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Fascismo: totalitarismo fallito, autoritarismo realizzato #larecensione @C_dellaCultura

Che tipo di regime fu il fascismo?

Dovrebbe essere un quesito di ricerca stabilire se il fascismo sia stato oppure no un regime totalitario, un quesito degno di essere soddisfatto con una risposta di grande utilità anche per capire meglio il funzionamento del regime fascista, per spiegarne il crollo e il superamento, per valutarne le conseguenze (che, secondo non pochi studiosi pesano ancora e non poco sul sistema politico italiano, su una parte di elettorato e su alcuni esponenti politici). Invece, il libro di Emilio Gentile (Totalitarismo 100. Ritorno alla storia, Roma, Salerno Editrice, 2023) è quasi esclusivamente una difesa a spada tratta della sua tesi: il fascismo fu totalitario. Tutti coloro che lo negano sarebbero nel migliore dei casi un esempio “dell’ignoranza di dotti senza ‘dotta ignoranza’” (p. 18). Nel testo l’aggettivo totalitario e il sostantivo totalitarismo sono presenti 139 volte, 88 volte nelle prime 27 pagine. Purtroppo, l’autore non si cura di offrire una definizione di totalitario/totalitarismo in nessuna pagina del suo libro. Peraltro, concede ai lettori alcune acide riflessioni sugli scritti di autori famosi, quali, soprattutto Hannah Arendt, non alla ricerca della definizione e neppure del fenomeno, ma per contrastarne il mancato inserimento del fascismo nell’analisi del totalitarismo. Le sue citazioni degli autori sono molto selettive, escludendo fin dall’inizio coloro che hanno collocato il fascismo italiano in buona compagnia con altri paesi nella categoria dei regimi autoritari. In maniera sicuramente schematica, credo sia lecito chiedere agli studiosi: “c’è stata più affinità fra il fascismo e il bolscevismo oppure fra il fascismo e il franchismo?”

Soltanto nelle pagine conclusive, Gentile cita per esteso le definizioni del fascismo come regime totalitario formulate rispettivamente dal giovane marxista Lelio Basso e dall’oppositore cattolico don Luigi Sturzo. Per il primo, cito per esteso, gli elementi essenziali della realtà (dunque, non del ”regime”) fascista“ non ricomprendevano “un’ideologia e una concezione dello Stato che non fosse un mero riflesso della sua politica concreta, che mirava esclusivamente a conservare il potere conquistato, trasformandolo in un monopolio del governo, dello Stato e della politica, con il sostegno di una propria forza armata di partito, e con l’imposizione dei propri miti come un credo religioso, che divinizzava la nazione, identificandola col fascismo stesso, e considerando tutti gli avversari del fascismo, in quanto tali, nemici della nazione, che dovevano essere combattuti e annientati con qualsiasi mezzo” (p. 172, tutti i corsivi sono miei).

Per Sturzo, sostiene Gentile, “il totalitarismo era intrinseco alla natura del fascismo e ne condizionava tutta l’azione, spingendolo ‘ad assorbire tutte le forze nazionali: l’esercito, al quale ha messo a lato la milizia nazionale, che è milizia di partito; e la economia, organizzata nella forma corporativa di partito, per assoggettarla al paternalismo di Stato” (pp. 187.188) (corsivi miei). Infine, Sturzo sottolineava il centralismo statale del fascismo, nuovo “Leviatano che assorbisce ogni altra forza e che diviene l’espressione di un incombente panteismo politico” (p. 188). Troppo facile sottolineare la non sistematicità delle definizioni proposte da Basso e da Sturzo che, pure, entrambe contengono elementi utili. Semmai, il compito, certo esigente e delicato, di chiarire il concetto, avrebbe dovuto essere svolto a maggio ragione dall’autore di un libro che porta il titolo Totalitarismo 100.

Totalitarismo: le definizioni

Una buona analisi comincia dalla definizione del concetto. Da Giovanni Sartori ho imparato che sono possibili e, al tempo stesso, utili tre modalità definitorie. La prima si fonda sulla etimologia. Lì può anche arrestarsi e sicuramente non deve essere travolta. Totalitario significa tutto, omnicomprensivo. Può riguardare l’accentramento del potere, il controllo di una società, la natura di un regime. La seconda modalità definitoria dipende e discende da come quel concetto è stato concepito, percepito, utilizzato per l’appunto nel corso della storia. Nel caso del totalitarismo la sua storia è relativamente breve: cent’anni asserisce Gentile, correttamente. Infatti, la prima volta che l’aggettivo totalitario fa la sua comparsa nel lessico politico è in un articolo scritto dall’antifascista liberale Giovanni Amendola e pubblicato il 12 maggio 1923 sulle pagine del quotidiano “Il Mondo”. Amendola accusava Mussolini di volere costruire un sistema totalitario inteso dominio assoluto e spadroneggiamento completo e incontrollato nel campo della vita politica e amministrativa. Dunque, totalitarismo era un progetto o, nelle parole di Amendola, una promessa, non un sistema ovvero, meglio, un regime realizzato. Facendosi forte di queste parole di colui che diventò un martire del fascismo, Gentile accusa tutti coloro che rifiutano di accettare la definizione di totalitario per il regime fascista di gravemente offendere la memoria di Amendola e di altri antifascisti. Non gli riesce di capire la differenza fra la polemica politica, sacrosanta quella di Amendola, e l’analisi scientifica che, ovviamente, si costruisce e si fonda su altri, differenti criteri. Sceglie anche di dimenticare o ritenere irrilevanti le parole pubblicate il 7 ottobre 1924 dallo stesso Amendola: “il torbido e servile miraggio di un regime ‘totalitario’” era “svanito per sempre”, pure da lui citate (p. 155). La terza modalità definitoria nella visione di Sartori è quella stipulativa. Un certo numero di studiosi più o meno deliberatamente più o meno concertatamente stabiliscono che d’ora in poi un insieme di comportamenti, un fenomeno, un regime dovranno essere identificati con l’aggettivo totalitario. Qualora le loro motivazioni risultino solide, convincenti, in grado di cogliere meglio la specificità di quei comportamenti, fenomeni, regimi e la comunità scientifica ne prende atto accettando l’aggettivo e il sostantivo che sono stati proposti.

