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Nostalgia (del futuro da costruire) #prefazione di “Due grandi tradizioni politiche”

Tratto da Tarcisio Cellini, Due grandi tradizioni politiche. La vanagloria distruttiva di un piccolo uomo. Un serio cammino di resilienza, Bosia (CN), @ A.C. “R.E.T.I.” 

Nostalgia (del futuro da costruire)

Ho avuto spesso buoni rapporti con gli uomini della sinistra democristiana, anche quando erano troppo conservatori istituzionali e troppo critici di Bettino Craxi. Mi piacciono i resoconti di coloro che hanno dato tempo e energie alla politica attiva e ne sono usciti dolorosamente delusi. Però, nel libro di Tarcisio Cellini, per il quale scrivo con gusto questa presentazione, c’è qualcosa di più della delusione. Ci sono indignazione e riprovazione per la ribalderia del Renzi, il mancato statista di Rignano. Il fatto è che quel Renzi era il prodotto quasi inevitabile delle trasformazioni della DC e del PCI che l’autore segue con grande attenzione e significativa partecipazione, anche emotiva. Non voglio dire che la strada alla pur resistibile ascesa del fiorentino l’abbiano preparata Moro e Berlinguer, nell’ordine, i due politici, unitamente a Benigno Zaccagnini, preferiti e ammirati dall’autore. Certamente, quella strada era stata lastricata dalle, non so quanto buone, intenzioni di Fassino e Rutelli, di Prodi e Veltroni. Mi rimane la convinzione che neppure adesso si siano resi conto delle loro enormi responsabilità. Fra l’altro, Fassino, Prodi e Veltroni dichiararono il loro voto favorevole al referendum (plebiscito, meglio) costituzionale del 4 dicembre 2016 con il quale l’allora Presidente del Consiglio Matteo Renzi mirava soprattutto ad aumentare e consolidare il suo potere politico personale.

Cellini inizia il suo libro facendo riferimento alle grandi culture politiche italiane del passato, ma ne individua soltanto due: cattolicesimo democratico e “socialismo (ex PCI)”. Obietto fortemente. Primo, la cultura politica del PCI non era “socialismo”. Era “marxismo più (o meno) gramscismo”, peraltro il pensiero di Gramsci era ancora poco approfondito in tutte le sue implicazioni. Secondo, in Assemblea costituente ci furono almeno altre tre culture politiche importanti: il socialismo di Lelio Basso più che di Pietro Nenni; il liberalismo di Benedetto Croce e soprattutto di Luigi Einaudi; e l’azionismo rappresentato da personalità autorevolissime da Emilio Lussu a Ugo La Malfa a Riccardo Lombardi fra le quali primeggiò per impegno indefesso e per conoscenze costituzionali Piero Calamandrei. Forse non deliberatamente, ma inconsapevolmente, senza, però, la mia disponibilità a transigere, Cellini finisce per dire che la storia successiva fu in maniera quasi esclusiva confronto/scontro fra DC e PCI. Se fosse stato così, non si capirebbero molte cose a cominciare dal centro-sinistra l’importante fase dell’Italia repubblicana nella quale, grazie in particolar modo ai socialisti e alla loro cultura riformista, si ebbe la unica vera impennata di modernità e di espansione di opportunità per gli italiani.

   L’ammirazione per Moro e Berlinguer può essere anche condivisa, ma da me solo in parte. Infatti, pur riconoscendo ad entrambi la capacità di leggere il corso degli avvenimenti e di elaborare strategie, alla fine il loro bilancio politico non posso considerarlo positivo. No, Moro non avrebbe aperto ad un rapporto di collaborazione con il PCI che sfociasse in una democrazia “compiuta”. No, Berlinguer si dimostrò incapace di trovare una credibile alternativa al fallimento della sua proposta con qualche venatura non propriamente da democrazia avanzata (e compiuta: nessuna alternanza) di compromesso storico. Ė certo che Moro si sarebbe ritratto a fronte delle reazioni della maggioranza della DC. Sono consapevole dei rischi ai quali Berlinguer avrebbe esposto il Partito comunista se si fosse distaccato bruscamente dall’Unione Sovietica, ma i suoi piccoli passi lasciarono il partito in mezzo al guado. Il PCI fu travolto dallo smantellamento del Muro di Berlino che lo svelò privo di una cultura politica effettivamente riformatrice. Dal canto suo, la sinistra democristiana fu sconfitta dalla sua ostinata volontà di mantenere unito un partito nel quale oramai di pensiero innovativo non si trovava nessuna traccia e i conflitti riguardavano solo il potere di governo e le cariche. Alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, la manovre di Andreotti avevano avuto successo anche se al (non troppo) divino Giulio non riuscì di ottenere la carica più alta della Repubblica.

