende non sono controverse né dannose, ma accettabili. In molti parlamenti decisioni di questo tipo sono frequenti. D’altronde, qualsiasi richiesta di controprova metterebbe le cose a posto. Quel che più conta, però, è che in democrazia ci sono anche alcune decisioni per le quali la maggioranza assoluta non basta: l’elezione ad alcune cariche, le votazioni su alcune tematiche. Mi limito ad un unico esempio perché mi pare molto significativo, ma anche controverso, in quanto posto a tutela di una minoranza nient’affatto debole. Nel Senato USA l’ostruzionismo (filibustering nel colorito linguaggio del XIX secolo) può essere fatto cessare soltanto da una maggioranza qualificata: 60 senatori su 100. Quindi, anche se i 40 senatori filibustieri non danno vita a una dittatura della minoranza, sicuramente ostacolano il governo della maggioranza, senza scandalo, ma con grande e giustificato fastidio dei maggioritari.

Governo della maggioranza significa che, confortata e prodotta dal voto degli elettori, quella maggioranza è autorizzata e, ogniqualvolta e fintantoché rimane tale, avrà il potere di fare approvare le sue politiche, economiche, sociali, culturali, internazionali, meglio se saranno quelle presentate in campagna elettorale. Ma i diritti, civili, politici, sociali delle persone sono cosa molto diversa. Le Costituzioni liberal-democratiche definiscono quei diritti inalienabili. Non possono essere ceduti; non sono disponibili. Nessuna maggioranza, non importa di quale dimensione, può toccare, ridimensionare, eliminare quei diritti. Quando Orbán annuncia petto in fuori che ha fatto della Ungheria una democrazia illiberale sta certificando che priva i suoi concittadini di alcuni diritti: libertà di parola, di stampa, di insegnamento, del due process of law (giusto processo), della libertà e integrità personale (habeas corpus). Nessun regime che non riconosce, protegge e promuove i diritti dei suoi cittadini può dirsi democratico. Dove non ci sono i diritti che discendono dal liberal-costituzionalismo non esiste nessuna democrazia.

Quello che preoccupa gli studiosi e i politici che denunciano, non sempre a proposito, la crisi della democrazia è l’erosione più o meno lenta, più o meno deliberata, più o meno sistematica dei diritti. Questa erosione, se condonata dalla maggioranza, conduce a forme di autoritarismo blando, di fascismo temperato. Con classe e cautela, ma con chiarezza, il Presidente Mattarella ha inteso richiamare l’attenzione su questi possibili svolgimenti. Qualche sedicente liberale incoerente e fellone, qualche ex comunista arrivista con coda di paglia potranno anche denunciare la sussistenza del complesso del tiranno a fondamento di un capo del governo, come quello italiano, solamente primus inter pares e annunciare l’incomprimibile bisogno di renderlo forte, primissimus. Come si fa a trascurare che un conto sono maggioranze assolute prodotte dal libero voto degli elettori e un conto enormemente diverso sono le maggioranze diventate tali in seguito a cospicui premi in seggi assegnati in maniera truffaldina.

Grande è il torto che faremmo al Presidente della Repubblica se pensassimo oppure, peggio, dicessimo che nelle sue parole sulla dittatura della maggioranza non si trova un riferimento ai poteri che avrebbe un capo del governo di (ancora indefinita) elezione popolare diretta e al rischio di un suo sfuggire al controllo di un Parlamento manipolato dal premio. In conclusione, sento di dovere ricordare e sottolineare che, comunque, a nessuna maggioranza democratica è concesso di cambiare le regole del gioco per rendere difficile, se non addirittura impedire alla minoranza di crescere, sconfiggerla e sostituirla. Tempestivo e limpido, il discorso del Presidente è radicato nella storia del pensiero e della prassi liberal-democratica e opportunamente guarda avanti.

Pubblicato il 6 luglio 2024 su Domani

Il fascismo ieri e oggi: un romanzo italiano. Da Un anno di storie 2023 @Treccani

Il fascismo ieri e oggi: un romanzo italiano
in Un anno di storie 2023. Un paese è le storie che racconta, Roma, Treccani, 2023pp. 119-122. 

I regimi autoritari che abbiamo conosciuto nell’Europa, in particolare mediterranea, della prima metà del XX secolo hanno ruotato intorno alla personalità e alle capacità del loro leader. Sono nati con quel leader e grazie a lui. La morte del leader ha travolto il regime senza scampo. Pertanto, è inevitabile che quella figura dominante abbia attratto grande attenzione. Non stupisce, ma ci interroga, il fatto che, forse perché ne è stato il capostipite, è fuor di dubbio che Benito Mussolini abbia costituito l’oggetto di una quantità di studi largamente superiore a quelli dedicati, nell’ordine, al Generalissimo spagnolo Francisco Franco Bahamonde (1892-1975) e al professore portoghese Antonio de Oliveira Salazar (1889-1970). Anche la strategia politica li ha in parte differenziati. Inizialmente, Mussolini perseguì una strategia di movimento e se ne fece forte mirando alla distruzione della sinistra, dovendo fare poi buon viso a cattivo gioco di fronte alla irriducibilità delle Forze Armate, della Chiesa Cattolica, della burocrazia, persino degli imprenditori. Salazar emerse come punto di equilibrio di una coalizione ultra conservatrice di interessi economici, sociali, culturali e religiosi che aveva avuto la meglio su gruppi di sinistra contadina, proletaria, lavoratori subalterni, frammentata, scarsamente organizzata che, una volta sconfitta, non riuscì a dare vita ad un’opposizione di cui tenere conto. Franco conquistò il potere dopo una sanguinosa guerra civile nel corso della quale iniziò la brutale distruzione dei partiti e dei sindacati di sinistra. Il doloroso ordine politico da lui imposto trovò immediatamente il sostegno e l’approvazione, più o meno passivi, di tutti quegli spagnoli che non volevano la ricomparsa e la prosecuzione di conflitti sanguinosi e esiziali.

Per temperamento, per spirito esibizionista, per l’essere stato catapultato sulle prime pagine dei giornali di un po’ tutto il mondo e nelle corrispondenze dei maggiori organi di stampa, Mussolini si acconciò e si beò della sua popolarità internazionale anche a fini di legittimazione. Lui era la novità politica, il fenomeno nascente di nuove modalità di governo, da osservare e studiare con tutte le sue ambiguità prima della stigmatizzazione e dell’eventuale ripudio. Tardivamente arrivarono entrambe. Meno importanti e rilevanti sulla scena internazionale, Franco e, soprattutto, Salazar, ricordiamolo un generale e un professore universitario, evitarono le luci della ribalta. Giornalista e politico dall’ego strabordante, Mussolini le cercò, le trovò, se ne giovò. Quelle luci non si sono mai spente del tutto sulla sua figura e sui suoi misfatti, ma anche sulle sue molto discutibili attività e realizzazioni: “Mussolini ha anche fatto cose buone”. Questa frase apre una discussione finora svolta in maniera tutt’altro che soddisfacente e richiede una valutazione basata su criteri generali, condivisi, comparabili.