Nel caso del totalitarismo possiamo vedere due occorrenze. Da un lato, Mussolini si appropriò immediatamente, in maniera del tutto compiaciuta del termine come perfettamente adatto al regime che il fascismo voleva essere e costruire. Che vi sia riuscito o no è oggetto del contendere storico e politico, e non bastano le moltissime volte in cui Gentile usa, più o meno a sproposito, l’aggettivo totalitario riferendosi a “modo d’agire”, “metodo”, “spirito”, “programma”, “azione pratica”, “volontà”, “organizzazione del sistema di potere e di dominio” fino a “elezioni totalitarie (p, 120, a rendere convincente e insuperabile la affermazione che il fascismo fu totalitario, punto e basta. Dall’altro, il tentativo che l’autore definisce “negazionista” quello, cioè, di sbarazzarsi del tutto di totalitario/totalitarismo perché erroneamente ritenuti concetto/termine da/di Guerra Fredda, è fallito. Il sostantivo totalitarismo non nacque come arma per combattere la guerra fredda. Continua ad avere utilità analitica per descrivere e spiegare i due grandi casi storici dell’Unione Sovietica e del Nazionalsocialismo. Serve altresì a chi voglia comprendere struttura e fisiologia della Repubblica Popolare Cinese (1949), funzionamento e collasso della Repubblica Democratica Tedesca (1949-1990), della Corea e del Nord e, molto probabilmente, anche del Vietnam.

A questo punto, per quanto controversa oppure proprio per questo motivo, è opportuno presentare per esteso quali sono le caratteristiche distintive del totalitarismo. Furono delineate da un grande Professore di Government a Harvard Carl J. Friedrich e dal suo giovane allievo Zbigniew Brzezinski e pubblicate nel 1956: Totalitarian Dictatorship and Democracy (Cambridge, Mass., Harvard University Press), poi riviste e sistematizzate dal solo Friedrich nel 1969: The evolving theory and practice of totalitarian regimes (in C. J. Friedrich, M. Curtis, e B. Barber, Totalitarianism in Perspectives: Three Views, New York, Praeger), tutti testi che sembrano ignoti a Gentile, da lui comunque ignorati.

Dunque, è probabile che in un regime totalitario siano presenti, tutti o quasi, gli elementi che seguono:

a) Una ideologia totalizzante

b) Un partito unico

c) Una polizia segreta notevolmente sviluppata

d) il monopolio statale dei mezzi di comunicazione

e) il controllo centralizzato i tutte le organizzazioni politiche, sociali, culturali fino alla creazione di un sistema di pianificazione economica

f) la subordinazione delle forze armate al potere politico

Di questi elementi un solo uno, la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, è menzionata tre/ i quattro volte da Gentile. Certo, possiamo anche sottolineare che, in effetti, il Partito Nazionale Fascista fu un partito unico, ma dobbiamo subito dopo riconoscere che la presenza sul territorio di quel partito non fu mai effettivamente né capillare né pervasiva e che è difficile riconoscergli un ruolo esclusivo e “totale” di guida. Mussolini decideva senza necessariamente convocare gli organismi di partito e fare leva su di loro. Ripetutamente l’autore parla di Stato-Partito e di Partito-Stato senza chiarire le differenze intercorrenti. Essere iscritti al partito, meglio volenti che nolenti, era ovviamente importante per fare carriera, ad esempio nella burocrazia nazionale e nelle burocrazie locali, ma la burocrazia non fu mai totalmente fascistizzata e gli alti burocrati sempre mantennero spazi di indipendenza/indifferenza operativa. Il potere del leader ufficialmente ai limiti dell’assoluto riconosceva che la burocrazia non era completamente assoggettabile. Insomma dei sei elementi (dell’ideologia dirò dopo) che, secondo Friedrich, caratterizzano un regime totalitario, il fascismo ne presentò due/due e mezzo.

Autoritarismo, allora

A questo punto, sembrerebbe più promettente, forse doveroso cercare la risposta alla domanda “che tipo di regime fu il fascismo?” guardando agli elementi caratterizzanti i regimi autoritari. Non è soltanto una mia opinione personale che la miglior caratterizzazione di che cosa è un regime autoritario continui ad essere, a quasi sessant’anni dalla sua prima formulazione, quella pubblicata dal grande studioso spagnolo Juan Linz (1926-2013) con riferimento al franchismo (1939-1975). Più che opportuno citarla per esteso, anche come esempio di accurata configurazione degli elementi costitutivi dei regimi autoritari. Più precisamente questi regimi sono (cito dall’articolo Autoritarismo nella Enciclopedia delle Scienze Sociali, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1991, p. 444, tutti i corsivi sono miei).

“sistemi a pluralismo politico limitato, la cui classe politica non rende conto del proprio operato, che non sono basati su una ideologia guida articolata, ma sono caratterizzati da mentalità specifiche, dove non esiste una mobilitazione capillare e su vasta scala, salvo in alcuni momenti del loro sviluppo, e in cui un leader, o a volte un piccolo gruppo, esercita il potere entro limiti mal definiti sul piano formale, ma in effetti piuttosto prevedibili”.

Ciascuno degli elementi individuati e poi nel corso dell’articolo analizzati da Linz trovano riscontro non soltanto, ovviamente, nel franchismo, ma anche nel fascismo italiano nonché nel salazarismo portoghese e in non poche esperienze latino-americane raramente assurte per durata e solidità a veri e propri regimi autoritari. Non è questa la sede per un confronto approfondito fra i diversi tipi di regimi autoritari, ma l’esercizio sarebbe più che utile, essenziale. Mi limiterò a ricordare quanto più volte affermato da Giovanni Sartori: “chi conosce un solo sistema politico non conosce neppure quel sistema politico”. La conoscenza, per quanto approfondita, di un unico regime autoritario non è garanzia di effettiva, assoluta, “totale” comprensione di tutte le caratteristiche di quel regime autoritario. Solo la comparazione consente di acquisire conoscenze approfondite, adeguate, sottoponibili a verifica, “falsificabili” (come voleva Karl Popper) e rimodulabili.