   Non so se e quando avverrà la riscossa dei riformisti. So che allora gli elettori italiani preferirono sperimentare dando il potere di governo ad un impresario televisivo e consentendogli di prosperare nel suo enorme conflitto di interessi, nutrendo l’antipolitica e il populismo. Se il Partito Democratico doveva essere la riscossa non possiamo essere soddisfatti. Gli errori politici sono stati molti, e continuano. La classe dirigente è mediocre e nient’affatto in via di miglioramento che, comunque, non può venire da elezioni primarie mal fatte e spesso manipolate. Di cultura politica non se ne vede neppure un brandello. Eppure, il PD era stato vantato dai fondatori proprio per la sua volontà di mettere insieme le migliori culture politiche del paese, nel 2007 già esauste e scomparse. Nessuno che guardasse alla produzione di cultura politica in Germania, negli USA, in Gran Bretagna, nei paesi scandinavi. Troppi che si beavano della “anomalia” italiana. Pochi che volessero diventare europei consapevoli e attivi. Nella non grande misura in cui Moro si interessò dell’Europa, fu europeista by default, in mancanza di meglio. La gatta da pelare di Berlinguer, l’URSS, era davvero grossa, unghiuta e aggressiva, oggettivamente e logicamente nemica del processo di costruzione di un’Europa politica. Certo, il segretario comunista preferiva stare da questa parte della cortina di ferro (arrugginito), ma, nonostante l’entusiasmo europeista dell’ex-comunista Altiero Spinelli, grande federalista, il PCI rimase un attore irrilevante sui temi europei fino agli anni novanta.

Anche per questo, forse, l’Europa occupa nel resoconto di Cellini spazio limitato. Concludo queste mie considerazioni, da un lato, affermando extra Europam nulla salus. Dall’altro, invitando alla lettura di questo snello e efficace libro. Fa riflettere e imparare, con qualche nostalgia per un futuro migliore.

Gianfranco Pasquino

Bologna, 10 dicembre 2020

Caro Pd, così funziona la democrazia

Non credo che un partito democratico possa accontentarsi ovvero, peggio, pensare che una campagna di #SenzaDiMe e un sondaggio peripatetico del suo due volte ex-segretario costituiscano lo strumento per decidere se sia il caso o no di andare a vedere le carte del Movimento 5 Stelle e di fargli vedere le sue carte. Penso che in una democrazia parlamentare tutti coloro che sono stati eletti in Parlamento, seppure con una deprecabile legge elettorale, hanno acquisito il titolo di rappresentanti dell’elettorato e hanno (evito per due volte deliberatamente il congiuntivo) pari dignità. Al confronto su programmi e idee, prospettive e priorità, nessun partito che accetti la Costituzione può negarsi. Mai. Non mi piacciono né i contenuti né i toni dei #SenzaDiMe. Esprimono pregiudizi che non mi paiono convincenti e che non possono essere produttivi. Nessuno mi racconti che si può governare dall’opposizione. Sulle tematiche importanti, il governo dall’opposizione non riuscì neanche al PCI che, sono sicuro che i lettori concorderanno, era partito più solido più competente meglio organizzato del PD. Trovo apodittica l’affermazione pappagallescamente ripetuta che sono gli elettori ad avere mandato il PD all’opposizione. No, nessun elettore ha il potere di mandare un partito al governo e neppure quello di spingere il PD all’opposizione.