Talvolta, gli squarci di luce più vivida gettati sugli autoritarismi e sui loro leader provengono dagli artisti. Monumento all’ironia, ma anche al senso della libertà, è il film di Charlie Chaplin Il grande dittatore (1940) che contrasta frontalmente con quelle produzioni cinematografiche che sottilmente, persino inconsapevolmente, creano curiosità che si traducono in simpatie postume. La cinematografia italiana, a cominciare da La marcia su Roma (1962) di Dino Risi, a continuare senza nessuna pretesa di completezza con Amarcord (1973) di Federico Fellini per approdare a Una giornata particolare (1977) di Ettore Scola, ha saputo sbeffeggiare il fascismo, non rendendolo certamente oggetto plausibile di affetto postumo e di mal posta nostalgia. A rendere la profondità della tragedia della guerra civile spagnola offre un contributo notevole Mourir à Madrid (1963) del francese Frédéric Rossif. Per entrare nell’atmosfera grigia e cupa del Portogallo sotto Salazar, opprimente come può essere la vita sotto un regime autoritario, non c’è niente di meglio del piccolo libro di Antonio Tabucchi Sostiene Pereira (1994), poi trasposto nel film omonimo. Nessuna fascinazione dell’autore con il regime, nessun eccesso nella implicita condanna.

Per quali motivi a cent’anni dalla sua ascesa al potere il fascismo continui ad esercitare interesse e attrazione fra gli italiani, a produrre conflitti fra le famigerate memorie non condivise e a essere oggetto di esecrazioni, per quanto meritate, talvolta pesantemente retoriche, è un quesito che non ha ancora ricevuto risposte soddisfacenti. Tuttavia, alcuni editori e alcuni editori si sono orientati a offrire ai lettori qualcosa di diverso, non necessariamente migliore, di quanto, che è molto, è stato scritto dagli storici, italiani e stranieri. Il passare del tempo ha persino fatto crescere l’interesse nei confronti della figura, non soltanto politica, di Mussolini. L’enorme successo di vendite della trilogia di Antonio Scurati: M. Il figlio del secolo (2019); M. L’uomo della Provvidenza (2020); e M. Gli ultimi giorni dell’Europa (2022) costituisce la prova provata della curiosità, forse, anche morbosa, degli italiani per la vita del “loro” famoso dittatore. In una (in)certa misura, il successo di vendite dei libri di Scurati segnala anche che l’insegnamento della storia nelle scuole e nelle Università non ha colmato il desiderio di conoscere, oppure, interpretazione più favorevole, ha acuito l’interesse. Biografie romanzate di simile genere sulla vita dei grandi o dei molti, piccoli dittatori non esistono per Hitler, Franco, Salazar e neppure per i numerosi dittatori latino-americani.

Il fascismo fu tragedia e farsa, allo stesso tempo, mentre le democrazie sono spesso accusate di essere noiose. Il fascismo non può e non deve essere ridotto, come in larga misura fa, quand’anche a fini polemici e forse catartici, Aldo Cazzullo, Mussolini. Il capobanda. Perché dovremmo vergognarci del fascismo, (Milano, Mondadori 2022), alle azioni sanguinarie di una banda di delinquenti che non rappresentavano esigenze, timori, ambizioni, rivalse, opportunismi diffusi nella società italiana. Molto meglio, allora, tornare a riflettere sulla penetrante e lungimirante definizione del nascente fascismo data da Piero Gobetti: “autobiografia della nazione”, ovvero fenomeno, peraltro non inevitabile, ma, a determinate condizioni probabile, derivante dai mali e dai vizi sia degli italiani nella loro generalità sia delle classi dirigenti stesse. Quell’autobiografia non è stata completamente riscritta dalla Resistenza e dai partigiani, ma tutte le premesse e tutte le indicazioni per andare oltre, superare, eliminare gli aspetti più negativi della nazione e della sua incultura politica e sociale, si trovano negli articoli della Costituzione italiana.

L’ottimo titolo Il fascismo pop (sottotitolo “Da tragedia a commedia: il segreto che lo tiene in vita”) del cap. 16 del libro di Sergio Rizzo e Alessandro Campi, L’ombra lunga del fascismo. Perché l’Italia è ancora ferma a Mussolini (Milano, Solferino, 2022) coglie un elemento cruciale, di cui è praticamente impossibile liberarsi, concernente la persistenza del fascismo nell’immaginario collettivo italiano. Non solo nell’immaginario, ma nella vita vissuta e nella coesistenza degli italiani si collocano le conseguenze della limitatissima e sostanzialmente, poche eccezioni a parte, mancata epurazione. Da un lato, le Forze Armate, la Chiesa cattolica, la burocrazia, le Associazioni imprenditoriali, l’Università non procedettero all’esclusione di quasi nessuno dei loro componenti che erano stati fascisti. Nel nuovo contesto di competizione e incertezza tutti gli apporti erano necessari e potevano servire per proteggere e promuovere interessi, preferenze, attività particolaristiche e il numero giustificava le richieste di accesso alla sfera politica. Dall’altro, un po’ dappertutto nel paese ciascuno aveva incontrato, conosceva, intratteneva relazioni con chi era stato fascista. Erano pochissime le famiglie nelle quali non c‘era il classico zio fascista, un nonno, un fratello. Nei comuni, in particolare quelli medi e piccoli, tutti sapevano che il medico condotto, peraltro bravo nella sua attività, il farmacista, l’avvocato erano stati fascisti, un po’ sopraffattori un po’ prevaricatori, complici ma abbastanza raramente responsabili di violenze. Nella burocrazia, il compagno di stanza, servizievole nel suo lavoro, e il capufficio, pomposo, ma poco oppressivo, erano stati iscritti al Partito Nazionale Fascista, per convinzione e/o per convenienza. Qualche prete e qualche parroco avevano espresso sentimenti di vicinanza e persino gratitudine al Fascismo per avere sconfitto quei comunisti nemici della religione. Nelle Forze armate gli ufficiali già fascisti furono, se prominenti, epurati e/o mandati in pensione, altrimenti rallentati nella carriera. Pur fascista, quell’imprenditore sapeva fare il suo lavoro, creava valore aggiunto, assumeva operai. Privarlo della sua azienda sarebbe stato una grave perdita per la comunità e per un sistema economico che cercava di riprendersi. Per i docenti bastò che si riciclassero cambiando il nome del loro insegnamento, i testi adottati e, quando non troppo complicato e esigente, i contenuti. Il resto lo fecero il pericolo comunista e l’ombra lunga di Stalin. Quel passato, come, in verità, quasi tutti i passati in vario modo importanti, non passa. Continua a insegnare molto.