Non mi pare che nessuno studioso abbia mai attribuito il termine totalitario al regime franchista. Eppure, nella sua strutturazione la Spagna di Franco è stata il regime politico più simile all’Italia di Mussolini. Ma come potrebbe un sistema politico nel quale permane un “pluralismo politico [seppure] limitato” essere considerato totalitario? Per ineccepibile definizione, in un regime totalitario non può esistere/sussistere nessun pluralismo. Un partito (partito-Stato?) ha acquisito, mantiene, esercita il monopolio del potere politico. Dunque, invece di pluralismo si ha monolitismo. Quel monolitismo può essere minato e incrinato da tensioni e conflitti endogeni, internamente prodotti, che sono individuati e mirabilmente analizzati da Karl W. Deutsch (Cracks in the Monolith: Possibilities and Patterns of Disintegration in Totalitarian Systems 497-508, sotto forma di crepe in grado di fare crollare un edificio all’apparenza granitico (sic).

Ciò detto, sarebbe sbagliato pensare e sostenere che il fascismo non ebbe ambizioni e aspirazioni totalitarie. Al contrario, nella molto acuta e suggestiva distinzione fra fascismo-movimento e fascismo-regime, il grande storico Renzo De Felice coglie con ragguardevole perspicacia la distanza che è intercorsa fra il fascismo-movimento, che mirava a spazzare via tutto quello che si opponeva alla sua ascesa e al suo (eventuale) esercizio “totalitario” del potere, e il fascismo-regime. Ho sempre pensato che questa acuta distinzione possa essere mostrata molto efficacemente ricorrendo a due immagini: Mussolini in camicia nera, il movimentista; Mussolini in frac e lobbia, la sua leadership normalizzata nel regime.

Insediatosi al vertice, Mussolini prese atto della sua insufficienza “totalitaria” e della necessità di accettare la persistenza del potere culturale e sociale della Chiesa Cattolica (addirittura nelle forme ufficiali del Concordato, fin dal 1929, e dei Patti lateranensi; della impossibile fascistizzazione delle Forze Armate; della passività gommosa della burocrazia, prevalentemente al servizio delle preferenze dei suoi componenti; degli spazi di autonomia operativa rivendicati dagli industriali ascendenti e dai latifondisti decadenti; nonché, da ultimo, ma nient’affatto, come si sarebbe visto, minimo, della sopravvivenza della monarchia. In quale altro regime totalitario sarebbe concepibile la presenza di una Casa Reale: i Romanov nella Unione Sovietica? Con qualche forzatura analitica aggiungerei i Pahlavi nella teocrazia iraniana?

Crollo e transizione

Le storie del fascismo si fermano spesso al defenestramento di Mussolini ad opera del Gran Consiglio il 25 luglio 1943 e al dimissionamento dello sconfitto Duce deciso dal Re il cui potere, dunque, non era stato “total[itaria]mente” azzerato dal fascismo. Quando un regime totalitario crolla, Nazismo e Comunismi (DDR, URSS e altri) non c’è “transizione”. Non esistono istituzioni, associazioni, gruppi solidi e ampi in grado di ricevere, ereditare non è il verbo più appropriato, quel che rimane del potere politico. A chi lo consegnerà il Partito Comunista Cinese? A chi sarà costretto a cederlo Kim Jong-un, il Leader supremo della Corea del Nord? Roberto Rossellini, regista di raffinata cultura, intitolò “Germania Anno Zero”, il suo film sulla Germania post-nazista.

Giustamente. Sconfitto e travolto il nazismo, vero totalitarismo, non era rimasto nulla di organizzato. Si doveva ripartire da zero. Gli studiosi di politica che elaborarono il progetto dell’ampio progetto di ricerca comparato sulle possibilità di transizione dai regimi non-democratici, con un posto di rilievo per l’America latina (Guillermo O’Donnell, Philippe C. Schmitter, Lawrence Whitehead, Transitions from Authoritarian Rule. Prospect for Democracy, Baltimore-London, The Johns Hokins University Press, 1986), inclusero capitoli sull’Italia (The Demise of the First Fascist Regime and Italy’s Transition to Democracy: 1943-1948, pp. 45-70 affidato a chi scrive): sulla Spagna, sul Portogallo, sulla Grecia, sulla Turchia, non sui regimi totalitari nei quali c’è crollo, non varie forme di “successione” e modalità diverse di negoziazione fra protagonisti.

Certo, più che corretto è inevitabile definire transizione anche l’intervallo fra il crollo di un regime totalitario e l’instaurazione del regime successivo. Però, nessuna di quelle transizioni è nelle mani di istituzioni, associazioni e gruppi che i totalitarismi avevano bandito, schiacciato, sterminato. In Italia non era morta la monarchia (in Spagna viene addirittura fatta rivivere). In entrambi i sistemi politici la ricostruzione politico-istituzionale ebbe modo di fondarsi sulla Chiesa, la burocrazia, le Forze armate, gli industriali (in Spagna anche una ampia frazione del Movimento Falangista ebbe un significativo ruolo politico esercitato dal suo capo Adolfo Suarez che divenne Primo ministro). In un certo, molto rilevante, senso, la presenza di attori politici, sociali, economici organizzati nella transizione da un regime non-democratico ad altro regime (non è possibile ipotecarne gli esiti) costituisce la prova provata che quel regime non era totalitario. La dura lezione dei fatti contribuisce a insegnare in che modo e con quali criteri classificare, mirando alla maggior precisione possibile, i regimi non-democratici.