Quella dell’opposizione, ovvero della motivata decisione di non partecipare a nessuna coalizione di governo, è una scelta legittima, purché sia accuratamente motivata, ma anche legittimamente criticabile, di parte del gruppo dirigente del PD che, incidentalmente, significa, lo sappiano o no gli elettori democratici, rappresentare poco e male le loro preferenze e i loro interessi. Ne indico solo uno: un governo che includa il PD è più o meno gradito agli elettori del PD di un governo che lo escluda? La Palisse mi ha già mandato una mail lusinghiera: “bravissimo!”, ma dirò meglio. Davvero gli elettori del PD potranno dirsi soddisfatti se emergerà un governo Cinque Stelle+Lega? E nessuno dei democratici si chiederà se non esiste anche una loro responsabilità nazionale: sventare governi che probabilmente causeranno danni al paese? Evito di parlare di alleanze fra populisti e suggerisco di non appiccicare l’etichetta populista a tutto quello che non ci piace.

Andare a vedere le carte delle Cinque Stelle potrebbe anche essere un semplice atto di cortesia istituzionale sul quale non vedo perché il PD dovrebbe dividersi a meno che i renziani, da un lato, vogliano dimostrare che il loro leader dimissionario controlla ancora una maggioranza, dall’altro, abbiano paura di una discussione senza rete. Eppure, proprio quella discussione sarebbe un contributo pedagogico di inestimabile importanza per fare crescere nell’opinione pubblica le conoscenze sulla difficoltà di rispondere alle domande sociali e di governarle in maniera responsabile.

Qualcuno ha detto e ripetuto che il PD ha una concezione della democrazia profondamente diversa, anzi opposta a quella del Movimento 5 Stelle che, personalmente, ritengo confusa e inadeguata nonché manipolabile. Però, il confronto non deve avvenire sulla concezione della democrazia in generale (c’è molto da fare per tutti coloro che desiderino pervenire ad una concezione raffinata e condivisa) , ma su che cosa potrebbe/dovrebbe fare un eventuale coalizione di governo M5S+PD. Comunque, per meglio dimostrare quanto distante e preferibile è la concezione della democrazia interna del PD, ci sono fin d’ora alcuni pochi comportamenti facilmente innescabili. Sono tantissimo in disaccordo con Minopoli che, senza citare fonti, sostiene che il renzismo “testimonia ormai della realtà del Pd”. Concordo, invece, sulla necessità di andare a “valutare questo sentimento diffuso, il cosiddetto #senzadime”, “con il freddo e neutrale interrogativo di un’analisi sociologica, culturale, identitaria e di valori sulla realtà del Pd attuale”, ma è una mission impossible persino per Minopoli. Se il renzismo è il PD di oggi, e viceversa, questo non era l’obiettivo che si erano posti i fondatori, ma lascio volentieri la parola a Fassino e Veltroni. Renzismo o no, rimane aperto il problema del se e come confrontarsi con le Cinque Stelle magari attivando forme di consultazione preventiva di quel che rimane dei circoli sui temi programmatici che gli iscritti ritengano non eludibili in qualsiasi negoziato non solo con il Movimento 5 Stelle. Ah, già, do per scontato che il confronto debba iniziare, sul serio. Poi, mi aspetterei che i dirigenti organizzino incontri di informazione e formazione in tutti i circoli, incontri aperti a elettori e simpatizzanti. Infine, ma è persino troppo banale chiederlo, dovrà esserci, proprio come hanno fatto i socialdemocratici tedeschi, la richiesta di un voto decisivo, approvazione o rigetto, sul programma di governo al quale eventualmente siano pervenuti i contraenti. Non mi paiono richieste anti-renziane cosicché sarò tristemente sorpreso e deluso qualora non fossero neppure prese in considerazione.