INVITO Fascismo: quel che resta e quel che manca della resistenza #26novembre #Guardabosone #VC

Domenica 26 novembre 2023 ore 11
Salone Parrocchiale di Guardabosone
Piazza della Chiesa

Gianfranco Pasquino
Fascismo: quel che resta e quel che manca della resistenza

dialoga con Michele Cella e Roberto Travostino

La vera lettera di Giorgia Meloni ai veri patrioti @DomaniGiornale

Care italiane e italiani (anche al contrario),

perché vi preoccupate tanto dei miei personali conti con la Storia? Non è mai stata la mia materia preferita. Ho sempre preferito la politica, ma mai trovato il tempo di studiare la Scienza della politica (chi sa poi se di vera scienza si tratta). Comunque, non mi importa tanto la scienza da tavolino. Sono una praticante e gli elettori hanno dimostrato con il loro voto che valutano la mia pratica superiore a quella di tutti gli altri capipartito, compreso quel saccentone di Letta. Il confronto con la Schlein, vedremo. Del 25 aprile avrei fatto volentieri a meno. Non fraintendetemi, però. A grande richiesta ho dovuto mandare una lettera al Corriere della Sera. No, niente abiure. Tecnicamente, fascista non sono mai stata, ma certo l’ambiente in cui sono cresciuta, anche bene, antifascista proprio non potrei definirlo e, comunque, non mi conviene parlarne male. Sono tanti i voti che vengono e verranno (dove vanno altrimenti?) da lì. Davvero volete farmi il test della conoscenza e della valutazione della Resistenza e dell’importanza politica e civile del 25 aprile? Se volete saperne di più, ascoltate e leggete il bellissimo discorso del Presidente Mattarella a Cuneo. Ma, non sono mica in competizione con il Presidente il quale poi saprebbe conquistarseli i voti? Aspettate la mia riforma semi-presidenziale e li vedremo quelli della sinistra a scegliere e fare “correre” il loro candidato. Vero: il vecchio democristiano Mattarella sa come spiegare la storia, connettere i fatti, collegare le date. Superiore. La mia ars politica è differente. So come impastocchiare, saltare di paolo in frasca, mischiare qualche brandello di verità storica con qualche illazione nient’affatto gratuita, anzi redditizia. Anch’io so che devo guardare fuori dai sacri confini della patria. A Bruxelles c’è sempre qualche tecnocrate senza patria che cerca di cogliermi in fallo. Non ho mai scritto antifascismo? Ma ho scritto belle parole sui valori democratici, sulla Costituzione repubblicana (che ha concesso al MSI di fare politica, ma questo non l’ho scritto), sulla democrazia liberale (con i fischi nelle orecchie di Orbán &Co e la loro democrazia illiberale). Non mi costa niente. La linea la do io. Ė persino meglio quando qualche vecchio “amico” (non posso scrivere né camerata né compagno d’armi) si sbizzarrisce, ovvero dice quel che pensa con le viscere perché (quasi) subito lo metto in riga e vengo addirittura elogiata. Adesso, consegnato il compitino, mi metto al lavoro per voi italiani, non tutti, ma non chiedete a me di parlarvi di interpretazione, rispetto e allargamento dei diritti (donne, Lgbt, immigrati). Lasciatemi lavorare. Sono una donna (quasi) sola al comando che sa dove vuole andare e come vuole arrivarci. Oggi a Roma domani a Bruxelles. Appuntamento alle elezioni del Parlamento europeo.

Pubblicato il 25 aprile 2023 su Domani

La Costituzione è inconfutabilmente antifascista. Il commento di Pasquino @formichenews

Non può esserci nessuna mielosa pacificazione fra queste due visioni della politica, fascista e democratica, e in buona sostanza, della vita. Sono inconciliabili. Proprio questa inconciliabilità volevano i costituenti: porre argini invalicabili alla ricomparsa di qualsiasi forma, modalità, assetto autoritario. Il commento di Gianfranco Pasquino, professore Emerito di Scienza politica e Accademico dei Lincei, in libreria con il suo nuovo libro “Il lavoro intellettuale

Agli affastellatori di date bisogna contrapporre che l’unico collegamento inscindibile è quello fra il 25 aprile e il 2 giugno. Senza la vittoria della Resistenza nessun referendum monarchia/Repubblica e nessuna elezione dell’Assemblea Costituente sarebbero stati possibili. A coloro che negano il carattere antifascista della Costituzione, non basta contrapporre la XII disposizione che vieta la ricostituzione sotto qualsiasi forma del disciolto partito fascista che, comunque, si ricostituì e che, forse sarebbe stato subito disciolto da una Corte costituzionale attiva fin dal 1948. Sono tutti gli articoli sui diritti dei cittadini, sul pluralismo dei partiti e sulla separazione e autonomia delle istituzioni: Presidenza, Governo, Parlamento e Magistratura, che rendono la Repubblica italiana strutturalmente antifascista, contro tutto quello che fu istituzionalmente e politicamente il fascismo.

   Non può esserci nessuna mielosa pacificazione fra queste due visioni della politica, fascista e democratica, e in buona sostanza, della vita. Sono inconciliabili. Proprio questa inconciliabilità volevano i costituenti: porre argini invalicabili alla ricomparsa di qualsiasi forma, modalità, assetto autoritario. Ancora oggi i critici della forma di governo parlamentare istituita con la Costituzione italiana sottolineano che al Presidente del Consiglio furono attribuiti scarsi poteri decisionali poiché i Costituenti agivano sotto “il complesso del tiranno”: mai più troppi poteri ad un uomo (una donna?). Curiosamente e contraddittoriamente, sono gli stessi che sostengono che la Costituzione non è antifascista. Ma, l’eventuale carenza di potere decisionale del Presidente del Consiglio dipende, molto più che dagli articoli che lo riguardano, dalla necessità, in un paese attraversato da molte fratture sociali, di dare vita a governi di coalizione fra più partiti, sicuramente più rappresentativi che richiedono però tempi di accordo e di decisione necessariamente più lunghi.