In altra sede, naturalmente, ci si potrebbe anche dedicare alle numerose varianti dei regimi e delle esperienze non democratiche. Fra i primi hanno un ruolo di notevole rilievo i regimi militari di longue durée: Egitto, Myanmar. L’Africa subsahariana offre molti esempi di autoritarismi, per lo più relativamente instabili. La teocrazia iraniana è senz’ombra di dubbio un regime autoritario. I sultanismi, definizione di Linz che si attaglia a esperienze autoritarie personalizzate, come quelle di Ghaddafi in Libia e di Saddam Hussein in Iraq, alle quali si possono aggiungere diversi casi nell’America centrale, non si trasformano in veri e propri regimi per la debolezza del tessuto associativo, ma anche per volontà del sultano che teme la sfida di qualsiasi attore politico e sociale organizzato e vieta qualsiasi attività associativa (ma etnie e confessioni religiose sono incancellabili). In tutti questi casi, le transizioni risultano incerte, difficili, protratte proprio a causa della inadeguatezza delle strutture esistenti tranne, talvolta, di quelle preposte all’ordine pubblico e alla sicurezza nazionale sulle quali è improbabile costruire una democrazia.

Defascistizzare?

Concludo scrivendo poche parole su una tematica carsica: la mancata defascistizzazione/epurazione che mi pare inesorabilmente collegata alla natura dei regimi autoritari. In prima approssimazione ritengo che sia possibile affermare che, pure non essendo totalmente asservite al regime, la Chiesa, la burocrazia, le Forze Armate, l’Associazione Industriali avevano al loro interno, oltre a a molti iscritti con molteplici motivazioni e “intensità” al Partito Nazionale Fascista, numerosi, ancorché non maggioritari, estimatori del fascismo. Il fenomeno è simile in Spagna, anche se colà ci furono significativi cambi generazionali in particolare nel clero della potente Chiesa cattolica post-Concilio Vaticano II e, in misura minore, nelle Forze Armate e nella burocrazia statale. Ipotizzo, ma forse già fin d’ora ne sappiamo abbastanza, che per una varietà di ragioni nessuna delle associazioni esistenti volesse procedere ad una sua auto-epurazione. A meno che si fossero macchiati di comportamenti particolarmente riprovevoli, era complicato, talvolta anche emozionalmente, liquidare, espellere, costringere ad andarsene, colleghi di lavoro, compagni d’armi, collaboratori di lungo corso. Inoltre, una epurazione su larga scala nella fase in cui iniziava la competizione politica secondo regole democratiche per le quali i numeri contano, avrebbe danneggiato l’intera associazione, i suoi componenti, i suoi obiettivi. Un’epurazione di quel genere, rivelando l’ampiezza e la profondità del coinvolgimento dell’associazione nel regime avrebbe avuto effetti molto negativi sul prestigio di ciascuna associazione. Il resto lo fecero tutti coloro che minimizzarono opportunisticamente la quantità e la qualità del sostegno dato da loro (e dai loro parenti, amici, colleghi) al regime. Per lo più la fecero franca. Il conto dell’autoritarismo fascista e del suo pluralismo limitato non competitivo non l’abbiamo ancora pagato del tutto

Insomma, da qualsiasi punto di vista, purché non sia provinciale e parrocchiale, lo si giri: definitorio, classificatorio, concettuale, storico, comparato, “totalitarismo” non risulta il termine appropriato per definire il fascismo italiano. Al contrario, con buona pace dei suoi utilizzatori/trici, talvolta rigidi e ostinati, come Emilio Gentile e alcune sue allieve, talaltra pigri e copioni, il termine è spesso fuorviante e mai in grado di rendere conto di quello che il fascismo italiano riuscì effettivamente ad essere, del suo funzionamento, della sua caduta, dei suoi lasciti. Non basterà “tornare alla storia” per muovere gli indispensabili passi avanti nella direzione giusta. Bisognerà fare ricorso, come alcuni pochi storici sanno e già hanno fatto, agli abbondanti contributi in materia disponibili oramai da molti decenni (ad alcuni dei quali, quelli che mi paiono fondamentali, ho qui fatto sintetico riferimento) che identificano regole e meccanismi, spiegano come funzionano i partiti e le istituzioni, esplorano le dinamiche evolutive, proprio come sanno fare i migliori cultori della scienza politica.

Pubblicato il 29 marzo 2023 su casadellacultura.it

Fascismo. Quel che è stato, quel che rimane #8dicembre #Nuvola #Roma @piulibri22 Più libri più liberi – Fiera Nazionale della Piccola e Media Editoria #piulibri22 @UtetLibri

08 dicembre 17.30 Sala Antares

Presentazione del libro a cura di Gianfranco Pasquino

Fascismo. Quel che è stato, quel che rimane

Intervengono il curatore, Maurizio Molinari e Simonetta Fiori

A cura di Treccani Libri


Maurizio Molinari e Simonetta Fiori e Gianfranco Pasquino discutono delle premesse, delle forme del consenso e delle interpretazioni del più importante fatto politico della storia d’Italia: partendo dalle origini, il volume ne ripercorre le trasformazioni e la caduta, spingendo lo sguardo anche oltre, verso il neofascismo e le forme di autoritarismo e populismo attuali.

Studenti in dialogo con il Professore: Fascismo. Quel che è stato, quel che rimane #TreccaniLibri a #Varallo #25novembre

VENERDI’ 25 NOVEMBRE – ORE 9.30
Centro Congressi di Palazzo D’Adda

Venerdì 25 novembre, alle 9.30, sarà Ospite a Varallo presso il Centro Congressi di Palazzo D’Adda, il Professor Gianfranco Pasquino, Professore Emerito di Scienza politica, accademico dei Lincei, Senatore della Repubblica dal 1983 al 1992 e dal 1994 al 1996, editorialista del quotidiano Domani, nel passato de Il Sole 24 Ore, la Repubblica e l’Unità, già commentatore della trasmissione radiofonica di Radio 1 Zapping, per incontrare gli studenti dell’ultimo anno delle Istituto Superiore D’Adda, in un incontro aperto anche a tutti coloro che fossero interessati.