Pubblicato il 27 aprile 2018

Quel che “Repubblica” non ha pubblicato

La Repubblica-Bologna ha letto alcune mie dichiarazioni sul Movimento 5 Stelle raccolte e pubblicate da “Il Fatto Quotidiano” e muore dalla voglia di fare un bel titolo Pasquino è diventato grillino. Programma una bella intervista che, però, non comincia benissimo poiché l’intervistatrice non sa nulla del mio passato bolognese (candidatura “civica” di sinistra a sindaco nel 2008) e pazienza, ma neppure della sfrenata campagna che i suoi predecessori al quotidiano condussero contro di me e a favore di un candidato che, diventato sindaco, fu costretto a dimettersi sette mesi dopo. Credevo che le interviste dovessero essere preparate compulsando un po’ di materiale pertinente. Peccato. L’intervistatrice non sembra del tutto convinta che sia una buona cosa avere quindicimila candidati alle parlamentarie delle Cinque Stelle. Però, a suo onore, va detto che capisce subito che il metodo del Partito Democratico (a Bologna c’è poco d’altro in città) non è particolarmente eccitante né democratico. Che al plurilegislatore torinese Fassino (cinque volte in Parlamento) possa essere chiesto, come si mormora, di accettare di essere contrapposto a Bersani non sembra sia stato deciso con una qualche procedura democratica. Forse, ma gli inglesi hanno una splendida espressione, I am afraid that neppure essere ricandidati, come Sandra Zampa “in quota Prodi”, sembra il modo più adatto per esaltare la democrazia interna ai partiti. Quanto al democristiano, mai Popolare, mai neppure Margherita, PierFerdinando Casini, in parlamento dal 1983 (sì), la cui candidatura asl Senato per il PD è data quasi certa (nonostante gli ovvi “malumori”, maldipancia della mitica “base”), non risulta che abbia vinto una qualche parlamentaria oppure superato un qualsiasi test fra gli iscritti del PD.

Già, la democrazia interna, quella cosa che il Movimento 5 Stelle dice d’avere, ma è lecito avanzare molti dubbi, non sembra, quando si discute di candidature, abitare neppure nel PD. Consiglio all’intervistatrice di andarsi a leggere un bel disegno di legge di attuazione dell’inciso “con metodo democratico” dell’art. 49 della Costituzione italiana relativo alla vita dei partiti scritto almeno vent’anni fa da Valdo Spini. Però, sostiene flebilmente l’intervistatrice, le Cinque Stelle quasi attentano alla democrazia e alla Costituzione imponendo una penale di 100 mila Euro ai parlamentari che abbandonino il loro gruppo. Comunico che mi pare una cosa brutta anche se bruttissimo è certamente il trasformismo che, incidentalmente, è sgraditissimo agli elettori italiani. Aggiungo che bisognerebbe affrontare l’argomento cercando di capire, con qualche parere di esperto, se si tratta di un contratto privato oppure che cosa. Quanto poi ai 300 Euro al mese per pagare i costi della piattaforma Rousseau, dopo essermi esibito nella critica di qualsiasi democrazia del click, ricordo all’intervistatrice che come Senatore della Sinistra Indipendente e, in seguito, dei Progressisti versavo regolarmente ogni mese al PCI (e poi al PDS), che mi aveva candidato e i cui elettori mi avevano votato, tre volte più di 300 Euro. Inoltre, contribuivo con i fondi a disposizione dei parlamentari ad un certo numero di iniziative del partito sul territorio. Questo è quel che ho detto nell’intervista che, senza nessuna mia sorpresa, Repubblica-Bologna non ha pubblicato.

Qui aggiungo, a completamento del discorso sui costi della politica, che in tutte le mie campagne elettorali ritenni opportuno e doveroso coprire parte dei costi. Nelle mie tre legislature non cambiai gruppo parlamentare. Quanto all’espressione e all’accettazione del dissenso, nella Sinistra Indipendente non c’era nessuna disciplina di voto e spesso espressi un voto in dissenso dal mio gruppo (o il gruppo votò in dissenso da me!). Neppure quando votai in maniera differente dal gruppo del PCI sulla prima guerra del Golfo e, per esempio, D’Alema mi fece sapere che mi ero collocato alla destra del Sen. Democratico Sam Nunn, a qualcuno venne in mente che dovevo andarmene. Concludo ricordando che, in materia di accettazione, persino valorizzazione del dissenso, dal segretario del PCI di allora Alessandro Natta ricevetti una comunicazione face-to-face su un argomento allora (sic) molto delicato: “non sono d’accordo a fuoriuscire dalla proporzionale, ma tu vai avanti con le tue idee”. Altri tempi, altri partiti, altra classe politica.

Pubblicato il 13 gennaio 2018

Vittoria a quota 46

Al voto con la legge Rosato. Vittoria impossibile, sfide finte e parlamentari nominati. L’analisi del professor Pasquino.
Intervista raccolta da Massimo Pittarello

Stiamo per andare al voto con una legge elettorale totalmente nuova, inedita, due terzi proporzionale e un terzo con collegi uninominali. Difficile capire l’esito del voto, e ancor di più la sua traduzione in seggi. Per fare luce abbiamo sentito Gianfranco Pasquino, Professore Emerito di Astrologia Politica, pardon, di Scienza Politica.