    Anche questo, la disponibilità al confronto e al compromesso, è, forse, da considerarsi un elemento propriamente democratico e antifascista laddove il fascismo esaltava il potere e le capacità personali del Duce. La Costituzione ha anche saputo domare i fascisti, gli ex-fascisti e i post-fascisti proprio con la flessibilità delle sue istituzioni, contrastando le sfide di stampo fascista fino al Piano di Rinascita Democratica di Licio Gelli. In uno slancio di comprensibile retorica democratica che ha molti predecessori certamente più eminenti e più qualificati di me, l’antifascismo della Costituzione sta nel fatto tanto semplice quanto cruciale che la Costituzione tutela e rispetta il dissenso, in qualche modo persino lo ritiene positivo. Di contro, il fascismo si fece vanto di sapere schiacciare qualsiasi modalità di dissenso e punì spesso, anche con la morte, coloro che, lucidamente consapevoli dei rischi, ne erano portatori.  La Costituzione italiana ha bandito la pena di morte. Ricordare tutto questo è il modo migliore di celebrare il 25 aprile che lo ha reso pssibile.

Gianfranco Pasquino è Professore Emerito di Scienza politica e Accademico dei Lincei. Il suo nuovo libro si intitola

Il lavoro intellettuale
Cos’è, come si fa, a cosa serve

Pubblicato il 23 aprile 2023 su Formichenews

Fascismo. Quel che è stato, quel che rimane @Treccani #Invorio #Novara #22aprile @Anpinazionale

ANPI INVORIO
ANPI BORGOMANERO

Sabato 22 Aprile 2023 alle ore 21
Invorio – Casa Curioni
Piazza Innocenzo Manzetti, 11

GIANFRANCO PASQUINO
presenta il libro
FASCISMO
Quel che è stato, quel che rimane
Treccani

Con la partecipazione di Giovanni Cerutti

INVITO Fascismo. Quel che è stato, quel che rimane @Treccani #22aprile #Cameri #Novara Festa della Liberazione 2023

Cameri
Festa della liberazione 2023
Sabato 22 aprile ore 16.30
Biblioteca civica

Incontro con Gianfranco Pasquino
Presentazione del libro
Fascismo
Quel che è stato, quel che rimane
Treccani Libri

con Federica Mingozzi

Totalitarismo e autoritarismo: due situazioni e la loro mala fine @DomaniGiornale

Ingigantire e rendere più spaventoso l’oggetto della propria decennale, in sostanza unica, ricerca può servire a ingigantire l’importanza di quella ricerca e del relativo studioso? Facendo amplissimo sfoggio dell’aggettivo totalitario, spesso a sproposito, e del sostantivo totalitarismo, senza mai definire il concetto e spiegarne significato e implicazioni, Emilio Gentile ovviamente crede di sì. Imperterrito procede attraverso un bilancio troppo selettivo di cent’anni di totalitarismo ((Totalitarismo 100. Ritorno alla storia, Roma, Salerno Editrice, 2023), fondamentalmente riferito al solo fascismo italiano. Parafrasando Giovanni Sartori, sostengo che “chi conosce un solo fascismo non conosce neppure quel fascismo” ossia senza un intelligente, deliberato ricorso alla comparazione non c’è modo di sapere quello che è normale e quello che è eccezionale. Sono, peraltro, pochi gli storici che praticano la comparazione e mettono a confronto natura, caratteristiche, evoluzione e trasformazione dei regimi politici. Senza nessuna ambizione di originalità, ma nell’intento di mettere a disposizione di chi legge quanto la scienza politica ha prodotto da tempo in materia, riporto qui di seguito le due più importanti definizioni di totalitarismo e autoritarismo.

Un regime totalitario si caratterizza per la presenza di tutti, o quasi, gli elementi che seguono, delineati da un grande Professore di Government a Harvard, Carl J. Friedrich e dal suo giovane allievo Zbigniew Brzezinski, Totalitarian Dictatorship and Democracy (Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1956):

  1. Una ideologia totalizzante
  2. Un partito unico
  3. Una polizia segreta notevolmente sviluppata
  4. il monopolio statale dei mezzi di comunicazione
  5. il controllo centralizzato i tutte le organizzazioni politiche, sociali, culturali fino alla creazione di un sistema di pianificazione economica
  6. la subordinazione delle forze armate al potere politico

Naturalmente, può succedere che nel corso del tempo qualche elemento venga meno e si ponga il problema della persistenza o no del totalitarismo. Tuttavia, in assenza di alcuni di questi elementi nessun regime può essere considerato totalitario.

Per definire un regime autoritario (tradizionale o classico, quelli nati in Europa e in America latina nello scorso secolo), ritengo tuttora utile ricorrere a quanto scritto nel 1964 dal grande sociologo e politologo Juan Linz (1926-2013) con riferimento al franchismo (1939-1975). Mi pare più che opportuno citare la definizione per esteso, anche come esempio di accurata configurazione degli elementi costitutivi dei regimi autoritari. Più precisamente questi regimi sono (cito dall’articolo Autoritarismo nella Enciclopedia delle Scienze Sociali, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1991, p. 444, tutti i corsivi sono miei):

“sistemi a pluralismo politico limitato, la cui classe politica non rende conto del proprio operato, che non sono basati su una ideologia guida articolata, ma sono caratterizzati da mentalità specifiche, dove non esiste una mobilitazione capillare e su vasta scala, salvo in alcuni momenti del loro sviluppo, e in cui un leader, o a volte un piccolo gruppo, esercita il potere entro limiti mal definiti sul piano formale, ma in effetti piuttosto prevedibili”.

Né l’una né l’altra definizione sono prese in considerazione da Gentile il quale opera senza sentire nessuna necessità di esplorazione e approfondimento concettuale né di differenziazione. Soltanto nelle pagine conclusive del suo libro, Gentile riporta due definizioni di fascismo come regime totalitario formulate rispettivamente dal giovane marxista Lelio Basso e dall’oppositore cattolico don Luigi Sturzo. Per il primo, gli elementi essenziali della realtà (dunque, non del ”regime”) fascista“ non ricomprendevano “un’ideologia e una concezione dello Stato che non fosse un mero riflesso della sua politica concreta, che mirava esclusivamente a conservare il potere conquistato, trasformandolo in un monopolio del governo, dello Stato e della politica, con il sostegno di una propria forza armata di partito, e con l’imposizione dei propri miti come un credo religioso, che divinizzava la nazione, identificandola col fascismo stesso, e considerando tutti gli avversari del fascismo, in quanto tali, nemici della nazione, che dovevano essere combattuti e annientati con qualsiasi mezzo” (p. 172, tutti i corsivi sono miei).