L’Istituto D’Adda ha, fin da subito, aderito con interesse all’incontro con il prof. Pasquino, promosso dal Comune di Varallo e organizzato dalla Biblioteca Civica “Farinone-Centa”, in occasione della pubblicazione del volume:Fascismo. Quel che è stato, quel che rimane. I ragazzi delle classi quinte, opportunamente indirizzati dai loro docenti, si sono messi già al lavoro per prepararsi all’incontro, suddividendo il libro in sezioni e lavorando in squadra per cercare spunti di riflessione per dialogare con il professore, molto conosciuto per le sue eccezionali doti comunicative, come spiega la Dirigente, Professoressa Paola Vicario: “In questi giorni ho avuto l’occasione di osservarli mentre si organizzavano e si confrontavano sulle domande da porre, e ho potuto constatare con piacere che stanno lavorando con impegno per toccare i molteplici aspetti del periodo storico trattato e trovare collegamenti anche con l’attualità. Sono certa che l’incontro sarà per loro un’occasione di arricchimento sotto tutti i punti di vista”.

Pasquino, si è laureato a Torino in Scienza Politica con Norberto Bobbio e specializzato in politica comparata con Giovanni Sartori all’Istituto Cesare Alfieri di Firenze. La sua carriera universitaria l’ha portato a insegnare nelle Università di Firenze, ad Harvard, a Los Angeles, e alla School of Advanced International Studies di Washington, a Oxford, Madrid e a Bologna, dove nel 2014 è stato nominato Professore Emerito.

Nel 2022 per UTET ha pubblicato: “Tra scienza e politica. Una autobiografia”, che era stato presentato in Biblioteca a Varallo il 25 maggio.

L’incontro, promosso dalla Biblioteca Civica “Farinone-Centa”, in collaborazione con l’Istituto Superiore D’Adda, il Centro Libri Punto d’Incontro di Varallo e l’Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nel Biellese, nel Vercellese in Valsesia, sarà ad ingresso libero.

Per gli studenti è previsto il rilascio di attestazione di partecipazione, utilizzabile per il riconoscimento dei crediti formativi.

INVITO Fascismo. Quel che è stato, quel che rimane @Treccani #Presentazione #24novembre #Guardabosone #Vercelli

Comune di Guardabosone
Biblioteca Angelo Togna

24 novembre 2022 ore 18
Salone parrocchiale

FASCISMO Quel che è stato, quel che rimane

In dialogo con Gianfranco Pasquino

Alessandro Orsi e Roberto Travastino

VIDEO Anni interessanti Gianfranco Pasquino tra ricordi autobiografici e nuovi equilibri politici #Giovedìculturale @culturaesvilupp @UtetLibri @Treccani

In dialogo con Giorgio Barberis e Stefano Quirico, docenti dell’Università del Piemonte Orientale

Gianfranco Pasquino discuterà delle sue pubblicazioni più recenti:

Tra scienza e politica. Una autobiografia (UTET, Milano 2022)

Fascismo. Quel che è stato, quel che rimane (Roma 2022)

È raccomandata la prenotazione del posto al link:
https://culturaesviluppo.it/evento/incontro-con-gianfranco-pasquino/

INVITO Anni interessanti #incontro con Gianfranco Pasquino tra ricordi autobiografici e nuovi equilibri politici #Alessandria #3novembre #Giovedìculturale @culturaesvilupp @UtetLibri @Treccani

 ore 18
Assicurazione Cultura e Sviluppo
piazza Fabrizio De André, Alessandria

In dialogo con Giorgio Barberis e Stefano Quirico, docenti dell’Università del Piemonte Orientale

Gianfranco Pasquino discuterà delle sue pubblicazioni più recenti:

Tra scienza e politica. Una autobiografia (UTET, Milano 2022)

Fascismo. Quel che è stato, quel che rimane (Roma 2022)

È raccomandata la prenotazione del posto al link:
https://culturaesviluppo.it/evento/incontro-con-gianfranco-pasquino/

INVITO #presentazione Fascismo. Quel che è stato, quel che rimane @Treccani a cura di Gianfranco Pasquino #Roma #20ottobre ore 18 sala Igea dell’ Istituto della Enciclopedia Italiana

Istituto della Enciclopedia Italiana

Piazza della Enciclopedia Italiana, 4
Roma

Con la presente abbiamo il piacere di invitarla giovedì 20 ottobre alle ore 18.00 nella sala Igea della sede dell’Istituto della Enciclopedia Italiana, a Roma, per la presentazione del volume:

Fascismo. Quel che è stato, quel che rimane (Treccani libri, 2022)

Interverranno il curatore del libro Gianfranco Pasquino (Accademia dei Lincei, Consiglio scientifico dell’Enciclopedia italiana) e Simona Colarizi (Università La Sapienza).

FASCISMO Quel che è stato, quel che rimane
a cura di Gianfranco Pasquino
Treccani libri

Il fascismo è stato il più importante fenomeno politico nella storia d’Italia e uno dei più rilevanti del xx secolo in genere. Ha influenzato la politica di molti paesi ed è stato oggetto di una straordinaria mole di studi. A cent’anni dalla Marcia su Roma continua a essere utile riflettere sulle condizioni politiche, economiche, sociali e culturali che aprirono la strada alla sua affermazione. È quanto fanno – e ci aiutano a fare – i saggi raccolti nel volume, che ne ripercorrono la storia dalle origini alla caduta,  ricostruendone i “valori”, la conquista del potere,  le trasformazioni, il consenso, le interpretazioni,  e contestualizzandolo nel più ampio scenario europeo. La chiave di lettura è duplice: innanzitutto, il fascismo non è il passato che non passa, ma è un passato che ha considerevolmente influenzato il presente e che deve essere conosciuto approfonditamente per costruire un futuro migliore. In secondo luogo, esso tentò di imporre una visione totalitaria alla società italiana ma, tra ambiguità, concessioni, viltà, non riuscì ad acquisire il pieno controllo sopra la Monarchia, la Chiesa, le Forze Armate,  gli industriali, e dovette fare i conti anche con gli antifascisti  che coraggiosamente mantennero viva la loro opposizione.  Il volume mira a offrire ai lettori il materiale indispensabile per acquisirne una corretta e approfondita conoscenza e comprendere se esso possa in qualche modo ripresentarsi.