Professore, quale deve essere la quota da raggiungere per essere certi della vittoria?

Difficilissimo rispondere, soprattutto prima di sapere come sono formate le coalizioni e chi viene candidato nei collegi, ma per essere sicuri della vittoria bisogna raggiungere il 45-46%, poiché a questa quota c’è un “premio” implicito insito nel meccanismo.

Qualcuno dice che basta il 40%..

Il 40% non basta. E, per come stanno le cose adesso, nessuno avrà la maggioranza. Tuttavia, c’è una campagna elettorale in corso e può darsi che qualcuno faccia errori clamorosi e qualcuno delle scoperte fondamentali.

Ma come è nata questa legge, quale il criterio con cui è stata scritta?

La legge Rosato non è stata scritta da Rosato, ma a lui bisognerebbe chiedere se abbia mai letto un libro o un articolo sui sistemi elettorali, anche se la risposta sarebbe imbarazzante e imbarazzata.

Si dice sia stata scritta per mettere in difficoltà i 5 stelle..

Senza dubbio con le coalizioni si è cercato di svantaggiare le 5 Stelle (usa il femminile, ndr), riuscendoci. Anche se forse le 5 Stelle stanno attrezzandosi per trovare qualche alleato. O almeno mi auguro possano creare delle liste civetta, tipo “lista democrazia diretta” o “lista Rousseau”.

Oltre a questo, quando hanno approvato la legge Rosato, Berlusconi e il Pd sapevano che con l’attuale assetto sarebbe stato improbabile avere un vincitore?

Già sapevano che nessuno poteva vincere. E Berlusconi sapeva di essere incandidabile. Cosicché, se non avesse vinto nessuno, lui avrebbe avuto il tempo per crescere. E se la coalizione andrà bene, è pronto per andare al governo con Renzi.

E Renzi, perché l’ha proposta?

Renzi condivide con Berlusconi l’interesse a scegliere in totale autonomia i parlamentari, che se poi si comportano in maniera servile potranno essere ricandidati. E’ un punto fermo nato con la legge Calderoli, proseguito con l’Italicum e ora con la legge Rosato, in cui tutti gli eletti sono tutti scelti da poche persone. A sinistra da Renzi, Franceschini e Orlando. A destra in base all’accordo tra Berlusconi, Salvini, Meloni e, forse, la quarta gamba.

L’affluenza può incidere sul voto e può contribuire od ostacolare una vittoria qualcuno?

Sappiamo che nel 2013 il Movimento 5 Stelle ha portato al voto una percentuale non molto alta, ma significativa, di elettori che altrimenti sarebbero rimasti a casa. Bisogna capire se sarà in grado di ripresentarsi come il partito che va contro tutti gli altri, come il partito che mobilita e incanala la protesta.

L’affluenza alle urne ha un peso nel determinare un vincitore? E in che modo?

Sarà importante capire chi sarà candidato nei collegi e le relative sfide. Per esempio, se a Bologna, che già è territorio ad alta partecipazione, ci fosse un confronto Bersani-Fassino, la mobilitazione potrà fare aumentare il numero dei votanti. Nei collegi con minore partecipazione ciò sarà ancora più importante. Stamattina c’era in televisione Latorre, che è un ex dalemiano, e uno scontro proprio con D’Alema alimenterebbe la mobilitazione.

Professore, lei è un provocatore..

E allora mi faccia essere cattivissimo. Nel collegio di Arezzo lo scontro tra Ferruccio De Bortoli e Maria Elena Boschi produrrebbe un’altissima partecipazione, altissima e interessantissima partecipazione… (ride)

A parte gli scherzi, sembra che nella realtà qualche sfida tra big ci sarà. Ma le pluricandidature non annullano le competizioni nei collegi, rendendole “finte”?

Tecnicamente si, ma può darsi che media e partiti riescano a concentrare l’attenzione su alcune sfide. In ogni caso la “battuta” davvero cretina di Renzi, che avrebbe sfidato Berlusconi, incidentalmente incandidabile, a Milano, è anche inutile, perché tanto poi Renzi si candida in qualche listino proporzionale e sarà eletto. Tuttavia, in alcuni casi le sfide potranno creare mobilitazione, anche se faccio difficoltà a trovare venti dirigenti politici degni di nota.