   Per Sturzo, sostiene Gentile, “il totalitarismo era intrinseco alla natura del fascismo e ne condizionava tutta l’azione, spingendolo ‘ad assorbire tutte le forze nazionali: l’esercito, al quale ha messo a lato la milizia nazionale, che è milizia di partito; e la economia, organizzata nella forma corporativa di partito, per assoggettarla al paternalismo di Stato” (pp. 187-188) (corsivi miei). Infine, Sturzo sottolineava il centralismo statale del fascismo, nuovo “Leviatano che assorbisce ogni altra forza e che diviene l’espressione di un incombente panteismo politico” (p. 188). Troppo facile sottolineare la non sistematicità delle definizioni proposte da Basso e da Sturzo che, pure, entrambe contengono elementi utili, ma a mio parere, non convincenti e meno precisi di quanto scritto da Linz.

Raramente abbiamo modo di provare la validità di una definizione, l’appropriatezza di un concetto mettendoli alla prova dei fatti. Con totalitarismo e con autoritarismo è possibile tentare la prova guardando sia alla dinamica dei due tipi di regimi sia alla loro fine. La chiave interpretativa è l’esistenza/sopravvivenza di associazioni, gruppi. Nei regimi totalitari un solo attore domina le istituzioni e controlla tutti i gruppi decidendo della loro vita e della loro morte, dei loro spazi di autonomia e della loro operatività. Quando il regime totalitario crolla, non c’è nulla in grado di prendere il posto del partito unico e delle associazioni permesse e/o sponsorizzate. Il titolo del bel film di Roberto Rossellini, “Germania Anno Zero”, coglie in maniera molto più che suggestiva il deserto lasciato dal crollo del nazionalsocialismo. Nel vuoto socio-economico e politico aperto dalla disintegrazione dell’Unione Sovietica e dalla scomparsa del Partito Comunista non poteva comparire nessuna “società civile”. Vi si sono trovati a scorrazzare gli oligarchi.

La situazione alla fine ingloriosa degli autoritarismi classici: Italia, Portogallo, Spagna, è risultata molto diversa da quella dei totalitarismi. Proprio perché il fascismo, come il salazarismo e il franchismo, non aveva avuto abbastanza forza per acquisire il controllo totale su alcune potenti strutture: la Chiesa cattolica, le Forze Armate, la burocrazia, nel caso italiano, la Monarchia, e persino gli industriali (in Portogallo le 400 famiglie organizzate che detenevano il potere economico), il crollo del regime aprì, grazie al pluralismo, la transizione alla democrazia. Però. Però questa modalità di transizione comportò in Italia più che altrove (ma è un fenomeno ancora largamente e dolorosamente da esplorare) la mancata epurazione, tranne relativamente poche eccezioni, dei dirigenti e della grandissima maggioranza dei sostenitori importanti del regime.

   Certo, anche alcuni esponenti di non altissimo rilievo dei regimi totalitari rimangono o tornano a galla, ma il numero dei revenants di notevole prominenza nei regimi autoritari è incomparabilmente più elevato. Sono le stesse organizzazioni che hanno iniziato la transizione a non volere e non sapere defascistizzare. Nella nuova fase di competizione i numeri contano, le esperienze associative e lavorative servono, le competenze possono essere cruciali. Come si fa a imporre l’epurazione del compagno di stanza, del collega di lungo corso, dell’amico ai tempi del liceo, del coinquilino che, pur avendo sostenuto il fascismo, si sono macchiati di crimini minori, ma giurano d essersi pentiti e si dichiarano pronti alla nuova vita dando il loro apporto all’organizzazione? Nel deserto successivo al totalitarismo, l’espulsione è inevitabile. Nel post-autoritarismo vince l’amnesia, più o meno selettiva (Géraldine Schwartz, I senza memoria. Storia di una famiglia europea, Torino, Einaudi, 2019), con la quale bisogna continuamente fare i conti.

Pubblicato il 8 aprile 2023 su Domani

VIDEO Presentazione del libro a cura di Gianfranco Pasquino “Fascismo. Quel che è stato, quel che rimane” @Treccani @RadioRadicale

“Presentazione del libro curato da Gianfranco Pasquino

Fascismo. Quel che è stato, quel che rimane
Treccani

Con
Gianfranco Pasquino (emerito di Scienza Politica all’Università Alma Mater Studiorum di Bologna)
Carlo Crosato (ricercatore di Filosofia all’Università degli Studi di Bergamo).

Intervista registrata giovedì 13 aprile 2023

VIDEO

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Fascismo: totalitarismo fallito, autoritarismo realizzato #larecensione @C_dellaCultura

Che tipo di regime fu il fascismo?

Dovrebbe essere un quesito di ricerca stabilire se il fascismo sia stato oppure no un regime totalitario, un quesito degno di essere soddisfatto con una risposta di grande utilità anche per capire meglio il funzionamento del regime fascista, per spiegarne il crollo e il superamento, per valutarne le conseguenze (che, secondo non pochi studiosi pesano ancora e non poco sul sistema politico italiano, su una parte di elettorato e su alcuni esponenti politici). Invece, il libro di Emilio Gentile (Totalitarismo 100. Ritorno alla storia, Roma, Salerno Editrice, 2023) è quasi esclusivamente una difesa a spada tratta della sua tesi: il fascismo fu totalitario. Tutti coloro che lo negano sarebbero nel migliore dei casi un esempio “dell’ignoranza di dotti senza ‘dotta ignoranza’” (p. 18). Nel testo l’aggettivo totalitario e il sostantivo totalitarismo sono presenti 139 volte, 88 volte nelle prime 27 pagine. Purtroppo, l’autore non si cura di offrire una definizione di totalitario/totalitarismo in nessuna pagina del suo libro. Peraltro, concede ai lettori alcune acide riflessioni sugli scritti di autori famosi, quali, soprattutto Hannah Arendt, non alla ricerca della definizione e neppure del fenomeno, ma per contrastarne il mancato inserimento del fascismo nell’analisi del totalitarismo. Le sue citazioni degli autori sono molto selettive, escludendo fin dall’inizio coloro che hanno collocato il fascismo italiano in buona compagnia con altri paesi nella categoria dei regimi autoritari. In maniera sicuramente schematica, credo sia lecito chiedere agli studiosi: “c’è stata più affinità fra il fascismo e il bolscevismo oppure fra il fascismo e il franchismo?”