«Il fascismo non fu il prodotto di una ideologia, fatta di principi rigidi, coesi,concatenati; né la produsse. Piuttosto si basò su una mentalità fatta di atteggiamenti, valutazioni, orientamenti, che avevano tradizioni e radici nel pensiero politico italiano e nella “cultura” delle masse popolari, contribuendo a rafforzarla».

Gianfranco Pasquino

Saggi di

Mario Avagliano, Paolo Bagnoli, Danilo Breschi, Marco Bresciani, Alessandro Campi, Annalisa Capristo, Antonio Carioti, Simona Colarizi, Piero Craveri, Filomena Fantarella, Marco Filoni, Guido Melis, Marco Palla, Marco Palmieri, Giuseppe Parlato, Gianfranco Pasquino, Santo Peli, Paolo Pombeni, Marco Tarchi.

Fascismo. Quel che è stato, quel che rimane @Treccani a cura di Gianfranco Pasquino

FASCISMO Quel che è stato, quel che rimane
a cura di Gianfranco Pasquino
Treccani libri

Il fascismo è stato il più importante fenomeno politico nella storia d’Italia e uno dei più rilevanti del xx secolo in genere. Ha influenzato la politica di molti paesi ed è stato oggetto di una straordinaria mole di studi. A cent’anni dalla Marcia su Roma continua a essere utile riflettere sulle condizioni politiche, economiche, sociali e culturali che aprirono la strada alla sua affermazione. È quanto fanno – e ci aiutano a fare – i saggi raccolti nel volume, che ne ripercorrono la storia dalle origini alla caduta,  ricostruendone i “valori”, la conquista del potere,  le trasformazioni, il consenso, le interpretazioni,  e contestualizzandolo nel più ampio scenario europeo. La chiave di lettura è duplice: innanzitutto, il fascismo non è il passato che non passa, ma è un passato che ha considerevolmente influenzato il presente e che deve essere conosciuto approfonditamente per costruire un futuro migliore. In secondo luogo, esso tentò di imporre una visione totalitaria alla società italiana ma, tra ambiguità, concessioni, viltà, non riuscì ad acquisire il pieno controllo sopra la Monarchia, la Chiesa, le Forze Armate,  gli industriali, e dovette fare i conti anche con gli antifascisti  che coraggiosamente mantennero viva la loro opposizione.  Il volume mira a offrire ai lettori il materiale indispensabile per acquisirne una corretta e approfondita conoscenza e comprendere se esso possa in qualche modo ripresentarsi.

«Il fascismo non fu il prodotto di una ideologia, fatta di principi rigidi, coesi,concatenati; né la produsse. Piuttosto si basò su una mentalità fatta di atteggiamenti, valutazioni, orientamenti, che avevano tradizioni e radici nel pensiero politico italiano e nella “cultura” delle masse popolari, contribuendo a rafforzarla».

Gianfranco Pasquino

Saggi di

Mario Avagliano, Paolo Bagnoli, Danilo Breschi, Marco Bresciani, Alessandro Campi, Annalisa Capristo, Antonio Carioti, Simona Colarizi, Piero Craveri, Filomena Fantarella, Marco Filoni, Guido Melis, Marco Palla, Marco Palmieri, Giuseppe Parlato, Gianfranco Pasquino, Santo Peli, Paolo Pombeni, Marco Tarchi.

Giorgia Meloni: muy conservadora sí, fascista no #Opinión @clarincom

En las elecciones del 25 de septiembre de 2022, Giorgia Meloni (Roma, 1975), fundadora y líder de Fratelli d’Italia, llevó a su partido a convertirse, por lejos, en el primer partido italiano, obteniendo el 26% de los votos. Con los partidos aliados, la Lega de Matteo Salvini y Forza Italia de Berlusconi, el centroderecha tiene una clara mayoría de escaños tanto en la Cámara de Diputados como en el Senado.

Por primera vez en su larga historia, la República Italiana tendrá a una mujer, expresión de un partido sustancialmente masculino, al frente del gobierno. El voto de los italianos ha premiado algunos elementos importantes de la política de Meloni.

En primer lugar, haber sido la única oposición a los tres gobiernos formados en el periodo 2018-2022. En segundo lugar, haber hecho una oposición seria sin gestos llamativos y folclóricos, sin insultos a los adversarios políticos, sin promesas tan milagrosas como irrealizables. Por último, su capacidad para representar a los muchísimos (quizá incluso demasiados) italianos que ciertamente son conservadores en lo político y en lo cultural y piensan que en la Unión Europea Italia ha perdido su soberanía.

Mientras que Salvini se muestra confundido y ambiguo con respecto a Europa y Berlusconi se jacta de ser pro europeo y liberal, Meloni es sin duda soberanista. Su objetivo es recuperar la soberanía perdida.

Yo considero que es un error llamarla populista. Más bien es fuertemente nacionalista como sus, en mi opinión vergonzosos, aliados europeos: los españoles de Vox, los húngaros de Orbán, los polacos del Partido de la Ley y la Justicia.

Tanto en Italia como en Europa y Estados Unidos se han expresado muchas preocupaciones y temores sobre el retorno del fascismo. Son preocupaciones esencialmente infundadas. Meloni es ciertamente post-fascista y lo ha declarado con claridad.

Por otro lado, no existe hoy en Italia ninguna de las condiciones que llevaron a la victoria de Mussolini hace casi cien años, el 28 de octubre de 1922. Las preocupaciones tienen mayor fundamento en la ideología de Meloni y los Fratelli d’Italia y las políticas que pueden seguir.

Cualquier posible enfrentamiento con la Unión Europea, que le ha asignado a Italia 230.000 millones de euros para que los gaste en programas de modernización tecnológica, protección del medio ambiente y reactivación económica, tendría consecuencias gravísimas.

Sin embargo, es sobre la visión social, cultural e institucional de Italia por parte de Meloni y su partido por la que es correcto tener reservas y críticas. Aunque el lema del partido “Dios, Patria, Familia” fue formulado por primera vez en Italia por el republicano Giuseppe Mazzini durante el Risorgimento, posteriormente fue usado de forma instrumental por Mussolini y el fascismo.