In ogni caso le forze politiche stanno cominciando a presentare le candidature. Cosa pensa delle “parlamentarie” dei 5 Stelle?

Il fatto che ci siano 15.000 persone che si candidano, che vogliono fare politica, è positivo. Qualcuno dice che vogliono solo entrare in parlamento, ma queste “primarie” oltre a definire cariche monocratiche, come per i collegi uninominali, sostengono anche la mobilitazione, l’attenzione, la comunicazione, la conversazione pubblica. Vedremo chi verrà fuori, ma le “parlamentarie” sono uno strumento efficace che riesce ad incanalare la protesta e a tenere vivace questa democrazia che talvolta è un po’ fiacca.

Negli altri partiti, a cominciare dal Pd, che scenario vede?

Una situazione preoccupante, a tratti deprimente. Tecnicamente, un “manuale Cencelli”, in cui Renzi, Orlando, Franceschini e, forse, Emiliano, si spartiranno le candidature in base alle percentuali interne. Si spartiranno le spoglie, consapevoli che è rimasto assai meno di quanto ottenuto nel 2013, quando con il 26% dei voti il Pd ottenne il 54% dei seggi alla Camera. Comunque, la spartizione più importante avverrà nell’area di Renzi, perché Franceschini è stato un ministro di successo, è un potenziale successore e ha un peso rilevante che vorrà e saprà far valere.

Pubblicato 8 gennaio 2018

 

I finti duelli dei candidati vip #nonsolo #Bologna #EmiliaRomagna

L’idea di candidare Merola o il redivivo ambasciatore Fassino o l’esperto di banche Casini contro Bersani fa solo ridere. Semplicemente non ha senso poiché grazie alla legge Rosato che, parafrasando Renzi, in Europa nessuno ci invidia e nessuno imiterà, i duelli individuali nei collegi uninominali saranno tutti finti. Infatti, i candidati “eccellenti”, incidentalmente, a Bologna proprio non se ne vedono, approfitteranno fino in fondo delle opportunità che Rosato ha ammannito per loro -e per se stesso. Ciascuno degli eccellenti accetterà con grande coraggio (sic) di essere candidato nel più difficile dei collegi uninominali a condizione di essere presentato anche in alcune, fino a cinque, circoscrizioni proporzionali. In assenza del voto di preferenza (mica si può avere troppa fiducia nell’intelligenza politica degli elettori!), sarà sufficiente essere capilista e il gioco è fatto: ingresso o rientro in Parlamento senza problemi. Come tutto questo garantisca una qualche rappresentanza politica agli elettori è un segreto non glorioso, ma renziani e dintorni della rappresentanza politica non hanno il tempo di curarsi. Da sempre il loro obiettivo ambizioso e nobile è la governabilità. Già, la governabilità: sui suoi contenuti la discussione è aperta, anche quella sugli inconvenienti delle politiche approvate, ma è incomprensibile come essa potrà essere acquisita con la legge elettorale Rosato. Per i renziani veri, non quelli che lo sono diventati quando il capo troppo in alto saliva, la governabilità era il governo di un solo partito con un uomo solo al comando. Invece, da qualche mese, tutti i commentatori si affannano a dichiarare che il prossimo Parlamento sarà ingovernabile poiché diviso in tre blocchi: Cinque Stelle, Centro-Destra e Partito Democratico più cespugli. In attesa degli errori che i vari dirigenti faranno in campagna elettorale e di qualche avvenimento imprevedibile, tutti i sondaggi confermano. Pensare che saranno alcuni candidati e candidate nei collegi uninominali (magari paracadutati/e) e alcuni duelli tanto clamorosi quanto improbabili e inutili a fare spostare voti in grande quantità è illusorio. Peggio, è un tentativo mediatico di influenzare gli elettori spostando la loro (al momento) alquanto scarsa attenzione dalle inesistenti proposte politiche alle personalità. Che, poi, questo fenomeno trovi terreno fertile soprattutto nella contrapposizione in Emilia-Romagna fra PD e Liberi e Uguali è un brutto segno dei tempi e della divisione a sinistra. Il peggio deve ancora arrivare.

Pubblicato il 19 dicembre 2107