Soltanto nelle pagine conclusive, Gentile cita per esteso le definizioni del fascismo come regime totalitario formulate rispettivamente dal giovane marxista Lelio Basso e dall’oppositore cattolico don Luigi Sturzo. Per il primo, cito per esteso, gli elementi essenziali della realtà (dunque, non del ”regime”) fascista“ non ricomprendevano “un’ideologia e una concezione dello Stato che non fosse un mero riflesso della sua politica concreta, che mirava esclusivamente a conservare il potere conquistato, trasformandolo in un monopolio del governo, dello Stato e della politica, con il sostegno di una propria forza armata di partito, e con l’imposizione dei propri miti come un credo religioso, che divinizzava la nazione, identificandola col fascismo stesso, e considerando tutti gli avversari del fascismo, in quanto tali, nemici della nazione, che dovevano essere combattuti e annientati con qualsiasi mezzo” (p. 172, tutti i corsivi sono miei).

Per Sturzo, sostiene Gentile, “il totalitarismo era intrinseco alla natura del fascismo e ne condizionava tutta l’azione, spingendolo ‘ad assorbire tutte le forze nazionali: l’esercito, al quale ha messo a lato la milizia nazionale, che è milizia di partito; e la economia, organizzata nella forma corporativa di partito, per assoggettarla al paternalismo di Stato” (pp. 187.188) (corsivi miei). Infine, Sturzo sottolineava il centralismo statale del fascismo, nuovo “Leviatano che assorbisce ogni altra forza e che diviene l’espressione di un incombente panteismo politico” (p. 188). Troppo facile sottolineare la non sistematicità delle definizioni proposte da Basso e da Sturzo che, pure, entrambe contengono elementi utili. Semmai, il compito, certo esigente e delicato, di chiarire il concetto, avrebbe dovuto essere svolto a maggio ragione dall’autore di un libro che porta il titolo Totalitarismo 100.

Totalitarismo: le definizioni

Una buona analisi comincia dalla definizione del concetto. Da Giovanni Sartori ho imparato che sono possibili e, al tempo stesso, utili tre modalità definitorie. La prima si fonda sulla etimologia. Lì può anche arrestarsi e sicuramente non deve essere travolta. Totalitario significa tutto, omnicomprensivo. Può riguardare l’accentramento del potere, il controllo di una società, la natura di un regime. La seconda modalità definitoria dipende e discende da come quel concetto è stato concepito, percepito, utilizzato per l’appunto nel corso della storia. Nel caso del totalitarismo la sua storia è relativamente breve: cent’anni asserisce Gentile, correttamente. Infatti, la prima volta che l’aggettivo totalitario fa la sua comparsa nel lessico politico è in un articolo scritto dall’antifascista liberale Giovanni Amendola e pubblicato il 12 maggio 1923 sulle pagine del quotidiano “Il Mondo”. Amendola accusava Mussolini di volere costruire un sistema totalitario inteso dominio assoluto e spadroneggiamento completo e incontrollato nel campo della vita politica e amministrativa. Dunque, totalitarismo era un progetto o, nelle parole di Amendola, una promessa, non un sistema ovvero, meglio, un regime realizzato. Facendosi forte di queste parole di colui che diventò un martire del fascismo, Gentile accusa tutti coloro che rifiutano di accettare la definizione di totalitario per il regime fascista di gravemente offendere la memoria di Amendola e di altri antifascisti. Non gli riesce di capire la differenza fra la polemica politica, sacrosanta quella di Amendola, e l’analisi scientifica che, ovviamente, si costruisce e si fonda su altri, differenti criteri. Sceglie anche di dimenticare o ritenere irrilevanti le parole pubblicate il 7 ottobre 1924 dallo stesso Amendola: “il torbido e servile miraggio di un regime ‘totalitario’” era “svanito per sempre”, pure da lui citate (p. 155). La terza modalità definitoria nella visione di Sartori è quella stipulativa. Un certo numero di studiosi più o meno deliberatamente più o meno concertatamente stabiliscono che d’ora in poi un insieme di comportamenti, un fenomeno, un regime dovranno essere identificati con l’aggettivo totalitario. Qualora le loro motivazioni risultino solide, convincenti, in grado di cogliere meglio la specificità di quei comportamenti, fenomeni, regimi e la comunità scientifica ne prende atto accettando l’aggettivo e il sostantivo che sono stati proposti.

Nel caso del totalitarismo possiamo vedere due occorrenze. Da un lato, Mussolini si appropriò immediatamente, in maniera del tutto compiaciuta del termine come perfettamente adatto al regime che il fascismo voleva essere e costruire. Che vi sia riuscito o no è oggetto del contendere storico e politico, e non bastano le moltissime volte in cui Gentile usa, più o meno a sproposito, l’aggettivo totalitario riferendosi a “modo d’agire”, “metodo”, “spirito”, “programma”, “azione pratica”, “volontà”, “organizzazione del sistema di potere e di dominio” fino a “elezioni totalitarie (p, 120, a rendere convincente e insuperabile la affermazione che il fascismo fu totalitario, punto e basta. Dall’altro, il tentativo che l’autore definisce “negazionista” quello, cioè, di sbarazzarsi del tutto di totalitario/totalitarismo perché erroneamente ritenuti concetto/termine da/di Guerra Fredda, è fallito. Il sostantivo totalitarismo non nacque come arma per combattere la guerra fredda. Continua ad avere utilità analitica per descrivere e spiegare i due grandi casi storici dell’Unione Sovietica e del Nazionalsocialismo. Serve altresì a chi voglia comprendere struttura e fisiologia della Repubblica Popolare Cinese (1949), funzionamento e collasso della Repubblica Democratica Tedesca (1949-1990), della Corea e del Nord e, molto probabilmente, anche del Vietnam.

A questo punto, per quanto controversa oppure proprio per questo motivo, è opportuno presentare per esteso quali sono le caratteristiche distintive del totalitarismo. Furono delineate da un grande Professore di Government a Harvard Carl J. Friedrich e dal suo giovane allievo Zbigniew Brzezinski e pubblicate nel 1956: Totalitarian Dictatorship and Democracy (Cambridge, Mass., Harvard University Press), poi riviste e sistematizzate dal solo Friedrich nel 1969: The evolving theory and practice of totalitarian regimes (in C. J. Friedrich, M. Curtis, e B. Barber, Totalitarianism in Perspectives: Three Views, New York, Praeger), tutti testi che sembrano ignoti a Gentile, da lui comunque ignorati.