La utilización política de la religión, la exaltación de la patria (Meloni se autodenomina a menudo “patriota” frente a la izquierda, internacionalista y sin patria), el apoyo absoluto al tipo de familia tradicional: un hombre, una mujer, el matrimonio, los hijos de su propia “producción”, caracterizan a no pocos gobiernos y regímenes autoritarios.

Se traducen en comportamientos homófobos y actitudes muy críticas y represivas hacia los estilos de vida alternativos.

Aunque Meloni dijo que no quiere cuestionar la regulación del aborto, ha insinuado que la aplicación de la ley será más estricta, más rígida, probablemente restrictiva. Naturalmente, no será nada fácil extender la ciudadanía italiana a los inmigrantes y sus hijos.

Por último, Meloni y con ella Salvini y Berlusconi creen que la forma de gobierno designada por la constitución italiana, es decir, una democracia parlamentaria, es responsable de la lentitud en la toma de decisiones y de la dificultad para atribuir claramente la responsabilidad política a los gobernantes e incluso a los opositores.

Meloni ha propuesto el paso al presidencialismo a la francesa, pero no ha dicho nada sobre la ley electoral. Es un desafío a la izquierda, que teme, en parte exagerando, en parte erróneamente, un deslizamiento autoritario. Personalmente, me preocupa el amateurismo de los autodenominados reformistas constitucionales y el propósito encubierto de controlar el poder judicial y reducir su autonomía.

En conclusión, no cabe duda de que el gobierno que Giorgia Meloni se dispone a dirigir será el más derechista de la larga historia de la Italia republicana. No se convertirá nunca en un gobierno fascista, pero es posible que intente limitar parte de la libertad de expresión y de acción de los italianos.

Estoy convencido de que las instituciones italianas son sólidas y de que la Unión Europea actuará como freno y contrapeso de eventuales violaciones. Dicho esto, para la política italiana los tiempos que vienen no serán fáciles. Podrán resultar tormentosos, pero no fascistas.

Traducción: Román García Azcárate.

Gianfranco Pasquino es Profesor emérito de Ciencia política y autor de “Bobbio y Sartori. Comprender y cambiar la politica” (Eudeba 2021)

28/09/2022 Clarín.com

Le democrazie non muoiono, vengono uccise #recensione Adolf Hitler. Biografia di un dittatore @Caroccieditore @C_dellaCultura 

Hans-Ulrich Thamer, Adolf Hitler. Biografia di un dittatore, Roma, Carocci, 2021, pp. 318.

Sono un lettore attento di biografie e di autobiografie, peraltro, due generi letterari fra i quali intercorrono non poche differenze. Apprezzo, in particolare, quelle opere nelle quali gli autori riescono ad illuminare, insieme con la vita del (auto)biografato, anche i suoi tempi e il suo ambiente. Mantengo una certa distanza dalle introspezioni psicologiche anche se, talvolta, non abbastanza spesso, conducono a capirne di più del personaggio. In alcuni casi, però, specialmente quelli che definirò drammatici, le interpretazioni psicologiche hanno la tendenza a spiegare l’intero percorso di vita con la “socializzazione” del biografato e la sua devianza. Preferibili mi paiono le biografie che riescono a inserire il biografato nel suo tempo e nel suo luogo cercando di cogliere le strutture profonde, le influenze e quanto il biografato ne sia dipendente e/o abbia saputo plasmarle fino a, eventi eccezionali, dominarle. Fatta questa, credo, indispensabile, premessa, debbo ricordare che da tempo esistono alcune, buone, anche eccellenti, biografie di Adolf Hitler da quella pionieristica di Alan Bullock (1952) a quella sobria di Joachim Fest (1973) a quella possente in due volumi di Ian Kershaw (1998; 2000). Le ambizioni di Thamer sono più limitate, ma, anticipo, l’obiettivo di fondo, situare l’uomo e il capo politico nel suo tempo per comprenderne l’azione e valutarla, è conseguito più che soddisfacentemente.

   Non è nelle origini familiari relativamente, ma non troppo disagiate, comuni a milioni di persone, neppure nelle vicissitudini scolastiche di uno studente certamente non modello, non motivato, non interessato a qualche materia specifica, infine, non di successo e non “popolare” fra i suoi compagni che si possono trovare gli elementi che costruiranno la leadership di un dittatore. Quanto all’antisemitismo era presente e diffuso in Austria, come in tutta l’Europa orientale, ma non in quantità allora esagerate e, comunque, inizialmente non dominanti nel pensiero e nelle azioni di Hitler. La svolta nella formazione politica avviene, sottolinea Thamer, con la Prima Guerra Mondiale. Hitler vi prende parte molto convintamente. Combatte, viene ferito, condivide l’interpretazione della sconfitta dovuta anche, sostanzialmente, alla “pugnalata alle spalle” inferta dalle sinistre tedesche, comunisti e socialdemocratici, alle Forze Armate tedesche. La sua visione negativa, ma non nichilista, viene rafforzata, quando è costretto a lasciare i ranghi militari e si trova senza lavoro. Forse, però, quello che conta maggiormente è che perde la sua comunità di riferimento. Noto che Thamer non menziona nessuna amicizia fatta da Hitler e non ritiene di esplorare se, quanto e come Hitler si rapportasse al mondo femminile tranne che, in generale, era misogino. Non è questione di poco conto poiché l’asocialità è, probabilmente, un elemento che spiega il disprezzo per la vita degli altri che il Führer manifesterà in tutta la sua vita politica. Spiega anche che non si consultasse con nessuno nelle decisioni importanti, che non chiedesse pareri e consigli. Solipsismo, secondo me, hubris, secondo il titolo che Kershaw dà alla vita di Hitler dalla nascita al 1936.