Dunque, è probabile che in un regime totalitario siano presenti, tutti o quasi, gli elementi che seguono:

a) Una ideologia totalizzante

b) Un partito unico

c) Una polizia segreta notevolmente sviluppata

d) il monopolio statale dei mezzi di comunicazione

e) il controllo centralizzato i tutte le organizzazioni politiche, sociali, culturali fino alla creazione di un sistema di pianificazione economica

f) la subordinazione delle forze armate al potere politico

Di questi elementi un solo uno, la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, è menzionata tre/ i quattro volte da Gentile. Certo, possiamo anche sottolineare che, in effetti, il Partito Nazionale Fascista fu un partito unico, ma dobbiamo subito dopo riconoscere che la presenza sul territorio di quel partito non fu mai effettivamente né capillare né pervasiva e che è difficile riconoscergli un ruolo esclusivo e “totale” di guida. Mussolini decideva senza necessariamente convocare gli organismi di partito e fare leva su di loro. Ripetutamente l’autore parla di Stato-Partito e di Partito-Stato senza chiarire le differenze intercorrenti. Essere iscritti al partito, meglio volenti che nolenti, era ovviamente importante per fare carriera, ad esempio nella burocrazia nazionale e nelle burocrazie locali, ma la burocrazia non fu mai totalmente fascistizzata e gli alti burocrati sempre mantennero spazi di indipendenza/indifferenza operativa. Il potere del leader ufficialmente ai limiti dell’assoluto riconosceva che la burocrazia non era completamente assoggettabile. Insomma dei sei elementi (dell’ideologia dirò dopo) che, secondo Friedrich, caratterizzano un regime totalitario, il fascismo ne presentò due/due e mezzo.

Autoritarismo, allora

A questo punto, sembrerebbe più promettente, forse doveroso cercare la risposta alla domanda “che tipo di regime fu il fascismo?” guardando agli elementi caratterizzanti i regimi autoritari. Non è soltanto una mia opinione personale che la miglior caratterizzazione di che cosa è un regime autoritario continui ad essere, a quasi sessant’anni dalla sua prima formulazione, quella pubblicata dal grande studioso spagnolo Juan Linz (1926-2013) con riferimento al franchismo (1939-1975). Più che opportuno citarla per esteso, anche come esempio di accurata configurazione degli elementi costitutivi dei regimi autoritari. Più precisamente questi regimi sono (cito dall’articolo Autoritarismo nella Enciclopedia delle Scienze Sociali, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1991, p. 444, tutti i corsivi sono miei).

“sistemi a pluralismo politico limitato, la cui classe politica non rende conto del proprio operato, che non sono basati su una ideologia guida articolata, ma sono caratterizzati da mentalità specifiche, dove non esiste una mobilitazione capillare e su vasta scala, salvo in alcuni momenti del loro sviluppo, e in cui un leader, o a volte un piccolo gruppo, esercita il potere entro limiti mal definiti sul piano formale, ma in effetti piuttosto prevedibili”.

Ciascuno degli elementi individuati e poi nel corso dell’articolo analizzati da Linz trovano riscontro non soltanto, ovviamente, nel franchismo, ma anche nel fascismo italiano nonché nel salazarismo portoghese e in non poche esperienze latino-americane raramente assurte per durata e solidità a veri e propri regimi autoritari. Non è questa la sede per un confronto approfondito fra i diversi tipi di regimi autoritari, ma l’esercizio sarebbe più che utile, essenziale. Mi limiterò a ricordare quanto più volte affermato da Giovanni Sartori: “chi conosce un solo sistema politico non conosce neppure quel sistema politico”. La conoscenza, per quanto approfondita, di un unico regime autoritario non è garanzia di effettiva, assoluta, “totale” comprensione di tutte le caratteristiche di quel regime autoritario. Solo la comparazione consente di acquisire conoscenze approfondite, adeguate, sottoponibili a verifica, “falsificabili” (come voleva Karl Popper) e rimodulabili.

Non mi pare che nessuno studioso abbia mai attribuito il termine totalitario al regime franchista. Eppure, nella sua strutturazione la Spagna di Franco è stata il regime politico più simile all’Italia di Mussolini. Ma come potrebbe un sistema politico nel quale permane un “pluralismo politico [seppure] limitato” essere considerato totalitario? Per ineccepibile definizione, in un regime totalitario non può esistere/sussistere nessun pluralismo. Un partito (partito-Stato?) ha acquisito, mantiene, esercita il monopolio del potere politico. Dunque, invece di pluralismo si ha monolitismo. Quel monolitismo può essere minato e incrinato da tensioni e conflitti endogeni, internamente prodotti, che sono individuati e mirabilmente analizzati da Karl W. Deutsch (Cracks in the Monolith: Possibilities and Patterns of Disintegration in Totalitarian Systems 497-508, sotto forma di crepe in grado di fare crollare un edificio all’apparenza granitico (sic).

Ciò detto, sarebbe sbagliato pensare e sostenere che il fascismo non ebbe ambizioni e aspirazioni totalitarie. Al contrario, nella molto acuta e suggestiva distinzione fra fascismo-movimento e fascismo-regime, il grande storico Renzo De Felice coglie con ragguardevole perspicacia la distanza che è intercorsa fra il fascismo-movimento, che mirava a spazzare via tutto quello che si opponeva alla sua ascesa e al suo (eventuale) esercizio “totalitario” del potere, e il fascismo-regime. Ho sempre pensato che questa acuta distinzione possa essere mostrata molto efficacemente ricorrendo a due immagini: Mussolini in camicia nera, il movimentista; Mussolini in frac e lobbia, la sua leadership normalizzata nel regime.

Insediatosi al vertice, Mussolini prese atto della sua insufficienza “totalitaria” e della necessità di accettare la persistenza del potere culturale e sociale della Chiesa Cattolica (addirittura nelle forme ufficiali del Concordato, fin dal 1929, e dei Patti lateranensi; della impossibile fascistizzazione delle Forze Armate; della passività gommosa della burocrazia, prevalentemente al servizio delle preferenze dei suoi componenti; degli spazi di autonomia operativa rivendicati dagli industriali ascendenti e dai latifondisti decadenti; nonché, da ultimo, ma nient’affatto, come si sarebbe visto, minimo, della sopravvivenza della monarchia. In quale altro regime totalitario sarebbe concepibile la presenza di una Casa Reale: i Romanov nella Unione Sovietica? Con qualche forzatura analitica aggiungerei i Pahlavi nella teocrazia iraniana?

Crollo e transizione

Le storie del fascismo si fermano spesso al defenestramento di Mussolini ad opera del Gran Consiglio il 25 luglio 1943 e al dimissionamento dello sconfitto Duce deciso dal Re il cui potere, dunque, non era stato “total[itaria]mente” azzerato dal fascismo. Quando un regime totalitario crolla, Nazismo e Comunismi (DDR, URSS e altri) non c’è “transizione”. Non esistono istituzioni, associazioni, gruppi solidi e ampi in grado di ricevere, ereditare non è il verbo più appropriato, quel che rimane del potere politico. A chi lo consegnerà il Partito Comunista Cinese? A chi sarà costretto a cederlo Kim Jong-un, il Leader supremo della Corea del Nord? Roberto Rossellini, regista di raffinata cultura, intitolò “Germania Anno Zero”, il suo film sulla Germania post-nazista.