   In effetti, in tutta la fase che va dal famosissimo tentato putsch nella birreria di Monaco, 9 novembre 1923, alla sua nomina a Cancelliere il 30 gennaio 1933, Hitler fece regolarmente affidamento sulla sua personale valutazione degli avvenimenti, dimostrando di nutrire la convinzione assoluta di non avere bisogno di nessuno nel perseguimento del potere: non solo arroganza, dunque, ma anche, questo mi appare il tratto dominante, fanatismo, non cieco, ma mirato, determinato, senza né tentennamenti né resipiscenze: “in vita mia” dichiarò lui stesso, “ho sempre giocato il tutto per tutto” (p. 223) . Più volte, Thamer sottolinea le grandi, rare e inusitate qualità oratorie e istrioniche di Hitler che dagli ascoltatori e dalle folle traeva energie elettrizzanti. I molti filmati disponibili costituiscono documenti indispensabili quanto inquietanti anche, forse soprattutto, per quello che a Norimberga e altrove ho sempre assimilato a un drammatico orgiastico sabba nazionalistico.

   Il carisma trova conferma nella capacità di fare miracoli. Nel caso di Hitler i miracoli, sociali e economici, forse anche politici, avvennero dopo la conquista con la violenza e la manipolazione del potere politico nazionale. Tuttavia, bisogna interrogarsi sulla sua grande capacità di attrarre seguaci costruendo quella gigantesca macchina da guerra che fu il Partito Nazional-Socialista. Sulle macerie dell’impero tedesco, fra una popolazione disorientata, in un contesto attraversato da conflitti profondi e incomponibili, Hitler riuscì a sollecitare e a (ri)plasmare un’appartenenza nazionale basata su “sangue e territorio” e sull’identificazione del nemico, lo scrivo con qualche esagerazione e semplificazione: il bolscevismo ebraico.

   Una questione sulla quale non sembra esserci accordo fra gli studiosi riguarda quello che chiamerò il progetto politico di Hitler e se questo progetto fosse già iscritto nel Mein Kampf (scritto in prigione e pubblicato nel 1925). Non vale in nessun modo la pena di confrontarsi con coloro che “leggono” Mein Kampf con gli occhi dei critici letterari e dei professori universitari, che fanno le pulci all’analisi e vi trovano errori di ogni tipo, soprattutto storici, come se si trattasse di una tesi di dottorato. Sarebbe bello se costoro leggessero sempre in questo modo i libri e le memorie dei politici, ma il punto è un altro. Da un lato, non è possibile esimersi dal notare che Hitler traeva molte delle sue idee da quanto già esisteva nella cultura tedesca, certo potremmo dire “deteriore”, ma non per questo meno diffusa e influente. Dall’altro, che Mein Kampf era da Hitler inteso, giustamente, come un documento di battaglia, peraltro, non necessariamente vincolante pur contenendo l’indicazione di molti degli obiettivi da perseguire, in particolare i più importanti: la conquista del potere politico e il fare grande la Germania. Se “Make Germany Great Again” richiama alle vostre orecchie e menti, cari lettori/lettrici, qualcosa di conturbantemente contemporaneo, ebbene: sì, proprio così. In corso d’opera, naturalmente sarebbe stato necessario disfarsi degli ebrei, ostacolo e nemici della grandezza che soltanto gli ariani potevano conseguire.

Rimangono tre punti importantissimi anche in chiave comparata per chi voglia capire come si costruisce e che cosa è un regime effettivamente totalitario. Alla luce di tutte le analisi, spesso “chiacchiere” su come muoiono le democrazie, è opportuno sottolineare quanto Thamer sostiene più volte con grande determinazione: senza la connivenza, il contributo, l’ipocrisia, la manipolazione e, buoni ultimi, gli errori delle classi dirigenti tedesche (p. 141), Hitler non avrebbe conquistato e mantenuto il potere. Questa osservazione vale a maggior ragione per Mussolini e per il fascismo. Dunque, non è vero che (tutte) le democrazie muoiono. Piuttosto, vengono uccise. Sempre conosciamo i nomi sia degli assassini sia dei loro complici. Secondo punto, una delle chiavi del successo di Hitler e del nazionalsocialismo fu il ricorso senza scrupoli alla violenza, spesso inaudita, fino al terrore. Domenico Fisichella merita di essere citato al proposito per la sua definizione dei regimi totalitari in base all’esistenza di un “universo concentrazionario” nel quale il terrore è l’asse portante, dominante. I campi di concentramento nazisti furono uno strumento cruciale per il regime, un esito non solo voluto, ma necessitato. Terzo punto: il regime nazista fu compiutamente un caso di totalitarismo realizzato (p. 171). Proprio guardando al nazismo governante coloro che posseggono gli strumenti del metodo comparato possono affermare con sicurezza che il fascismo italiano non riuscì mai a diventare, come tentò e sicuramente avrebbe voluto, totalitario.

   In breve tempo, dopo il 30 gennaio 1933, Hitler privò di qualsiasi potere tutte le altre istituzioni, smantellandole. La strategia detta Gleichschaltung (uniformazione) fu attuata con successo totale. Nella Germania, un tempo ricchissima di associazioni, divenuta nazista, rimase un’unica organizzazione: il Partito nazionalsocialista in simbiosi con Adolf Hitler. “il Führerstaat totalitario, privo di controlli … sopravanzò in velocità con il radicalismo del suo sviluppo totalitario la dittatura fascista” (p. 171). Nell’Italia di Mussolini, persino negli anni che, impropriamente. Renzo De Felice chiamò “del consenso”, ovvero dopo la conquista dell’Impero, 1936, la Monarchia era rimasta viva e vitale, le Forze armate erano sabaude e nient’affatto fascistizzate, la Chiesa manteneva grande autonomia nell’ampio spazio assistenziale e educativo. Alla caduta di Hitler la “Germania anno zero” si presentò come una tabula rasa. Una volta licenziato Mussolini dal re, fu il Gen. Badoglio a guidare la prima transizione, mentre la Chiesa Cattolica si riposizionava senza difficoltà, utilizzando le molte risorse che mai le erano state sottratte. La conclusione di Thamer: “di Hitler non ci libereremo tanto in fretta” (p. 286) non suona affatto sorprendente per chi vive in un paese nel quale davvero il fascismo è “un passato che non passa”.   

Pubblicato il 15 ottobre 2021 su casadellacultura.it