Giustamente. Sconfitto e travolto il nazismo, vero totalitarismo, non era rimasto nulla di organizzato. Si doveva ripartire da zero. Gli studiosi di politica che elaborarono il progetto dell’ampio progetto di ricerca comparato sulle possibilità di transizione dai regimi non-democratici, con un posto di rilievo per l’America latina (Guillermo O’Donnell, Philippe C. Schmitter, Lawrence Whitehead, Transitions from Authoritarian Rule. Prospect for Democracy, Baltimore-London, The Johns Hokins University Press, 1986), inclusero capitoli sull’Italia (The Demise of the First Fascist Regime and Italy’s Transition to Democracy: 1943-1948, pp. 45-70 affidato a chi scrive): sulla Spagna, sul Portogallo, sulla Grecia, sulla Turchia, non sui regimi totalitari nei quali c’è crollo, non varie forme di “successione” e modalità diverse di negoziazione fra protagonisti.

Certo, più che corretto è inevitabile definire transizione anche l’intervallo fra il crollo di un regime totalitario e l’instaurazione del regime successivo. Però, nessuna di quelle transizioni è nelle mani di istituzioni, associazioni e gruppi che i totalitarismi avevano bandito, schiacciato, sterminato. In Italia non era morta la monarchia (in Spagna viene addirittura fatta rivivere). In entrambi i sistemi politici la ricostruzione politico-istituzionale ebbe modo di fondarsi sulla Chiesa, la burocrazia, le Forze armate, gli industriali (in Spagna anche una ampia frazione del Movimento Falangista ebbe un significativo ruolo politico esercitato dal suo capo Adolfo Suarez che divenne Primo ministro). In un certo, molto rilevante, senso, la presenza di attori politici, sociali, economici organizzati nella transizione da un regime non-democratico ad altro regime (non è possibile ipotecarne gli esiti) costituisce la prova provata che quel regime non era totalitario. La dura lezione dei fatti contribuisce a insegnare in che modo e con quali criteri classificare, mirando alla maggior precisione possibile, i regimi non-democratici.

In altra sede, naturalmente, ci si potrebbe anche dedicare alle numerose varianti dei regimi e delle esperienze non democratiche. Fra i primi hanno un ruolo di notevole rilievo i regimi militari di longue durée: Egitto, Myanmar. L’Africa subsahariana offre molti esempi di autoritarismi, per lo più relativamente instabili. La teocrazia iraniana è senz’ombra di dubbio un regime autoritario. I sultanismi, definizione di Linz che si attaglia a esperienze autoritarie personalizzate, come quelle di Ghaddafi in Libia e di Saddam Hussein in Iraq, alle quali si possono aggiungere diversi casi nell’America centrale, non si trasformano in veri e propri regimi per la debolezza del tessuto associativo, ma anche per volontà del sultano che teme la sfida di qualsiasi attore politico e sociale organizzato e vieta qualsiasi attività associativa (ma etnie e confessioni religiose sono incancellabili). In tutti questi casi, le transizioni risultano incerte, difficili, protratte proprio a causa della inadeguatezza delle strutture esistenti tranne, talvolta, di quelle preposte all’ordine pubblico e alla sicurezza nazionale sulle quali è improbabile costruire una democrazia.

Defascistizzare?

Concludo scrivendo poche parole su una tematica carsica: la mancata defascistizzazione/epurazione che mi pare inesorabilmente collegata alla natura dei regimi autoritari. In prima approssimazione ritengo che sia possibile affermare che, pure non essendo totalmente asservite al regime, la Chiesa, la burocrazia, le Forze Armate, l’Associazione Industriali avevano al loro interno, oltre a a molti iscritti con molteplici motivazioni e “intensità” al Partito Nazionale Fascista, numerosi, ancorché non maggioritari, estimatori del fascismo. Il fenomeno è simile in Spagna, anche se colà ci furono significativi cambi generazionali in particolare nel clero della potente Chiesa cattolica post-Concilio Vaticano II e, in misura minore, nelle Forze Armate e nella burocrazia statale. Ipotizzo, ma forse già fin d’ora ne sappiamo abbastanza, che per una varietà di ragioni nessuna delle associazioni esistenti volesse procedere ad una sua auto-epurazione. A meno che si fossero macchiati di comportamenti particolarmente riprovevoli, era complicato, talvolta anche emozionalmente, liquidare, espellere, costringere ad andarsene, colleghi di lavoro, compagni d’armi, collaboratori di lungo corso. Inoltre, una epurazione su larga scala nella fase in cui iniziava la competizione politica secondo regole democratiche per le quali i numeri contano, avrebbe danneggiato l’intera associazione, i suoi componenti, i suoi obiettivi. Un’epurazione di quel genere, rivelando l’ampiezza e la profondità del coinvolgimento dell’associazione nel regime avrebbe avuto effetti molto negativi sul prestigio di ciascuna associazione. Il resto lo fecero tutti coloro che minimizzarono opportunisticamente la quantità e la qualità del sostegno dato da loro (e dai loro parenti, amici, colleghi) al regime. Per lo più la fecero franca. Il conto dell’autoritarismo fascista e del suo pluralismo limitato non competitivo non l’abbiamo ancora pagato del tutto

Insomma, da qualsiasi punto di vista, purché non sia provinciale e parrocchiale, lo si giri: definitorio, classificatorio, concettuale, storico, comparato, “totalitarismo” non risulta il termine appropriato per definire il fascismo italiano. Al contrario, con buona pace dei suoi utilizzatori/trici, talvolta rigidi e ostinati, come Emilio Gentile e alcune sue allieve, talaltra pigri e copioni, il termine è spesso fuorviante e mai in grado di rendere conto di quello che il fascismo italiano riuscì effettivamente ad essere, del suo funzionamento, della sua caduta, dei suoi lasciti. Non basterà “tornare alla storia” per muovere gli indispensabili passi avanti nella direzione giusta. Bisognerà fare ricorso, come alcuni pochi storici sanno e già hanno fatto, agli abbondanti contributi in materia disponibili oramai da molti decenni (ad alcuni dei quali, quelli che mi paiono fondamentali, ho qui fatto sintetico riferimento) che identificano regole e meccanismi, spiegano come funzionano i partiti e le istituzioni, esplorano le dinamiche evolutive, proprio come sanno fare i migliori cultori della scienza politica.

Pubblicato il 29 marzo 2023 su casadellacultura.it